Perché la Cina è, in Realtà, il Miglior Amico degli Stati Uniti

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di Matteo Castagna
Il 21 ottobre 2024, nell’ambito di alcuni incontri sull’economia internazionale presso il Council on Foreign Relations, l’Amministratore Delegato di MCC Production e membro del CFR, Michelle Caruso-Cabrera ha intervistato il principale analista del Financial Times, l’ottantenne Martin Wolf.
Egli dichiara che l’elezione di Donald Trump del 5 Novembre 2024 farà prendere al mondo una direzione che non si sarebbe mai aspettato, nel corso della sua lunga carriera.
Gli USA del tycoon vogliono recedere dalla globalizzazione. Sul piano mondiale, The Donald vorrebbe porre fine a quel ruolo messianico di “gendarmi del mondo” che gli americani si sono dati, almeno a partire dal 1945. L’idea che il compito dell’America fosse quello di andare ovunque a importare il suo modello di democrazia, per rendere “un posto migliore” questo e quell’altro Stato, si è dimostrata fallimentare, producendo nel corso degli anni, più malcontento internazionale, contro la una certa sua smania “egemonico-coloniale”, che effettivi benefici.
Per questo motivo, Trump vorrebbe distruggere il modello di Occidente, finora conosciuto, in cui gli USA hanno un ruolo primario e protettivo degli altri alleati – sostiene Martin Wolf – a favore di una loro maggiore autonomia e sovranità, che consenta al nuovo Presidente ed al suo governo di concentrarsi su quell’”America First”, di cui si fa da tempo portavoce. “Dati il suo ruolo e la sua potenza, l’idea che l’America possa ritirarsi dal mondo non arride a nessuno. Persino ai cinesi, questa prospettiva crea problemi”. Su questo torneremo dopo.
Secondo Wolf, “i cinesi si stanno impegnando con zelo a rovinarsi da soli”, di fronte al fatto che la loro paranoia stia nel fatto che il reale obiettivo degli americani sia quello di distruggere la Cina e non di contenerla, mentre secondo il noto economista “dovremo, in un modo o nell’altro, convivere con la potenza cinese”.
“Dobbiamo cercare di cooperare in maniera pacifica con la Cina, quale superpotenza militare, al fine di garantire la nostra sicurezza nazionale”. Per far questo ed evitare che la competizione militare vada fuori controllo, sarà necessario uno sforzo imponente a livello politico-diplomatico, precisa Wolf.
Storicamente, egli è contrario ad implementare una politica industriale interna, come parrebbe voler fare Trump, in particolare su quella manifatturiera. “Il fatto è che in futuro – puntualizza Wolf – non ci sarà nessuno a lavorare in fabbrica: fra trent’anni faranno tutto le macchine e i robot. Dunque il tentativo di ricreare la vecchia classe degli operai è destinato a fallire”.
Perciò, la soluzione di Wolf sarebbe quella di investire nell’innovazione, “creando nuove industrie, e di punta, competitive a livello globale, che concorrano a rendere il mondo un posto migliore”. Sebbene egli ammetta che, per il momento, non vede qualcuno capace di realizzarlo, né in UE, né in USA. Ma auspica che gli USA riescano in fretta, perché la Ue è molto più indietro rispetto a loro in termini di PIL pro capite e totale, nonché la dinamica demografica è nettamente in favore degli Stati Uniti.
Investire nei settori tecnologici ed informatici è stata una carta vincente, sia per l’America, che per la Cina. L’Europa viene molto dopo e “sta affrontando una crisi economica molto, molto seria, con la diminuzione della produttività e della natalità, riducendo considerevolmente la sua competitività sui mercati globali”. Secondo Wolf, il rapporto Draghi sugli ultimi cinquant’anni, dimostra che l’Europa non è riuscita nell’intento di diventare una leader nelle tecnologie informatiche, soprattutto, attraverso il mercato unico europeo, che non ha funzionato.
Infine, l’economista del Financial Times, conclude con una battuta sulla Cina, che potenzialmente potrebbe rilanciare un modello economico prospero e vincente, mentre si limita e forse si limiterà alla vecchia politica industriale dirigista.
“Non credo che i leader cinesi abbiano intenzione di introdurre le innovazioni necessarie. Quindi il problema, risolvibile in teoria, resterà irrisolto. Ecco il senso di quanto ho detto prima: nel conflitto con la Cina, il migliore amico dell’America è, in realtà, la dirigenza cinese”.
Fonte: https://www.marcotosatti.com/2025/01/11/perche-la-cina-e-in-realta-il-miglior-amico-degli-stati-uniti-matteo-castagna/

CHARLIE HEBDO E LA FRANCIA MALATA

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Charlie Hebdo è un settimanale sedicente “satirico” di sinistra fondato negli anni Settanta a Parigi.

Nel 2015 la sua sede fu attaccata da due uomini armati di Kalashnikov, che uccisero dodici persone, tra cui il direttore Stéphane Charbonnier. Fu la risposta a diverse vignette sull’Islam pubblicate dalla rivista. I terroristi morirono due giorni dopo in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.

Immediatamente scattarono in tutto l’Occidente manifestazioni di solidarietà al giornale e di sacrosanta condanna per l’attentato, al grido di “Je suis Charlie” – Io sono Charlie -. Il problema sembrava essere il terrorismo e l’intolleranza islamista, il che era vero solo in parte.

Charlie Hebdo si è sempre distinto non già per la satira, che è critica ironica, sbeffeggiamento intelligente, in genere rivolti al potere. Il settimanale francese si compiace, piuttosto, del proprio cattivo gusto, dell’offesa, dell’insulto becero, gratuito, volgare verso tutto ciò che può esservi di sacro, non solo in termini religiosi.

Il principio ispiratore della rivista sembra essere: il tuo credo non è il mio, i tuoi valori non sono i miei, i tuoi morti non sono i miei e quindi mi arrogo il diritto di oltraggiarli come e quanto mi pare. Non si è limitato all’Islam, Charlie Hebdo, anzi. Il tripudio di blasfemia delle vignette dedicate al cattolicesimo è qualcosa di nauseante.

Ma, come abbiamo scritto, il settimanale non si limita ad offendere le religioni e i loro credenti. Charlie Hebdo può “vantarsi” anche di aver insultato le vittime del terremoto in Turchia, quelle del sisma di Amatrice, quelle della valanga di Rigopiano e molto altro.

I manifestanti di “Je suis Charlie” rivendicavano la libertà di espressione, la laicità, gli altisonanti valori “de la Republique” e lo hanno ribadito nel decennale della strage, pochi giorni fa. Peccato che proprio la Francia non sia esattamente un esempio di libertà di espressione.

Certo, con la scusa della sedicente “satira”, si può calpestare la dignità di chiunque. Macron ha addirittura farneticato di un fantomatico “diritto alla blasfemia”. Ma guai a testimoniare la propria fede religiosa. Un provvedimento del 2004 vieta l’uso di simboli religiosi all’interno di scuole, collegi e licei pubblici.

Il governo Macron nel 2018 ha esteso la proibizione anche al Parlamento, cosa criticata addirittura dall’Osservatorio per la laicità. La Francia, un tempo cattolicissima, con la Rivoluzione del 1789 e l’imposizione del laicismo, di fatto non ha abbandonato la religione. Ne ha abbracciato una nuova: la laicità stessa. E lo ha fatto in modo integralista. I suoi rigidi dogmi prevedono che il sentimento religioso e le sue manifestazioni siano espulsi dalla sfera pubblica e relegati il più possibile nell’ambito privato.

Nel caso del cattolicesimo, una sorta di ritorno alle catacombe per la fede che ha fatto grande la Francia e ne ha costituito l’anima più vera. Ma la vicenda di Charlie Hebdo ci parla anche di una nemesi storica.

Proprio i cosiddetti valori della Republique che hanno indebolito fortemente lo spirito cattolico della Francia, hanno originato un vuoto che l’Islam, anche nelle sue forme più radicali, degli immigrati di diverse generazioni sta riempendo. E, ragionando a lungo termine ma non troppo, tenuto conto dei tassi demografici, si profila un tempo in cui i vignettisti di Charlie Hebdo, e non solo loro, avranno poco da ridere.

Raffaele Amato

 

 

Fonte: https://www.2dipicche.news/charlie-hebdo-e-la-francia-malata/

Per un’Italia del “pensiero unico”

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Riceviamo e pubblichiamo questo contributo da parte di un lettore che non conosciamo e che ha esplicitato la veridicità del nome. A quanto correttamente scritto, potremmo raggiungere che, negli ultimi due decenni il Partito Radicale è diventato di massa nel centrosinistra, con l’unica sfumatura d’essere iper-sionista.

di Riccardo Sampaolo

Il Partito Radicale è indubbiamente stato il principale responsabile della modernizzazione dell’Italia e l’artefice indiscusso della grande stagione dei diritti civili, di cui la legge sul divorzio, e il fallimento del referendum del 1974, sono stati lo spartiacque per una nuova Italia, che iniziava a vantarsi di essersi messa finalmente alle spalle la visione cattolica, rurale, sacrale, comunitaria, socializzante, senza accorgersi che si sarebbe passati gradualmente ad abbracciare una continua, inesorabile e quasi infinita normazione ossessiva, che è oramai un aspetto saliente di questo Occidente, sempre meno fondato sulle sue radici classiche o cristiane, e sempre più in balia del pensiero progressista a senso unico, sotto la continua e interminabile egida di una normazione sempre più ossessiva e cavillosa.

Una società tanto più è atomizzata e tanto più ha bisogno di essere sottoposta a legislazione stringente. La legge assume quindi una dimensione che va ben oltre il perimetro all' interno del quale ci si può muovere e diventa sempre più il canale comportamentale esclusivo nei più disparati ambiti, fino a poco tempo prima non normati, riducendo continuamente i liberi margini di autonomia degli individui e desocializzando la comunità.

Il Partito Radicale ieri, e il suo diretto discendente oggi, +Europa, hanno sempre ottenuto consensi limitati, ma nonostante ciò la loro visione del mondo è di fatto oggi imperante; liberismo, atlantismo, femminismo, liberalizzazione dei costumi, americanismo, genderismo, financo immigrazionismo , sono aspetti odierni del nuovo conformismo, dai tratti pesantemente totalizzanti, e sono la quasi interezza del bagaglio culturale-ideologico di tale partito, il quale è messo in frequente, e spesso aprioristico, positivo risalto dalla maggioranza dei media, che rischiano di agire quindi, come pericoloso vettore pensierounicista.

L’impiego sapiente, oculato e insistente della finestra di Overton è stato il principale strumento che ha indotto nelle masse, sempre più atomizzate, l'accettazione di un
percorso, che a un’attenta analisi, ha liberato l'individuo dalla comunità, relegandolo a conflitti permanenti, di tipo orizzontale con le sue più prossime conoscenze, siano esse familiari o di
altra natura, riposizionando l'essenza dello Stato, da garante dei diritti sociali, a strumento per il perseguimento, progressivo e continuo di diritti individuali, la cui individuazione, non di rado
proveniva da settori circoscritti della società, in prevalenza urbana, e quindi non in grado di esprimere un sentire genuinamente popolare di ampio respiro.

Ci troviamo quindi, da tempo, trascinati verso una direzione “valoriale”, il cui motore propulsivo è rappresentato da un piccolo partito, che è stato in grado di infondere, in quasi tutti gli altri, il proprio bagaglio politico, fatto di liberismo, atlantismo, femminismo, liberalizzazione dei costumi, genderismo, che sono oramai l'asse portante dell' ideologia dominante, abbracciata da quasi tutti i partiti politici, di una certa rilevanza, in Italia.

Il quadro è ovviamente desolante, soprattutto per il fatto che il dissenso da tale visione ha sui media una visibilità infima. Un qualsiasi lettore potrebbe comunque chiedersi quale sia il problema di tale capillare
diffusione “valoriale”, e io mi sentirei di rispondergli che il mondo radicalpannelliano è tra i principali artefici di una visione che vede l'Italia come una periferia retrograda dell' Occidente da
modernizzare, attraverso il faro luminoso di un certo mondo anglosassone votato alla pericolosa concezione che esistono solo individui e leggi, e non esiste alcuna società, e tantomeno comunità; è questa la più pericolosa deriva attualmente in corso da tempo, che ha compiuto poderosi passi in avanti, nella direzione sbagliata.

Mercato del debito: zavorra per l’Africa

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Segnalazione Arianna Editrice

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi – 29/12/2024

Fonte: Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Da quando il suo debito è negoziato sui mercati internazionali, il problema per l’Africa si è fatto più critico. Alla fine del 2023, il 49% del debito africano era in mano di privati, cioè di fondi, di banche e di altri finanzieri internazionali. Si prevede che salirà al 54% entro la fine del 2024. Tra il 2015 e il 2022, per 49 dei 54 paesi africani i costi medi del servizio del debito sono aumentati dall’8,4% al 12,7% del pil. Secondo l’African Economic Outlook Report della Banca africana per lo sviluppo (AfDB), nel 2024 i paesi africani dovrebbero spendere circa 74 miliardi di dollari per il servizio del debito. Rispetto ai 17 miliardi del 2010. 40 dei 74 miliardi è dovuto a creditori privati.
Il vicepresidente e capo economista dell’AfDB, Prof. Kevin Urama, intervenendo il 30 novembre alla quinta sessione straordinaria del Comitato per la finanza e gli affari monetari dell’Unione africana, tenutosi ad Abuja, in Nigeria, ha affermato: “La mutevole struttura del debito verso i creditori privati comporta opportunità e sfide. Quando prendono a prestito sui mercati dei capitali internazionali, i paesi africani pagano interessi del 500% in più rispetto a quanto pagherebbero all’AfDB e alla Banca mondiale”. Si tenga presente che dal 2010 il debito pubblico dell’Africa è aumentato del 170%, in gran parte a causa dei problemi strutturali del sistema debitorio, dei recenti shock globali e delle sue note debolezze.
Una delle ragioni dell’alto costo è certamente la tendenza di utilizzare debiti a breve termine e, quindi, a interesse alti, per finanziare progetti di sviluppo a lungo termine. Lo chiede il mercato. Le implicazioni per la sostenibilità del debito nel medio e lungo periodo sono ovvie.  Come conseguenza, 20 paesi africani sono attualmente in difficoltà debitorie o ad alto rischio di esserlo, rispetto ai 13 del 2010.
Sempre secondo l’AfDB il rapporto debito pubblico/pil è mediamente cresciuto dal 54,5% del 2019 al 64% del 2020 per poi rimanere relativamente stabile.  Dal 2000 al 2021 23 paesi africani hanno cercato crediti sui mercati privati per un totale di 1.510 miliardi di dollari. La stragrande maggioranza del debito pubblico verso l’estero è in dollari: nel 2022 circa il 70%, mentre quello in euro solo il 14,5%. Questa dipendenza dal dollaro è diventata nefasta quando la Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse. Molti paesi coprono i deficit di bilancio non pagando, ma rifinanziando i debiti in scadenza, soprattutto verso i fornitori privati di merci e di servizi e verso i creditori istituzionali. Il pagamento degli interessi sul debito rappresenta, mediamente per l’Africa nell’ultimo decennio, il 12,7% del pil, mentre la spesa per la salute solo 1,8% e quella per l’istruzione il 3,6 %.
Nel suo Regional Economic Outlook per l’Africa sub sahariana di ottobre, anche il Fondo monetario internazionale ha dipinto un quadro preoccupante: “L’inflazione rimane a due cifre in quasi un terzo dei paesi. La capacità di servizio del debito è bassa e l’aumento degli oneri debitori sta erodendo le risorse disponibili per lo sviluppo. Le riserve valutarie sono spesso insufficienti.”. I paesi esportatori di materie prime e di petrolio sarebbero in maggiori difficoltà.  
Anche per tutte queste ragioni i leader africani chiedono riforme urgenti del sistema finanziario globale. Non vogliono essere le vittime delle speculazioni finanziarie e sulle commodity. Nello stesso tempo operano per un meccanismo di stabilità finanziaria regionale, per l’utilizzo delle monete locali nei commerci interafricani e, dove possibile, con il resto del mondo. In questo processo ci s’ispira alla Nuova Banca di sviluppo (Ndb) dei Brics.
Alla luce delle tensioni geopolitiche, dei rischi climatici e delle imprevedibili tendenze economiche globali, l’eccessiva dipendenza dell’Africa dai mercati esterni sta diventando sempre più problematica. L’AfDB enfatizza, perciò, la necessità di un sistema finanziario africano più solido e resiliente e di sforzi concertati per realizzare gli obiettivi d’integrazione economica a lungo termine del continente.
Molti paesi africani, tra cui la Nigeria, la più forte economia del continente, operano per stabilire istituzioni come l’African Monetary Institute e l’African Financing Stability Mechanism, sulla scia delle esperienze europee, che sono essenziali per raggiungere la convergenza macroeconomica, la resilienza finanziaria, l’indipendenza economica e l’autosufficienza del continente africano.
Queste problematiche economiche dei vari paesi africani non possono essere sottaciute o ignorate da chi – siano essi le amministrazioni americane, l’Ue e i vari paesi europei, a cominciare dall’Italia con il suo Piano Mattei – intende avere rapporti stabili con il continente. Si tratta in particolare di quei problemi finanziari strutturali globali che hanno ricadute nei paesi dell’Africa e del Sud del mondo. Sottovalutarli e non affrontarli vuol anche dire favorire un’incontrollata emigrazione di massa con i suoi effetti destabilizzanti.

 

Radici fascistissime della nostra Repubblica Anti-Fascista. Sofri elogia il perdonismo di Bergoglio

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.marcotosatti.com/2024/12/30/radici-fascistissime-della-repubblica-anti-fascista-sofri-elogia-il-perdonismo-di-bergoglio-matteo-castagna/  Stilum Curiae è il sito del vaticanista Marco Tosatti per cui Castagna scrive con cadenza settimanale (Matteo Castagna, Comunicatore Pubblico, tessera n. 2343 ex L.4/2013, fa parte della Redazioni di: Stilum Curiae, Affaritaliani.it, InFormazioneCattolica.it e Il2diPicche.news)

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Matteo castagna, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione queste riflessioni sulle radici fascistissime della nostra Repubblica antifascista, Sofri e Bergoglio. Buona lettura e diffusione.

di Matteo Castagna
 
Viviamo in un’Italia che non vuole fare i conti col suo passato. O, almeno, che continua a considerare la storia come una lotta tra chi è stato dalla parte giusta e da chi dalla sbagliata. Lo sforzo di grandi scrittori e docenti, come Renzo De Felice, Indro Montanelli, Marcello Veneziani, Giampaolo Pansa, e altri coraggiosi, mirato a descrivere la verità dei fatti del dopoguerra, ma anche della guerra civile 43′-45′, e le ragioni dei vinti, è stato censurato dai soloni del pensiero unico, in una maniera, a mio avviso, brutale, irrispettosa, isterica, manichea e intollerante.
Già leggendo il testo del 1976 “Camerata, dove sei?”, ristampato da pochi anni, da Angelo Paratico, della Gingko Edizioni di Verona, vide nella democratica, pluralista e difficile repubblica democristiana, una censura tale da indurre lo scrivente a usare lo pseudonimo di “Anonimo Nero” e a celare la casa editrice, per timor di ritorsioni. Perché lungi dalla probabile ideologia dell’autore, ciò che vi era scritto era vero e ben documentato, al punto da mettere in serio imbarazzo l’establishment dell’epoca.
La tristezza è che la nostra Costituzione e la nostra Repubblica arrivano dalle mani di molti voltagabbana. Un Benigno Zaccagnini, con l’aspetto “benigno” del curato di campagna, ma che scriveva di razza e di sangue, come fosse l’Himmler de noantri? No, non lo credevo possibile. Un Davide Lajolo che gioiva  per l’entrata in guerra. Un Aldo Moro che poneva la razza prima e la religione cattolica quarta nella scala delle priorità. Un Giovanni Spadolini che gioiva per le uscite aggressive del Duce, perché ci teneva al proprio posto di lavoro…
Tutti i celebri personaggi che vengono passati in rassegna, devoti e fidati fascisti durante il ventennio, erano ancora in posizioni apicali di potere nel 1976 e dunque ben in grado di reagire con violenza al disvelamento dei propri trascorsi.
Giulio Andreotti, Michelangelo Antonioni, Domenico Bartoli, Arrigo BenedettiRosario Bentivegna, Carlo Bernari, Libero Bigiaretti, Giacinto Bosco, Paolo Bufalini, Felice Chilanti, Danilo De’ Cocci, Galvano Della Volpe, Antigono Donati, Amintore Fanfani, Mario Ferrari Aggradi, Massimo Franciosa, Fidia Gambetti, Alfonso Gatto, Giovanni Battista Gianquinto, Vittorio Gorresio, Luigi Gui, Renato Guttuso, Ugo Indrio, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Carlo Lizzani, Carlo Mazzarella, Milena Milani, Alberto MondadoriElsa MoranteAldo Moro, Pietro Nenni, Ruggero Orlando, Ferruccio ParriPier Paolo Pasolini, Mariano Pintus, Luigi Preti, Giorgio Prosperi, Ludovico Quaroni Tullia Romagnoli Carettoni, Edilio RusconiEugenio Scalfari, Giovanni Spadolini, Gaetano Stammati, Paolo Sylos Labini, Paolo Emilio Taviani, Arturo Tofanelli, Palmiro Togliatti, Marcello Venturoli, Benigno ZaccagniniCesare Zavattini erano tutti riusciti a passare indenni attraverso la guerra, che loro stessi avevano provocato (ciascuno per la sua parte) evocato e applaudito, ma poi si erano riciclati a sinistra e al centro, dando spesso contro ai vecchi camerati e negando di esserlo mai stati.
A loro aggiungiamo i fascistissimi Cesare PaveseGiorgio BoccaGiaime Pintor e l’ex presidente del Tribunale della Razza, poi diventato ministro e assistente di Togliatti, Gaetano Azzariti. Il loro problema fu che scrissero su giornali e riviste, usando il proprio nome, per questo motivo la loro militanza fascista resta innegabile.
In fondo, tutti quanti avrebbero dovuto essere esclusi da cariche pubbliche nella Repubblica Italiana, in quanto profittatori del regime, ma le cose sono andate altrimenti, come ben sappiamo. E proprio per questo peccato originale stiamo ancora scontando il prezzo.
Oltre ai voltagabbana, l’Italia si distingue per aver messo in cattedra i “cattivi maestri” quali Renato Curcio e Adriano Sofri, che negli anni hanno spiegato ai giovani la politica e scritto editoriali sui giornali, anche stavolta coi loro nomi e cognomi, mentre altri, d’opposta fazione, hanno trovato minimo spazio su qualche quotidiano, sotto pseudonimo.
Ebbene, il 27 dicembre, Il Foglio, che non è certo nuovo a certe firme, offre ai lettori una perla di Adriano Sofri, ex leader del movimento extraparlamentare marxista armato Lotta Continua, condannato a ventidue anni di carcere quale mandante, assieme a Giorgio Pietrostefani dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972, mentre come esecutori materiali furono condannati i due militanti di Lotta Continua Leonardo Marino e Ovidio Bompressi.

Arrestato nel 1988 e poco dopo rinviato a giudizio, fu condannato e incarcerato per il reato di concorso morale in omicidio, dapprima nel 1990 e poi in via definitiva nel gennaio 1997. Scontò la pena dal 2005 in regime di semilibertà e dal 2006 di detenzione domiciliare, a causa di problemi di salute, venendo scarcerato nel gennaio 2012 per decorrenza della pena, che era stata ridotta a 15 anni per effetto dei benefici di legge. 

Eppure, Sofri scrisse in un editoriale del 18/05/1972, che non fu sufficiente ad un ergastolo da scontare in galera: «L’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse, anche se questo non può indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».

La perla de Il Foglio, a firma Sofri, si intitola: “Le parole di un Papa con cui simpatizzo perché dice tutto e il contrario di tutto”.  L’ex terrorista rosso scrive che “all’Angelus, ha detto con un estremo vigore che Dio “perdona tutto, perdona a tutti”. Non è vero, perdona ai puri di cuore, sinceramente pentiti e ravveduti, che hanno riparato al mal fatto. Ma a Sofri piace il buonismo perché, probabilmente, gli dà una speranza che va oltre il pentimento e lo conferma nell’errore.

“E’ andato ad aprire “la basilica di Rebibbia”, ci è entrato tirandosi su in piedi, ha esortato a spalancare porte e braccia e cuori, il senso del Giubileo, e all’uscita, dal finestrino aperto della sua utilitaria, ha detto che in galera ci sono i pesci piccoli, soprattutto i pesci piccoli, e che i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanerne fuori, che è una bella idea a Buenos Aires e nel resto del mondo, e avrà fatto bestemmiare qualche grosso peccatore dentro e fuori. Ha detto: “Dobbiamo accompagnare i detenuti e Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. 

Che poi, non vengano proposti il totale pentimento, la necessità della contrizione, il ravvedimento, poco importa a Bergoglio e pure a Sofri, che ne approfitta. Ma che entrambi siano sostanzialmente d’accordo sul perdono universale senza merito dovrebbe preoccupare più di qualcuno…

 

 

Le piaghe della globalizzazione e la cura possibile

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2024/12/29/le-piaghe-della-globalizzazione-e-la-cura-possibile/

SE SAN TOMMASO METTESSE D’ACCORDO IL PROF. TREMONTI E PAPA PIO IX

“La storia ci ha fatti molto complessi, ma è proprio la storia che ci dà speranza. In fondo, possiamo notare che la nostra decadenza è iniziata un millennio e mezzo fa, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. (…) Se lo vogliamo possiamo ancora recuperare. E possiamo farlo, soprattutto sulla base di condizioni di impegno che si possono riassumere in due sole ma essenziali parole: verità e serietà”.

Così si esprime il Prof. Giulio Tremonti, nel suo “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile” (Ed. Solferino, Milano 2022) che vede due soluzioni alle crisi contemporanee: “mettere a punto una cura che freni il dominio assoluto del mercato e recuperare le risorse e i valori di fondo della nostra comunità”.

Il docente, già Ministro dell’Economia, conclude, sostenendo che “il pensiero e le politiche dominanti si sviluppano in opposta direzione”, rispetto alle sue idee in campo finanziario e politico. La scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar, in “Memorie di Adriano” (1953), scriveva, forse meno rassegnata, che “sopravviveranno le catastrofi e le rovine, trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine” e il Prof. Tremonti la ricorda, come a volerla prendere ad esempio.

La formula su cui ancora nel 2011 si basava una una riforma in discussione al Parlamento, che non ebbe esito, era quella dell’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti modesti, ma sicuri e fissi, garantiti dal sottostante patrimonio della Repubblica (per cui si può e si deve introdurre un regime speciale, anche urbanistico), titoli assistiti da questo diktat: “Esenti da ogni imposta, presente o futura”.

Tremonti, evidentemente, aggiunge che questa è “l’alternativa rispetto all’imposta patrimoniale, rispetto alla Troika, rispetto alle perdite in linea capitale”. Nel libro, il Prof. Tremonti parla anche della possibilità di battere nuova moneta, chiedendosi quanti italiani la riconoscerebbero e chi potrebbe firmare le banconote.

Per il Prof. Tremonti va rigettata la teoria del “debito buono”, presentata da Mario Draghi sul Financial Times del 25/03/2020. “E’ in ogni caso essenziale che tutti insieme – chiosa Tremonti – ora più che mai, si abbia una proiezione patriottica, comunitaria e sociale”, che vada a ridurre il debito pubblico, in favore dei servizi e del welfare.

La prima legge Tremonti del 1994 detassava chi investiva e chi assumeva. In parte, l’attuale governo ha ripreso questo principio, pur non avendo le risorse per potenziarlo, anche a sostegno dei rimpatri industriali all’estero.

Un’altra proposta, formulata su “Le Monde” del 12/9/2001 dal Prof. Tremonti era quella di favorire che gli esercizi commerciali si convenzionassero con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, ottenendo, in cambio, la rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti da parte dell’Unione Europea. L’Italia lanciò l’idea, ma fu subito respinta dalla UE. Oggi, più che mai, sarebbe utile, magari anche sul piano migratorio.

Sul piano cattolico, Vittorio Messori, nel suo testo “Pensare la storia” (Ed. Paoline, Milano 1982) dedica un capitolo al “Syllabus”, messo da Papa Pio IX come appendice all’Enciclica “Quanta Cura” del 1864, ma talmente preciso da essere sempre attuale.

Si tratta dell’ “elenco dei principali errori dell’età nostra”, che imbarazza non pochi sedicenti credenti, oppure crea orrore e sarcasmo nei laicisti, che lo additano come esempio della “cecità oscurantista” della Chiesa.

Ma – come osserva acutamente Messori – al quarto paragrafo, il Sillabo condanna: Socialismus, Communismus, Societates Secretae, Societates Biblicae, Societates Clerico-Liberales.

Socialismo e comunismo sono definiti solennemente dal Santo Padre Pio IX come “pestilenze dell’umanità”. Messori, poi, racconta di un episodio accadutogli in un servizio televisivo di sandinisti, i marxisti del Nicaragua, sconfitti dal “pueblo”. Notò frati e suore cantare l’Internazionale e salutarsi col pugno chiuso.

Forse pochi sanno che quel gesto era il simbolo di Prometeo, ben conosciuto dalla cultura classica, poiché significava l’uomo che si ribellava agli dèi. La civiltà greco-romana guardava a quel segno con orrore, come a una bestemmia. Al pugno levato in alto, per sfidare Dio, veniva contrapposto dai religiosi il pugno chiuso rivolto verso il basso, a minacciare gli Inferi. Segno distintivo del cristiano era, altresì, levare le mani aperte verso l’alto, disponibili ad accogliere lo Spirito e la volontà divina, come si nota già in molti affreschi catacombali.

Per quanto siano diversi ed eterogenei il Prof. Tremonti e il dott. Messori hanno qualcosa in comune, per chi scrive: un’attenzione particolare per il bene comune. Chiaramente non sempre si può concordare con le loro affermazioni, ma riconoscere una certa onestà intellettuale ad entrambi mi sembrerebbe una cosa giusta.

Probabilmente sarebbero d’accordo sul concetto di “Tolleranza”, così come proposto da S. Tommaso d’Aquino: “Essa è fondata sul bene comune della Società. Ci si astiene dall’opposizione alla legge ingiusta, perché si prevede che essa danneggerebbe più severamente il bene comune che non la tolleranza della legge ingiusta. In breve la si tollera, solo per non peggiorare la situazione; come quando si ha il mal di denti, ma vi è un’infezione, si è costretti a tollerare il dente malato, sino a che l’infezione non sia stata debellata da antibiotici, e solo allora si potrà estrarre il dente cariato”. (Sintesi di Filosofia della Politica, pag. 84, Ed. Effedieffe, 2018).

CENSIS 2024: Intrappolati nella sindrome italiana

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di Redazione www.Il2dipicche.news 

“Tutto quello che conta davvero sembra accadere al di fuori dell’Italia: la guerra senza fine combattuta alle porte dell’Europa o il cruento conflitto scoppiato in Medio Oriente, i vincoli imposti da Bruxelles alle finanze pubbliche, le latenti decisioni della Bce sui tassi di sconto o la strisciante crisi politica che ghermisce l’Unione europea”.

Così si apre il 58° Rapporto Censis “La società italiana al 2024 – La sindrome italiana” da poco reso pubblico dal noto istituto di ricerca socioeconomico.

Internazionalizzazione

Rapporto i cui risultati evidenziano lo “slittamento del discorso pubblico alla scala internazionale” della società italiana.

Cambiamento climatico (49,6%), con i relativi eventi catastrofici, la guerra in Medio Oriente (46%), il rischio di crisi economico finanziarie globali (45,7%), la guerra russo/ucraina (45,2), le migrazioni dal terzo mondo (35,7%), i rapporti conflittuali tra USA e Cina (31%) e infine le innovazioni tecnologiche della IA (26,1%) sono i temi su cui l’opinione pubblica italiana si è focalizzata nel 2024.

Un Italia che si è risvegliata dall’illusione, accorgendosi che viviamo in un mondo scosso da forti tensioni, in cui nessuno degli italiani è contento di come è il mondo.

Siamo in un’epoca di scontento globale, Il destino dell’Italia è inscritto nel solco del cambiamento epocale che aggredisce le società europee e occidentali, ma con sue proprie specificità.

Altro che “anno dei record” il 2024!

Se i record positivi di occupati e del turismo estero si confrontano con quelli negativi di denatalità, debito pubblico e astensionismo elettorale, una analisi più approfondita ci propone un’immagine ben differente.

La sindrome italiana

La sindrome italiana è la trappola della medietas: non registriamo picchi nei cicli positivi, non sprofondiamo nelle fasi critiche e recessive.

Nel medio periodo il PIL, i consumi, gli investimenti, le esportazioni, l’occupazione, tendono a ruotare intorno a una linea di galleggiamento – senza grandi scosse, né in alto, né in basso – all’interno di un campo di oscillazione molto ampio, tra i valori massimi e

minimi toccati dai Paesi europei.

La dialettica sociale, la sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole, così caratteristica dei nostri tempi, non è sfociata in violente esplosioni di rabbia. Ma il lento andare nel tempo dell’economia ha sancito definitivamente che la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata.

Parte prima, segue

Fonte CENSIS (https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Sintesi%20Fenomenologico%202024.pdf)

A CAPODANNO UN POLLO IN PENTOLA AD OGNI POVERETTO

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.2dipicche.news/a-capodanno-un-pollo-in-pentola-ad-ogni-poveretto/

Giovannino Guareschi (1908-1968), scrittore, giornalista, umorista, vignettista è il romanziere italiano più letto al mondo, con venti milioni di copie vendute e traduzioni in quaranta lingue, compreso l’eschimese. Non è corretto dare delle etichette di partito a chi non ebbe mai tessere in tasca e ad un intellettuale originale e completo. Ma possiamo definirlo, senza timor di smentita, un anticomunista, cattolico vecchio stampo, allergico agli stereotipi ed al modernismo più becero e arrogante.

Non era ben visto dal potere di ogni colore, perché sapeva dissacrare con intelligenza e fare satira con una sagacia propria delle menti migliori e, nello stesso tempo, con l’umiltà tipica delle sue origini della bassa romagnola.  Alla presentazione della rivista Il Candido, scrisse, con la sua proverbiale ironia: «Qualcuno si ostinerà a voler trovare che Candido ha vaghe tendenze destrorse, il che non è vero per niente in quanto Candido è di destra nel modo più deciso e inequivocabile».

Guareschi sentiva le feste natalizie come qualcosa di sacro, fonte della nostra identità e tradizione, quindi, mentre il Natale era già passato e il nuovo anno non ancora arrivato, la sua fantastica fantasia immaginava don Camillo infervorato dai più bei propositi inventare un piano dettagliato in vista del cenone di San Silvestro: Don Camillo aveva studiato un grandioso programma di festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno. Un programma che era, in verità, molto semplice, in quanto poteva essere riassunto così:

 “A Capodanno, un pollo nella pentola di ogni poveretto”.

E così, don Camillo aveva cominciato il suo giro di raccolta, circa due settimane prima della fine d’anno.

Ogni aia era stata visitata: ogni proprietario, ogni affittuario, ogni mezzadro della parrocchia aveva ascoltato con molta attenzione la parola di don Camillo e nessuno aveva mancato di lodare, alla fine, la nobile iniziativa del parroco.

Disgraziatamente, in molte aie, la moria aveva fatto strage di polli, in altre ancora la poca polleria disponibile era già stata venduta o consumata. Il giorno 30 dicembre don Camillo si trovò ad aver racimolato a stento, oltre i suoi due polletti, sei pollastri il più in carne dei quali pareva lo Smilzo travestito da gallina. E a don Camillo ne occorrevano, come minimo, trenta.

Nobilissimo il programma del prete guareschiano, molto meno nobili le reazioni di chi si era ben guardato dal donare almeno un pollastrello al parroco che, così, va a lamentarsi con il Crocifisso: “Gesù, è credibile tanto egoismo? Cos’è mai un pollo per chi ne ha tanti?” “È un pollo” rispose mestamente il Cristo. Don Camillo spalancò le braccia:

“Gesù” esclamò indignato: “è mai possibile che la gente non comprenda la bellezza di un piccolissimo sacrificio che può procurare così grande gioia?” “Don Camillo, per troppa gente ogni sacrificio è sempre grandissimo, a troppa gente interessa, soprattutto, la propria letizia. E, per troppa gente, il non dare il superfluo è letizia”.

Un’amarissima considerazione, quella del Gesù di “Mondo piccolo”: anche per chi possiede molto, donare il superfluo è un sacrificio troppo grande, mentre il pretone della Bassa, che ha le mani grandi come il suo cuore, vorrebbe che tutti potessero godere almeno di un momento di felicità, nel festeggiare l’anno che inizia.

Ma Guareschi poteva far arrendere don Camillo? E, così, ecco arrivare improvvisamente, la soluzione del problema, pur se in modo non del tutto «canonico»: «[…] don Camillo non intendeva rinunciare al suo programma: “A Capodanno un pollo nella pentola d’ogni poveretto”. Stava rodendosi il fegato per scoprire una qualsiasi soluzione del complicato problema, quando gli si affacciò alla mente una domanda: “Un pollo è un pollo: e sta bene. Però: cos’è un fagiano? Non si potrebbe, per esempio, dire: il fagiano è un pollo che vola?”

Don Camillo concluse che, in fondo, il programma dei festeggiamenti non sarebbe sostanzialmente cambiato se lo slogan invece di suonare: “A Capodanno, un pollo nella pentola d’ogni poveretto” fosse stato puntualizzato in: “A Capodanno, un fagiano nel tegame d’ogni poveretto”».

Servivano la bellezza di ventidue fagiani e, di qui al prendere il piccolo «flobert» per non fare rumore e convincere un nobile cane da caccia come Ful ad accontentarsi dello schioppetto anziché della doppietta, il passo è brevissimo e il parroco, naturalmente infagottato in un pastrano, si ritrova in una riserva di caccia dove: «I fagiani se ne stavano appollaiati sui rami delle piante più basse, quasi completamente rimbambiti.

Erano tre anni che i Finetti si trovavano all’estero e, da tre anni, nessuno aveva sparato una fucilata in tutta la riserva. A ogni “plik” dello schioppetto corrispondeva il tonfo di un fagiano e, pur dovendo perdere un sacco di tempo nella ricarica, don Camillo fece un eccellente lavoro e arrivò al ventunesimo fagiano liscio come un olio. Il ventiduesimo fu quello che gli diede molti dispiaceri.

Ful aveva già dato segno di irrequietezza e ciò significava che qualcosa non funzionava e non si trattava di fagiani o di lepri. Ma don Camillo voleva arrivare ai ventidue polli volanti e disse a Ful di non rompere l’anima e di star tranquillo. Ful obbedì a malincuore ma, proprio mentre don Camillo stava sparando al ventiduesimo fagiano, ebbe uno scatto. Don Camillo capì di aver esagerato, però era troppo tardi. Il guardiacaccia stava arrivando. Buttò lo schioppetto in un cespuglio e, agguantato il sacco coi ventun fagiani, partì a tutta birra».

Occorre dire, qui, che allora i guardiacaccia avevano la maledetta abitudine di impallinare i bracconieri e così, senza pensarci due volte, la doppietta del guardiacaccia sparò. Don Camillo e Ful, sgattaiolati fuori da un buco nella recinzione, si ritrovarono in strada dove, per loro fortuna, stava passando il camion di Peppone che, intuendo la situazione, prese a bordo cane e cacciatore di frodo, portando don Camillo dal vecchio medico di Torricella per farlo «spiombare», prima di recapitarlo in canonica con il sacco del «polli volanti»:

«Uscito Peppone, don Camillo tirò il catenaccio della porta e andò in cantina a sistemare i ventun polli volanti. I quali risultarono in effetti ventidue perché, tra essi, c’era anche un meraviglioso cappone già bell’e spennato e pulito. Ed era quello che Peppone aveva comprato a Torricella per completare il numero».

Tutto bene, dunque? Manca all’appello la voce del Cristo, cui don Camillo confessa il malfatto: «Gesù, il mio cuore è pieno d’angoscia perché mi rendo conto del male che ho commesso.” “No, don Camillo: tu menti. Il tuo cuore è, invece, pieno di gioia perché pensi alla felicità che tu darai domani ai trenta poveretti».

È la vera carità dimostrata da quel Cristo capace di sorridere, l’umanità di Guareschi e il desiderio che, davvero, il Capodanno fosse festa per tutti.

Io che, a volte mi sento un po’ Guareschi, un po’ don Camillo e un po’ Peppone…credo che la morale di questo racconto sia il miglior augurio per un 2025 migliore dell’anno passato.

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