La CIA e il “cavallo di Troia” ucraino

Condividi su:

di Antonio Landini

Fonte: cese-m.eu

Dal 1948 al 1990 la CIA si è avvalsa di figure di spicco dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, accusata di aver collaborato con il Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, per cercare di destabilizzare l’Ucraina e mettere in crisi l’Unione Sovietica. Un’operazione segretissima, denominata Aerodynamic, che può aiutare a comprendere gli avvenimenti dei nostri giorni.

In un passaggio chiave del lungo discorso alla nazione del 24 febbraio 2022, data in cui ha avuto inizio la cosiddetta “Operazione Speciale” in Ucraina, Vladimir Putin ha affermato: «I principali Paesi della NATO, al fine di raggiungere i propri obiettivi, sostengono in tutto i nazionalisti estremisti e neonazisti in Ucraina». Il presidente russo ha, quindi, sottolineato che il fine dell’operazione militare «è proteggere le persone che sono state oggetto di bullismo e genocidio da parte del regime di Kiev per otto anni. E per questo ci adopereremo per la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina». In sostanza, il Cremlino ha accusato l’Occidente, e in primis gli Stati Uniti, di aver agito con il preciso intento di destabilizzare l’Ucraina, appoggiando e finanziando movimenti ultranazionalistici e, allo stesso tempo, di favorire la formazione di un governo filoccidentale. In pratica, un colpo di Stato. È chiaro il riferimento alle proteste di Euromaidan che nel febbraio del 2014 hanno provocato la caduta del governo, democraticamente eletto, del Presidente Viktor Janukovyč. Ma è davvero così?

I fantasmi di Euromaidan

Oggi, in relazione ai tragici avvenimenti di Maidan, sappiamo che le manifestazioni di protesta, nate in maniera spontanea (come reazione alla decisione di Janukovyč di rimandare la firma dell’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione europea) sul finire di novembre del 2013, videro la partecipazione iniziale di vari movimenti politici liberali prima di essere monopolizzate e radicalizzate da forze di estrema destra ultranazionalistiche come Pravyj Sektor (Settore Destro) – alleanza di diversi gruppi nazionalisti ucraini e dell’Assemblea Nazionale Ucraina-Auto Difesa Nazionale Ucraina (UNA-UNSO) formatisi proprio all’inizio delle proteste – e Svoboda (Unione Pan-Ucraina “Libertà”), partito fondato nell’ottobre del 1991 con il nome di Partito Social-Nazionalista di Ucraina su posizioni di stampo neonazista (il nome fu cambiato in Svoboda nel febbraio 2004). In un articolo apparso sulla rivista progressista “Salon” dal titolo Ci sono davvero neonazisti che combattono per l’Ucraina? Beh, sì ma è una lunga storia, a firma Medea Benjamin e Nicolas Davies, gli eventi sono stati sintetizzati in questo modo: «Il partito neonazista ucraino Svoboda e i suoi fondatori, Oleh Tyahnybok e Andriy Parubiy, hanno giocato ruoli di primo piano nel colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti nel febbraio 2014. L’assistente segretario di Stato Victoria Nuland e l’ambasciatore americano Geoffrey Pyatt hanno menzionato Tyahnybok come uno dei leader con cui stavano lavorando nella loro famigerata telefonata trapelata prima del colpo di Stato, anche se hanno cercato di escluderlo da una posizione ufficiale nel governo post-golpe». E poco dopo: «Mentre le proteste precedentemente pacifiche a Kiev lasciavano il posto a scontri con la polizia e a violente marce armate… i membri di Svoboda e la nuova milizia di Settore Destro, guidata da Dmytro Yarosh, combattevano contro la polizia, guidavano le marce e razziavano un’armeria…». In sostanza, verso la metà di febbraio, i militanti di queste formazioni erano diventati i veri leader delle proteste. C’è da chiedersi pertanto che tipo di transizione politica ci sarebbe stata in Ucraina se avessero prevalso le proteste pacifiche e, soprattutto, quanto differente sarebbe stato il governo se questo processo non violento avesse potuto fare il suo corso senza le interferenze degli Stati Uniti e la posizione radicale della destra ultranazionalista ucraina. E invece è stato proprio il fondatore di Settore Destro (Yarosh), dopo aver rigettato l’accordo del 21 febbraio, che era stato negoziato dai ministri degli esteri francese, tedesco e polacco con Yanukovych, e prevedeva lo scioglimento del governo e la possibilità di indire nuove elezioni entro l’anno, a rifiutarsi di abbandonare la piazza e abbassare le armi. Al contrario, si è messo alla testa della marcia contro il Parlamento che è finita in un bagno di sangue quando cecchini, appostati sui palazzi circostanti, hanno aperto il fuoco (i morti sono stati oltre cento tra i manifestanti e la polizia). Evento che ha fatto precipitare la situazione e provocato il rovesciamento del governo.

Ucraina, un obiettivo sensibile

La ricostruzione degli eventi fatta da Benjamin e Davies si basa su dati oggettivi e riscontri reali come la famosa telefonata tra Victoria Nuland, Assistente del Segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, e l’ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt (fu intercettata dai servizi segreti russi e poi divulgata tramite il canale Youtube), che gli stessi interessati non hanno mai smentito; ma siamo ben lungi dall’aver un quadro completo degli eventi. Molti altri aspetti restano oscuri o di difficile interpretazione. Basti pensare alla difficoltà di appurare chi fossero i tiratori scelti che hanno aperto il fuoco. In assenza di una inchiesta governativa capace di fare luce sulla vicenda, il governo ucraino post-Janukovyč si è limitato ad accusare la polizia dell’ex presidente, sebbene quest’ultimo abbia sempre affermato di non aver mai dato l’ordine di sparare sui manifestanti. Che la cosa sia più complessa lo si comprende da diverse inchieste giornalistiche da cui emergerebbe come entrambi gli schieramenti avessero a disposizione fucili di precisione e molte immagini li immortalano mentre prendono la mira e fanno fuoco. Le conseguenze di quel drammatico cambio di regime provocarono, nei mesi successivi, forti tensioni tra la maggioranza ucraina e la popolazione russofona (concentrata perlopiù nel sud-est del paese), seguite dall’inizio della crisi in Donbass (e la decisione del Consiglio di Stato della Repubblica di Crimea di indire un referendum che ha sancito l’annessione alla Russia). Crisi che si è trascinata drammaticamente fino ai nostri giorni nel modo che tutti noi conosciamo. Al momento, quantificare la reale portata storica delle interferenze statunitensi sui fatti di Maidan e l’appoggio fornito da questi alle forze ultranazionalistiche ucraine non è possibile. Sarà necessario attendere a lungo (sempre che ciò avvenga) prima di poter consultare documenti ufficiali in grado di fare luce sugli eventi. È fuori di dubbio, tuttavia, che storici e analisti avevano già sottolineato la complessità del “caso ucraino” e che le prospettive future non erano per nulla rosee. Nel suo celebre Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Samuel Huntington, uno dei massimi esperti di politica estera americani, ha scritto nel 1996: «L’Ucraina… è un Paese diviso, patria di due distinte culture. La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa attraversa infatti il cuore del Paese, e così è stato per secoli. In passato, l’Ucraina ha fatto parte ora della Polonia, ora della Lituania, ora dell’Impero austro-ungarico. Un’ampia parte della sua popolazione aderisce alla Chiesa uniate, che segue il rito ortodosso ma riconosce l’autorità del Papa». Sul piano storico, afferma Huntington, gli ucraini occidentali hanno sempre parlato ucraino ed esibito un atteggiamento fortemente nazionalista, mentre la popolazione della parte orientale del Paese è in netta prevalenza di credo ortodosso e parla russo. Agli inizi degli anni Novanta, i russi ammontavano a circa il 22 per cento e i madrelingua russi al 31 per cento dell’intera popolazione. Nel 1993 nella maggioranza delle scuole primarie e secondarie le lezioni erano tenute in lingua russa. Un caso a parte è la Crimea. La sua popolazione era costituita per la maggioranza da russi, avendo fatto parte della Federazione russa fino al 1954, quando Chruščëv la concesse all’Ucraina. Le differenze tra queste due “anime” del Paese si manifestano negli atteggiamenti delle rispettive popolazioni: alla fine del 1992 un terzo dei residenti in Ucraina occidentale, a fronte del dieci per cento di quelli che abitavano nella capitale, mostravano sentimenti antirussi. Che l’Ucraina fosse un Paese diviso, e per tale ragione facilmente destabilizzabile, lo si comprende leggendo un documento della CIA, datato 1966, oggi reso pubblico: «Il processo di russificazione ha raggiunto in Ucraina orientale, soprattutto nelle città, un livello superiore a quello ottenuto da Mosca in ogni altro territorio dell’Urss, ma i sentimenti sciovinisti sono ancora molto forti nella campagne e nelle regioni occidentali lontane dai confini sovietici… Nel caso di una disintegrazione del controllo centrale sovietico, il nazionalismo ucraino potrebbe riaffiorare alla superficie e costruire un punto di riferimento per la nascita di un movimento organizzato di resistenza anti-comunista». Un’analisi precisa che, per quanto sia stata elaborata alla metà degli anni Sessanta, dimostra tutta la sua attualità alla luce di quanto avvenuto recentemente. E che i servizi segreti americani fossero sempre interessati a sondare il campo lo si percepisce da un altro documento – questa volta elaborato nel 2008 e poi pubblicato su Wikileaks – da cui emerge come «gli esperti sostengono che la Russia è preoccupata per le forti divisioni che esistono in Ucraina riguardo all’eventualità di entrare a far parte della NATO, a causa della nutrita componente etnica russa che è contraria all’adesione e che potrebbe portare a forti opposizioni, violenze o nel peggiore dei casi, alla guerra civile». Dal file si evince che gli americani sono consci che per la Russia la “questione ucraina” è un problema sensibile, che li potrebbe costringere a un intervento (militare?). Decisione che, tuttavia, non sono per nulla intenzionati a prendere. Questi due documenti dimostrano che la CIA ha monitorato gli eventi nel Paese, consapevole che avrebbero potuto essere uno strumento – una sorta di cavallo di Troia – con cui indebolire e destabilizzare l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, prima, e la Russia di Putin, poi. Non può essere una mera coincidenza il fatto che quel “nazionalismo ucraino”, paventato nel documento del 1966, si sia puntualmente materializzato nel 2014 con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ma c’è di più.

Al soldo di Washington

La vasta mole di documenti resi pubblici dal governo americano grazie al Nazi War Crimes Disclosure Act del 1998 ha permesso di appurare come l’amministrazione a “Stelle e Strisce” abbia permesso ai suoi servizi segreti (prima il CIC e poi la CIA) di appoggiare e finanziare organizzazioni ultranazionalistiche e filonaziste ucraine in chiave antisovietica per l’intero corso della Guerra Fredda, ed esattamente dal 1948 fino agli inizi degli anni Novanta. Di che cosa stiamo parlando? E, in particolare, quali figure e organizzazioni furono cooptate? Vale la pena approfondire la questione perché di strettissima attualità. Dall’esame della documentazione resa pubblica emerge il ruolo dell’OUN-B, l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini di Stepan Bandera, che durante la Seconda guerra mondiale aveva collaborato con i nazisti (non va dimenticato che nei giorni di Euromaidan i manifestanti di Svoboda marciavano proprio sotto il vessillo dell’OUN-B). Cosa sappiamo di questa organizzazione? L’OUN fu fondata nel 1929 da ucraini occidentali della Galizia orientale che chiedevano una nazione indipendente ed etnicamente omogenea. Il nemico giurato era la Polonia che in quel periodo controllava la Galizia orientale e la Volhynia. Nel 1934 l’OUN si rese protagonista dell’assassinio del ministro degli interni polacco Bronislaw Pieracki. Tra coloro che vennero arrestati e condannati per l’omicidio figuravano Bandera e Mykola Lebed, figura che ci interessa direttamente per i rapporti che ha avuto con la CIA nel dopoguerra. Il tribunale li condannò a morte, ma la sentenza fu poi tramutata in prigione a vita. Non passarono molto tempo dietro le sbarre: Bandera fu liberato nel 1938 (Lebed riuscì a fuggire l’anno successivo), dopodiché entrò in trattativa con il Terzo Reich che gli garantì fondi e permise a ottocento dei suoi uomini di essere addestrati alla guerriglia. Poi nel 1940 l’organizzazione si scisse in due: da una parte l’OUN-M (il cui leader era Andriy Atanasovych Melnyk), collocato su posizioni più moderate, e dall’altra la ben più radicale OUN-B di Bandera. Quando nel giugno del 1941 ebbe inizio l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, le forze dell’OUN-B ammontavano a circa settemila uomini, organizzati in “gruppi mobili” che si coordinavano con le truppe tedesche. Quindi, il colpo di scena. Il 5 luglio, le autorità, temendo che Bandera e l’OUN avessero intenzione di autoproclamare un’Ucraina indipendente per mezzo di una rivolta armata, lo arrestarono e lo condussero a Berlino (dopo una serie di interrogatori fu rilasciato ma obbligato a rimanere nella capitale tedesca). Sarà riarrestato nel gennaio del 1942 e condotto nel campo di concentramento di Sachsenhausen come prigioniero politico, godendo comunque di uno status speciale. In Germania il leader di OUN-B continuò a gestire il movimento. Lo dimostra il fatto che i suoi uomini continuarono a operare grazie all’appoggio di Berlino. Nel 1943 l’OUN-B prenderà parte alla campagna di sterminio di ebrei e polacchi. In questa fase fu proprio Lebed, comandante della Sluzhba Bespeki (l’organizzazione di polizia segreta della OUN-B), a gestire il programma di pulizia etnica. Con la fine della guerra, i leader dell’organizzazione finirono in vari campi per sfollati dell’Europa orientale e della Germania. Le loro vite presero strade diverse. Bandera, secondo quanto emerso dai documenti resi pubblici, nel 1948 fu reclutato dal servizio segreto inglese (MI6) per addestrare agenti che operassero in territorio sovietico per missioni di sabotaggio e assassinio. Nel 1956 Bandera fu quindi cooptato dall’Organizzazione Gehlen, una struttura segreta, nata nell’aprile del 1946 quando gli americani avevano dato il via all’Operazione Rusty, nome in codice dietro cui si celava la scelta di riattivare i vertici dell’FHO (Fremde Heere Ost), ovvero i servizi segreti militari del defunto esercito nazista sul fronte orientale, a cui era stato delegato (a partire dal 1942) l’attività di spionaggio contro l’Unione Sovietica. Con una sola differenza, ora questi ufficiali sarebbero stati sul libro paga degli Stati Uniti. Un progetto segretissimo (e rimasto tale almeno fino ai primi anni Cinquanta), attivo dal 1946 al 1956, prima che l’Organizzazione Gehlen si trasformasse nel Bundesnachrichtendienst (BND), l’agenzia di intelligence esterna della Repubblica federale tedesca. Ma questa è un’altra storia. Bandera, che in un rapporto dell’MI6 veniva definito come un «professionista con background terroristico e nozioni spietate sulle regole del gioco», sarà assassinato nel 1959 dal KGB nella Germania Ovest.

Operazione Aerodynamic

La “carriera” di Mykola Lebed avrà invece uno sviluppo sorprendente proprio per le relazioni con i servizi di intelligence statunitense. Sul suo conto la documentazione desegretata è voluminosa. Nel 1947, un rapporto stilato dal CIC (servizio segreto militare) definiva il soggetto un «collaboratore dei tedeschi». Eppure, ciò non impedì che finisse sul libro paga di Washington. Ciò avvenne nel 1948 quando, con l’inasprirsi della crisi con l’Unione Sovietica, la CIA decise che l’Esercito insurrezionale ucraino (UPA) di Lebed avrebbe potuto servire per operazioni di resistenza e intelligence dietro le linee sovietiche. La Central Intelligence Agency si occupò di tutto, fornendo denaro, armi e rifornimenti. Come ebbe modo di sottolineare Lebed più tardi: «Le… operazioni di lancio furono la prima vera indicazione… che l’intelligence americana era disposta a dare un sostegno attivo per stabilire linee di comunicazione in Ucraina». La sua carriera era a una svolta. L’operazione assunse fin da subito un ritmo significativo sotto il nome in codice di Cartel, presto mutato in Aerodynamic. Lebed fu fortunato in quanto la CIA decise di trasferirlo a New York dove acquisì lo status di residente permanente e di lì a poco la cittadinanza. Ciò gli permise di evitare possibili vendette e di prendere contatto con gli emigrati ucraini negli Stati Uniti. Quando era necessario si spostava in Europa per coordinare le operazioni sul campo. In America Lebed divenne il principale referente della CIA per Aerodynamic. Nei rapporti del tempo, come rimarcato dai ricercatori Richard Breitman e Norman Goda, autori di Hitler’s Shadow, Nazi War Criminals, U.S. Intelligence, and the Cold War, il soggetto viene definito «astuto» e «un operatore molto spietato». A quanto pare, non era molto popolare tra gli ucraini negli Stati Uniti per la brutalità mostrata durante la guerra, ma l’intelligence americana gradiva la sua efficienza. Allen Dulles, il futuro direttore della CIA dal 1953 al 1961, sottolineò come il soggetto fosse «di valore inestimabile». Aerodynamic prevedeva l’infiltrazione e l’esfiltrazione dall’Ucraina di agenti addestrati dagli americani. Secondo Breitman e Goda, le operazioni del 1950 rivelarono «un movimento clandestino ben stabilito e sicuro» in Ucraina che era anche «più grande e più pienamente sviluppato di quanto i rapporti precedenti avessero indicato». Washington era soddisfatta dell’alto livello di addestramento dell’UPA e del suo potenziale per azioni di guerriglia. Di fronte a questi risultati, la CIA decise di potenziare ulteriormente le attività dell’UPA al fine di sfruttare il movimento clandestino a fini di resistenza e di intelligence. Nei documenti veniamo a sapere che in caso di guerra l’UPA avrebbe potuto arruolare sotto le sue fila qualcosa come centomila combattenti. Ma i rischi della missione erano elevati. I sovietici fecero di tutto per mettere fine alla loro attività e, tra il 1949 e il 1953, un gran numero di militanti fu ucciso e catturato. Entro il 1954 l’organizzazione era stata fortemente indebolita.

La CIA fu costretta a interrompere la fase più aggressiva di Aerodynamic, ma non cancellò l’operazione. Fu riadattata. A partire dal 1953, Lebed e un gruppo di collaboratori iniziò a operare per realizzare giornali, programmi radio e libri che si ispiravano al nazionalismo ucraino. L’obiettivo era distribuirli di nascosto nel Paese. Poi nel 1956 questo gruppo di lavoro divenne un’associazione no-profit chiamata Prolog Research and Publishing, stratagemma che permetteva alla CIA di far giungere finanziamenti senza lasciare traccia. In un secondo tempo, per evitare che le autorità potessero scoprire cosa si celava dietro il progetto, l’Agenzia trasformò l’associazione nella Prolog Research Corporation, che aveva un ufficio anche in Germania chiamato Ukrainische-Gesellschaft für Auslandsstudien, EV. Sarà proprio questo a pubblicare la maggior parte della documentazione. Lo schema usato da Prolog era semplice: gli autori di origine ucraina, che avevano lasciato il Paese, venivano reclutati per realizzare i lavori senza sapere che stavano lavorando per l’intelligence statunitense. Solo un ristretto numero ne era al corrente. Ma come veniva fatto entrare in Ucraina il materiale? Nel 1955 un gran numero di volantini furono lanciati per via aerea, mentre una trasmissione radio chiamata Nova Ukraina andava in onda da Atene. Come ben spiegato da Breitman e Goda «queste attività diedero il via a campagne sistematiche di mailing in Ucraina attraverso contatti ucraini in Polonia ed… emigrati in Argentina, Australia, Canada, Spagna, Svezia e altrove. Il giornale Suchasna Ukrainia (Ucraina Oggi), bollettini informativi, una rivista in lingua ucraina per intellettuali chiamata Suchasnist (Il Presente), e altre pubblicazioni furono inviate a biblioteche, istituzioni culturali, uffici amministrativi e privati in Ucraina. Queste attività incoraggiarono il nazionalismo ucraino, rafforzarono la resistenza ucraina e fornirono un’alternativa ai media sovietici. Solo nel 1957, con il supporto della CIA, Prolog trasmise 1200 programmi radio per un totale di 70 ore al mese e distribuì 200mila giornali e 5mila opuscoli». Una campagna massiccia il cui fine, come sottolineato da un funzionario della CIA, era dettata dal fatto che «una qualche forma di sentimento nazionalista continua a esistere [in Ucraina] e c’è l’obbligo di sostenerlo come arma della Guerra Fredda». Prolog non disdegnava la raccolta di informazioni, cosa che fu facilitata dal fatto che, sul finire degli anni Cinquanta, i sovietici allettarono le restrizioni sugli spostamenti all’estero. Ogni occasione – conferenze universitarie, eventi culturali e sportivi (le Olimpiadi di Roma ad esempio) – servivano per avvicinare personalità ucraine residenti in Unione Sovietica e sondare i sentimenti della popolazione nei confronti dei russi. Ecco perché la CIA era così entusiasta di Aerodynamic. Nel corso degli anni Sessanta, Lebed e compagni fornirono un gran numero di rapporti sulla situazione politica in Ucraina, informazioni sensibili sulle attività del KGB e la dislocazione delle forze armate. Il fatto che Mosca reagisse bollando questi gruppi clandestini – erano definiti “Banderisti” – come nazisti al soldo degli americani fu interpretato dalla CIA come una prova dell’efficacia del progetto. Non stupisce che le nuove generazioni nel Paese siano state influenzate dall’attività di Prolog (alcuni viaggiatori occidentali riferirono di aver potuto consultare il materiale pubblicato in diverse case private). Lebed lavorò al progetto fino al 1975 quando andò in pensione, continuando però a fornire consulenza. Nel 1978 a capo della struttura fu nominato il giornalista ucraino Roman Kupchinsky. Nel corso degli anni Ottanta l’Operazione Aerodynamic cambiò nome in Qrdynamic, Pddynamic e poi Qrplumb. Va fatto notare che nel 1977 si interessò del progetto anche Zbigniew Brzezinski, il potente consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, tenendo conto del fatto che i risultati ottenuti erano significativi e raggiungevano un vasto pubblico in Ucraina. La conseguenza fu che le operazioni furono estese ad altre aree e nazionalità dell’URSS (gli ebrei sovietici ad esempio). In base a quanto è stato possibile appurare, agli inizi degli anni Novanta, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Qrplumb non fu più finanziata, ma fu lasciata libera di operare. Difficile sapere come si sia mossa. I documenti non lo specificano.

L’ultimo atto

Nel 1985 Lebed venne menzionato da un rapporto governativo che indagava sulla presenza di nazisti e fiancheggiatori stabilitisi negli Stati Uniti grazie all’appoggio dei servizi segreti. In breve tempo l’OSI, l’Office of Special Investigations del Dipartimento di Giustizia, iniziò a indagare sul suo conto. Ancora una volta la CIA intervenne, temendo lo scandalo che ne sarebbe potuto derivare tra i membri della comunità ucraina negli Usa. Ma il grande timore era che l’Operazione Qrplumb potesse subire un contraccolpo. L’Agenzia negò categoricamente che Lebed avesse avuto a che fare con i nazisti e i crimini commessi in tempo di guerra, sostenendo che era stato un vero combattete ucraino per la libertà. Ma non è tutto. Fino al 1991 i funzionari della CIA fecero in modo di dissuadere l’Office of Special Investigations dal richiedere ai governi sovietico, polacco, tedesco informazioni sul suo conto. Alla fine, i funzionari del Dipartimento di Giustizia dovettero gettare la spugna. Lebed ebbe tutto il tempo di godersi la vecchiaia fino alla morte, sopraggiunta nel 1998.

Il falò delle vanità

Condividi su:

di Alastair Crooke*

Fonte: Come Don Chisciotte

L’arroganza consiste nel credere che una narrazione artificiosa possa, di per sé, portare alla vittoria. È una fantasia che ha attraversato tutto l’Occidente, soprattutto a partire dal XVII secolo. Recentemente, il Daily Telegraph ha pubblicato un ridicolo video di nove minuti in cui si sostiene che “le narrazioni vincono le guerre” e che le battute d’arresto in uno scenario bellico sono un fatto accidentale: ciò che conta è avere un filo narrativo unitario articolato, sia verticalmente che orizzontalmente, lungo tutto lo spettro – dal soldato delle forze speciali sul campo fino all’apice del vertice politico.

Il succo è che “noi” (l’Occidente) abbiamo una narrativa irresistibile, mentre quella della Russia è “goffa”, quindi, è inevitabile che gli Stati Uniti vincano.

È facile deriderla, ma possiamo comunque riconoscere in essa una certa sostanza (anche se questa sostanza è un’invenzione). La narrazione è ormai il modo in cui le élite occidentali immaginano il mondo. Che si tratti dell’emergenza pandemica, del clima o dell’Ucraina, tutte le “emergenze” sono ridefinite come “guerre”. E tutte sono”guerre” che devono essere combattute con una narrazione unitaria e obbligatoria di “vittoria”, contro la quale è vietata ogni opinione contraria.

L’ovvio difetto di questa arroganza è che richiede di essere in guerra con la realtà. All’inizio il pubblico è confuso, ma, man mano che le menzogne proliferano e si stratificano, la narrazione si separa sempre di più dalla realtà, anche se le nebbie della disonestà continuano ad avvolgerla. Lo scetticismo del pubblico si fa strada. Le narrazioni sul “perché” dell’inflazione, sul fatto che l’economia sia o no sana, o sul perché dobbiamo entrare in guerra con la Russia, iniziano a perdere colpi.

Le élite occidentali hanno scommesso tutto sul massimo controllo delle “piattaforme mediatiche”, sull’assoluto conformismo dei messaggi e sulla spietata repressione delle proteste come loro progetto per continuare a mantenere il potere.

Eppure, contro ogni previsione, i media mainstream stanno perdendo la loro presa sul pubblico statunitense. I sondaggi mostrano una crescente sfiducia nei confronti dei media statunitensi. Quando è apparso il primo show “anti-messaggio” di Tucker Carlson su Twitter, il rumore delle placche tettoniche che si scontravano è stato imperdibile, mentre più di 100 milioni di americani (uno su tre) ascoltavano l’iconoclastia.

Il punto debole di questo nuovo autoritarismo “liberale” è che i suoi miti narrativi chiave possono essere infranti. Basta poco; lentamente, la gente inizia a parlare della realtà.

Ucraina: come si vince una guerra che non si può vincere? La risposta dell’élite è stata la narrazione. Insistendo, contro la realtà dei fatti, che l’Ucraina sta vincendo e la Russia sta “cedendo”. Ma questa arroganza alla fine viene smontata dai fatti sul campo. Anche le classi dirigenti occidentali si rendono conto che la loro richiesta di un’offensiva ucraina di successo è fallita. Alla fine, i risultati militari sono più potenti delle chiacchiere politiche: Uno schieramento è distrutto, i suoi molti morti diventano la tragica “forza” per rovesciare il dogma.

Saremo in grado di estendere all’Ucraina l’invito ad aderire all’Alleanza quando gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte… [tuttavia] a meno che l’Ucraina non vinca questa guerra, non c’è alcun problema di adesione da discutere” – ha dichiarato Jens Stoltenberg a Vilnius. Così, dopo aver esortato Kiev a gettare altre (centinaia di migliaia) di uomini nelle fauci della morte per giustificare l’adesione alla NATO, quest’ultima volta le spalle alla sua protetta. Dopotutto, si trattava di una guerra non vincibile fin dall’inizio.

L’arroganza, ad un certo livello, risiede nel fatto che la NATO contrappone la sua presunta “superiorità” in termini di dottrina militare e di armamenti alla deprecata rigidità – e “incompetenza” – militare russa di stampo sovietico.

Ma le operazioni militari sul campo hanno rivelato la dottrina occidentale per quel che è – arroganza – con le forze ucraine decimate e le armi della NATO ridotte a carcasse fumanti. È stata la NATO ad insistere sulla rievocazione della Battaglia del 73 Est (nel deserto iracheno, ma ora trasportata in Ucraina).

In Iraq, il “pugno corazzato” aveva facilmente perforato le formazioni di carri armati iracheni: si trattava infatti di un “cazzottone” che aveva messo al tappeto l’opposizione irachena. Ma, come ammette francamente il comandante statunitense di quella battaglia di carri armati (il colonnello Macgregor), il suo risultato contro un’opposizione demotivata era stato in gran parte fortuito.

Tuttavia, il “73 Easting” è un mito della NATO, trasformato in dottrina generale per le forze ucraine – una dottrina strutturata sulla circostanza unica dell’Iraq.

L’arroganza – in linea con il video del Daily Telegraph – sale tuttavia in verticale per imporre la narrazione unitaria di una prossima “vittoria” occidentale anche sulla sfera politica russa. È una vecchia storia che la Russia sia militarmente debole, politicamente fragile e incline alle spaccature. Conor Gallagher ha dimostrato con ampie citazioni che era stata esattamente la stessa storia anche nella Seconda Guerra Mondiale, si trattava di un’analoga sottovalutazione della Russia da parte dell’Occidente – combinata con una grossolana sopravvalutazione delle proprie capacità.

Il problema fondamentale del delirio è che l’uscirne (se mai succede) avviene ad un ritmo molto più lento degli eventi. Questo disallineamento può definire gli esiti futuri.

Potrebbe essere nell’interesse del Team Biden supervisionare un ritiro ordinato della NATO dall’Ucraina, in modo da evitare che diventi un’altra debacle in stile Kabul.

Perché ciò avvenga, il Team Biden ha bisogno che la Russia accetti un cessate il fuoco. E qui sta il difetto (ampiamente trascurato) di questa strategia: semplicemente, non è nell’interesse della Russia “congelare” la situazione. Ancora una volta, l’ipotesi che Putin “prenderebbe al volo” l’offerta occidentale di un cessate il fuoco è un modo di pensare arrogante: i due avversari non sono congelati nel senso basilare del termine – come in un conflitto in cui nessuna delle due parti è riuscita a prevalere sull’altra e sono bloccate.

In parole povere, mentre l’Ucraina è strutturalmente sull’orlo dell’implosione, la Russia, al contrario, è del tutto plenipotente: Dispone di forze ingenti e fresche, domina lo spazio aereo e ha quasi il dominio dello spazio elettromagnetico. Ma l’obiezione fondamentale ad un cessate il fuoco è che Mosca vuole che l’attuale collettivo di Kiev se ne vada e che le armi della NATO siano fuori dal campo di battaglia.

Quindi, ecco il problema: Biden ha un’elezione, e quindi sarebbe adatto alle esigenze della campagna democratica avere un “disimpegno ordinato”. La guerra in Ucraina ha messo in luce troppe carenze logistiche americane. Ma anche la Russia ha i suoi interessi.

L’Europa è la parte più intrappolata dall’”allucinazione”, fin dal momento in cui si è gettata senza riserve nel “campo” di Biden. La narrazione dell’Ucraina si è interrotta a Vilnius. Ma l’amour propre di alcuni leader dell’UE li mette in conflitto con la realtà. Vogliono continuare ad alimentare il tritacarne ucraino, a persistere nella fantasia di una “vittoria totale”: “non c’è altro modo che una vittoria totale – e sbarazzarsi di Putin… Dobbiamo correre tutti i rischi per questo. Nessun compromesso è possibile, nessun compromesso“.

La classe politica dell’UE ha preso così tante decisioni disastrose in ossequio alla strategia statunitense – decisioni che vanno direttamente contro gli interessi economici e di sicurezza degli europei – che ha molta paura.

Se la reazione di alcuni di questi leader sembra sproporzionata e irrealistica (“Non c’è altro modo che una vittoria totale – e sbarazzarsi di Putin”) – è perché questa “guerra” tocca motivazioni più profonde. Riflette il timore esistenziale di un disfacimento della meta-narrazione occidentale che farà crollare la sua egemonia e, con essa, la struttura finanziaria occidentale.

La meta-narrazione occidentale “da Platone alla NATO, è quella di idee e pratiche superiori le cui origini risalgono all’antica Grecia e che, da allora, sono state raffinate, estese e trasmesse nel corso dei secoli (attraverso il Rinascimento, la rivoluzione scientifica e altri sviluppi presumibilmente unicamente occidentali), cosicché oggi noi occidentali siamo i fortunati eredi di un DNA culturale superiore“.

Questo è ciò che probabilmente avevano in mente gli autori del video del Daily Telegraph quando avevano insistito sul fatto che “la nostra narrativa vince le guerre”. La loro arroganza risiede nella presunzione implicita che l’Occidente, in qualche modo, vince sempre – è destinato a prevalere – perché è il destinatario di questa genealogia privilegiata.

Naturalmente, al di fuori della comprensione generale, è accettato che la nozione di “Occidente coerente” sia stata inventata, riproposta e utilizzata in tempi e luoghi diversi. Nel suo nuovo libro, The West, l’archeologa classica Naoíse Mac Sweeney contesta il “mito del padrone”, sottolineando che era stato solo “con l’espansione dell’imperialismo europeo d’oltremare nel XVII secolo che aveva iniziato ad emergere un’idea più coerente di Occidente, utilizzata come strumento concettuale per tracciare la distinzione tra il tipo di persone che potevano essere legittimamente colonizzate e quelli che potevano essere legittimamente i colonizzatori”.

Con questa invenzione dell’Occidente era arrivata anche l’invenzione della storia occidentale, un lignaggio elevato ed esclusivo che ha fornito una giustificazione storica per la dominazione occidentale. Secondo il giurista e filosofo inglese Francis Bacon, nella storia dell’umanità ci sono stati solo tre periodi di apprendimento e civiltà: “uno tra i Greci, il secondo tra i Romani e l’ultimo tra noi, cioè le nazioni dell’Europa occidentale“.

Il timore più profondo dei leader politici occidentali – complice la consapevolezza che la “Narrazione” è una finzione che raccontiamo a noi stessi, pur sapendola essere di fatto falsa – è che la nostra epoca sia stata resa sempre più e pericolosamente dipendente da questo meta-mito.

Se la fanno sotto non solo a causa di una “Russia potente”, ma piuttosto per la prospettiva che il nuovo ordine multipolare guidato da Putin e Xi, che si sta diffondendo in tutto il mondo, faccia crollare il mito della civiltà occidentale.

Fonte: www.strategic-culture.org
Link: https://strategic-culture.org/news/2023/07/17/a-bonfire-of-the-vanities/

Scelto e tradotto da Markus per www.comedonchisciotte.org

*Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

Il nascituro reificato e la sovversione dell’ordine naturale

Condividi su:

di Matteo Castagna

 

ARIANNA EDITRICE – 26/03/2023

Il nascituro reificato e la sovversione dell’ordine naturale

Fonte: Matteo Castagna

L’utero in affitto deve diventare un reato universale. In Italia è un crimine dal 2004. Pene previste sono la reclusione da 3 mesi a 2 anni, e una multa pesantissima da seicentomila a un milione di euro.
Non esiste il reato di istigazione, che eventualmente potrebbe rientrare nel generico “istigazione a delinquere”, ma nessuno finora l’ha mai applicato ai sinistri individui che lo propugnano pubblicamente, forse per evitare la gogna mediatica “arcobalenga”.
“Il ricorso all’utero in affitto offende contemporaneamente la natura, il buon senso, la saggezza e il diritto” – scrive il noto psichiatra Alessandro Meluzzi nel libro “Attacco alla Famiglia” (Ed. Altaforte, 2020). L’ideologia fuorviante dell’affettività produce una abominevole confusione tra diritto e desiderio. La natura ha stabilito che la famiglia sia formata da un uomo e una donna perché solo la loro unione può determinare la nascita di un figlio. Senza l’ausilio di tecniche mediche, non è possibile concepire per una coppia omosessuale. Questa affermazione non ha alcun intento discriminatorio ma è un dato di fatto, meramente biologico.
La volontà, il capriccio o il desiderio di due uomini o di due donne di comprare un figlio sono ferocemente egoistici e non tengono conto dei diritti del bambino. Se esistesse un po’ di buon senso offenderebbe anche chi lo pratica. Il ricorso alla maternità surrogata può essere pericoloso per la mamma affittata e, ancor di più, per il piccolo innocente. Meluzzi, con saggezza, si chiede quale sarà lo sviluppo psico-affettivo di questi nuovi nati? Se, da un lato è realistico pensare a stigmatizzazione sociale, emarginazione, discriminazione, dall’altro, forse ancora più importante, prevede che “ci sia sicuramente una tendenza all’emulazione dei genitori, perciò la scelta omosessuale sarà quasi obbligata” (Abbie E. Goldberg, assistente universitaria presso il Dipartimento di Psicologia della Clark University di Worcester, nel Massachusetts, Omogenitorialità, Erickson, Trento, 2015). La mercificazione del corpo offende la dignità della donna, nonostante vi siano femministe incallite che lo ritengano addirittura un diritto. E se lo scopo, come suggerisce sempre il Prof. Alessandro Meluzzi, fosse “portare via i figli alle famiglie povere e darli a comunità, case famiglia dove poi vengono erogati fino a 400 euro al giorno per ogni minore, oppure a coppie benestanti, se possibile omogenitoriali”? Questi eventi sono mostruosi e diabolici. Assistiamo ad un cortocircuito letale. La crisi della famiglia genera quella dell’uomo e la crisi delle prospettive dell’umano nei suoi orizzonti genera la crisi della famiglia, con un’identità debole, che tende all’instabilità, alla paura, all’alienazione, alla fluidità.
La Sovversione dell’ordine naturale è sempre graduale nel tempo. Il suo tratto demoniaco, che mira alla disintegrazione dei legami, ci svela come, al contrario, il diritto naturale sia armonioso, stabile, forte, sicuro, realistico, granitico, tradizionale. La teologia Morale ci insegna che per giudicare dell’imputabilità di un dato atto passionale occorre vedere se il suo insorgere sia antecedente o conseguente all’atto di volontà. La patologia derivante da gravi problematiche dovute ad una affettività disordinata va considerata sotto due aspetti differenti: a) la morbosa variazione del tono affettivo; b) l’azione morbosa esercitata dalle emozioni sull’organismo. Il politicamente corretto, che spinge all’edonismo ed alle passioni più sregolate, anche quando si nasconde sotto forma di buonismo, chiama Amore ciò che non può essere altro che attrazione, sentimentalismo, piacere momentaneo e fugace. Amare è volere il bene dell’altro. Come si può amare inducendo l’altro al peccato mortale, quindi all’inimicizia con Dio e le Sue leggi eterne? Oppure provocando possibili ripercussioni gravissime a dei minori?
La scrittrice Susanna Tamaro, nonostante si dicesse favorevole alle adozioni per coppie omosessuali (cfr.Greta Privitera, in Vanity Fair, 17 settembre 2016)  si è così espressa: “L’utero in affitto è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta dell‘amore’. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui”.
Agghiacciante la testimonianza di Sheela Saravanan dall’India: “Le nostre madri surrogate sono stressate a livello fisico e psichico anche se ricevono soldi; alla base ci sono povertà, analfabetismo, sottomissione. Vivono in stanzoni durante la gestazione e vengono nutrite molto per far crescere il bambino”. Il prezzo del neonato infatti sale con il peso. Il cesareo è obbligatorio. E i disabili, sono un “prodotto difettato”, perciò abortiti o abbandonati in strada. Paradossale l’ipocrisia in Germania: “La Gpa è vietata dentro il Paese ma se vanno a farla all’estero va bene”.

Per approfondire: https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-nascituro-reificato-e-la-sovversione-dell-ordine-naturale

Memento vivere

Condividi su:

di Livio Cadè

Fonte: EreticaMente

“Aspirate alle cose di lassù e non a quelle che sono sulla terra”

La vita è sogno?

“Ogni causa si decida sulla parola di due o tre testimoni”, prescrive il Deuteronomio. Anche un solo testimone, secondo Crisostomo, è però sufficiente, se è degno di fede e se testimonia non di materia estranea ma di ciò che ha in sé. Poniamo dunque che mille persone, senza rapporto tra loro, mi dicano d’aver visto uno strano animale, e tutti concordino nel descriverne le dimensioni, la forma, i colori, il modo di muoversi ecc.. È più logico credere che quell’animale esista o che tutti costoro stiano mentendo, o che siano tutti vittime di un’allucinazione? Credo che concedere un assenso preliminare sarebbe la soluzione più intelligente.

Mi appoggio a questa premessa in relazione alle testimonianze di coloro – ormai migliaia –  che (come quell’Er di cui narra Platone) hanno avuto un’esperienza di morte e l’hanno potuta raccontare. Si parla, in questi casi, di premorte, di prossimità al morire, convenzionalmente NDE, acronimo di Near Death Experiences. Espressioni incongrue, visto che si tratta di persone clinicamente morte per alcuni minuti, alcune ore, in certi casi addirittura alcuni giorni. Ma l’ambiguità terminologica vorrebbe lasciare uno spiraglio alle spiegazioni razionali. Di fatto, alcuni di questi soggetti sembrano misteriosamente resuscitare. Altri, tornando dal regno dei morti, si trovano inspiegabilmente guariti da patologie gravissime. I medici, che non credono ai miracoli, attribuiscono tali eventi straordinari al ricorrere di minime probabilità statistiche.

Questi casi, un tempo rarissimi, stanno diventando grazie alle moderne tecniche di rianimazione sempre più frequenti. L’aspetto singolare è che alcuni dei soggetti riportati in vita non riemergono da uno stato di assenza mentale (che sembrerebbe ovvio, vista la mancanza di attività cerebrale), ma dicono d’aver vissuto esperienze meravigliose, stati di coscienza straordinari. Di solito ne parlano dopo lunghe reticenze, temendo d’esser presi per pazzi. La ‘scienza’ cerca di darne una spiegazione in termini fisiologici (carenza d’ossigeno, accumulo di anidride carbonica nel sangue, scompigli neuronali) o psicologici (fantasie, immagini che il cervello elaborerebbe in extremis per rimuovere l’idea della morte). Questo è coerente con una neurologia che assimila la mente al sistema nervoso (come se un Corale di Bach stesse nelle corde di budello d’un violino) e con una psicologia che rinnega la psiche, ossia con i dogmi di scienze ostili a ogni prospettiva metafisica.

Tali esorcismi razionalistici hanno qualcosa di assurdo e insieme di maligno. Sembrano ispirati dalla volontà di negare ogni trascendenza, ogni realtà dello spirito, come se evocare Dio o l’anima minacciasse la Weltanschauung bio-meccanicista e la sua trionfale marcia verso il futuro. Sintomi di una follia, che vorrebbe dimostrare e misurare l’essere con strumenti scientifici. V’è però chi cerca di conciliare le NDE con le nuove prospettive della fisica, magari usando “informazione quantistica” invece di termini compromettenti come anima o spirito. Ma anche dietro questa apparente apertura è chiara l’intenzione di rimettere il problema all’onnipotente Dea Ragione.

V’è poi chi relega le testimonianze di premorte – insieme ad avvistamenti Ufo, sedute medianiche, fantasmi e altri fenomeni detti ‘paranormali’ – in una sub-cultura indegna di rientrare negli interessi di una mente colta e razionale. Alcuni anzi sembrano avere come missione nella vita il dimostrare l’inconsistenza o la falsità di tutto ciò che non può addurre ‘prove scientifiche’ o che esce dalle maglie del sedicente ‘metodo scientifico’ (creando di fatto una nuova superstizione).

Sulla scorta della mia premessa, io parto invece dal presupposto che la NDE sia un’esperienza spirituale, come afferma chi l’ha vissuta. Certo è probabile che esistano narrazioni contraffatte, ma le persone coinvolte mi sembrano in genere degne di fede  e sicuramente non parlano di materia estranea ma di qualcosa che hanno in sé (non c’è niente che ci è più nostro della nostra anima, dice Aristotele). Gli scettici diranno che dar peso a questi racconti è una forma d’escapismo, di fuga dalla realtà  (la loro idea di realtà) o un credere ai sogni. Ma può un morto sognare? O non è al contrario la morte un ridestarsi? I protagonisti della NDE affermano proprio questo: il morire induce in loro ex abrupto la sensazione di un risveglio, una consapevolezza più vivida e convincente di ogni altra. Come quando si apron gli occhi al mattino e si sa d’aver dormito, così l’anima, uscendo dal garbuglio delle vicende terrene, capisce che la vita era un sogno.

Mentre i sogni son guazzabugli d’immagini diverse per ciascun dormiente, le NDE presentano una uniformità, una coerenza interna e una vasta serie di concordanze. Non hanno affatto l’aria di allucinazioni prodotte da un soggettivo disordine cerebrale. Sembrano piuttosto il resoconto obiettivo di un viaggio in uno stesso luogo. Raccogliendone i contenuti, si potrebbe organizzare una sorta di scienza tanatologica. Inoltre, a differenza di esperienze prodotte da droghe e da farmaci, la NDE induce quasi sempre nel soggetto una riforma spirituale. Molti riscoprono il valore della preghiera, del meditare, dell’aiutare gli altri. Se ci accostiamo a queste narrazioni senza pregiudizi, potremmo di fatto trovarvi conferme empiriche di un viaggio iniziatico e di una philosophia perennis. E chi non può credervi, la prenda come una ricca allegoria dell’ignoto.

Indistruttibilità dell’essere

La morte è un argomento difficile, specie per una cultura come la nostra, che fa della morte un mero decesso biologico, che spinge a evacuarne il senso, ad alienare l’uomo dal suo morire. Ognuno si pone di fronte alla morte come evento limite e teorico, che non lo riguarda personalmente. Sa razionalmente d’esser mortale, ma intimamente lo nega. La morte è qualcosa che riguarda gli altri. Solo gli altri muoiono – io non sono un altro – io non muoio. Questo rifiuto istintivo toglie valore alla vita stessa, diviene il viatico di un’esistenza banale e dimentica. Ma è in fondo il riflesso, lontano e deformato d’una verità. Perché v’è un altro sillogismo, latente nel profondo d’ogni uomo, che dice: l’essere non può morire – io sono – quindi io non posso morire. Del resto, sarebbe strano essere anime eterne e non saperlo.

Questo io sono è un’evidenza segreta e indimostrabile. Non ci serve la testimonianza di nessuno. Se rientrassimo in noi stessi – nuotando contro la corrente del pensiero dominante – vedremmo che la vita è il tocco dell’essere e che il corpo è solo lo strumento con cui il sé si esprime, un mezzo e insieme un limite che comprime la coscienza entro strutture biologiche. Tutto ciò che esiste occupa uno spazio. Ma non è difficile capire che questa coscienza non è in nessun luogo. E dunque, come dell’anima di cui parla Eraclito, non possiamo trovarne i confini. Tuttavia, la coscienza è sempre associata a organi e funzioni. Quindi, finché dimora in un corpo terreno, può percepire la realtà solo per quel tanto che un cervello umano ne può cogliere. Non è perciò impossibile che, svincolata dai suoi limiti fisici, faccia esperienza di un aldilà, forse attraverso gli organi di un corpo più sottile.

Qualcuno ha sottolineato le coincidenze delle NDE col Bardo Thodol, Libro Tibetano dei morti, dove la casistica del dopo-morte è ampiamente trattata. Ma anche nella storia occidentale, fin dall’antichità, abbiamo testimonianze di mistici che escono dal proprio corpo (“l’anima, spogliatasi della carne, cominciò a contemplare il suo corpo che giaceva immoto sul letto”, scrive Alpais di Cudot, mistica del XII secolo) e comunicano con esseri ultraterreni, vedono cose sorprendenti, attingono a una conoscenza divina. Rapiti in cielo, assorbiti in una luce e in un amore ineffabili. Come se il mistico anticipasse, nella sua estasi, l’esperienza della morte.

Sappiamo che da sempre la dimensione mistica si scontra con l’impotenza delle parole. Così, anche chi ha una NDE incontra difficoltà nel tradurla in concetti umani. Si svolge in un regno dove non valgono più le nostre leggi di tempo e di spazio né i nostri automatismi logici, dove l’intelligenza si allarga, i sensi sembrano acuirsi e intensificarsi. Così, alcuni narrano di indicibili policromie e iridescenze, profumi inebrianti, musiche celestiali, giardini e paesaggi meravigliosi, sorta di Campi Elisi. Tutto si direbbe circonfuso di un’aura primaverile, di dolci brezze. La coscienza è colpita da una bellezza oltremondana che appaga il suo senso estetico più pienamente di ogni bellezza terrena. Ogni cosa sembra emanare un fluido risanante e riparatore. Il buono e il bello si fondono in uno stato di grazia. Anche la sete di conoscenza sembra abbeverarsi in solenni edifici simili a scuole o biblioteche in cui è raccolta ogni forma di scibile. Alcuni  contemplano l’universo, con le sue stelle, le sue galassie, le sue strutture matematiche, ne intuiscono la fonte soprannaturale. A volte hanno premonizioni o rivelazioni sul futuro, visitano epoche remote, vedono antiche civiltà (“l’anima mia si eleva fino all’altezza del firmamento, in aure mutevoli e diverse, e si estende a popolazioni molteplici, in spazi e paesi amplissimi e lontani da me” scrive Hildegard).

La stessa sfera affettiva pare dilatarsi. L’anima non solo ritrova coloro che ha amato (“è impossibile che la morte cancelli dal cuore quello che l’amore vi ha impresso” diceva Angela da Foligno) ma fa anche conoscenza di esseri luminosi – sorta di tutori e maestri che qualcuno definisce angeli o spiriti guida – che la accolgono e la accompagnano, figure sprigionanti amore e comprensione. Fin qui, tutto coincide con ciò che diremmo ‘paradisiaco’. Più rare, ma non meno significative, sono le visioni di ripugnanti figure demoniache, laghi di fuoco, abissi spaventosi in cui brulicano anime cieche e straziate, o altre situazioni ‘infernali’.

È facile supporre che queste descrizioni riflettano gli sfondi culturali, religiosi e immaginativi dei soggetti coinvolti. Se vediamo qualcosa di anomalo o di incomprensibile siamo infatti inclini a ricondurlo entro modelli a noi noti. Come potrebbe un uomo primitivo che vedesse un aereo o un computer descriverli ai suoi simili? Il confine tra un ‘fatto obiettivo’ e la sua ‘interpretazione’ è labile. Questa non è un’obiezione alla sincerità di tali esperienze. È però plausibile che tali rappresentazioni siano trasposizioni su un piano corporeo di realtà immateriali e forse intraducibili, e non vadano prese rigidamente alla lettera.

Un identico cielo può apparire diverso a molteplici occhi. Come dice Dionigi, “è impossibile che il raggio divino brilli per noi altrimenti che avvolto da molteplici veli”. Non sappiamo quali di questi veli la morte sollevi e se altri ne cali su di noi. E la memoria, una volta rientrata nella coscienza fisica e rimessi i suoi vecchi abiti, potrebbe anche alterare involontariamente i dati della sua esperienza nell’aldilà. Tuttavia, questi argomenti han poco peso di fronte alla massiccia sistematicità dei racconti e alle loro regolari consonanze.

Invariabili del morire

Volendo tracciare un canovaccio delle NDE e dei suoi elementi costanti, occorre senz’altro partire dall’uscita dell’io dal corpo fisico al momento della morte (“come una mano si sfila dal guanto” dice la Bhagavad Gita). L’anima – o ‘corpo eterico’ – si ritrova a fluttuare nell’aria, vede e ode le altre persone, percepisce i loro pensieri, le loro emozioni, cerca di comunicare con loro, ma esse non vedono e non sentono lei. Scopre di possedere una forma eterea, che può attraversare i solidi, volare, muoversi nello spazio alla velocità del pensiero. Questa separazione dello psichico dal fisico sembra confermare il sostanziale dualismo sostenuto anche da alcuni studiosi del cervello, cioè l’idea che corpo e mente sono entità distinte, benché connesse, e che la coscienza non è materia neurologica.

Ricorrente è anche l’esperienza di un tunnel attraverso il quale l’anima pare scivolare rapidamente dalla dimensione terrena a quella ultraterrena e al fondo del quale brilla una luce. Secondo gli scettici, il tunnel sarebbe una reviviscenza postuma dell’utero materno da cui si esce al momento della nascita, o effetto di una contrazione pupillare. La luce lontana dipenderebbe invece dall’illuminazione dell’ambiente, lampade, riflessi ecc. Direi che possiamo tranquillamente ignorare simili farfugliamenti (una volta esisteva una scienza ermetica, oggi purtroppo ve n’è una emetica).

Alcuni, non molti, vengono attirati in una zona grigia, desolante e angosciosa, in cui vedono frotte di ombre trascinarsi in un’esistenza larvale, incombere come immateriali vampiri sui corpi viventi, assetate ancora di esperienze terrene, in preda a parossismi di disperazione e di collera per l’incapacità di godere di quei piaceri di cui la morte li ha privati. Succede talvolta che tali spettri sfoghino la loro impotenza maligna sul nuovo arrivato o cerchino di aggregarlo alla loro compagnia di sventura. Risolutivo, in questi casi, sembra essere il potere della preghiera o l’intervento di entità benigne, forti e protettive, che disperdono i fantasmi e conducono l’anima nella sua vera dimora.

Un leit-motiv frequente, e assai più rasserenante, è il senso di ritorno a casa provocato dal morire. “I fiumi ritornano al luogo da dove sono nati”. Così, l’anima, alla morte del corpo, par ritrovare il suo habitat naturale, rientrare in patria dopo un esilio più o meno lungo. Alcuni, pur restando consapevoli, godono di uno sperdimento cullante, assoluta pace vuota di immagini. Altri si sentono beatamente sospesi in una tenebra divina (“vidi Dio in una tenebra … perché egli è un bene più grande di quanto si possa pensare o capire” dice ancora Angela da Foligno) o godono di visioni beatifiche. Ognuno secondo le sue possibilità attinge qualcosa di eterno e infinito.

È una sensazione di totale benessere e libertà, tanto che nessuno vorrebbe più regredire alla claustrofobica dimensione terrena. Anche il ricordo dei figli, del coniuge, delle persone più care, sembra scivolare nella dimenticanza, senza far nascere alcuna nostalgia. Rientrare nel corpo non è quasi mai una scelta spontanea, ma l’adempimento di un dovere, obbedienza a un’autorità tenera e inflessibile insieme. Tutti descrivono la rianimazione, l’esser trascinati indietro, come un’esperienza penosa. Questo però non implica una svalutazione gnostica della fisicità. Il corpo non è visto come prigione dell’anima. Non è neppure il “frate asino”, da bastonare e mortificare. Appare piuttosto lo strumento di cui l’anima dispone per compiere il suo viaggio terreno, sorta di interfaccia tra lo spirito e il mondo, riflesso psicosomatico di entrambi.

Bisognerà dunque vedere cosa l’anima ha fatto di questo strumento, quali suoni ne ha tratto. E difatti la maggioranza delle NDE riferisce di una sorta di anamnesi rituale, prammatico esame della vita passata, cui bisogna sottoporsi par quasi per burocratica necessità, come nel Libro egiziano dei morti si pesa il cuore del defunto. L’anima rivede fatti, pensieri, sentimenti spesso completamente dimenticati, e diviene consapevole delle loro conseguenze. Ancor più, prova in sé quello che i suoi comportamenti hanno causato in altre creature viventi. Quindi, se ha fatto del male a qualcuno ne sentirà la sofferenza, anzi la avvertirà in forma immensamente amplificata, perché è nuda, spogliata di ogni armatura protettiva. Per alcuni è un momento di grande sofferenza, di interiori lacerazioni.

Questo giudizio postumo che l’anima dà di sé stessa pone una questione cruciale. Noi pensiamo che l’universo sia retto da leggi fisiche. Qui invece ci vien detto che non solo la nostra vita ma lo svolgersi dell’intera vicenda cosmica è regolata da un’etica trascendente, e da un sistema retributivo – lo si chiami karma, contrappasso, giudizio divino – che ripaga ognuno con la sua stessa moneta. Ogni nostro minimo atto ci ritorna come un’eco, moltiplicato. Saremmo quindi particelle di un universo morale, alla cui base non v’è una rotazione di protoni e di elettroni ma una fisica del bene e del male.

Una questione controversa riguarda la metempsicosi, concetto naturale per una mente orientale ma che mal si concilia coi dogmi della nostra educazione religiosa. Durante la NDE alcuni hanno visioni delle loro vite passate, anche remote, e viene loro mostrato come l’anima debba passare attraverso varie nascite, morti e rinascite, in un incessante processo di apprendimento e purificazione. Il tunnel che si attraversa dopo la morte è detto esser lo stesso che si ripercorrerà in senso contrario per rientrare in un utero materno. E pare sia l’anima stessa a decidere, prima di reincarnarsi, quale sarà la sua missione, il suo compito nella vita, a definire una sorta di progetto esistenziale che spesso verrà drammaticamente dimenticato e tradito.

La reincarnazione è una dottrina basilare in molte culture, benché nelle stesse filosofie orientali  l’idea di una continuità personale tra vita e vita presenti aspetti controversi. Questa difficoltà è ovviamente inevitabile in quelle dottrine che negano l’esistenza di un sé personale, o atman. La NDE sembra tuttavia avvalorare un concetto popolare di trasmigrazione, dimostrando come l’anima sia un’entità distinta dal corpo fisico, dal quale può sia uscire che entrare. È dunque plausibile che, a tempo debito, l’anima si possa introdurre in un nuovo embrione e rinascere. Secondo le antiche teorie buddhiste, è l’atto sessuale che attira e trascina l’anima nel grembo femminile. Francamente, non so come questa idea si possa armonizzare con lo sviluppo delle nuove tecnologie fecondative, con feti prodotti in laboratorio, magari congelati e impiantati artificialmente in un utero (che forse diventerà meccanico).

Accettare la reincarnazione significa dissolvere il nostro senso di una costante identità corporea (o forse dovremmo definirlo il nostro miraggio, dato che le cellule del corpo muoiono e rinascono in continuazione). Potremmo però ammettere la continuità di un “corpo spirituale”, per usare l’espressione paolina. L’ipotesi di un progetto vitale che l’anima elaborerebbe prima di riprendere forme fisiche, assommato all’influsso delle sue esistenze pregresse, con il loro retaggio karmico, spiegherebbe ciò che comunemente chiamiamo ‘destino’ o casualità. Non saremmo costretti ad attribuire disuguaglianze di vario tipo all’arbitrio di una natura ingiusta o di una cieca fortuna. Ma forse è meglio dubitarne. Chissà che il dubbio non sia una regola del gioco.

La luce vivificante

Il ogni caso, cuore delle NDE mi pare l’incontro con la Luce, da tutti descritto come esperienza di immersione beatifica in un amore incondizionato (“son così posta e sommersa nella fonte del suo immenso amore”, dice Caterina da Genova delle sue estasi). Questo splendore caldo, avvolgente, assume a volte forma umana, a volte quella di globo o caligine, nube lucente. In certi casi ha natura particolare, come nel caso dei cosiddetti angeli, in altri è un oceano luminoso, un Sole spirituale. Ogni cosa, dall’atomo alla stella, ogni realtà fisica o spirituale, sembra una sua emanazione. Si ha qui l’impressione di toccare il ne plus ultra di ogni possibile conoscenza.

Qual è la natura propria di questa luce? Una volta ancora si è costretti a parlar per metafore e approssimazioni. È “abisso della chiarità” nel quale l’anima è inghiottita, per usare le parole dello Pseudo-Agostino. Per Dionigi è “raggio sovrannaturale”. Non è una luce fisica, ci vien detto. È viva, pulsante, intelligente, e non ha altra fonte che sé stessa. “La luce è una sola, e quella luce è coscienza … ed è la vera natura di Shiva. Quella luce nel suo splendore non dipende da null’altro che da sé stessa”, scrive Abhinavagupta, filosofo tantrico del X secolo.

La dialettica tra la Luce e lo sguardo varia nelle NDE secondo i casi. La luminosità è ora sentita come una realtà esterna e indipendente dal soggetto, ora come un’effusione della sua interiorità. Nel primo caso permane una separazione, nel secondo il soggetto confluisce nella luce, in una crasi ontologica. Alcuni sembrerebbero convalidare la formula di Meister Eckhart, secondo cui “l‘occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede”. Vedere Dio ed essere Dio coincidono. Altri ricordano il Prologo di Giovanni: “la luce risplende nelle tenebre”. La tenebra è complemento della luce come l’ignoranza lo è della sapienza, è infatti il buio a permettere che la luce brilli. Questa necessaria oscurità è secondo me la superficie opaca dell’io, che riceve la luce e ne viene illuminata. Questa rifrazione produce un’espansione della coscienza individuale, la rischiara. L’io, tuttavia, è libero di non accogliere la luce, di chiudersi nella sua natura oscura, infera.

Un altro aspetto essenziale è l’identità tra Luce e verità. Essa è quindi una via di conoscenza e di perfezione intellettuale. Ma è anche forza da cui emana spontaneamente e incessantemente il tutto, matrice e cibo della vita. Alcuni identificano questo bagliore immateriale col Cristo, col mistero trinitario, col Logos. Ma, più che farne argomento metafisico, coloro che contemplano la Luce la vivono in sé come esperienza di amore assoluto, un abbraccio che li colma di ineffabile pace e felicità. Direbbe Agostino che “esperimentano la dolcezza delle cose divine”.

Presi nell’amplesso spirituale, vedono che la vita non nasce da una serie di casuali reazioni fisico-chimiche ma da questo amore sorgivo, il cui fine è la beatitudine. “Vi dico queste cose perché la vostra gioia sia completa”. Ma non può esservi gioia dove non c’è amore, né gioia completa dove non vi sia un amore perfetto. Dio è Colui che ti cerca e che vuol essere amato. Perciò Gesù incalza Pietro: “tu mi ami?”, “tu mi ami?”. Il verbo che usa, agapáō, è la traduzione greca di un ebraico‘ahàv, dall’aramaico chàv che significa “accendersi, prendere fuoco”. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco” dice Cristo nel vangelo di Tommaso. L’intero cosmo, immensa sfera pulsante di indistruttibile coscienza, appare dunque il fiammeggiare di un impulso creativo in cui conoscenza e amore sono inseparabili, come luce e calore nel fuoco.

Si può pensare che identificare la Luce con Dio, con tutto ciò che questo termine comporta, soddisfi un preconcetto religioso. Anche ‘amore’ è un termine ambiguo, che evoca un ampio, eterogeneo spettro di associazioni. Potremmo forse tradurlo con ‘compassione’ o ‘empatia’, emarginando quegli aspetti erotici e sessuali che non sempre implicano cura e affetto dell’altro.  È ancora una volta un problema di parole. In realtà, la luce rappresenta un Mistero incomunicabile, “al di là dell’essere, del divino, del bene”, citando Dionigi. La si potrebbe credere nella sua essenza incomprensibile, e pensare che si riveli ad alcuni come Persona, ad altri come Idea, Forza o Vuoto fecondo, secondo le loro inclinazioni soggettive.

Ma in sostanza, indipendentemente dal fatto che prima della NDE fosse ateo, agnostico o bigotto, ognuno sperimenta in Sua presenza un puro, illimitato, indefettibile Amore. In Lei non v’è né giudizio né condanna. Non si acciglia di fronte alle debolezze umane ma le comprende, a volte ne sorride. Questo Oltre-divino che tutto perdona, tutto ama, anche i peggiori criminali, può deludere chi crede in un Dio maestoso e terribile, Dio degli eserciti, vendicativo e giustiziere. Inoltre, come conciliare tale infinita misericordia con le moltitudini di anime che vediamo scontare nell’aldilà pene spaventose? Alcuni credono che siano tormentate dalle loro stesse passioni, condannate dal loro rifiuto dell’amore divino. Del resto, se si ammette che certe patologie del corpo fisico, anche gravi, dolorose e mortali, abbiano origine in inconsci conflitti, a maggior ragione è concepibile che coscienze incorporee si auto-torturino, ostinate nel male, recalcitranti davanti alla medicina del perdono.

Carattere epifanico della morte

Dice Hildegard di Bingen che la visione mistica non insegna a parlar da filosofi. Le parole ispirate non sono umane, ma somiglianti “a una fiamma che oscilla”. Qualcuno cerca nelle NDE risposte teologiche o la conferma di posizioni confessionali o dogmatiche. Volendo vi potremmo trovare un’escatologia comune, un’apologetica dell’amore come destino ultimo dell’universo. Ma in una prospettiva ultraterrena pare non esistano religioni migliori di altre. Vengono considerate vie per avvicinarsi a Dio, alla Verità. Hanno valore strumentale, come la zattera usata per traghettarsi all’altra riva e poi abbandonata, secondo la nota metafora buddhista. Questo può certo dispiacere a chi trova nell’essere cristiano, induista o maomettano motivo di distinzione e superiorità.

Le NDE presentano una sorta di trascendente unità delle religioni, distillazione e semplificazione delle varie dottrine. Il loro messaggio ce ne dà una sintesi, un promemoria: siamo esseri liberi, spirituali ed eterni, la cui essenza è amore. Non siamo macchine o prodotti di un’evoluzione senz’anima; ogni forma secolare deve intonarsi alla volontà divina; scopo della vita non è sopravvivere, fare carriera o arricchirsi ma coltivare compassione e saggezza. E la morte non esiste. Cose già dette, che già sapevamo, ma che il mondo ci fa dimenticare.

Perciò i casi di NDE sembrano costituire un’aurorale epifania dello spirito. Invitano l’uomo a uscire dal suo soffocante immanentismo e riaprire un dialogo vivente con Dio, con l’oltremondano. Son parte di quei segni per ora minimi, seminali, quasi inavvertibili, dell’avvicinarsi di un’alba che dissiperà la tenebra del vecchio mondo. L’uomo di oggi ha bisogno d’una nuova rivelazione, di una metanoia che lo salvi dalle sue febbri vaneggianti, dalla totale alienazione e dall’autodistruzione. Lo spirito cerca dunque di parlargli ancora, di ricordargli antiche verità, ma la nostra epoca non favorisce certo il nascere di maestri e di profeti. Quindi si serve di morti, persone portate di là, istruite e rimandate di qua come stupefatti protagonisti di una abduction metafisica.

È forse un tentativo di curare le nostre follie. Forse ci vuol dire che il transumano verso cui tendere non è fatto di mostri bio-meccanici, dei deliri del Metaverso o della polisessualità, ma è un umano che realizza la sua interiore trascendenza. Insegnare che in ognuno di noi c’è un valore che tende all’infinito, che vuol esprimersi in forme sempre più compiute. Perciò non addita nel morire una fine ma uno sconfinato procedere. Non v’è alcun “essere per la morte”. Nulla può morire, ovvero, solo il nulla può cessare d’esistere, come svanisce un miraggio. Nascita e morte sono solo il battere e il levare di una vibrazione ritmica, sistole e diastole di un incessante flusso vitale. Un ampliarsi e un rinnovarsi inesauribile della visione, una tensione fra l’abisso luminoso che è in noi e le zone buie della nostra immanenza, attrito da cui sprizza ogni fiamma creativa. Ora l’essere si restringe in una forma corporea, si fa nervi e sangue, ora si dilata nel respiro dell’anima liberata dalla carne. È un’alternanza di contrazioni ed espansioni, ruota samsarica che attende forse un definitivo nirvana, quella dissoluzione d’ogni vincolo che rende la meditazione della morte meditazione della libertà.

Esiste dunque un’inscindibile solidarietà tra cose ultime e cose prime. E questo legame si manifesta nel pensiero rammemorante dell’essere. L’uomo non può chiudersi in un orizzonte finito senza perdere la sua umanità. Si è detto che la civiltà contemporanea congiura contro il silenzio e il raccoglimento. È vero, ma io direi anche che tesse trame oscure a danno della memoria. Non intendo semplicemente la memoria storica dei fatti, ma il ricordo di sé. La società produce in noi un’esiziale amnesia dell’essere, impigliandoci in una rete di apparenze, di realtà esteriori. Allora, solo morendo puoi ricordare. Il memento mori diventa un memento vivere. Non perché un retorico sensus finis ci permetta di godere più voluttuosamente dei piaceri della vita. Non v’è alcun bisogno di stimolare un simile edonismo. È piuttosto un richiamo alla serietà della vita: ricordati che sei eterno e che devi vivere secondo la dignità del tuo spirito.

L’uomo contemporaneo, tecnologico, è condannato a un vivere nella dimenticanza, a un’esistere la cui memoria è delegata ad algoritmi, a processori elettronici o a meccaniche informazioni neuronali. Ma i ricordi non sono semplici archivi, sono pulsazioni di una coscienza vivente, messaggeri di immortalità. L’anima accoglie in sé fatti mortali e li impregna di una sostanza ideale, immune al morire. Così, tutto – volti, affetti, dolori –  sopravvive in lei. Non è solo flusso di rievocazioni coscienti, è il formarsi di un centro, di un cuore che è continuità personale di memorie e di attese. “Io sono stato – io sono – io sarò”, certezza silenziosa che si incarna in Questo, ma affonda le sue radici in Quello da cui eternamente rinasce.

 

Medio Oriente

Condividi su:

di Salvo Ardizzone

Fonte: Italicum

Intervista a Salvo Ardizzone, autore del libro “Medio Oriente”, Arianna Editrice 2021, a cura di Luigi Tedeschi

D. 1) L’epoca dei regimi del socialismo arabo è ormai tramontata. Furono regimi autocratici che, con tutti i loro fallimenti, le loro conflittualità e le loro contraddizioni evidenti, emersero da movimenti che si dimostrarono comunque determinanti nella lotta per l’indipendenza dei popoli arabi e conferirono una identità politico – culturale ai nuovi stati sorti dalla decolonizzazione. Contribuirono inoltre alla emancipazione e alla modernizzazione di popoli già emarginati dalla storia. Al crollo dei regimi autocratici, hanno fatto seguito solo il caos politico generalizzato e conflitti – etnico religiosi senza sbocchi. Con la fine del socialismo arabo, non è scomparso un modello di riferimento, senza alcuna prospettiva di nuovi equilibri geopolitici nell’area mediorientale e nordafricana?

R. I movimenti che si intestarono il processo di decolonizzazione, Baath, nasserismo, lo stesso Fln algerino, seppero liquidare le dominazioni coloniali in quanto esse erano anacronistici fenomeni antistorici, ma nessuno di essi riuscì (né, in realtà, ci provò seriamente) a costruire sistemi politici capaci d’interpretare le aspirazioni delle popolazioni musulmane che pur, nelle fasi iniziali, tributarono a essi un forte consenso, e si evolsero tutti in regimi duri, alcuni durissimi.

Le identità politico – culturali che conferirono ai nuovi stati furono spesso distanti da quelle autenticamente espresse dai popoli che ci vivevano, insomma, sovrastrutture velleitarie; basta far cenno alla pretesa del Baath, che rinnegava i singoli stati definiti regioni, di riconoscersi in un’unica nazione araba, o i velleitari tentativi di Nasser di “unioni a freddo”, vedi la R.A.U. con la Siria (degli esperimenti estemporanei di Gheddafi è inutile parlare).

La ragione prima di questa distonia fu che le leadership di quei movimenti provenivano da ambienti intellettuali o militari che si erano formati in Occidente, imbevendosi di dottrine positiviste che, seppur filtrate da una certa elaborazione politica, finivano per suonare ostiche o irricevibili al sentire profondo delle masse. Per cui, più che autentici interpreti dei propri popoli, finivano per essere pur sempre emanazione della cultura politica occidentale. Lo stesso Nasser riscosse un consenso plebiscitario grazie a posizioni populiste, impregnate da un nazionalismo panarabo eterodosso, ma ebbe la sorte di morire prima che il completo fallimento del suo modello (che di fallimenti ne aveva già collezionati tanti) sbriciolasse l’idolo che rappresentava per le masse.

Il socialismo arabo non è dunque finito, ma ha semplicemente fallito in quanto, pur avendo dinanzi masse più che disponibili a un radicale cambiamento, metteva in campo (quando lo faceva) dottrine non in linea con i paesi presso cui si è sviluppato, con leadership avulse dal sentire delle masse (di cui non si curavano più di tanto, anzi, disprezzavano i valori profondi espressi della gente e, quando li assecondavano, lo facevano per raccogliere consenso). In definitiva, i regimi forti che ha originato avevano lo scopo primario di mantenere al potere oligarchie e, se un certo sviluppo hanno originato, è stato un modo di comprare l’appoggio di taluni ceti assai più che mirare a una crescita armonica delle società.

È poi da sottolineare che è stato l’Occidente (e/o i suoi alleati arabi) a segnare la fine di quelle esperienze, con attacchi diretti (vedi Guerre del Golfo) o indiretti (vedi varie “primavere”). Quando quei regimi sono crollati, hanno lasciato dietro di sé il nulla; il caos che ne è seguito è stato conseguenza diretta della loro natura: oligarchie che avevano occupato il potere, ponendo le società sotto una cappa. Quanto poi ai conflitti che ne sono conseguiti, non sono stati conflitti etnici, malgrado tensioni si fossero accumulate, meno che mai religiosi, ma indotti da precisi disegni di destabilizzazione che hanno fatto leva sulle linee di faglia di quelle società per sgretolarle.

A tal proposito, nel mio ultimo libro (Medio Oriente. Dall’egemonia Usa alla Resistenza Islamica) dedico diverse pagine alle Dottrine Bernard Lewis e Yinon, con le loro teorie di scomposizione dello scenario mediorientale, fatte proprie da think-tank e decisori politici statunitensi e israeliani, e alle dinamiche distruttive che sono state sviluppate.

Che poi quei regimi potessero essere un modello di riferimento personalmente non direi, erano regimi che non esito a definire iniqui; riferimento lo erano semmai per le potenze occidentali, che li hanno giostrati a seconda dei propri interessi, Usa in testa.

Quando potranno sorgere nuovi equilibri? Dall’osservazione dei fatti, è mia convinzione che nel MENA sia in corso da molto tempo uno scontro fra i vecchi assetti, che intendono mantenere il controllo sulla regione, e i nuovi, che combattono per liberarsi. In altre parole, una lotta fra oppressori e oppressi, fra il Vecchio e il Nuovo Medio Oriente che vuole emergere. È questo il filo rosso che lega e spiega gli eventi.

Alla luce di ciò, i nuovi equilibri cominciano già a intravedersi, in alcune vaste aree sono ormai delineati, ovvero dove l’antico sistema oppressivo è ormai in crisi irreversibile e combatte le ultime battaglie prima di prendere atto della sconfitta (come sta avvenendo in Iraq, Yemen e nello stesso Libano, ma anche altrove).

D. 2) L’Islam ha costituito un valore identitario di coesione e di riscatto politico – culturale per i popoli arabo – islamici. L’Islam ha rappresentato un valore spirituale universale unificante, per popoli diversi suddivisi in stati artificialmente creati in base alle spartizioni coloniali delle potenze europee dominanti nei secoli scorsi. L’Islam dovrebbe dunque essere un elemento identitario di contrapposizione al dominio imperialista dell’Occidente americano. Tuttavia, date le conflittualità interconfessionali esistenti e le nuove eresie sanguinarie islamiche diffusesi negli ultimi decenni, l’Islam è divenuto un fattore di destabilizzazione dell’area mediorientale e nordafricana. Anzi, i fanatismi diffusi hanno fornito una sovrastruttura ideologica necessaria per le guerre d’aggressione condotte dagli imperialismi vecchi e nuovi. L’Islam quindi, da valore spirituale unificante, non si è trasformato in uno strumento della “strategia del caos” e di dissoluzione degli stati?

R. Prima di risponderle, devo necessariamente ribattere ad alcune affermazioni che precedono la sua domanda: nell’Islam non ci sono sostanziali conflittualità interconfessionali e le eresie sviluppatesi negli ultimi decenni non hanno a che vedere con l’Islam più di quanto Michele Greco, con le sue improbabili citazioni dei Vangeli nei processi, ne aveva con il Cattolicesimo.

L’Islam non è un fattore destabilizzante del MENA né, tantomeno, è uno strumento della “strategia del caos”, semmai è stato vittima di una gigantesca operazione di disinformazione finalizzata alla costruzione di un “Nemico”, che giustificasse gli interventi di destabilizzazione tesi a realizzare gli interessi egemonici degli Usa e dei suoi alleati.

Andiamo con ordine: negli anni Novanta del secolo scorso, fra i think-tank “neocon” americani si affermarono le tesi elaborate anni prima da Bernard Lewis, uno studioso britannico ex collaboratore dei Servizi, e ciò in assonanza con quanto già formulato dal giornalista Odet Yinon in Israele.

Come ho già accennato, secondo tali dottrine Usa e Israele avrebbero dovuto decomporre gli stati mediorientali, facendo leva con qualsiasi mezzo sui loro punti critici, al fine di destrutturare l’area e ricomporla secondo i loro interessi o, in alternativa, determinando quel “caos creativo” (copyright by Hillary Clinton) che inibisse quelle aree a chi era giudicato un avversario (con ciò facendo espresso riferimento all’Iran e, soprattutto, alla proiezione della Rivoluzione Islamica).

Terzo pilastro del progetto era l’Arabia Saudita, giudicata essenziale per la creazione, il controllo e l’indirizzo dei gruppi che avrebbero dovuto destabilizzare la regione, replicando il ruolo interpretato con successo al tempo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Un simile progetto avrebbe dato il via a un ciclo di guerre ma, se centri di potere e complessi militari-industriali erano entusiasti di una tale prospettiva, l’opinione pubblica Usa non ne era per nulla interessata; occorreva “qualcosa” che la sintonizzasse su quel programma e giustificasse una politica d’aggressione dinanzi al mondo. In altre parole, occorreva un “Nemico” contro cui gli Usa (e i loro alleati) potessero dichiarare una guerra permanente con il consenso generale.

Il “qualcosa” accadde l’11 settembre e il “Nemico” esisteva già da anni, perché creato dalle Intelligence americana e saudita al tempo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e, da allora, mai perso di vista. Da quel momento gli Usa scesero in guerra contro il “Terrore”, ovvero contro chiunque l’Amministrazione del momento ritenesse conveniente.

La riuscita di una tale strategia è stata resa possibile da una colossale operazione di “framing” operata dal sistema mediatico americano e avallata dai media dell’intero Occidente; in “Medio Oriente” dedico più pagine a spiegare come essi si prestarono a una sistematica narrazione dei fatti distorta, lacunosa e faziosa, realizzando una gigantesca disinformazione collettiva.

Fulcro di questa operazione è stata una campagna contro l’Islam: descrivere quella religione e quella cultura nel modo più distorto, accreditando di esse l’immagine oscurantista e fanatica del wahabismo, vicino ai gruppi terroristici nati grazie alle manovre saudite e gli aiuti Usa, è servito a creare il “Nemico” e giustificare gli interventi militari.

A conclusione di quanto detto, ribadisco che il sedicente “scontro di civiltà” sia strumentale, evocato per motivare un vasto programma d’aggressione, come pure, assimilare all’Islam alle farneticazioni dei takfiri (così vengono chiamati dai veri islamici), o ritenerli parte di esso, sia una mistificazione fuorviante. Affermare dunque che siano stati i fanatismi in qualche modo presenti nell’Islam a fornire il pretesto per le guerre d’aggressione è invertire i ruoli, avallando la narrazione bugiarda del mainstream.

Allo stesso modo, insistere nella convinzione che sia in corso uno scontro interconfessionale fra sunniti e sciiti è falso, il nocciolo della questione è politico: l’Iran è la potenza guida della Rivoluzione Islamica che guida la Resistenza contro il sistema di potere che ha oppresso e opprime quella regione; le petromonarchie del Golfo e gli altri potentati locali fanno parte di quel sistema e per questo si oppongono con ogni mezzo al cambiamento. È tutto qui il discorso e il fatto che taluni stati siano a maggioranza sciita e altri sunnita non è affatto il cuore del problema.

Alla luce di quanto detto, spero sia chiaro che l’Islam non sia in alcun modo uno strumento della “strategia del caos”, ma sia stato così dipinto dall’interessata vulgata occidentale. Piuttosto, per i suoi principi correttamente intesi, è invece la fonte di un progetto di liberazione rivolto a tutti gli oppressi; sciiti, sunniti, anche cristiani, non fa differenza.

D. 3) Con la nascita della Repubblica Islamica si è affermato un nuovo sistema politico di natura identitaria islamica e antimperialista nei confronti dell’Occidente. La rivoluzione iraniana fu concepita da Khomeyni come un evento che avrebbe potuto estendersi a tutto il mondo islamico. tuttavia tale rivoluzione rimase circoscritta all’Iran. Anzi, l’Iran fu aggredito e combattuto da altri stati islamici. Si è inoltre rivelata insanabile la frattura interna all’Islam fra sciiti e sunniti, tuttora coinvolti in uno stato di guerra permanente. Quali sono le cause che hanno impedito al modello iraniano di espandersi e universalizzarsi?

R. La Rivoluzione Islamica non è rimasta affatto circoscritta all’Iran, al contrario, e la continua espansione dell’Asse della Resistenza è lì a dimostrarlo. In Libano, Iraq, Yemen, Palestina, Bahrein, e ora anche in Afghanistan e persino in Pakistan, in tante parti del mondo si sta radicando, anche in Nigeria, dove ne sentiremo parlare presto. Da questa proiezione, che minaccia sistemi di dominio e antiche egemonie, nascono le tante guerre scatenate prima per soffocarla (vedi la Guerra Imposta provocata da Saddam Hussein con l’appoggio degli stati del Golfo e dell’Occidente) e poi per frenarla (vedi i lunghi conflitti in Siria, Iraq, Yemen, Libano e Palestina).

In ormai cinquant’anni, malgrado repressioni selvagge, guerre, aggressioni d’ogni tipo, sanzioni, non è mai capitato che movimenti ispirati alla Rivoluzione Islamica siano stati sradicati, al contrario, essi si sono sempre sviluppati, accrescendo il radicamento nelle rispettive società. Ed è la Storia che lo afferma, non è un’opinione. È per questa riconosciuta capacità che la Dottrina della Resistenza è considerata un pericolo esiziale sia dalle tante monarchie assolute della regione, che in essa vedono la fine dei propri privilegi, sia dalle potenze che traggono utili (enormi) da questo stato di cose (Usa in primis).

Come ho già detto, se l’Iran è stato aggredito e combattuto da altri stati islamici, non è accaduto certo in nome della religione, ma a causa della dottrina di liberazione che da esso si proiettava; una dottrina che era una minaccia mortale per i poteri assoluti (e le ricchezze) d’un pugno di famiglie regnanti.

Per questo, lo ripeto ancora, è strumentale parlare di frattura interna all’Islam fra sunniti e sciiti, una frattura evocata per coprire lo scontro fra chi vuole mantenere un iniquo sistema di sfruttamento sulla regione e chi lotta per liberarsi da esso. E ribadisco che in questa lotta di liberazione c’è posto per tutti: sunniti, sciiti, cristiani, drusi, curdi, yazidi e ogni altra etnia o confessione, tutte largamente rappresentate nelle formazioni della Resistenza Islamica. Malgrado tutti gli sforzi di quello che in “Medio Oriente”, con un neologismo, ho chiamato per semplicità Fronte dell’oppressione, non c’è stato modo d’impedire alla Rivoluzione Islamica di espandersi.

Ancora una notazione: quando lei evoca un “modello iraniano” bisogna intendersi; è un errore pensare che la Rivoluzione Islamica sia un modello rigido e la sua applicazione uguale in ogni paese in cui si radichi; per sua costituzione essa si adatta alle condizioni culturali, storiche, sociali ed economiche di ogni popolo, per cui, dagli stessi principi, ispirati ai medesimi valori, deriveranno modelli diversi di Società della Resistenza. In poche parole, il modello iraniano non sarà replicato in Yemen, come quello libanese non lo sarà in Iraq, ma ognuno ne avrà uno proprio.

D. 4) L’area geopolitica mediorientale dal secondo dopoguerra in poi, è sempre stata un teatro di scontro tra le grandi potenze mondiali. Gli USA hanno voluto sostituirsi agli imperi coloniali europei nel dominio geopolitico dell’area. Dopo il crollo dell’URSS, l’unilateralismo americano, con il sostegno di Israele, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, ha messo in atto la “strategia del caos” con la destabilizzazione interna e l’aggressione degli “stati canaglia”. Alla strategia imperialistica americana, non hanno però fatto riscontro i successi politici programmati, in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia. La supremazia militare ed economica americana non si è tradotta in primato geopolitico globale. Gli americani non hanno quindi realizzato un dominio senza egemonia? Gli Usa non sono dunque una potenza imperialistica congenitamente incapace di divenire un impero?

R. Gli Usa sono divenuti egemoni di metà del mondo quando l’Europa si suicidò e l’URSS emerse come loro antagonista; con l’implosione del blocco sovietico gli Stati Uniti rimasero l’unica superpotenza e per qualche tempo s’illusero che la Storia fosse finita, consacrandoli egemoni del mondo. Ma, malgrado i tanti decisori politici che l’hanno creduto, rischiando di auto avverare quella strampalata teoria, la Storia non è finita affatto e lo dimostra l’emergere di un multipolarismo che è nei fatti prima ancora che nelle teorie geopolitiche, e che ha posto crescenti limitazioni al potere a Stelle e Strisce.

Tuttavia, se un dominio globale stringente è nei fatti precluso agli Usa (neanche loro hanno i mezzi e, meno che mai, le capacità per mantenerlo), ritengo necessario soffermarci sulla natura dell’egemonia americana, che pur esiste.

A mio parere quello americano è un impero, ma di natura talassocratica e ora finanziaria, assai diverso da quelli che l’hanno preceduto, solo in qualche modo simile a quello britannico dell’Era Vittoriana, ma anni luce lontano da ciò che era l’URSS e dal modo che essa aveva di esercitare il potere. Ciò che muove i centri che controllano l’enorme macchina federale (costituita da Pentagono, Dipartimento di Stato, Intelligence e Agenzie varie) è il conseguimento degli interessi di cui essi sono terminali, e la forza è solo uno, e neanche il più usato né, alla prova dei fatti, il più efficace, degli strumenti adoperati per realizzarlo.

La forza del biglietto verde, a tutt’oggi misura e strumento della stragrande maggioranza degli scambi commerciali, e il controllo delle istituzioni finanziarie mondiali (Banca Mondiale, Fondo Monetario, Club di Parigi, etc.), uniti al più forte e pervasivo sistema finanziario del globo, danno a quell’impero una leva enorme.

A ciò s’aggiunge un vantaggio troppo spesso trascurato: possedere il più grande e, piaccia o no, influente sistema di media esistente, capace di determinare il pensiero mainstream e influenzare in modo decisivo le opinioni pubbliche di tutto il mondo. È un soft-power, certo, ma enorme; basti pensare alla copertura che ha dato alle guerre imperialistiche degli Usa, alla creazione del “Nemico”, alla capacità di “vendere” la società americana, basata sulla disuguaglianza e lo sfruttamento più iniquo, come un sogno, alla demonizzazione di tutto ciò che è contrario al sistema Usa e, dunque, ai suoi interessi.

Non è un caso che il sistema statunitense sia il padre della globalizzazione, ciò che gli interessa realmente è che: i traffici marittimi funzionino coerentemente al suo tornaconto (e l’US Navy è ancora la vera padrona dei mari); il dollaro rimanga arbitro di commerci, investimenti e transazioni; il mondo intero sia costretto a sostenere il biglietto verde nei suoi momenti critici, sottoscrivendo in massa i titoli di stato americani per evitare il collasso dell’economia globale (vedi le stratosferiche emissioni di debito Usa, che hanno accollato al mondo intero i danni della crisi originata da Lehman Brothers).

Per il resto, al Deep State americano, vero depositario del potere con buona pace delle Amministrazioni che passano e che esso, al bisogno, sa ingabbiare (vedi le feroci limitazioni imposte a Trump su temi giudicati sensibili, come le relazioni con la Russia), basta che in nessun quadrante del mondo si affermi un vero egemone capace di tenergli testa in quell’area. Certo, molto ci sarebbe da dire sui punti fermi dello Stato Profondo Usa e sul come (non) riesca a ottenere i risultati che si aspetta, ma ci porterebbe troppo lontano.

Concludendo, ritengo che gli Usa siano una potenza certamente imperialista, con una netta vocazione imperiale del suo sistema resa tuttavia sempre più riluttante da una crescente fetta di opinione pubblica interna tagliata fuori dai benefici dell’impero (di qui la base del successo di Trump, riscosso fra i “forgottens” della globalizzazione).

D. 5) La causa palestinese è oggi priva di rilevanza internazionale. Dopo gli insuccessi bellici degli stati arabi contro Israele susseguitisi dal 1948 al 1973, il fallimento politico dell’OLP e il moltiplicarsi degli insediamenti israeliani nei territori occupati, la nascita di uno stato palestinese è, allo stato attuale, da considerarsi un evento assai improbabile. La causa palestinese è stata sempre strumentalizzata dagli stati arabi per loro fini politici, salvo poi espellere o addirittura massacrare i profughi palestinesi al pari d’Israele. Con i nuovi equilibri geopolitici mediorientali e il riconoscimento di Israele da parte di alcuni stati arabi, la causa palestinese è da ritenersi ormai esaurita? Mancando gli alleati di riferimento, quale futuro si prospetta per i palestinesi? L’affermazione di Hezbollah in Libano, quale influenza può esercitare sul destino politico della Palestina?

R. È una domanda che per l’ampiezza necessiterebbe di un’intervista a parte, proverò a sintetizzare anche se mi rendo conto che alcuni temi possano apparire sorprendenti alla luce del pensiero mainstream attuale, focalizzato su ciò che non è e assai distante dalla realtà dei fatti sul campo. In realtà, l’interesse della comunità internazionale per la causa palestinese non è servito a molto, il massimo che ha saputo produrre è stata la beffa degli Accordi di Oslo, ovvero la svendita della Palestina a Israele, con tutti intorno ad applaudire, e la straordinaria ipocrisia del conferimento di due Nobel per quella truffa.

Nei fatti nessuno, in Occidente come nei paesi arabi che pur davano mostra di agitare quella causa, ha preso in seria considerazione la nascita di un vero stato palestinese, era invece la finzione di uno stato-non-stato che serviva a tutti: a Israele, che dinanzi al mondo metteva la pietra tombale su una crisi fastidiosa, senza rinunciare a nessuno dei suoi programmi espansionistici; ad Arafat e la sua cerchia corrotta che, con l’ANP, si vedevano riconoscere da interessati attori esterni un ruolo e una legittimazione che avevano ormai perso fra la loro gente; ai paesi arabi, che spazzavano sotto il tappeto una causa divenuta troppo scomoda.

Tuttavia, se la via indicata da Oslo si è rivelata da subito impraticabile, perché nessuno di chi l’ha sottoscritta era interessato a uno sbocco concreto (anzi, il contrario), l’eventualità di una nascita di un vero stato palestinese, seppur non ancora alle porte, non è mai stata più probabile.

Sgombrati dal tavolo i falsi riferimenti, che mai hanno fornito appoggio vero ai palestinesi, sul campo e fra la gente la causa della Palestina è stata presa in mano da un unico soggetto, la Resistenza Islamica, a cui oggi tutte le formazioni della militanza palestinese fanno riferimento e in cui si riconoscono, sia pur con sensibilità e sfumature diverse, ma seguendo un unico coordinamento. Per chi conosce la realtà di quelle terre, si tratta di un evento straordinario, mai accaduto: oggi, un’unica sala di comando dirige tutti i gruppi della Resistenza a Gaza, nel West Bank e perfino all’interno di Israele.

Alla nuova e crescente unità dei palestinesi, corrisponde uno sfarinamento della società israeliana, sempre più spaccata fra “tribù” (definizione del presidente israeliano Reuven Livlin), componenti separate da interessi, opinioni e visioni dello stato ferocemente contrapposte, causando una lacerazione del tessuto sociale che il passare del tempo rende più radicale e avvelenata.

Laici ashkenaziti, tradizionalisti-nazionalisti sefarditi, ultraortodossi haredim e, da ultimi, gli arabi israeliani, sono inconciliabilmente divisi su tutto. La dimostrazione ultima c’è stata in occasione della crisi del maggio scorso: il successo politico dell’Operazione “Spada di Gerusalemme”, lanciata dalla Resistenza Palestinese, e lo speculare fallimento dell’Operazione “Guardiano delle Mura”, intrapresa da Tsahal, ne sono la dimostrazione (come ammesso senza mezzi termini dalla stampa israeliana).

A maggio Israele ha dovuto interrompere la sua azione militare perché non era in grado di entrare a Gaza, una striscia di appena 365 chilometri quadrati, ma, soprattutto, per l’insurrezione degli arabi israeliani che ha messo fuori controllo le città stesse di Israele e frantumato la sua coesione interna. Illuminante in tal senso è il numero 5 della rivista Limes a ciò dedicata e il lungo editoriale del suo direttore Lucio Caracciolo.

Tra l’altro, non è corretto affermare che ai palestinesi ora manchino alleati di riferimento, è più esatto dire che in passato hanno avuto accanto sciacalli che si sono ingrassati sulle loro sciagure o che, dietro al loro nome, hanno svolto i loro mercimoni (e i risultati si sono visti); oggi la Resistenza Palestinese partecipa a pieno titolo all’Asse della Resistenza, è unita come non mai, ha consapevolezza di sé e della situazione, ha archiviato i dirigenti discutibili e dispone ora di leadership credibili e di un progetto di liberazione come non ha mai avuto.

Che poi alcuni stati arabi abbiano normalizzato le relazioni con Israele non sposta affatto le equazioni geopolitiche, è solo l’emersione delle reali posizioni già esistenti, spinta e pagata in moneta sonante dall’Amministrazione Trump, venduta agli interessi israeliani dietro lauto compenso (in primis al Presidente stesso e al genero Jared Kushner).

In tutto questo, da molti anni Hezbollah ha pazientemente svolto (e svolge tutt’ora) un ruolo centrale di guida, riferimento, supporto ed esempio oltre che di forte deterrenza nei confronti di Israele, che lo considera il nemico più temibile (copyright by Stato Maggiore di Tsahal). È evidente che la deflagrazione di una crisi in Palestina, quando nel West Bank la preparazione della Resistenza ormai unita sarà giudicata sufficiente, vedrà in Hezbollah un attore primario, come lo saranno le altre formazioni dell’Asse della Resistenza dal Golan.

Questi non sono affatto vaneggiamenti o fantapolitica, questo è l’incubo più volte manifestato apertamente dalle Forze Armate israeliane, che ai più alti livelli hanno manifestato seri dubbi sulla capacità di tenuta di Israele, ripreso da una stampa inquieta. Mi rendo conto che questa sia una rappresentazione “eretica” della realtà in Palestina, ma è quella che farebbe qualsiasi analista od opinionista di media accreditati (e indipendenti) della regione, come Al-Mayadeen o Al-Manar.

 

Medio OrienteMedio Oriente – Libro

 

La sinistra Maneskin

Condividi su:

QUINTA COLONNA

di Ugo Boghetta 

Fonte: Ugo Boghetta

Sinistrati contro sinistrati (seconda parte)

Nella prima parte sono stati riassunti gli interventi ed il senso del dibattito rilanciato in Italia dopo l’articolo apparso sull’Economist contro la cosiddetta sinistra illiberale.
Si potrebbe pensare che sia un argomento futile o solo incipiente. Ma le cose non stanno così. Sono temi forti e che fanno già parte della nostra quotidianità sociale, politica e culturale.
Prima di proseguire, tuttavia, va premesso che il testo originario, e quasi tutti gli interventi, partono dall’assunto che il liberalismo classico sia buono, coerente e vero. Ma così non è. Che il mercato non funzioni come miglior allocatore di risorse  è un fatto. Così è per la libera iniziativa e la concorrenza che dovrebbero creare ricchezza per tutti. A fronte di una potenza tecnologica mai raggiunta invece assistiamo da decenni ad aumenti esponenziali di povertà e differenze. Inoltre, Il rapporto fra democrazia e liberalismo è  stato sempre problematico: oggi è di opposizione. Che il liberalismo poi non sia violento è una totale falsità. Il liberalismo è stato  violento nel nazionalismo quanto nella globalizzazione. Anche all’interno dei singoli stati il liberalismo è sempre stato violento, ma al coperto delle istituzioni. Gli ossimori sono dunque  tanti. L’ultimo è lo statalismo antistatale. Ora è buon il deficit ma si va verso altre privatizzazioni ed esternalizzazioni. I buchi della Pubblica Amministrazione vengono coperti con precari per attuare il piano della Next Generation (!?): poi tutti a casa. Alla fine avremo uno Stato ulteriormente spolpato: una carcassa. Ma come diceva Walter Benjamin, il capitalismo è una religione … e le religioni non sono confutabili. Serve altro. A chi comunque volesse approfondire l’argomento consiglio il libro di Andrea Zock: “Critica della ragione liberale”.
Il dibattito invece ha due scopi molto chiari: unire i liberali, ripulire e propagandare il nuovo capitalismo: buono, digitale, verde, inclusivo.
Ritornando alla questione, va detto che molti fatti dimostrano che il rapporto fra impianto liberale e la cosiddetta sinistra illiberale non è chiaro, spesso si confonde, a volte sono la stessa cosa. Come evidenzia Carlo Galli.
Prendiamo l’immigrazione. I sinistrati pensano  che l’immigrazione  non debba essere regolamentata e i confini controllati. Ciò avviene a causa di un approccio moralistico cui non è secondario il senso di colpa del passato colonialismo e di un certo pauperismo terzomondista. Mentre non c’è quasi nessuna attenzione al colonialismo odierno fatto di globalizzazione e finanza con le loro guerre e rapine a bassa e alta intensità. Le terribili ed anche tragiche vite dei migranti andrebbero riferite a queste cause proponendo cambiamenti politici strutturali. Altrimenti, ad esempio, l’immigrazione peggiora le condizioni dei paesi da cui si fugge. Invece, si sostiene che al diritto (giusto) ad emigrare corrisponda un ugual diritto ad entrare in un  qualsiasi paese senza permesso. Chi pensa invece che l’immigrazione debba essere controllata e compatibile con la situazione sociale, politica e culturale di un paese,  è definito fascista. Eppure questo approccio è molto più coerente con le posizioni della sinistra quando questa era tale.
Sostenere la stessa idea di patria, fonte della Costituzione e per cui i partigiani combatterono, è fascismo. Sostenere un’idea diversa dall’Unione Europa e della moneta unica che tenga conto delle differenze fra nazioni e popoli, è fascismo.
Ormai il termine fascista è una condanna onnipresente.
Anche chi non vuole vaccinarsi è un fascista!? Con questo approccio, tutti gli errori commessi nella gestione del Covid, sono coperti. Coloro che sollevano problemi e criticità ragionevoli sono sono bollati. Così diventa impossibile discutere criticamente di una situazione che non è una dittatura, ma colpevole improvvisazione sanitaria. Cui non è secondaria una strumentalizzazione politica atta a tener incollata una maggioranza che senza l’emergenza non starebbe insieme un minuto. La comunicazione propagandistica di stampo bellico, dunque, è già un esempio di quel conformismo soffocante denunciato come pericolo solo potenziale da Alessandro De Nicola. C’è da dire che anche la parte opposta no vax e no mask ha lo stesso atteggiamento.  Anche questi  ritengono che il green pass sia fascismo. Del resto, anche questo movimento ha un’impronta ideologica non certamente opposta  al liberalismo.
Il ddl Zan è l’ultimo esempio del mazzo.  Se la proposta infatti non è passata, è perché al fondo c’è una impostazione radicale e settaria tipica delle nuove filosofie transgenders la cui purezza non può essere messa in discussione: o con loro .. o fascisti. Ma la colpa di quanto avvenuto non è di qualche sinistra illiberale ma proprio del PD: partito fulcro del liberalismo.
Tutti fascisti dunque. Le sinistre, l’una impotente stante la stasi della lotta di classe su vasta scala, l’altra votata ai nuovi orizzonti liberali, cercano conferma di appartenenza e verginità perdute nei tempi che furono:  fascismo/antifascismo. È una follia. Così non si alimenta altro che una visione paranoica. I fascisti sono quattro gatti anche se, come sempre, buoi per tutti gli usi. Ed il capitalismo non ha bisogno di fascismo. Non ha nemici esterni. Il nemico è esso stesso. Il  capitalismo ha solo bisogno di girare senza sosta. Se si ferma è perduto. Ha bisogno di nuove occasioni di profitto, nuove culture, consumi selettivi, diversificazione dei bisogni e personalizzazione delle merci. Lo spettro del controllo non è politico ma è intrinseco al mercato ed alla digitalizzazione.
In effetti, il pensiero liberale è in crisi dal 2008. Ora la soluzione sarebbe il Grande Reset. E così si cercano sponde un po’ ovunque: il virus, i transgenders, i giovani contro il riscaldamento globale. Ma differenza di Galli, penso che non siamo all’estremismo infantile ma a quello senile.
Tuttavia, tante questioni sollevate siano questioni reali e discriminazioni in atto. Discriminazioni che trovano anche riscontro nella lingua e nei simboli. Che il conflitto avvenga e debba avvenire anche su linguaggi e simboli non ci piove. Ma sono i contenuti, le impostazioni, le proposte  ad essere sbagliate, a volte assurde o anche ridicole. Pensare di migliorare il mondo creando discriminazioni alla rovescia secondo faglie di genere o etnie è da condannare e da combattere.  Le discriminazioni e le contraddizioni continuerebbero ad agire a prescindere. Tutto porta alla solito gattopardismo: che tutto cambi perché nulla cambi. L’operatore ecologico cui è stato cambiato nome, ora è più precario di quanto si chiamava spazzino. Parimenti non è condivisibile la visione del mondo attinente la questione di genere. Visione che, peraltro, vede opinioni diverse anche all’interno dello stesso campo femminista. Si può infatti essere per il concetto binario maschio/femmina senza avvallare  discriminazioni. Assolutizzare poi l’atomo-individuo porta ad una società parossistica è sempre più inevitabilmente nichilista. E l’ambiente non si salverà certo solo con più tecnologia poiché il problema è il rapporto fra specie umana e natura.
Il fatto è che l’assenza sostanziale di un proposta alternativa post-capitalista lascia tutto il campo ad un ideologia unica liberal-liberista pur piena di sfumature. Ma, appunto, si tratta di sfumature, parzialità, frammenti, frattaglie.

Sono pronti: dalla crisi sanitaria a quella energetica…

Condividi su:

Segnalazione Arianna Editrice

di Marcello Parmio

Fonte: Marcello Pamio

I media mainstream stanno dando sempre più risalto all’allarme energetico. Siccome il caso non esiste, quando gli zerbini dei banchieri internazionali si mettono in moto, significa che c’è dietro un piano. In pratica stanno lentamente spostando l’attenzione dall’emergenza sanitaria a quella energetica! Il motivo è semplice: sempre più persone hanno mangiato la foglia svegliandosi dal coma letargico, per cui sono prontissimi per la prossima emergenza. Preparano nuovi lockdown ma questa volta sotto forma di blackout energetici, come d’altronde previsti dal Great Reset. E l’ultima copertina della rivista “The Economist” (di proprietà dell’Aristocrazia oligarchica: Rothschild e Agnelli/Elkann) è illuminante.
Ricordo infine che il “Green Pass” non a caso è il passaporto “verde”, il colore dell’ambiente…
La Fabian Society e PandemiaLa Fabian Society e Pandemia – Libro

Lo yin e lo yang dell’ordinamento moderno

Condividi su:

Segnalazione Arianna Editrice

di Pierluigi Fagan 

Fonte: Pierluigi Fagan

La coppia yin e yang rappresenta il modo cinese di pensare la dualità. Per “dualità” d’intende quella che sembra una propensione naturale della mente umana a partire il pensiero in due a cominciare dalla partizione pensante – pensiero, o soggetto – oggetto, ma anche soggetto e mondo o oggetto come risultato di due forze o duPierluigi Fagan, Repubblicae elementi e così via secondo varie declinazioni classiche quali caldo – freddo, notte – giorno, maschile – femminile o altre più storiche o antropo-culturali come mente – corpo, razionale – emotivo etc..
Dicevamo “propensione” naturale della mente umana, quindi queste dualità non possiamo dire siano parti obiettive che esistono fuori della nostra mente, purtroppo non possiamo pensare a nulla fuori della nostra mente senza usare la nostra mente. Di contro, la nostra mente è fatta apposta per darci l’impressione di essere un soggetto che pensa un oggetto (pensare è sempre pensare a qualcosa direbbe Brentano) e così, quando poi ci si astrae da questo stato e si mette ad oggetto questa stessa relazione, ecco sorgere la dualità. Si potrebbe dire esser un portato della condizione auto-cosciente, coscienza dell’esser coscienti o pensare al come di pensa (o “pensiero che pensa se stesso” – Aristotele).
In Occidente, la dualità ha preso varie forme all’interno di una vasta famiglia che inizia con le riflessioni di Eraclito e che da Platone ad Hegel, in logica, prende nome di “dialettica” o in altro ambito (gnoseologico) “dualismo”.
La versione cinese di questo impianto, formalizzata nel V-III secolo a.C. ma risalente nel modulo duale a molto prima, è appunto la partizione “yin e yang”, graficamente simbolizzato nel -taijitu-, quel cerchio con due virgoloni con un punto in mezzo che si abbracciano nella forma circolare per quanto la dividano. I virgoloni stanno a dire che i due principi si muovono con predominanza alternata, il punto di diverso colore al centro sta a dire che anche quando uno dei due principi è alla piena espressione dominante, il suo contrario-complementare permane, pronto ad attivare un nuovo ciclo in cui alternerà la dominanza. Così via in una sequenza di mutamenti infiniti. Taiji o nella versione W-G -T’ai Chi-, significa “trave maestra”, la base della logica.
Premessa questa visione logica, applichiamola ad un caso concreto.
Si tratta della forma dell’ordinamento delle società occidentali moderne, un -taijitu- fatto di economia e politica. Per lungo tempo, secoli fa, fu la politica a dominare come ultima intenzione l’economia, poi iniziò il moto contrario. Oggi siamo al punto di massimo dominio dell’economico sul politico. Non a caso registriamo da una parte la massima vigenza di una ideologia economica fondamentalista quale ciò che molti chiamano “neo-liberismo” mentre sono almeno trenta anni che gli scienziati politici avvertono, sempre più sconfortati, il totale declino della forma politica moderna occidentale detta -impropriamente- “democrazia”. Ma al di là del fatto che sia o non sia una democrazia (secondo chi scrive non lo è e sarebbe già tanto rendercene conto ovvero operare quella “rettificazione dei nomi” suggerita da Confucio senza la quale “chi parla male, pensa male”), essendo questa forma ibrida comunque l’incarnazione del politico nel moderno occidentale, è proprio il politico ad esser ai minimi termini, un piccolo puntino bianco nel dominio del virgolone nero.
Segnalo allora due articoli di oggi sull’ineffabile Repubblica, nome di una famosa opera, la più famosa e più complessa per quanto ad esito prettamente politico, di Platone. Ma anche nome della forma politica della società come cosa (res), pubblica. Ma la proprietà di questo giornale è invero in mano ad una famiglia imprenditoriale, quindi operatori economici, operatori economici (invero sempre meno economici e sempre più finanziari) che reputano necessario possedere un figlio politico, lo schema appunto classico dei -taijitu- moderno occidentale, negli ultimi decenni.
Il primo articolo segnala un libro in prossima uscita per i tipi di Laterza, con vari contributi da Canfora a Ferraris, passando per i Friday for Future (potevano anche chiamare i telettubies già che c’erano) su un tema oggi molto pubblicato: il futuro? Mai come di questi tempi, il futuro s’accompagna col punto interrogativo. Molte cose non funzionano più come prima, ma pare che non si abbia la più pallida idea di come altrimenti farle funzionare.
L’articolo, estrae un pezzo colto dal contributo dell’ex Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Visco riesuma il famoso articolo anni ’30 di J. M. Keynes “Prospettive economiche per i nostri nipoti” in cui il Sir inglese profetava necessaria (necessaria, non “auspicabile”), per i tempi dei suoi nipoti quindi più o meno i nostri,  una società con tre ore di lavoro al giorno, tre solo perché l’uomo si sarebbe troppo smarrito a lavorarne solo quella che realmente serviva come necessità, cioè una sola.
Il secondo articolo ne traduce uno del NYT dal titolo “Per fermare il cambiamento climatico (dobbiamo) contrarre l’economia?. Si tratta di un altro -taijitu- con un virgolone rappresentato dal concetto di “decrescita” ed un altro rappresentato dal “New Green Deal”. Quest’ultimo pensa di prendere il problema che il sistema dominante continua a ridurre al cambiamento climatico (il “problema” è ben più complesso comportando questioni ambientali-ecologiche e non solo climatiche, geopolitiche, migratorie-demografiche, economiche e finanziarie, tecnologiche e scientifiche, ma se il sistema in atto fosse in grado di pensare in maniera adeguata non saremo nella condizione del -futuro interrogativo in stato ansioso-), e farlo diventare motivo su cui attivare il classico ciclo di distruzione creatrice che anima il modo economico moderno.
La prima posizione dubita fortemente che il problema si possa così risolvere e va più radicalmente affermativamente incontro al titolo dell’articolo: sì, bisogna contrarre l’economia (che tanto si contrae di suo per noi occidentali, da decenni e per decenni a venire per ragioni che pare nessuno abbia interesse ad indagare),  e quindi accompagnare una decrescita pilotata. Di questa contrazione strutturale fa parte anche la riduzione dell’orario di lavoro.
La faccenda della decrescita meriterebbe una lunga trattazione con punti appena accennati dall’articolo nel riportare la posizione di Jason Hickel che invito a leggere e riguardano aspetti demografici, culturali, geopolitici, sociali. La decrescita pilotata (stante che è comunque in corso la versione non pilotata) verso una “società dell’abbastanza” (moderatamente prospera direbbe Xi) riguarderebbe in primis i Paesi ricchi (noi) e gli strati di società iper-ricca (le élite). Ma chi dovrebbe pilotarla?
E torniamo così al nostro -taijitu-. Dovrebbe pilotarla la politica. Il virgolone politico che ordina in condominio le nostre società con l’economico e che negli ultimi decenni è stato ridotto ai minimi termini. Quindi, questa non è una discussione da economisti che poverini hanno i loro limiti disciplinari, sarebbe una discussione politica, ma anche la politica ha i suoi limiti (tra cui capire in genere poco o niente di ecologia, geopolitica, società, cultura, storia ma ahimè anche economia). Una “politica” che oltre ai suoi limiti gnoseologici di lunga tradizione (la tradizione moderna che separa tra loro le discipline quindi gli oggetti di cui è fatto l’intero oggetto del politico), si trova oggi ai suoi minimi termini di sviluppo poiché negli ultimi decenni è servita solo come strumento per le élite economiche per prorogare la vigenza della funzione economica, di suo, sempre meno efficiente per restringimento obiettivo delle sue condizioni di possibilità.
Quindi, le nostre società occidentali sono in crisi adattiva ad un mondo che non è più quello dell’era moderna, è così in crisi il virgolone economico che di recente è giunto al suo massimo potere di vigenza squilibrando le società stesse, ma il puntino politico che dovrebbe crescere per ripristinare l’equilibrio delle funzioni subentrando all’economico per pilotarlo verso società diversamente configurate è depresso ed ai suoi minimi storici. Per “politico” qui non intendiamo la “politica” in atto, intendiamo il pensiero politico poiché nelle cose umane che dovrebbero esser auto-coscienti, il pensiero dovrebbe precedere ed informare l’azione. E’ proprio nel pensiero che siamo ai minimi termini.
Si dice che fare una diagnosi sia già incamminarsi vero la soluzione di un problema. Speriamo, il “principio speranza” è un principio del politico e speriamo che il (pensiero)-politico oltre a sperare, criticare e riesumare sue forme del profondo passato che è passato, si dia una mossa. Il virgolone politico ha bisogno di energia per crescere mentre decresce il virgolone economico.
Il primo articolo: https://www.repubblica.it/…/lettera_di_sir_keynes_a…/…
Il secondo articolo: https://www.repubblica.it/…/opinione_new_york_times…/…

Appello da Verona: ‘Si faccia moratoria contro utero in affitto’

Condividi su:

Gli organizzatori hanno sottoscritto un documento da sottoporre alle istituzioni nazionali e internazionali.

Il Congresso delle famiglie di Verona si è concluso con la marcia e un documento che tira le somme di quanto affermato nella tre giorni. Gli organizzatori e il movimento spontaneo che si è originato dalla partecipata manifestazione hanno sottoscritto un documento, da sottoporre alle istituzioni nazionali e internazionali.

Continua a leggere

1 2 3 4