Quel che dovrebbe fare un Papa secondo sant’Alfonso Maria de’ Liguori

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di Altaterradilavoro

Dopo la morte di papa Clemente XIV (1769-1774) si stava preparando il conclave che avrebbe dovuto eleggere il suo successore. Alfonso Maria de Liguori, allora vescovo di Sant’Agata dei Goti e già molto stimato negli ambienti della curia romana (si ricorda che assistette papa Clemente XIV sul letto di morte e partecipò ai suoi funerali in bilocazione perché non lasciò mai la sua diocesi), venne contattato dal suo amico Cardinale Castelli che gli chiese di scrivere una lettera al riguardo dei provvedimenti che avrebbe dovuto prendere il nuovo Papa per riformare la Chiesa afflitta dal rilassamento generale. Riportiamo qui di seguito la lettera alfonsiana.

«Amico mio e Signore, circa il sentimento che si desidera da me intorno agli affari presenti della Chiesa e circa l’elezione del Papa che sentimento voglio dar io miserabile ignorante, e di tanto poco spirito qual sono? Dico solo che vi bisognano orazioni e grandi orazioni, mentre, per sollevare la Chiesa dallo stato di rilassamento e confusione in cui si trovano universalmente tutti i ceti, non può darvi rimedio tutta la scienza e prudenza umana, ma vi bisogna il braccio onnipotente di Dio.

Tra’ vescovi, pochi sono quelli che hanno vero zelo delle anime. Le comunità religiose quasi tutte, e senza quasi, sono rilassate; poiché nelle religioni, nella presente confusione delle cose, L’osservanza è mancata e l’ubbidienza è perduta.

Nel clero secolare vi è di peggio: onde vi è necessità precisa di una riforma generale per tutti gli ecclesiastici, per indi dar riparo alla grande corruzione de’ costumi, che vi è ne’ secolari. E perciò bisogna pregar Gesù Cristo che ci dia un Capo della Chiesa, il quale, più che di dottrina e di prudenza umana, sia dotato di spirito e di zelo per l’onore di Dio, e sia totalmente distaccato da ogni partito e rispetto umano; perché se mai, per nostra disgrazia, succede un Papa che non ha solamente la gloria di Dio avanti gli occhi, il Signore poco l’assisterà, e le cose, come stanno nelle presenti circostanze, andranno di male in peggio. Sicché le orazioni possono dar rimedio a tanto male, con ottenere da Dio che egli vi metta la sua mano e dia riparo…

Aggiungo: Amico, anch’io desidererei, come V. S. Ill.ma, vedere riformati tanti sconcerti presenti; e sappia che su questa materia mi girano mille pensieri nella mente, che bramerei di farli noti a tutti; ma rimirando poi la mia meschinità, non ho animo di farli comparire in pubblico, per non parere ch’io volessi riformare il mondo. Le partecipo non però con confidenza, per mio sfogo, i miei desideri.

Bramerei primieramente che il Papa venturo (giacché ora mancano molti Cardinali che si han da provvedere) scegliesse, fra quelli che gli verranno proposti, i più dotti e zelanti del bene della Chiesa, ed intimasse preventivamente a’ Principi, nella prima lettera in cui darà loro parte della sua esaltazione, che, quando gli domanderanno il Cardinalato per qualche loro favorito, non gli proponessero se non soggetti di provata pietà e dottrina; perché altrimenti non potrà ammetterli in buona coscienza.

Bramerei inoltre che usasse fortezza in negare più benefizi a coloro che stanno già provveduti de’ beni della Chiesa, per quanto basta al loro mantenimento secondo quel che conviene al loro stato. Ed in ciò si usasse tutta la fortezza avverso gl’impegni che s’affacciano.

Bramerei, di più, che s’impedisse il lusso nei prelati, e perciò si determinasse per tutti (altrimenti a niente si rimedierà) si determinasse, dico, il numero della gente di servizio, giusta ciò che compete a ciascun ceto de’ prelati: tanti camerieri e non più; tanti servitori e non più; tanti cavalli e non più; per non dare più a parlare agli eretici. Di più, che si usasse maggior diligenza nel conferire i benefizi solamente a coloro che han servito la Chiesa, non già alle persone particolari.

Di più, che si usasse tutta la diligenza nell’eleggere i vescovi (da’ quali principalmente dipende il culto divino e la salute dell’anime) con prendersi da più parti le informazioni della loro buona vita e dottrina necessaria a governare le diocesi; e che, anche per quelli che siedono nelle loro chiese, si esigesse da’ metropolitani e da altri, segretamente, la notizia di quei vescovi, che poco attendono al bene delle lor pecorelle.
Bramerei ancora che si facesse intendere da per tutto che i vescovi trascurati, e che difettano o nella residenza o nel lusso della gente che tengono al loro servizio, o nelle soverchie spese di arredi, conviti e simili, saranno puniti colla sospensione o con mandar vicari apostolici a riparare i loro difetti; con darne l’esempio da quando in quando, secondo bisogna.

Ogni esempio di questa sorta farebbe stare attenti a moderarsi tutti gli altri prelati trascurati. Bramerei ancora che il Papa futuro fosse molto riserbato nel concedere certe grazie che guastano la buona disciplina; come sarebbe il concedere alle monache l’uscir dalla clausura per mera curiosità di vedere le cose del secolo, il concedere facilmente a’ religiosi la licenza di secolarizzarsi, per mille inconvenienti che ne vengono.

Sovra tutto desidererei che il Papa riducesse universalmente tutti i religiosi all’osservanza del loro primo Istituto, almeno nelle cose più principali.

Or via, non voglio più tediarla. Altro non possiamo fare che pregare il Signore, che ci dia un Pastore pieno del suo spirito, il quale sappia stabilir queste cose da me così accennate in breve, secondo meglio converrà alla gloria di Gesù Cristo».

 

Fonte: https://www.altaterradilavoro.com/quel-che-dovrebbe-fare-un-papa-secondo-santalfonso-maria-de-liguori/

L’udienza di San Pio X a Theodor Herzl, fondatore del sionismo

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Il 26 gennaio, 1904, Theodor Herzl ebbe udienza da Papa San Pio X, in Vaticano, per chiedere il suo sostegno allo sforzo sionista di stabilire uno stato ebraico in Palestina.
Questa è la sua versione dell’incontro, registrata nel suo diario.
Fui condotto dal Papa passando per un gran numero di piccoli saloni. Egli mi ricevette in piedi e mi tese la mano, che io non baciai… […] Io gli sottoposi brevemente il mio problema. Egli rispose con tono severo e categorico:
«Noi non possiamo sostenere questo movimento [sionista]. Non potremo impedire agli Ebrei di andare a Gerusalemme, ma in nessun caso possiamo sostenere la cosa. Anche se non è sempre stata santa, la terra di Gerusalemme è stata santificata dalla vita di Gesù Cristo. Come capo della Chiesa io non posso dirvi altro. Gli Ebrei non hanno riconosciuto Nostro Signore, e per questo noi non possiamo riconoscere il popolo ebraico». […]
Ecco, pensai, ricomincia il vecchio conflitto fra Roma e Gerusalemme; lui rappresenta Roma, io Gerusalemme […].
«Ma che dice, Santo Padre, della situazione attuale?» – gli chiesi –
Ed egli mi rispose: «Io so che è spiacevole vedere i Turchi in possesso dei nostri luoghi santi. Siamo costretti a sopportalo. Ma sostenere gli Ebrei perché ottengano essi i luoghi santi è una cosa che non possiamo fare».
Io feci notare che la nostra motivazione era il disagio degli Ebrei, e che intendevamo lasciare da parte le questioni religiose.
«Sì» – mi disse – «ma noi, e in particolare io, come capo della Chiesa, non possiamo farlo». Due sono i casi che possono presentarsi: o gli Ebrei rimangono fedeli alla loro credenza e continuano ad attendere il Messia, che per noi è già venuto; e in questo caso essi negano la divinità di Gesù e noi non possiamo fare alcunché per loro; o essi vanno in quelle terre senza alcuna religione, e in questo caso noi possiamo sostenerli ancora meno. La religione ebraica è stata la base della nostra, ma essa è stata rimpiazzata dalla dottrina di Cristo e da allora noi non possiamo più riconoscere la sua esistenza. Gli Ebrei, che avrebbero dovuto essere i primi a riconoscere Gesù Cristo, fino ad oggi non l’hanno fatto.»
Io stavo per dirgli: «E’ quello che accade in tutte le famiglie. Nessuno è profeta nella sua famiglia», e invece gli dissi: «Il terrore e le persecuzioni non erano certo i mezzi migliori per illuminare gli Ebrei»
E questa volta egli replicò con una semplicità disarmante: «Nostro Signore è giunto senza disporre di alcuna potenza. Era povero. E’ venuto in pace. Egli non ha perseguitato alcuno, ma è stato perseguitato. Anche gli Apostoli lo hanno abbandonato. E’ solo dopo che Egli è cresciuto: è solo dopo tre secoli che la Chiesa è stata stabilita. Quindi gli Ebrei hanno avuto tutto il tempo per riconoscere la divinità di Gesù Cristo senza alcuna pressione esterna. Ma non l’hanno fatto e continuano a non farlo fino ad oggi»
«Ma Santo Padre» – gli dissi – «la situazione degli Ebrei è spaventosa. Io non so se Vostra Santità si rende conto di tutta l’ampiezza di questo dramma. Noi abbiamo bisogno di un paese per i perseguitati».
Ed egli ha replicato: «E questo dev’essere Gerusalemme?»
 «Noi non chiediamo Gerusalemme» – ho replicato – «ma la Palestina, solo il paese profano» Ed egli mi ha risposto: «Noi non possiamo sostenere questa cosa».
«Santo Padre, lei conosce la situazione degli Ebrei?» gli chiesi.
«Sì, l’ho conosciuta a Mantova» – mi ha risposto – «dove vi sono degli Ebrei, D’altronde, io ho sempre avuto delle buone relazioni con gli Ebrei. Recentemente, una sera, sono venuti in visita da me due Ebrei. E’ vero che esistono dei rapporti che si collocano al di fuori della religione: dei rapporti di cortesia e di carità; noi non rifiutiamo agli Ebrei né gli uni né gli altri. Del resto, noi preghiamo per loro, affinché si illumini il loro spirito. Proprio oggi noi celebriamo la festa di un miscredente che, sulla via di Damasco si è convertito in maniera miracolosa al vero credo [San Paolo]. Così, se voi andate in Palestina e lì stabilite il vostro popolo, noi prepareremo delle chiese e dei sacerdoti per battezzarvi tutti».

L’eresia antiliturgica dai Giansenisti a Giovanni XXIII

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di don Francesco Ricossa

La Liturgia, considerata in generale, è l’insieme dei simboli, dei canti e degli atti per mezzo dei quali la Chiesa esprime e manifesta la sua religione verso Dio” (Dom Guéranger. Institutions Liturgiques). Questa definizione della Sacra Liturgia ci fa apprezzare l’importanza capitale del culto pubblico che la Chiesa rende a Dio. Nell’Antico Testamento Dio stesso si fa, per così dire, liturgista, precisando nei minimi particolari il culto che Gli dovevano rendere i fedeli (cfr. il Libro Levitico; e anche Pio XII, Mediator Dei, 12). Tanta importanza per un culto che non era che l’ombra (Ebrei, 10,1) di quello sublime del Nuovo Testamento che Gesù, Sommo Sacerdote, vuole continuato fino alla fine del mondo per mezzo della Sua Chiesa…!. Nella Divina Liturgia della Chiesa Cattolica tutto è grande, tutto è sublime, fin nei minimi particolari; è questa la verità che fece pronunciare a Santa Teresa d’Avila queste celebri parole: “Darei la mia vita per la più piccola delle cerimonie della Santa Chiesa”. Non si stupisca quindi il lettore dell’importanza che daremo in quest’articolo alle rubriche liturgiche e l’attenzione che presteremo alle “riforme” (che potrebbero essere giudicate minori) che hanno preceduto quelle del Concilio Vaticano II. Consci dell’importanza della Liturgia sono sempre stati, d’altro canto, i nemici della Chiesa: dobbiamo ricordare che da sempre la corruzione della Liturgia fu un veicolo, da parte degli eretici, per attentare alla Fede stessa? Lo fu con le antiche eresie cristologiche, e poi, via via, col luteranesimo e l’anglicanesimo nel XVI secolo, con le riforme illuministe e gianseniste nel XVIII secolo… per concludere con lo stesso Concilio Vaticano II che non a caso iniziò i suoi lavori di “Riforma” proprio con lo schema sulla Liturgia, sfociato nel “Novus Ordo Missae”.

ORIGINI DELLA “RIFORMA” LITURGICA DEL VATICANO II

La “Riforma” liturgica voluta dal Vaticano II e realizzata nel post-concilio è una vera rivoluzione: “la via aperta dal Concilio è destinata a cambiare radicalmente il volto delle assemblee liturgiche tradizionali” ammette Mons. Annibale Bugnini, uno dei principali artefici di detta “riforma”, aggiungendo che si tratta di un “reale stacco dal passato”. (Bugnini, La Riforma Liturgica [1948-1975] CLV Edizioni Liturgiche – 1983) Ora, nessuna rivoluzione esplode improvvisamente, ma è il frutto di lunghi assalti, lente cadute e progressivi cedimenti. Lo scopo del nostro articolo è di mostrare al lettore, dopo un’introduzione di carattere storico, le origini della rivoluzione liturgica specialmente dopo un esame delle riforme delle rubriche avvenute nel 1955 e nel 1960. Infatti, se “una radicale rottura con la Tradizione si è compiuta ai nostri giorni con l’introduzione del Novus Ordo Missae e dei nuovi libri liturgici (…) è doveroso domandarsi dove affondino le radici di tanta desolazione liturgica. Che esse non siano da ricercare esclusivamente nel Concilio Vaticano II sarà chiaro ad ogni persona di buon senso. La Costituzione liturgica del 4 dicembre 1963 rappresenta la conclusione temporanea di una evoluzione le cui cause molteplici e non tutte omogenee risalgono a un lontano passato”. (Mons. Klaus Gamber. Die Reform der Römischer Liturgie. Vorgeschichte und Problematik. pag. 9 e 10 dell’ed. italiana).

L’ILLUMINISMO

“La piena fioritura della vita ecclesiale nell’età barocca (Controriforma e Concilio di Trento. N.d.R.) fu investita, verso la fine del sec. XVIII, dal gelo dell’Illuminismo. Si era insoddisfatti della Liturgia tradizionale perché si reputava che troppo poco corrispondesse ai problemi concreti del tempo”. (Mons. Gamber, op. cit., pagg. 15-16). L’Illuminismo razionalista trovò il terreno preparato ed un solido alleato nell’eresia Giansenista, che come il protestantesimo, di cui era la quinta colonna, avversava la Liturgia Romana tradizionale. Giuseppe II nell’Impero Asburgico, l’episcopato gallicano in Francia, quello toscano in Italia, riunito nel Sinodo di Pistoia, attuarono riforme ed esperimenti liturgici “che somigliano in modo sorprendente agli attuali: sono altrettanto fortemente orientati verso l’uomo ed i problemi sociali”. (Gamber. op. cit., pag. 16) “Possiamo pertanto affermare che nell’Illuminismo affonda la più tenace radice dell’attuale desolazione liturgica. Molte idee di quell’epoca hanno trovato piena attuazione soltanto nel nostro tempo, in cui si assiste a un nuovo illuminismo”. (Gamber. op. cit., pag. 17) L’avversione alla tradizione, la smania di novità e riforme, la sostituzione graduale del latino col volgare, e dei testi ecclesiastici e patristici con la sola Scrittura, la diminuzione del culto della Madonna e dei Santi, il razionalismo contro i miracoli ed i fatti straordinari narrati nelle letture liturgiche dei Santi, la soppressione del simbolismo liturgico e del mistero, la riduzione infine della Liturgia, giudicata eccessivamente ed inutilmente lunga e ripetitiva…: ritroveremo tutti questi capisaldi delle riforme liturgiche gianseniste nelle riforme attuali, ad incominciare da quella di Giovanni XXIII. La Chiesa, nei casi più gravi, condannò i novatori: così Clemente IX condannò il Rituale della Diocesi d’Alet nel 1668, Clemente XI condannò l’oratoriano Pasquier Quesnel (1634-1719) nel 1713 (Denz. 1436), Pio VI dannò il Sinodo di Pistoia ed il Vescovo Scipione de’ Ricci con la Bolla “Auctorem Fidei” del 1794. (Denz. 1531-1533)

IL MOVIMENTO LITURGICO

“Una reazione al gelo illuministico è rappresentata dalla restaurazione del secolo XIX.(…) Sorsero allora la grande abbazia benedettina di Solesmes, in Francia, e quella della Congregazione di Beuron”. (Gamber. pag. 17) Dom Prosper Guéranger (1805-1875), Abate di Solesmes, restaurò in Francia l’antica liturgia latina e diede la nascita ad un movimento, poi chiamato “liturgico”, teso a far amare ed a difendere la liturgia tradizionale della Chiesa. Tale movimento operò per il bene della Chiesa fino a San Pio X, che con le sue decisioni rimise in onore il canto gregoriano e trovò un equilibrio ammirabile tra ciclo Temporale (feste del Signore, Domeniche e ferie) e quello Santorale (feste dei Santi).

DEVIAZIONI DEL MOVIMENTO LITURGICO

Dopo San Pio X, poco a poco, il cosidetto “Movimento Liturgico” deviò dai suoi intenti, per raggiungere, con una rivoluzione copernicana, le tesi che combatteva nel suo nascere. Tutte le idee dell’eresia antiliturgica – come Dom Guéranger chiamava le tesi liturgiche del XVIII secolo – furono riprese negli anni venti e trenta da liturgisti come Dom Lambert Beauduin (1873-1960) in Belgio e Francia, Dom Pius Parsch e Romano Guardini in Austria e Germania.Partendo dalla “Messa dialogata”, a causa di “una eccessiva enfasi data alla parte attiva dei fedeli nelle funzioni liturgiche”, (Gamber. pag. 17) i riformisti degli anni ’30 e ’40 giunsero (specialmente nei campi scout e nelle associazioni giovanili e studentesche) ad introdurre de facto nientemeno che la Messa in volgare, la celebrazione su di un tavolo faccia al popolo, la concelebrazione… Fra i giovani sacerdoti che si dilettavano di esperimenti liturgici c’era a Roma, nel 1933, il cappellano della F.U.C.I., tal Giovanni Battista Montini, per fortuna contrastato dal Cardinal Vicario. (Fappani-Molinari. Montini giovane. Ed. Marietti 1980. pagg. 282-292). In Belgio, Dom Beauduin dava al Movimento Liturgico un fine dichiaratamente ecu-menista, ipotizzando una Chiesa Anglicana “unita (alla cattolica), ma non assorbita” e fondando un “Monastero per l’unione” con gli “ortodossi” orientali, col risultato di “convertire” molti dei suoi monaci allo scisma orientale. Roma interviene: l’Enciclica contro il Movimento ecumenico, “Mortalium animos” (1928) è seguita, nel 1929 e 1932 da (troppo) discreti richiami che lo distolgono temporaneamente dalle sue attività. (Cfr. Bonneterre. Le Mouvement Liturgique. Ed. Fideliter. 1980. pagg. 35-42). Gran protettore del Beauduin era – naturalmente – il Card. Mercier, iniziatore dell’ecumenismo “cattolico” e definito dal “Sodalitium Pianum” come “amico di tutti i traditori della Chiesa”. (Poulat. Intégrisme et catholicisme integral. Castermann. pag. 330). Negli anni ’40 il lavoro di sabotaggio di simili liturgisti aveva già ottenuto il sostegno di vaste parti dell’episcopato, specialmente in Francia (col C.P.L.: centro di pastorale liturgica) e nel Reich tedesco. All’inizio del 1943, il 18 gennaio, “venne lanciato l’attacco più serio contro il Movimento Liturgico (…) da parte di un eloquente e vigoroso membro dell’episcopato, l’Arcivescovo di Friburgo (in Brisgau) Conrad Gröber. (…) In una lunga lettera indirizzata ai confratelli Vescovi, Gröber raccoglieva in 17 punti le sue preoccupazioni concernenti la Chiesa. (…) Criticava la teologia kerigmatica, il movimento di Schönstatt, ma soprattutto il Movimento Liturgico (…) coninvolgendo implicitamente anche il Card. Theodor Innitzer. (…) Pochi sanno che il p. Karl Rahner s.j. che viveva allora a Vienna (diocesi del Card. Innitzer. N.d.R.), scrisse (…) una risposta a Gröber. (Robert Graham s.j. Pio XII e la Crisi liturgica in Germania durante la guerra. La Civiltà Cattolica. 1985 pag. 546). Ritroveremo Karl Rahner come esperto conciliare dell’episcopato tedesco al Concilio Vaticano II assieme ad Hans Küng e Schillebeeckx. La questione arrivò a Roma: nel 1947 l’Enciclica di Pio XII sulla liturgia, “Mediator Dei”, avrebbe dovuto sancire la condanna del Movimento liturgico deviato. Pio XII “espose fortemente la dottrina cattolica” (…) “ma questa enciclica fu sviata nel suo senso dai commenti che ne fecero i novatori; e Pio XII, se ricordò i principi, non ebbe il coraggio di prendere delle misure efficaci contro le persone; si sarebbe dovuto sciogliere il C.P.L. e vietare un buon numero di pubblicazioni. Ma queste misure avrebbero avuto come conseguenza un conflitto aperto con l’episcopato francese”. (Jean Créte. Le Mouvement Liturgique. Itinéraires. Gennaio 1981. pagg. 131-132). Misurata la debolezza di Roma, i novatori capirono di poter andare (prudentemente) avanti: dalle sperimentazioni si passò alle riforme ufficiali romane.

LE RIFORME DI PIO XII

io XII non stimava gravissimo il problema liturgico che metteva a confronto i Vescovi tedeschi: “Produce in noi una strana impressione”, scriveva a Mons. Gröber, “se, quasi al di fuori del tempo e del mondo, la questione liturgica viene presentata come il problema del momento”. (Lettera di Pio XII a Mons. Gröber del 22 agosto 1943. Cit. in R. Graham, op. cit. pag. 549) Se con queste parole sconfessava gli esponenti del Movimento liturgico, Pio XII ne sottovalutava anche il pericolo. I novatori seppero così infiltrare il loro cavallo di Troia nella Chiesa attraverso la porta, quasi incustodita, della Liturgia, approfittando della poca attenzione di Papa Pacelli in materia e coadiuvati da persone molto vicine al Pontefice come il suo stesso confessore Agostino Bea s.j., futuro Cardinale ed esponente di spicco dell’Ecumenismo (cfr. mio articolo su “Sodalitium”: Il Gran Sinedrio in Vaticano per il XX del Concilio). È illuminante questa testimonianza di Mons. Bugnini: “la Commissione (per la riforma della Liturgia istituita nel 1948) godeva della piena fiducia del Papa, tenuto al corrente da Mons. Montini e, più ancora, settimanalmente, dal P. Bea, confessore di Pio XII. Grazie a questo tramite si potè giungere a risultati notevoli anche nei periodi nei quali la malattia del Papa impediva a chiunque di avvicinarlo”. (Op. Cit., pag. 22) Padre Bea fu all’origine della prima riforma liturgica di Pio XII, ovverosia la nuova traduzione liturgica dei Salmi, che sostituì quella della Volgata di San Gerolamo così invisa ai protestanti in quanto traduzione ufficiale della Sacra Scrittura nella Chiesa, dichiarata “autentica” dal Concilio di Trento. A questa riforma (Motu proprio “In cotidianis precibus” del 24 marzo 1945) il cui uso era, almeno in teoria, facoltativo e che ebbe poca fortuna, ne fecero seguito altre più durature ed ancora più gravi: 18 maggio 1948: costituzione, con a segretario Annibale Bugnini, di una commissione Pontificia per la Riforma della Liturgia (simile, anche nel nome, al “consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia” istituito da Paolo VI nel 1964 e che partorita la “Nuova Messa”); 6 gennaio 1953 (Costituzione Ap. “Christus Dominus”) sulla riforma del digiuno eucaristico; 23 marzo 1955, (decreto “Cum hac nostra aetate”), riforma (non pubblicata negli A.A.S. e non stampata nei libri liturgici) delle rubriche del Messale e del Breviario; 19 novembre 1955 (decreto Maxima Redemptionis), nuovo rito della Settimana Santa, già iniziato per quanto riguarda il Sabato Santo, ad experimentum, nel 1951. Alla riforma della Settimana Santa dedicheremo il capitoletto seguente; che dire, nel frattempo, di quella delle Rubriche e del Messale, operata lo stesso anno da Pio XII? Essendo state dichiarate facoltative, si tende a dimenticarle: esse furono tuttavia una tappa considerevole della Riforma Liturgica. Assorbite ed aumentate dalla riforma di Giovanni XXIIII, le esamineremo in dettaglio con quelle del successore. Basti dire, per ora, che la Riforma del 1955 tendeva ad abbreviare l’Ufficio divino e diminuire il culto dei santi: tutte le feste di rito semidoppio e semplice diventavano semplici commemorazioni, in quaresima e passione diveniva libera la scelta tra l’ufficio di un santo e quello feriale, veniva diminuito il numero delle vigilie e ridotte a tre le ottave. Soppressi i “Pater, Ave e Credo” da recitare prima delle ore liturgiche, veniva tolta anche l’antifona finale alla Madonna (tranne che a Compieta) ed il Simbolo di Sant’Atanasio (tranne che una volta l’anno). Il Bonneterre, nella sua opera citata, pur riconoscendo che le riforme della fine del pontificato di Pio XII sono “le prime tappe dell’autodemolizione della liturgia romana” (non vediamo come la Liturgia possa “autodemolirsi” N.d.R.) cerca di garantire la loro perfetta legittimità a causa della “santità” di chi le ha promulgate. “Pio XII” scrive “ha dunque intrapreso con ogni purezza d’intenzione delle riforme rese necessarie dai bisogni delle anime senza rendersi conto – E NON LO POTEVA – che scuoteva la liturgia e la disciplina in uno dei periodi più critici della loro storia, e soprattutto senza realizzare che metteva in pratica il programma del movimento liturgico deviato”, (pagg. 105, 106, 111) Commenta Jean Crété: “Don Bonneterre riconosce che questo decreto segna l’inizio della sovversione della liturgia, ma cerca di scusare Pio XII dicendo che a quell’epoca nessuno, tranne gli uomini del partito della sovversione, potevano rendersene conto. Posso, al contrario, dargli una testimonianza categorica su questo punto. Mi rendevo benissimo conto che questo decreto non era che l’inizio di una sovversione totale della liturgia; e non ero il solo. Tutti i veri liturgisti, tutti i sacerdoti attaccati alla tradizione, erano costernati. La congregazione dei riti non era favorevole a questo decreto, opera di una commissione speciale. Quando, cinque settimane più tardi, Pio XII annunciò la festa di San Giuseppe operaio (che spostava la festa antichissima degli Apostoli Filippo e Giacomo e sopprimeva la Solennità di San Giuseppe Patrono della Chiesa N.d.R.) l’opposizione si manifestò apertamente: durante più di un anno la congregazione dei riti rifiutò di comporre l’ufficio e la messa della nuova festa. Furono necessari molti interventi del Papa perché la congregazione dei riti si rassegnasse, malvolentieri, a pubblicare alla fine del 1956 un’ufficio così mal composto che si può chiedere se non sia stato sabotato volontariamente. Ed è solo nel 1960 che furono composte le melodie (che sono dei modelli di cattivo gusto) dell’ufficio e della messa. Raccontiamo questo episodio poco noto per dare un’idea della violenza delle reazioni suscitate dalle prime riforme liturgiche di Pio XII”. (Crété. Op. cit., pag. 133)

IL NUOVO RITO DELLA SETTIMANA SANTA

”Il rinnovamento (liturgico) ha mostrato chiaramente che le formule del messale romano dovevano essere riviste ed arricchite. Il rinnovamento è stato iniziato dallo stesso Pio XII con la restaurazione della veglia pasquale e dell’Ordo della Settimana Santa, CHE COSTITUÌ LA PRIMA TAPPA DELL’ADATTAZIONE DEL MESSALE ROMANO AI BISOGNI DELLA NOSTRA EPOCA”. Sono queste le parole stesse di Paolo VI nella “promulgazione” del nuovo messale. (“Cost. Ap. Missale Romanum” del 3 aprile 1969). Analogamente, da sponda diversa, scrive Mons. Gamber: “Il primo Pontefice che abbia apportato un vero e proprio cambiamento al Messale tradizionale fu Pio XII, con l’introduzione della nuova liturgia della Settimana Santa. Riportare la cerimonia del Sabato Santo alla notte di Pasqua sarebbe stato possibile senza grandi modifiche. A lui seguì Giovanni XXIII con il nuovo ordinamento delle rubriche. Anche in queste occasioni, comunque, il Canone della Messa restò intatto (Quasi. Ricordiamo l’introduzione del nome di San Giuseppe nel Canone, voluta da Giovanni XXIII durante il Concilio, contro la tradizione che vuole nel Canone solo nomi di Martiri, da unire al Grande Martire Gesù nel Suo Sacrificio N.d.R.), non venne minimamente alterato, ma dopo questi precedenti, è vero, furono aperte le porte a un ordinamento della Liturgia Romana radicalmente nuovo”. (Op. cit., pag. 22). Il decreto “Maxima Redemptionis” col quale si introduce nel 1955 il nuovo rito parla esclusivamente del cambiamento di orario delle cerimonie del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo, per facilitare ai fedeli l’assistenza ai Riti sacri riportati dopo secoli alla sera; ma in nessun passaggio del decreto si fa il minimo accenno al drastico mutamento dei testi e delle cerimonie stesse instaurato col nuovo rito e per nulla giustificato da un qualsivoglia motivo pastorale! In realtà il nuovo rito della settimana Santa fu una prova generale della riforma; lo testimonia il domenicano modernista Chenu: “Padre Duployé seguiva tutto ciò con una lucidità appassionata. Mi ricordo che mi disse un giorno, ben più tardi: – Se riusciamo a restaurare la vigilia pasquale nel suo valore primitivo il movimento liturgico avrà vinto; mi do dieci anni per questo -. Dieci anni dopo era cosa fatta.” (Un théologien en liberté. J. Dunquesne interroge le P. Chenu. Le Centurion. 1975. pag. 92-93) Infatti, il nuovo rito della Settimana Santa, inserendosi come un corpo estraneo nel resto del messale ancora tradizionale, seguiva i principi che ritroveremo nelle riforme di Paolo VI nel 1965. Facciamo alcuni esempi: Paolo VI sopprimerà nel 1965 l’ultimo vangelo: nel 1955 è soppresso dalla settimana Santa. Paolo VI sopprimerà il Salmo “ludica me” con le preghiere ai piedi dell’altare: lo stesso anticipava la Settimana Santa del 1955. Paolo VI (seguendo Lutero) vorrà la celebrazione della Messa “faccia al popolo”: il Novus Ordo della Settimana Santa inizia con l’introdurre tale uso ogni volta che è possibile (specialmente il giorno delle Palme). Paolo VI vuole diminuito il ruolo del sacerdote, sostituito ad ogni piè sospinto dai ministri: nel 1955, di già, il celebrante non legge più le letture, epistole e Vangeli (Passio) che sono cantate dai ministri -benchè facciano parte della Messa- e va a sedersi, dimenticato, in un angolo. Paolo VI, nella stessa Nuova “Messa” del 1969, col pretesto di restaurare l’antico rito romano, sopprime dalla Messa tutti gli elementi della liturgia “gallicana” (anteriore a Carlo Magno) seguendo un cattivo “archeologismo” condannato da Pio XII. Scompare così l’offertorio (con gaudio dei protestanti) sostituito con un rito talmudico che con l’antico rito romano non c’entra niente. Seguendo lo stesso principio il nuovo rito della Settimana Santa sopprime tutte le orazioni di benedizione delle Palme (tranne una), l’epistola, offertorio e prefazio che precedevano, la messa dei presantificati il Venerdì Santo… Paolo VI, sfidando gli anatemi del concilio di Trento, sopprime l’ordine sacro del Suddiaconato; il nuovo rito della Settimana Santa lascia in scena un Suddiacono sempre più inutile, visto che lo sostituisce il Diacono (Orazioni del Venerdì Santo al “levate”) o il coro ed il celebrante (all’adorazione della croce). Paolo VI vuole l’ecumenismo? La nuova Settimana Santa lo inaugura, chiamando l’orazione del Venerdì Santo per la conversione degli eretici: “orazione per l’unità della Chiesa” ed introducendo la genuflessione all’orazione per i Giudei che la Chiesa negava loro in odio al delitto compiuto il Venerdì Santo. I simbolismi medioevali sono soppressi (apertura della porta della Chiesa al canto del Gloria Laus, per esempio) la lingua volgare introdotta (promesse bettesimali), il Pater Noster recitato da tutti (venerdì santo), le orazioni per l’Impero sostituite da altre per i governanti la “cosa pubblica” dal sapore molto moderno. Nel Breviario si sopprime il così commovente “Miserere” ripetuto a tutte le ore. Viene rivoluzionato il Preconio Pasquale sopprimendo il simbolismo delle sue parole; sempre il Sabato Santo otto letture su dodici sono soppresse. Il canto della Passione, così toccante, subisce dei gravissimi tagli: scompare persino l’ultima Cena, nella quale Gesù, già tradito, ha celebrato per la prima volta nella storia il Sacrificio della Messa. Il Venerdì Santo viene distribuita la comunione, contrariamente alla tradizione della Chiesa ed alla condanna di San Pio X contro chi voleva instaurare questo uso. (Decreto Sacra Tridentina Synodus – 1905) Tutte le rubriche, poi, del nuovo rito del 1955, insistono continuamente sulla “partecipazione” dei fedeli da un lato, mentre d’altro canto deprecano come abusi molte delle devozioni popolari (così care ai fedeli) che accompagnano la Settimana Santa. Questo seppur sommario esame della riforma della Settimana Santa consente al lettore – così almeno pensiamo – di rendersi conto di come i “periti” che fabbricheranno 14 anni dopo la Nuova “Messa” avevano usato – e sfruttato – la Settimana Santa per compiere su di essa -tamquam in corpore vili- i loro esperimenti rivoluzionari da applicare a tutta la Liturgia.

GIOVANNI XXIII

A Pio XII succede Giovanni XXIII, Angelo Roncalli. Professore al Seminario di Bergamo, fu inquisito perché seguiva i testi del Duchesne, proibiti, sotto San Pio X in tutti i seminari italiani, e la cui opera “Histoire ancienne de l’Eglise”, finì all’Indice. (Poulat. Catholicisme, démocratie et socialisme. Pag. 246 e 346; Maccarrone: Mgr. Duchesne et son temps. 1975. pag. 469-472) Nunzio a Parigi, Roncalli svelerà la sua adesione alle tesi del Sillon, condannate da San Pio X (si legga tutto il testo della condanna, pubblicato in “Sodalitium” n. 4, Agosto-Settembre-Ottobre 1984), con una lettera alla vedova di Marc Sangnier, fondatore del movimento proscritto, nella quale, tra l’altro, scrive: “Il fascino potente della sua parola (di Sangnier N.d.r.), della sua anima, mi avevano incantato e conservo della sua persona e della sua attività politica e sociale il ricordo più vivo di tutta la mia giovinezza sacerdotale”, (lettera del 6 giugno 1950. Cfr. Itinéraires, n. 247, nov. 1980, pag. 152-153). Nominato Patriarca di Venezia, Mons. Roncalli darà pubblico benvenuto ai socialisti giunti nella sua città per il congresso del partito. Divenuto Giovanni XXIII crea Cardinale Mons. Montini, indice il Concilio Vaticano II e scrive l’Enciclica “Pacem in terris” nella quale afferma di già, cammuffandola con una frase volutamente ambigua, quella libertà religiosa che sarà proclamata dal Concilio, come testimonia il neo-Cardinale Pavan, collaboratore di Giovanni XXIII. L’atteggiamento di Giovanni XXIII, alla morte di Pio XII nel 1958, non poteva essere diverso, in materia liturgica, a quello dimostrato negli altri campi. Ben lo sapeva Dom Lambert Beauduin, ormai noto al lettore come quasi capostipite del movimento liturgico modernista, ed amico di Roncalli dal lontano 1924. P. Bouyer testimonia che Dom Beauduin gli disse il giorno della morte di Pio XII: “Se eleggessero Roncalli, tutto sarebbe salvato: sarebbe capace di convocare un Concilio e di consacrare l’Ecumenismo…”. (Bouyer. Dom L. Beauduin, un homme d’Eglise. 1964. pag. 180-181). Il 25 luglio 1960 Giovanni XXIII pubblica il Motu proprio “Rubricarum Instructum”. Già aveva deciso di convocare il Vaticano II e di procedere alla riforma del Diritto Canonico; con questo Motu Proprio Giovanni XXIII assorbe ed aggrava le riforme delle rubriche del 1955-56: ”Siamo arrivati alla decisione” scrive “che si doveva presentare ai Padri del futuro Concilio i principi fondamentali concernenti la riforma liturgica, e che non si doveva differire ulteriormente la riforma delle rubriche del Breviario e del Messale romano”. In questo quadro così poco ortodosso, con artefici così dubbi, in un clima già “conciliare”, nascono il Breviario ed il Messale di Giovanni XXIII, concepiti come “Liturgia di transizione” destinata a durare, come durò, tre o quattro anni: transizione tra la liturgia cattolica consacrata al Concilio di Trento e quella eterodossa preconizzata dal Vaticano II.

“L’ERESIA ANTILITURGICA” NELLA RIFORMA DI GIOVANNI XXIII

Abbiamo visto precedentemente come il grande Dom Guéranger definì “eresia antiliturgica” l’insieme dei falsi principi liturgici del XVIII secolo ispirati dall’illuminismo e dal Giansenismo. Vorrei mostrare in questo capitoletto la somiglianza, a volte letterale, tra le riforme di quel secolo lontano e quelle di Giovanni XXIII.

  • Riduzione del Mattutino a tre lezioni. L’Arcivescovo (terzaforzista, cioè filo-giansenista) di Parigi, Vintimille, nella sua riforma del Breviario del 1736 “ridusse la maggior parte degli Uffici a tre lezioni, per renderli più corti”. (Guéranger. Institutions Liturgiques. Extraits. Ed. Chiré. p. 171) Giovanni XXIII nel 1960 riduce anch’egli a 3 sole lezioni la quasi totalità degli Uffici. Ne consegue la soppressione di un terzo della Sacra Scrittura, dei due terzi delle vite dei Santi e dei quasi tre terzi (la totalità) dei commenti dei Padri alla Scrittura. Per aiutare il lettore gli mostriamo, in un piccolo schema, ciò che resta del Mattutino (tranne che nelle feste di I e II classe) dopo la riforma,tenendo presente che il Mattutino è una parte considerevole del Breviario.
  • Diminuzione delle formule di stile ecclesiastico a favore della Sacra Scrittura. “Il secondo principio della setta antiliturgica è di rimpiazzare le formule di stile ecclesiastico con delle letture della Sacra Scrittura”. (Guéranger. op. cit., p. 107) Mentre il Breviario di San Pio X faceva commentare la Sacra Scrittura dai Padri, quello di Giovanni XXIII, lasciate praticamente intatte le lezioni scritturali, come abbiamo visto sopra, le lascia senza il commento della Chiesa, sopprimendo il commento patristico (soppresso il commento all’Antico Testamento o alle epistole, 5 o 6 righe di commento al Vangelo della domenica).
  • Togliere le feste dei santi dalla Domenica. “È il loro (dei giansenisti. N.d.r.) grande principio della santità della domenica che non permette che si degradi questo giorno fino a consacrarlo al culto di un santo, nemmeno della Santa Vergine. (…) A più forte ragione i doppi maggiori o minori, che diversificano così piacevolmente per il popolo fedele la monotonia delle domeniche, ricordandogli gli amici di Dio, le loro virtù e la loro protezione, non dovevano essere rinviati per sempre a giorni infrasettimanali nei quali la loro festa passerebbe silenziosa ed inavvertita?”. (Dom Guéranger. Pag. 163) Giovanni XXIII, andando ben oltre la riforma equilibrata di San Pio X, raggiunge quasi alla lettera l’ideale degli eretici giansenisti: solo nove feste di Santi possono vincere sulla domenica (S. Giuseppe di marzo e di maggio, tre feste mariane: Annunciazione, Assunzione e Immacolata, S. Giovanni Battista, SS. Pietro e Paolo, S. Michele e Ognissanti) contro le 32 che contava il calendario di San Pio X, molte delle quali erano antiche feste di precetto. Per di più, la Domenica, Giovanni XXIII abolisce le memorie dei Santi. Per ottenere questi scopi, la riforma del 1960 eleva tutte le domeniche al rango di I e II classe, e riunisce quasi tutti i santi in una III classe creata ex novo, annullando, come vediamo dallo schema, quei doppi maggiori o minori che loda Dom Guéranger.
  • Favorire l’ufficio della feria alle feste dei Santi. Dom Guéranger descrive poi così le mosse gianseniste: “Il calendario sarà ormai epurato e lo scopo, ammesso da Grancolas (1727) e dai suoi complici, è di fare che il clero preferisca l’officio della feria a quello dei Santi. Che spettacolo pietoso! Vedere penetrare nelle nostre chiese delle massime infette di calvinismo e così volgarmente opposte a quelle della Sede Apostolica, che da due secoli non ha cessato di fortificare il calendario della Chiesa con l’arrivo di nuovi protettori!”, (op. cit. pag. 163) Giovanni XXIII ha soppresso totalmente 10 feste dal calendario (11 in Italia, con la festa della Madonna di Loreto) ha ridotto 29 feste di rito semplice e 9 di rito più elevato al rango di commemorazione, facendo così prevalere l’ufficio feriale; con la soppressione di quasi tutte le ottave e le vigilie ha sostituito altre 24 ferie a uffici di Santi (calcolando per difetto, non tenendo conto dei calendari particolari e delle feste mobili); infine, con le nuove regole di quaresima che vedremo poi, altri 9 Santi, ufficialmente nel calendario, non verranno mai festeggiati. Concludendo, la riforma del 1960-1962 sacrifica ad una “massima calvinista”, epurandole, circa 81, 82 feste di santi.

Dom Guéranger precisa che i Giansenisti soppressero le feste dei Santi in quaresima (op. cit. pag. 163). Allo stesso modo si comporta Giovanni XXIII, salvando solo le feste di I e II classe; poiché la loro festa cade sempre in Quaresima, non si festeggerà mai più un S. Tommaso d’Aquino, un S. Gregorio Magno, S. Benedetto, S. Patrizio, S. Gabriele Arcangelo ecc.

  • Censurare i miracoli dalle vite dei Santi che sembrano leggendarie. Era il principio dei liturgisti illuministi (“le vite dei santi furono spogliate di una parte dei loro miracoli e dei loro racconti pii” Dom Guéranger, pag. 171). Abbiamo visto che la riforma del 1960 sopprime 2 delle 3 lezioni del 2° Notturno, in cui si leggono le vite dei Santi. Ma ciò non bastava. Come abbiamo detto 11 feste sono totalmente soppresse, probabilmente perché “leggendarie” per i razionalisti preconciliari: per esempio S. Vitale, l’Invenzione della S. Croce, il martirio incruento di S. Giovanni alla Porta Latina, l’apparizione di S. Michele sul Gargano, S. Anacleto, S. Pietro in Vincoli, l’Invenzione ( = Ritrovamento) di S. Stefano, la Madonna di Loreto (una casa che vola!!. Ci si può credere nel XX secolo?); tra le votive, S. Filomena (che stupido il Curato d’Ars che ci credeva). Altri Santi poco illuministi sono eliminati più discretamente: la Madonna del Carmelo e della Mercede, S. Giorgio, S. Alessio, S. Eustachio, le stimmate di S. Francesco, restano come memoria in un giorno feriale. Partono anche due Papi, sembra senza motivo: S. Silvestro (troppo Costantiniano?) e S. Leone II. Quest’ultimo, forse, perché condannò Papa Onorio, e Giovanni XXIII… Segnaliamo infine un “capolavoro” che ci tocca da vicino. Dall’orazione della Messa della Madre del Buon Consiglio la riforma del 1960 ha tolto le parole che parlavano della apparizione miracolosa della Sua immagine. Se la Casa di Nazareth non può volare a Loreto, figuriamoci se un quadro che era in Albania può volare a Genazzano.
  • Spirito antiromano. I Giansenisti soppressero una delle 2 feste della Cattedra di San Pietro, al 10 gennaio, come pure l’Ottava di San Pietro (Dom Guéranger, pag. 170). Identiche misure con Giovanni XXIII.
  • Soppressione del Confiteor prima della comunione dei fedeli. (Messale di Trojes)(Dom Guéranger, pag. 149, 150, 156). Medesima cosa nel 1960.
  • Riforma del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo. Nel 1736, col Breviario di Vintimille, “fatto gravissimo e, ancor più, dolorosissimo per la pietà dei fedeli” (Dom Guéranger, pag. 170, 171). Qui Giovanni XXIII è stato preceduto, come abbiamo visto! Idem con la soppressione di quasi tutte le Ottave (uso, che si trova già nel Vecchio Testamento, di solennizzare le grandi feste per otto giorni) anticipata dai Giansenisti nel 1736 (pag. 171) e ripetuta nel 1955-60.
  • Fare, insomma, un Breviario cortissimo e senza ripetizioni. Era il sogno dei liturgisti rinascimentali (Breviario di S. Croce, abolito da S. Pio V) e poi degli Illuministi. Commenta Dom Guéranger: vogliono un Breviario “senza queste Rubriche complicate che obbligano il Sacerdote a fare dell’Ufficio Divino uno studio serio; dal resto le rubriche stesse sono tradizioni, ed è giusto che scompaiono. (…) Senza ripetizioni (…) e molto corto: ecco il grande mezzo di successo! (…). Si vuole un Breviario corto. Lo si avrà; e si troveranno dei Giansenisti per redigerlo”, (pag. 162, e anche 159). Questi tre principi saranno il vanto pubblico delle Riforme del 1955 e 1960: scompaiono le lunghe “Preces”, le memorie, i suffragi, i “Pater, Ave, Credo”, le Antifone alla Madonna, il Simbolo di S. Atanasio, 2/3 del Mattutino, e… chi più ne ha più ne metta!

L’ECUMENISMO NELLA RIFORMA DI GIOVANNI XXIII…

A questo i Giansenisti non ci avevano pensato. La Riforma del 1960 sopprime dalle orazioni del Venerdì Santo l’aggettivo latino “perfidis” ( = senza fede) riferito ai Giudei, ed il sostantivo “perfidiam” ( = empietà) riferito a “Giudaica”. È la porta aperta alla visita alla Sinagoga dei nostri giorni. Al numero 181 delle Rubriche del 1960 si legge: “la Messa contro i pagani venga chiamata: per la difesa della Chiesa. La Messa per togliere lo scisma, venga detta: per l’unità della Chiesa” (solita eresia che nega che la Chiesa è UNA! N.D.R.). Questi cambiamenti rivelano il liberalismo, pacifismo e falso ecumenismo di chi li ha concepiti. Un ultimo punto, ma tra i più gravi. Nel “Breve Esame Critico” contro la “nuova Messa” presentato dai Cardinali Ottaviani e Bacci si dichiara giustamente che è “un chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente (cioè da solo. N.d.r.), di tutte le salutationes (cioè “Dominus vobiscum” ecc.) e della benedizione finale” (pag. 18). Infatti, anche se solo, il sacerdote nel celebrare la Messa o dire il Breviario prega a nome di tutta la Chiesa e con tutta la Chiesa. Verità questa negata da Lutero. Ora, questo attentato al dogma era già compiuto dal Breviario di Giovanni XXIII che al sacerdote che lo recita da solo impone di non dire più “Dominus vobiscum – il Signore sia con voi” ma “Domine exaudi orationem meam – Signore, ascolta la mia preghiera”, pensando, con una “professione di pura fede razionalista” (Breve Esame Critico, pag. 18) che il Breviario non sia più la preghiera pubblica della Chiesa, ma una lettura privata.

CONCLUSIONE NECESSARIA

Non serve a nulla la teoria, se non la si applica. Questo articolo non può concludersi senza un caldo invito, innanzitutto ai sacerdoti, a ritornare alla liturgia “canonizzata” dal Concilio di Trento ed alle Rubriche promulgate da San Pio X. Scrive Mons. Gamber: “Molte delle innovazioni promulgate in materia liturgica negli ultimi 25 anni – a cominciare dal decreto sul rinnovamento della Liturgia della Settimana Santa del 9 febbraio 1951 (ancora sotto Pio XII) e dal nuovo Codice delle Rubriche del 25 luglio 1960 (ormai di nuovo superato) fino alla riforma, per continue piccole modificazioni, dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969 – si sono dimostrate inutili e dannose alla vita spirituale”. (Op. cit. pag. 44-45). Purtroppo nel campo “tradizionalista” regna la confusione: chi si ferma al 1955, chi al 1965 o 1967; la Fraternità San Pio X, dopo aver adottato la riforma del 1965 è tornata a quella del 1960, di Giovanni XXIII (accordata ora dall’indulto del 1984) benché ci si permetta di introdurre usi anteriori e posteriori! Nei Distretti di Germania, Inghilterra e Stati Uniti, dove si recitava il Breviario di San Pio X, è stato imposto quello di Giovanni XXIII, e ciò non solo per motivi legalistici ma di principio, mentre si tollera a malapena la recitazione privata del Breviario di S. Pio X. Ci illudiamo, sperando che questo, o altri studi, aiutino a capire che la Riforma è UNA in tante tappe, e che tutta si deve rifiutare se non si vuole (absit) accettarla tutta? Solo con l’aiuto di Dio ed idee chiare si potrà ottenere una restaurazione che non duri un’estate di San Martino.

Fonte: https://www.sodalitium.biz/leresia-antiliturgica-dai-giansenisti-giovanni-xxiii/

Il ricordo di un grande tomista: padre Guido Mattiussi

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dal Centro Studi Federici

P. Guido Mattiussi. Cento anni dalla morte

“Vogliamo ricordare padre Mattiussi come scrittore, conferenziere professore e in tutti i modi uno dei più potenti promotori del Movimento tomistico tanto in Italia quanto all’estero. Anzi diremmo uno dei più brillanti restauratori di quella filosofia perenne a cui mette l’ultima mano e il suo perfezionamento”.

Con queste parole di don Paolo de Töth (e con quelle che di seguito riporteremo fra virgolette) il centro studi omonimo vuole riproporre il contributo della nostra rivista al riguardo e ricordare la grande figura di padre Mattiussi dopo un secolo dalla sua dipartita da questo mondo, “colui il cui nome costituiva l’onore massimo della povera opera nostra in questo periodico [Fede e Ragione] e noi con quanti combattono le sante battaglie della verità e della chiesa e per il trionfo di Cristo nelle anime e nella società abbiamo acquistato presso il trono di Dio nel cielo un nuovo patrono e intercessore di più”.

“La sua opera nel volume Le XXIV Tesi della filosofia di San Tommaso d’Aquino è la sintesi più bella e completa del pensiero filosofico dell’angelico dottore, che fissa chiaramente e per sempre i principi fondamentali, per non deviare dietro a false interpretazioni e correnti tomistiche di puro nome ma non di sostanza e di fatto”

Segue la lettera di sua Eccellenza illustrissima il Cardinal Ludovico Billot “desideroso anch’egli di commemorare il padre Mattiussi compagno di lui nel lavoro e nelle lotte oltre che fratello dello spirito, nella mente, nel cuore, nelle aspirazioni e nella fede”.

Facciamo nostro il seguente auspicio che si eleva anche come preghiera a Dio per continuare ancor oggi la strenua battaglia contro il modernismo riedito e ripresentato in tante sue forme, che allontana le anime dalla Verità e quindi da Cristo Nostro Signore, che continua a insegnarci nel Suo Vangelo: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37-38).

“Ne faremo un’immagine e un ritratto riandando ai suoi ammonimenti e ai suoi consigli, alle sue virtù e ai suoi esempi, e anche alle sue lotte e ai dolori dai quali pure la sua strada quaggiù fu disseminata, al suo amore coraggioso alla Chiesa, al Papa, alla verità. Prenderemo animo a seguirne le orme così da meritare anche noi la fiducia, la confidenza e più ancora la pace e la gioia Celeste che illuminò gli ultimi giorni del suo terreno passaggio e la sua morte veramente preziosa” R.I.P.

Fonte: https://www.centrostudifederici.org/il-ricordo-di-un-grande-tomista-padre-guido-mattiussi/

Il ricordo di due difensori della Fede cattolica

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Il ricordo di due difensori della Fede cattolica

Il 27 febbraio ricorre l’anniversario di morte di mons. Umberto Benigni (+ 1934) e di mons. Guérard des Lauriers (+ 1988).

“Bonum certamen certavi, cursum consumavi et fidem servavi” (2 Tim 4, 7).

Mons. Umberto Benigni, Perugia, 30 marzo 1862 – Roma, 27 febbraio 1934
https://www.sodalitium.biz/mons-benigni/
https://www.sodalitiumshop.it/prodotto/sodalitium-n-74-numero-speciale-in-difesa-di-mons-umberto-benigni/

Mons. Michel Louis Guérard des Lauriers, o.p.
Suresnes, 25 ottobre 1898 – Cosne-Cours-sur-Loire 27 febbraio 1988.
https://www.sodalitium.biz/mons-guerard-des-lauriers/
https://www.sodalitiumshop.it/prodotto/breve-esame-critico-del-novus-ordo-missae-dei-cardinali-ottaviani-e-bacci/

 

Fonte: https://www.centrostudifederici.org/il-ricordo-di-due-difensori-della-fede-cattolica/

Le piaghe della globalizzazione e la cura possibile

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2024/12/29/le-piaghe-della-globalizzazione-e-la-cura-possibile/

SE SAN TOMMASO METTESSE D’ACCORDO IL PROF. TREMONTI E PAPA PIO IX

“La storia ci ha fatti molto complessi, ma è proprio la storia che ci dà speranza. In fondo, possiamo notare che la nostra decadenza è iniziata un millennio e mezzo fa, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. (…) Se lo vogliamo possiamo ancora recuperare. E possiamo farlo, soprattutto sulla base di condizioni di impegno che si possono riassumere in due sole ma essenziali parole: verità e serietà”.

Così si esprime il Prof. Giulio Tremonti, nel suo “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile” (Ed. Solferino, Milano 2022) che vede due soluzioni alle crisi contemporanee: “mettere a punto una cura che freni il dominio assoluto del mercato e recuperare le risorse e i valori di fondo della nostra comunità”.

Il docente, già Ministro dell’Economia, conclude, sostenendo che “il pensiero e le politiche dominanti si sviluppano in opposta direzione”, rispetto alle sue idee in campo finanziario e politico. La scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar, in “Memorie di Adriano” (1953), scriveva, forse meno rassegnata, che “sopravviveranno le catastrofi e le rovine, trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine” e il Prof. Tremonti la ricorda, come a volerla prendere ad esempio.

La formula su cui ancora nel 2011 si basava una una riforma in discussione al Parlamento, che non ebbe esito, era quella dell’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti modesti, ma sicuri e fissi, garantiti dal sottostante patrimonio della Repubblica (per cui si può e si deve introdurre un regime speciale, anche urbanistico), titoli assistiti da questo diktat: “Esenti da ogni imposta, presente o futura”.

Tremonti, evidentemente, aggiunge che questa è “l’alternativa rispetto all’imposta patrimoniale, rispetto alla Troika, rispetto alle perdite in linea capitale”. Nel libro, il Prof. Tremonti parla anche della possibilità di battere nuova moneta, chiedendosi quanti italiani la riconoscerebbero e chi potrebbe firmare le banconote.

Per il Prof. Tremonti va rigettata la teoria del “debito buono”, presentata da Mario Draghi sul Financial Times del 25/03/2020. “E’ in ogni caso essenziale che tutti insieme – chiosa Tremonti – ora più che mai, si abbia una proiezione patriottica, comunitaria e sociale”, che vada a ridurre il debito pubblico, in favore dei servizi e del welfare.

La prima legge Tremonti del 1994 detassava chi investiva e chi assumeva. In parte, l’attuale governo ha ripreso questo principio, pur non avendo le risorse per potenziarlo, anche a sostegno dei rimpatri industriali all’estero.

Un’altra proposta, formulata su “Le Monde” del 12/9/2001 dal Prof. Tremonti era quella di favorire che gli esercizi commerciali si convenzionassero con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, ottenendo, in cambio, la rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti da parte dell’Unione Europea. L’Italia lanciò l’idea, ma fu subito respinta dalla UE. Oggi, più che mai, sarebbe utile, magari anche sul piano migratorio.

Sul piano cattolico, Vittorio Messori, nel suo testo “Pensare la storia” (Ed. Paoline, Milano 1982) dedica un capitolo al “Syllabus”, messo da Papa Pio IX come appendice all’Enciclica “Quanta Cura” del 1864, ma talmente preciso da essere sempre attuale.

Si tratta dell’ “elenco dei principali errori dell’età nostra”, che imbarazza non pochi sedicenti credenti, oppure crea orrore e sarcasmo nei laicisti, che lo additano come esempio della “cecità oscurantista” della Chiesa.

Ma – come osserva acutamente Messori – al quarto paragrafo, il Sillabo condanna: Socialismus, Communismus, Societates Secretae, Societates Biblicae, Societates Clerico-Liberales.

Socialismo e comunismo sono definiti solennemente dal Santo Padre Pio IX come “pestilenze dell’umanità”. Messori, poi, racconta di un episodio accadutogli in un servizio televisivo di sandinisti, i marxisti del Nicaragua, sconfitti dal “pueblo”. Notò frati e suore cantare l’Internazionale e salutarsi col pugno chiuso.

Forse pochi sanno che quel gesto era il simbolo di Prometeo, ben conosciuto dalla cultura classica, poiché significava l’uomo che si ribellava agli dèi. La civiltà greco-romana guardava a quel segno con orrore, come a una bestemmia. Al pugno levato in alto, per sfidare Dio, veniva contrapposto dai religiosi il pugno chiuso rivolto verso il basso, a minacciare gli Inferi. Segno distintivo del cristiano era, altresì, levare le mani aperte verso l’alto, disponibili ad accogliere lo Spirito e la volontà divina, come si nota già in molti affreschi catacombali.

Per quanto siano diversi ed eterogenei il Prof. Tremonti e il dott. Messori hanno qualcosa in comune, per chi scrive: un’attenzione particolare per il bene comune. Chiaramente non sempre si può concordare con le loro affermazioni, ma riconoscere una certa onestà intellettuale ad entrambi mi sembrerebbe una cosa giusta.

Probabilmente sarebbero d’accordo sul concetto di “Tolleranza”, così come proposto da S. Tommaso d’Aquino: “Essa è fondata sul bene comune della Società. Ci si astiene dall’opposizione alla legge ingiusta, perché si prevede che essa danneggerebbe più severamente il bene comune che non la tolleranza della legge ingiusta. In breve la si tollera, solo per non peggiorare la situazione; come quando si ha il mal di denti, ma vi è un’infezione, si è costretti a tollerare il dente malato, sino a che l’infezione non sia stata debellata da antibiotici, e solo allora si potrà estrarre il dente cariato”. (Sintesi di Filosofia della Politica, pag. 84, Ed. Effedieffe, 2018).

Il “male minore” non significa compromesso

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di Matteo Castagna per www.informazionecattolica.it

I grandi maestri della tradizione cattolica S. Tommaso d’Aquino, S. Agostino, S. Alfonso hanno insegnato un aspetto della teologia morale che è il “male minore”. L’assolutismo morale di altri, in ambito cattolico, non appartiene al concetto classico stabilito dai Dottori della Chiesa.
Chi ignora la dottrina tomista inerente l’analogia, non riesce a cogliere la definizione di male come assenza di bene, in tutte le sue implicazioni.
“Un artefice sapiente produce un male minore per evitarne uno maggiore: come il medico taglia un membro perché l’intero corpo non perisca” (S. Tommaso, Summa Teologica I, q. 48, art. 6).
Saggiamente, il ricercatore e scrittore, dottore in Scienze religiose, Prof. Fabrizio Cannone, nel suo “Per una resistenza cattolica” (Ed. Solfanelli, 2016) afferma che in certa pubblicistica cattolica, poco accorta nella pratica, si è consolidata “l’idea peregrina” secondo cui il male minore non esisterebbe o, comunque da evitare, perché indice di compromesso.
Invece, infinite volte, la Chiesa, i Santi, i Pontefici e i prìncipi cattolici ne hanno fatto ricorso, optando, nello stato di necessità, per qualcosa che non era esente dal male, che lo rendeva privo di qualche o molte perfezioni.
L’intera questione 49 della prima parte della Summa Teologica è dedicata alle cause del male, con la premessa della questione 48 sull’esistenza di due mali: quello della colpa e quello della pena. Quest’ultimo è anche un bene, e senza alcuna contraddizione. Chi non comprende l’analogia intesa dell’Angelico non valuterà mai il fatto che il male minore possa essere, altresì, il bene maggiore che si può praticare in un determinato momento storico.
Il male, in quanto assenza di Bene, più che una realtà positiva, è una privazione di giustizia, di carità, di purezza, di fede, di umiltà, di moralità, di continenza, di potere e ricchezze leciti ecc., che viene da ciò che già esiste, come la natura o l’uomo. Così, paradossalmente, il male deriva dal bene. S. Agostino scrive, infatti, che “non c’è altra sorgente che il bene da cui possa derivare il male”.  Ovviamente lo è accidentalmente e indirettamente. S. Tommaso stabilisce che dio non è causa del male morale, ma può essere causa del male (analogico) , della corruzione o distruzione di una cosa. Infatti, il Signore “fa morire e fa vivere” (1, Sam 2,6).
Ad esempio, sul tema dell’aborto, sappiamo tutti che la legge 194 è male e andrebbe abolita. Inserirla come “diritto universale” è ancor peggio. Perciò il legislatore che si opponesse ad esso e che favorisse la presenza dei cattolici nei consultori, salverebbe moltissime vite. Questa opzione per il male minore, che produce il maggior bene possibile, è assolutamente conforme alla morale cattolica, così come concepita dal tomismo. Questo atteggiamento non va visto come compromissorio, ma come prudente e, soprattutto, metafisicamente fondato.
Ammettiamo che vi siano dei candidati (democraticamente) alle elezioni, che nella loro storia personale e politica si siano distinti più di altri nel rispetto dei princìpi cristiani, sebbene in altre occasioni, per vari motivi, abbiano sbagliato e optato per il male. Altri, invece, si sono sempre comportati da anti-cristiani, amorali, immorali, oppressori del popolo, giungendo perfino al satanismo, proponendo disvalori che gridano vendetta al cospetto di Dio.
Dovrei – si chiede p. Eriberto Jone, OFM, nel suo “Compendio di Teologia morale”, dotato di imprimatur, sotto il Pontificato di Pio XII (Ed. Marietti, 1955) – astenermi dal votare il candidato migliore, poiché comunque non buono in tanti aspetti, rischiando di contribuire all’elezione del candidato nettamente peggiore, come fanno quelli che non votano mai, non essendoci attualmente alcun partito conforme alla dottrina sociale della Chiesa? Evidentemente no. E’ doverosa la scelta del “male minore”, suffragata dalle risposte di S. Tommaso d’Aquino, del Magistero e della prassi secolare della Chiesa. Padre Dragone, nella sua “Spiegazione del catechismo di San Pio X”, Sodalitium, 2009, pag. 296-297, che dispone di imprimatur, dice: “Dio è padrone della vita. Non è quindi lecito uccidere. eccetto in tre casi: in guerra, per legittima difesa, per decisione dell’autorità competente. Ci sono, dunque, delle “eccezioni” in casi particolari.
“La cooperazione nell’approvazione di una legge cattiva è peccato. Si fa eccezione soltanto quando i deputati, con la loro cooperazione possono impedire qualche male peggiore” – continua p. Dragone (pag. 155, n. 295). Il massimalismo moralista, dunque, non è mai appartenuto alla storia ed alla dottrina cattolica, quanto è molto presente nella dimensione protestante e puritana, di cui non abbiamo bisogno, soprattutto in questi tempi in cui i veri cattolici non sono molti e vengono messi in un angolo dalla secolarizzazione.

 

Bergoglio a Verona: Volantinaggio e Rosario riparatore del Circolo Christus Rex-Traditio

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di Redazione www.2dipicche.news

Riceviamo e pubblichiamo integralmente il comunicato stampa del Circolo Christus Rex-Traditio.

I CATTOLICI TRADIZIONALISTI VERONESI: “BERGOGLIO NON È VERO PAPA, QUINDI NON È BEN ACCETTO A VERONA!”

Nei giorni scorsi i militanti cattolici tradizionalisti e sedevacantisti del Circolo Christus Rex-Traditio hanno distribuito 5.000 volantini a Verona e provincia, pubblicato sulla pagina Facebook del gruppo, per invitare i fedeli cattolici a pregare un Rosario di Riparazione per la conversione di Bergoglio al Cattolicesimo dal “modernismo”, di cui oggi si fa portavoce, come TUTTI i suoi predecessori, che, pur con stili diversi, hanno applicato il Concilio Vaticano II (1962-1965).

Abbiamo trovato tante persone d’accordo con noi e critiche verso Bergoglio e le sue uscite” – commenta il Portavoce del Circolo tradizionalista Avv. Andrea Sartori. “Anche se sabato ci sarà tanta gente, come ovvio, molti saranno coloro che staranno a casa o andranno solo per curiosità perché questo “pontificato” non piace. Il cattolico sincero non sente la voce del suo Pastore e si disperde”.

“Rompendo drasticamente con la Tradizione Apostolica – dice il Portavoce del Circolo Christus Rex-Traditio Avv. Andrea Sartori – chi aderisce al Vaticano II e alle riforme moderniste successive si pone fuori dalla Chiesa Cattolica.

L’unico modo possibile per interpretare quell’ assemblea è nell’ermeneutica della rottura con il Magistero Perenne della Chiesa, fino alla predicazione alterata di alcuni passi evangelici.  Nel suo sillabo di condanna degli errori modernisti, Papa San Pio X ha respinto l’idea che le scoperte della scienza o della storia dovessero portare a un ‘adattamento’ della dottrina (Decreto Lamentabilli sane, 64). Nel Gaudium et Spes, il Vaticano II del 1965 ha affermato che “i risultati della scienza sollevano nuove domande, che necessitano di nuove indagini teologiche (GS 62)”.

Prosegue l’Avv. Sartori:

“Desideroso di eliminare il modernismo, San Pio X lo ha denunciato infallibilmente nell’Enciclica Pascendi Dominici Gregis (1907) come presupposto errato, soprattutto perché prevedeva che, ogni volta che alcune questioni di Fede o Morale confliggono con gli insegnamenti della Chiesa, nella storia, gli insegnamenti della Chiesa dovessero sempre cambiare. Non è la Chiesa a dover cambiare, per piacere al mondo, perché si deve piacere a Dio, non ai capricci e ai desideri sregolati o ai peccati degli uomini.

Infatti – incalza il Portavoce del Circolo Christus Rex-traditio – Gesù Cristo ha detto: «se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”.

Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma faranno a voi tutto questo a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato». (Gv. 15,18-21)

Bergoglio e i suoi predecessori fino a Roncalli, nonché la gran parte dei religiosi e fedeli sedicenti cattolici degli ultimi 60 anni predicano una nuova dottrina,  diversa.

Ma San Paolo, nella Lettera ai Galati (1,6-10) scrive, quasi profeticamente:

«Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro Vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! Infatti, è forse il consenso degli uomini che cerco, oppure quello di Dio? O cerco di piacere agli uomini? Se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo!».

“Costoro, dunque, e mi riferisco a tutti i modernisti – conclude l’Avv. Andrea Sartori – si sono posti fuori dall’unica Chiesa di Cristo, Cattolica, Apostolica, Romana, per abbracciare altri principi ed altre idee, come se la Chiesa fosse una Ong travestita da chierico. Ci pensi, il Sig. Bergoglio, perché corrispondendo alla Grazia non è mai tardi per diventare cattolici”.

L’Addetta alle Relazioni Esterne per il Circolo Christus Rex-Traditio Lucia Rezzonico

 

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Marzo, il mese di San Giuseppe

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Redatto da: Sodalitium

 

Preghiera a San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale

A Voi o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il Vostro patrocinio, dopo quello della Vostra SS. sposa. Deh! Per quel sacro vincolo di carità che Vi strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio; e per l’amore paterno che portaste al fanciullo Gesù, riguardate, Ve ne preghiamo, con occhio benigno, la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col Vostro potere ed aiuto sovvenite ai nostri bisogni.
Proteggete, o provvido custode della divina Famiglia l’eletta prole di Gesù Cristo; cessate da noi, o padre amantissimo, cotesta peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assisteteci propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre o nostro fortissimo protettore; e come un tempo scampaste dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendete la Santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità, estendete ognora sopra ciascuno di noi il vostro patrocinio, acciocché col vostro esempio e mercé il vostro soccorso possiamo virtuosamente vivere, piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. R. Così Sia.
Ind. 3 a.; 7 a. al mese di ottobre, dopo la recita del rosario; 7 a. quals. mercoledì; plen. s.c. (solite condizioni) p.t.m. (se si recita ogni giorno per un mese intero).

Litanie di San Giuseppe
Kyrie, eleison,
Christe, eleison
Kyrie, eleison,
Christe, audi nos,
Christe, exaudi nos,
Pater de coelis Deus, miserere nobis
Fili Redemptor mundi Deus,
Spiritus Sancte Deus,
Sancta Trinitas, unus Deus,
Sancta Maria, ora pro nobis
Sancte Joseph
Proles David inclyta,
Lumen Patriarcharum
Dei Genitricis Sponse,
Custos pudice Virginis,
Fili Dei nutricie,
Christi defensor sedule,
Almae Familiae praeses,
Joseph justissime,
Joseph castissime,
Joseph prudentissime,
Joseph fortissime,
Joseph oboedientissime,
Joseph fidelissime,
Speculum patientiae,
Amator paupertatis,
Exemplar opificum,
Domesticae vitae decus,
Custos Virginum,
Familiarum columen,
Solatium miserorum
Spes aegrotantium,
Patrone morientium,
Terror daemonum,
Protector Sanctae Ecclesiae,
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Domine,
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos, Domine,
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
Ora pro nobis, Sancte Joseph
Ut digni efficiamur promissionibus Christi.
OREMUS
Deus qui ineffabili providentia beatum Joseph sanctissimæ Genitricis tuæ sponsum eligere dignatus es: præsta quæsumus, ut quem protectorem veneramur in terris, intercessorem habere mereamur in coelis. Qui vivis, ecc.
Il Sacro Manto a San Giuseppe
Il Sacro Manto è un particolare omaggio reso a San Giuseppe, per onorare la Sua persona e per meritare il Suo patrocinio. Si consiglia di recitare queste orazioni per 30 giorni consecutivi, in memoria dei trent’anni di vita vissuti da San Giuseppe in compagnia di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Sono senza numero le grazie che si ottengono da Dio, ricorrendo a San Giuseppe. Santa Teresa d’Avila (1515 – 1582) ha lasciato scritte queste parole illuminanti: “Chi vuol credere, faccia la prova, affinché si persuada.”

Discorso di Pio XII ai parroci di Roma per la Quaresima

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Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza

Comunicato n. 18/24 del 19 febbraio 2024, San Gabino

Discorso di Pio XII ai parroci di Roma per la Quaresima


Discorso di Sua Santità Pio XII ai Parroci di Roma e ai Predicatori della Quaresima, 6 Febbraio 1940

Una cara e veneranda consuetudine Ci porge la gioia e il conforto di vedere, all’approssimarsi del tempo quadragesimale, riuniti intorno a Noi i Parroci e gli oratori sacri dell’Urbe. In mezzo a voi proviamo una vicinanza e un affetto antico e nuovo; sentiamo come la responsabilità di Supremo Pastore e l’amore di Padre comune, che Ci uniscono con tutte le diocesi del mondo, Ci legano in più stretto vincolo e si ravvivano con il clero della città Nostra natale, ora affidato a Noi dallo Spirito Santo, il quale nella sua infinita degnazione Ci ha posto a reggere la Chiesa di Roma e a un tempo l’universale Chiesa di Dio (Act., XX, 28).

Ma le gravi sollecitudini sempre crescenti per il governo della Chiesa universale obbligano i Sommi Pontefici, oggi ancor più che nei tempi passati, a porre con fiducia in altre esperte mani le cure giornaliere della diocesi romana; onde in questa felice circostanza godiamo di esprimere e altamente manifestare dinanzi a voi gratitudine e sommo riconoscimento al Nostro carissimo e Venerabile Fratello il Cardinale Vicario e ai suoi collaboratori per lo zelo illuminato e indefesso con cui Ci coadiuvano nel ministero episcopale. Perciò mentre Ci rallegriamo, o diletti Figli, di salutarvi qui presenti, vogliamo ringraziare anche voi e, poiché conosciamo le vostre opere, le vostre fatiche e la vostra costanza (Apoc., II, 2), bramiamo di significarvi l’intima Nostra soddisfazione per la vostra commendevole attività.

Che se questo Nostro compiacimento Ci offre ora l’occasione d’intrattenerCi con voi su alcune esigenze della cura parrocchiale in Roma, desideriamo che nelle Nostre parole vediate e sentiate soprattutto un’approvazione per quello che avete conseguito o a cui aspirate, un paterno incoraggiamento a proseguire nella via iniziata, un’assicurazione che voi e Noi siamo animati e mossi dalle stesse intenzioni e dai medesimi disegni. Non è forse vero che noi tutti, sacerdoti, siamo costituiti mediatori di riconciliazione fra Dio e gli uomini? Mediatori, bensì, subordinati a Cristo, unico Mediatore fra Dio e gli uomini «unus mediator Dei et hominum homo Christus Iesus», che diede se stesso in redenzione per tutti, e per il quale Dio ci ha a sé riconciliati e ha dato a noi il ministero della riconciliazione «dedit nobis ministerium reconciliationis », e ci ha incaricati della parola di riconciliazione «posuit in nobis verbum reconciliationis. Pro Christo ergo legatione fiingimur» (I Tim., II, 5 -6; II Cor., V, 18-20). Siamo ambasciatori per Cristo in mezzo al mondo, come se Dio esortasse gli uomini per bocca nostra. A quest’alto concetto sacerdotale propostoci dal Dottore delle Genti solleviamo, diletti Figli, il nostro sguardo, le nostre aspirazioni e i nostri intendimenti; e con l’operoso nostro zelo esaltiamo e rendiamo in mezzo al popolo cristiano veneranda la nostra dignità di mediatori e ambasciatori di Cristo. Ma nella sacra gerarchia chi è mai più vicino al popolo se non il parroco, la cui missione caratterizzano e definiscono tre parole: apostolo, padre, pastore?

Siete cooperatori del Vescovo, successore degli Apostoli, col quale costituite un’unità morale, sicché anche per ognuno di voi vale il mandato della grande missione di Cristo; siete padri dei vostri parrocchiani, e potete ripetere loro le parole dell’Apostolo ai novelli Cristiani : «Filioli mei, quos iterum parturio, donec formetur Christus in nobis» (Gal., IV, 19); siete pastori del vostro gregge, secondo le impareggiabilmente belle ed esaurienti descrizioni e l’irraggiungibile modello del Buon Pastore, Gesù Cristo. Attorno a queste parole di così densa comprensione: apostolo, padre, pastore, vogliamo esporvi alcuni brevi punti, che concernono il benessere e la prosperità della Nostra diocesi di Roma.

1) Ogni parroco è un apostolo; ma soprattutto colui, che svolge l’opera sua in una grande città, deve sentire in sé le fiamme dello spirito apostolico e missionario e dello zelo conquistatore di un San Paolo. Se considerate i tempi moderni coi loro eventi politici e religiosi e col multiforme disviarsi dell’indagine filosofica e scientifica e dell’istruzione ed educazione civile dalle credenze religiose, voi non tarderete a vedere come si siano talmente mutate le antiche condizioni spirituali della società, che neanche in questa Nostra diletta Roma può più parlarsi di un terreno puramente, intieramente e pacificamente cattolico; perché, accanto a coloro — e sono magnifiche legioni — rimasti fermi nella fede, non mancano in ogni parrocchia circoli di persone, le quali, fattesi indifferenti o estranee alla Chiesa, costituiscono quasi un territorio di missione da riconquistare a Cristo.
Di tale duplice aspetto del suo popolo è dovere del parroco di formarsi con pronto ed agile intuito un quadro chiaro e minutamente particolareggiato, vorremmo dire topograficamente strada per strada, — cioè, da un lato, della popolazione fedele, e segnatamente dei suoi membri più scelti, da cui trarre gli elementi per promuovere la Azione Cattolica; e dall’altro, dei ceti che si sono allontanati dalle pratiche di vita cristiana. Anche questi sono pecorelle appartenenti alla parrocchia, pecorelle randage; e anche di queste, anzi di loro particolarmente, siete responsabili custodi, Figli dilettissimi; e da buoni pastori non dovete schivare lavoro o pena per ricercarle, per riguadagnarle, né concedervi riposo, finché tutte ritrovino asilo, vita e gioia nel ritorno all’ovile di Gesù Cristo. Tale è per il parroco il significato ovvio ed essenziale della parabola del Buon Pastore, di quel Pastore che è insieme Padre e Maestro. Tale è l’apostolo della parrocchia, il quale, al pari di Paolo, « Si fa debole coi deboli per guadagnare i deboli, e si fa tutto a tutti per far tutti salvi » (I Cor., IX, 22).

2) Il parroco è pastore e padre, pastore di anime e padre spirituale. Dobbiamo tener sempre presente, diletti Figli, che l’azione della Chiesa, tutta rivolta al regno di Dio che non è di questo mondo, se non vuol essere sterile, ma svolgersi vivificante, sana ed efficace, ha da tendere allo scopo che gli uomini vivano e muoiano nella grazia di Dio. Istruire i fedeli nel pensiero cristiano, rinnovare l’uomo nella sequela e nella imitazione di Cristo, spianare la via, pur sempre angusta, al regno del cielo e rendere veramente cristiana la città, tale è la missione propria del parroco come maestro, padre e pastore della sua parrocchia.
Nell’adempimento di questi doveri non lasciate distogliere e inceppare il vostro zelo dai lavori di amministrazione. Forse non pochi di voi hanno giornalmente a condurre aspra lotta per non restare oppressi dalle occupazioni amministrative e trovare il modo e il tempo indispensabile per la vera cura di anime. Ora, se l’organizzazione e l’amministrazione sono pure senza dubbio mezzi preziosi di apostolato, debbono però essere adattate e subordinate al ministero spirituale e al verace e proprio ufficio operosamente pastorale.

3) Per divino consiglio, anche il sacerdote, come ogni Vescovo «ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis» (Hebr., V, I); e perciò il sacro carattere di lui, intermediario tra Dio e gli uomini, si palesa, si svolge, si espande, si innalza e pienamente si sublima circondato e avvolto dalla suprema e somma luce del suo ministero, nel sacrificio della Santa Messa e nell’amministrazione dei Sacramenti. All’altare, al fonte battesimale, al tribunale di penitenza, alla mensa eucaristica, alla benedizione degli sposi, al letto degli infermi, all’agonia dei morenti, fra i fanciulli avidi ,del futuro e del cammino della vita, nelle famiglie e nelle scuole, negli asili del dolore e nelle case agiate, sul pulpito e nelle pie adunanze, dai sorrisi e dai vagiti delle candide culle ai silenti cimiteri dei riposanti nell’aspettazione di una rinascita immortale, il sacerdote è, nelle mani di Dio, il ministro, lo strumento più operante della poema, dell’amore, del perdono, della redenzione largita all’uomo decaduto per sottrarsi alla schiavitù e alle insidie di Satana, e ritornare al Padre celeste, come pellegrino rigenerato, rivestito di grazia, erede del cielo, ristorato dal viatico di un pane più vivo e salutifero che non fosse il frutto dell’albero della vita piantato in mezzo all’Eden. Tanto piacque al Figlio di Dio, Redentore del mondo, di esaltare a salute degli uomini il suo sacerdote!
Ponete quindi cura che la vostra dignità risplenda sempre innanzi al vostro popolo, e che questo del Santo Sacrificio e dei Sacramenti che amministrate conosca e comprenda con viva fede il significato e il valore, di guisa che con intelligente e personale partecipazione possa seguirne le mirabili cerimonie, come pure tutte le ineffabili bellezze della sacra liturgia. Ci è perciò di sommo conforto e letizia che quest’anno i Santi Sacramenti saranno, o diletti quaresimalisti, il tema centrale della vostra predicazione.
Voi tutti dunque, come certamente avete fatto sinora, celebrate con dignitosa e intima devozione i Santi Misteri, evitando con ogni sollecitudine che i riti sacri, per così dire, inaridiscano nelle mani del sacerdote. Senza dubbio non dipende dal personale merito del ministro l’effetto essenziale dei Sacramenti e si correrebbe il pericolo di ridurli a un mero atto esterno, se si attribuisse importanza principalmente alla loro efficacia psicologica. Ma proprio per stimolare i fedeli ad accostarsi a queste fonti soprannaturali e disporli a riceverne la grazia, dovete tenere come vostro sacro dovere il celebrare il Santo Sacrificio e l’amministrare i Sacramenti con quel profondo rispetto, con quella cosciente riverenza, con quell’interiore pietà che rendono le sacre funzioni esempi di edificazione e incitamenti di devozione. Premuto dalle dure contingenze della vita giornaliera, quando l’ora o la campana della parrocchia lo invitano, e destano, in mezzo al tumulto dei suoi affetti, il pensiero di Dio e il palpito dello spirito, allorché mette il piede sul limitare del tempio ed entra ad accomunarsi coi fedeli per assistere ai Sacri Misteri ed ascoltare la parola di Dio, che cerca mai, che desidera il cristiano? Che vuole il popolo? Esso vuole trovare alimento e ristoro anzitutto e soprattutto nella grazia che lo conforta, ma anche — e questo pure è volontà di Cristo — nell’effetto elevante che la magnificenza della casa di Dio e il decoro degli offici divini offrono all’occhio e all’orecchio, all’intelletto e al cuore, alla fede e al sentimento.
Dopo il Santo Sacrificio, il vostro atto più grave e rilevante è l’amministrazione del sacramento della Penitenza, che fu detto la tavola di salvezza dopo il naufragio. Siate pronti e generosi a offrire questa tavola ai naviganti nel procelloso mare della vita. Insistetevi con speciale zelo e piena dedizione; sedete in quel divino tribunale di accusa, di pentimento e di perdono, come giudici che nutrono in petto un cuore di padre e di amico, di medico e di maestro. E se lo scopo essenziale di questo sacramento è di riconciliare l’uomo con Dio, non perdete di vista che a raggiungere così alto fine giova potentemente quella direzione spirituale, per la quale le anime, più vicine che mai alla paterna voce del sacerdote, versano in lui le loro pene, i loro turbamenti e i loro dubbi e ne ascoltano fiduciose i consigli e gli ammonimenti; perché il popolo sente acuto il bisogno di confessori, che per virtù e per scienza teologica e ascetica, per maturità e ponderatezza, valgano a fornire illuminate e sicure norme di vita e di bene in maniera semplice e chiara, con tatto e benevolenza.

4) Quanto abbiamo detto fin qui riguarda specialmente il devoto e vigile ministero del parroco; ma oltre a questo, è suo stretto dovere di annunziare la parola di Dio (Can., 1344), dovere essenziale dell’apostolo, al quale viene affidato il «verbum reconciliationis» non meno che il «ministerium reconciliationis» (II Cor., V, 18-19). «Vae enim mini est, si non evangelizavero» (I Cor., IX, 16). Perché «fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi . . . Quomodo credent ei, quem non audierunt? Quomodo autem audient sine praedicante?» (Rom., X, 14-17). Come l’intelletto preluce alla volontà, così la verità è la lampada della buona azione. La parola è il veicolo della verità, e pur troppo anche dell’errore, che battono alla porta dell’intelletto e della volontà. Voi comprendete perché le ammonizioni dell’Apostolo connettano fede e udito, udito e predicatore, e perché, a sanare la cecità del mondo nel conoscere Dio parlante dalla sapienza lucente nell’universo «placuit Deo per stultitiam praedicationis salvos facere credentes» (I Cor., I, 21). Sublime stoltezza è questa; giacché la stoltezza di Dio è più saggia degli uomini (I Cor., I, 25) e il « disonor del Golgota » è la gloria di Cristo. Queste verità convengono pure, al pari degli ammonimenti dell’Apostolo, ai nostri tempi, in cui profonda è l’ignoranza religiosa e gravida di pericoli. Predicate la dottrina, le umiliazioni e le glorie del Salvatore divino; e poiché specialmente ogni domenica e nel tempo della quaresima numerosissimi cristiani si adunano intorno ai pulpiti, si offre a voi un’occasione unica, — che viene osservata con gelosia dagli araldi di altre concezioni — per rendere più potente e salda e profonda la fede nel popolo; e chi non si giovasse con ardente zelo di un’ora così opportuna, mancherebbe del senso d’illuminata responsabilità nel promuovere il bene, tanto necessario al vivere cristiano, dell’istruzione sacra.
Rendete con la predicazione familiari la persona e gli esempi dell’Uomo-Dio, poiché la vita religiosa dei singoli sboccia e si sviluppa con divina freschezza nella personale relazione e unione con Gesù Cristo. Predicate i misteri della fede; predicate la verità nella sua purezza e integrità fino nelle sue ultime conseguenze morali e sociali: di questo ha fame il popolo. Predicate con semplicità, mirando a quel senso pratico che arriva alla mente e si fa guida dello spirito. Non la scintillante e ricercata facondia conquista, oggi specialmente, le anime, bensì la parola con-vinta che parte dal cuore e va al cuore.
Coi grandi e coi maturi siate, ad immagine dell’apostolo Paolo, padri e dottori di perfezione; coi piccoli e coi giovani fatevi piccoli a guisa di madri «tamquam si nutrix foveat filios suos» (I Thess., II, 7). Non crediate coi piccoli e con gl’ignoranti di umiliarvi: uguale in valore alla predica è la catechesi, l’istruzione dei fanciulli come l’istruzione degli adulti. In tale ufficio il clero della parrocchia può certo contare sull’appoggio e sul concorso dell’Azione Cattolica; e a tutti quelli, che a così santa opera collaborano, Noi con sentimento paterno lieti mandiamo il Nostro profondo ringraziamento e la Benedizione Apostolica. Questa importante missione non dimenticate che i sacri canoni (1329-33) la suppongono come naturale e prima cura, a cui debba por mano colui che è messo curatore di anime. Lo zelo del sacerdote e la sua abilità sarà stimolo e modello ai collaboratori laici; e l’ora di catechismo offrirà al parroco propizia occasione di ritrovarsi con la giovane generazione della parrocchia. Non vi lasciate sfuggire l’occasione di preparare personalmente, quando vi riuscirà possibile, i fanciulli alla prima confessione e comunione : è il primo segreto incontro di voi e di Cristo, il divino amante dei piccoli, con anime ingenue che si accostano a voi e all’altare e si aprono, come fiori di primavera ai primi raggi del sole, e ne serbano indimenticato il ricordo attraverso il corso fluttuante della vita.

5) Non vogliamo infine tralasciare un tratto caratteristico della figura del Buon Pastore, il quale, oltre ad essere la Luce vera che illumina ogni uomo, veniente in questo mondo, nella verità, nella via e nella vita, prodigava fuori di sé la virtù sanatrice anche dei corpi e di ogni miseria umana «benefaciendo et sanando omnes» (Act., X, 38), e lasciando ai suoi Apostoli e alla sua Chiesa il mandato dell’amore misericordioso ai poveri, ai sofferenti, ai derelitti; perché la vita di quaggiù è un flusso e riflusso di beni e di mali, di pianto e di gioia, di bisogni e di soccorsi, di cadute e di risorgimenti, di lotte e di vittorie. Ma l’amore verso i fratelli tutti redenti da Cristo è il misterioso balsamo di ogni dolore e miseria.
Sull’inizio del secondo secolo, come voi ben sapete, S. Ignazio di Antiochia alla Chiesa di Roma, il cui anfiteatro egli, quasi leone morente fra i ruggiti dei leoni, stava per consacrare col suo sangue, dava già il titolo di «προκαζημένε τησ αγάπης»: espressione in cui, tra l’altro, si manifesta un riconoscimento onorevole e nobile della carità di lei, vale a dire che essa « ha il primato (anche) nell’amore » (Epist. ad Rom., II). La carità romana non è mai venuta meno nei secoli : essa brillò nelle catacombe, nelle case dei cristiani, negli ospedali, nei ricoveri dei pellegrini, degli orfani, nei randagi figli del popolo, nei pericoli delle famiglie e delle fanciulle, nei mille aspetti della sventura. Mostratevi degni dei vostri avi. Non vi è parrocchia, dove non vi sia penuria da sollevare; né può disinteressarsene una vita parrocchiale fiorente. Non conoscete voi ogni giorno quanto cresca il bisogno e la povertà, dove manifesta, dove occulta? Organizzate l’operosità della beneficenza, perché si svolga in maniera ordinata, giusta, uguale, vasta; animatela con vivo spirito d’amore, con rispetto delicato, con provvido sguardo verso coloro che senza colpa sono caduti nell’indigenza : qui miseretur, ammonisce S. Paolo, lo faccia in hilaritate (Rom., XII, 8), «con quel tacer pudico, che accetto il don ti fa» (Manzoni, Pentec.).
Attingete il coraggio e la luce nella storia della città e della diocesi di Roma. Per le sue grandezze, le sue decadenze e durezze di eventi, Roma non ha simili, e, in pari tempo, per le potenti manifestazioni della misericordia di Dio non ha uguali. Quanta è la dignità di questo colle Vaticano e di queste sponde del Tevere! Quanta è la gloria delle parrocchie e dei sacri titoli romani, dalle cui pareti mille ricordi e lapidi parlano e ammoniscono chi li contempla! Che se è pur dovere che gli animi nostri restino consapevoli della grave ed aspra ora che volge, la nostra vita e l’ardore nostro vogliono essere sostenuti dalla fiducia che la forza di Dio creerà anche oggi opere grandi e perfette; perché ogni sufficienza nostra viene da Lui: «Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur» (II Cor., III, 5 ; XII, 9).
Rivolgete in alto i vostri sguardi agli innumerevoli uomini, ché col loro sangue, come testimoni di Cristo, hanno abbeverato il suolo di questa città, agli eroi dello zelo, della parola e della carità, che con la santità della vita lo hanno reso fertile e rigoglioso, dai Principi degli Apostoli e dai Protomartiri della Chiesa romana sotto Nerone ai ministri di Dio, sacerdoti, religiosi, prelati e Pontefici, che in quest’Urbe furono lucerne ardenti e lucenti in secoli a noi più vicini. Con piena fiducia nella loro intercessione e specialmente in quella della Santissima Vergine, aiutandovi vicendevolmente con fraterno spirito sacerdotale, consacrandovi con piena e assidua dedizione all’opera di Cristo e della sua Chiesa, fate che questa città, diocesi Nostra particolare e anche cura vostra, tanto ampliatasi in pochi decenni e cresciuta, con straordinaria rapidità, di popolazione e splendore, sia, in faccia al mondo che qui conviene da ogni paese, modello di profonda fede, di costume cattolico e di cristiana carità.

Per questo impartiamo, diletti Figli, a voi e ai vostri collaboratori, a tutte le speranze e le intenzioni vostre, ai vostri parrocchiani, e specialmente alla gioventù, dalla pienezza del Nostro cuore paterno l’Apostolica Benedizione.

 

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