ASEAN e superpotenze: commercio, accordi, relazioni

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di Katehon think tank

L’Associazione delle Dieci Nazioni del Sud-Est Asiatico è stata creata come organizzazione per migliorare le relazioni commerciali tra i Paesi della regione, con l’obiettivo specifico di stabilire la pace e la stabilità sulla base dei principi della Carta delle Nazioni Unite, di accelerare lo sviluppo economico e socio-culturale e di mantenere una cooperazione reciprocamente vantaggiosa con organizzazioni internazionali di natura simile (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico // Geopolitica).

Negli ultimi 20 anni o più, la quota dell’Associazione nel PIL globale è aumentata lentamente ma costantemente, passando dal 4,8% nel 2000 al 6,4% nel 2019. [Allo stesso tempo, anche il livello complessivo del PIL degli Stati dell’ASEAN è in crescita: nel 2017 era di 2,85 trilioni di dollari e nel 2023 di 2,85 trilioni di dollari. Allo stesso tempo, il prodotto interno lordo (PIL) dei Paesi ASEAN è in aumento – da 2,85 trilioni di dollari nel 2017 a 3,96 trilioni di dollari nel 2023 (un forte calo solo nel 2019-2020 a causa della situazione epidemiologica nel mondo) (Prodotto interno lordo (PIL) dei Paesi ASEAN dal 2017 al 2027 // Statista). Filippine, Malesia, Thailandia, Singapore e Indonesia rappresentano la maggior parte del PIL tra i Paesi del Sud-Est asiatico. Quest’ultimo è il Paese più grande all’interno di questa organizzazione [2, p. 74].

Nel 2019, l’ammontare degli investimenti diretti esteri nei Paesi dell’organizzazione ha raggiunto più di 180 miliardi di dollari USA. Ciò rende l’Associazione la più grande in termini di investimenti tra le organizzazioni simili nel mondo (ASEAN Investment Report: 2020-2021. Investing in Industry 4.0 // ASEAN Main Portal). Solo nel 2020 questa cifra è scesa, sempre a causa della pandemia di coronavirus. In seguito, tuttavia, i Paesi hanno iniziato ad attrarre sempre più investimenti, soprattutto in infrastrutture attraverso progetti nazionali, espansione delle opportunità legali per il settore privato, ecc. Oggi gli investimenti attratti solo in questo ambito ammontano a 184 miliardi di dollari all’anno [2, p. 75]. Oggi gli investimenti attratti solo in questa sfera ammontano a 184 miliardi di dollari all’anno [Ibid., P.75]. Il principale “sponsor” in questo caso è la Cina, che sta investendo anche nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni dei Paesi ASEAN, anche per promuovere la propria iniziativa “One Belt, One Road”. [Ibidem].

Oltre alla Cina, l’azienda chimica britannica Linde ha iniziato a costruire un complesso integrato per la produzione di gas a Singapore. Royal Dutch Shell, un’azienda britannico-olandese con attività simili, ha aperto una filiale in Malesia e nelle Filippine. Questi progetti hanno un valore di diversi miliardi di dollari USA. La giapponese Toyota ha costruito uno stabilimento in Myanmar nel 2019 per un costo di circa 60 miliardi di dollari. La Ford degli Stati Uniti ha potenziato i suoi impianti vietnamiti per oltre 80 milioni di dollari e la Ford degli Stati Uniti ha potenziato i suoi impianti vietnamiti per oltre 80 milioni di dollari. Indonesia e Thailandia sono diventate anche le sedi di molti stabilimenti automobilistici di colossi come Mitsubishi, Mazda. “Nissan, Audi, BMW, ecc. [Ibid., pp. 75-76].

Inoltre, tutte le nuove multinazionali, come la giapponese Murata, che produce componenti elettronici, in Malesia, o la taiwanese USI, che produce chip elettronici, in Vietnam, si stanno stabilendo nel Sud-Est asiatico. Anche in questo caso, i progetti prevedono investimenti per diverse centinaia di miliardi di dollari. Inoltre, società della RPC, del Giappone, degli Stati Uniti, della Corea e dell’UE sono i principali investitori nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nonché nella costruzione di strutture per la mitigazione dei cambiamenti climatici per le fabbriche situate nella regione [1, pagg. 65-69].

La cooperazione attiva tra l’ASEAN e i Paesi europei si è sviluppata fin dall’inizio del XXI secolo. L’UE ha assistito i Paesi dell’Associazione nel miglioramento dell’economia, dell’istruzione, della medicina e della sicurezza. Nel 1994 l’ASEAN è stata definita “la base del dialogo europeo con i Paesi asiatici” e dal 2000 l’ASEAN e l’UE hanno iniziato a dialogare insieme. L’ASEAN e l’UE hanno iniziato a tenere riunioni congiunte a livello di ministri dell’economia e incontri economici. Dal 1995, il volume degli scambi commerciali tra i Paesi è cresciuto e all’inizio del 2010 rappresentava il 5% del commercio globale [6, p. 38-39].

Anche gli Stati Uniti sostengono l’ASEAN, includendo gli aiuti ai Paesi ASEAN nella loro pianificazione di bilancio annuale [7, p. 84]. Dalla presidenza di B. Obama, l’Indonesia è il partner strategico più importante per gli Stati Uniti nella regione e nel 2016 gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo economico nei confronti dell’ASEAN. Gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo economico sulla vendita di armi al Vietnam; B. Obama e H. Clinton hanno incontrato la nuova leader Aung San Suu Kyi in Myanmar dopo l’insediamento di un governo democratico; nel 2016 si è tenuto un vertice USA-ASEAN a Sunnylands Manor in California [3, p. 145]; nel 2022, John Biden ha annunciato il lancio del partenariato strategico globale ASEAN-USA [Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti e l’ASEAN stanno lanciando un partenariato strategico globale // TASS]. Dal 2002, gli Stati Uniti hanno fornito più di 12 miliardi di dollari in aiuti totali ai Paesi del Sud-Est asiatico. Gli Stati Uniti hanno inoltre fornito oltre 1,4 miliardi di dollari in aiuti umanitari per salvare vite umane, assistere in caso di disastri naturali, fornire aiuti alimentari d’emergenza e sostenere i rifugiati in tutto il Sud-est asiatico [U.S.-ASEAN Special Summit: New Era in U.S.-ASEAN Relations // U.S. Embassy & Consulates in Indonesia].

Il principale rivale degli Stati Uniti nella regione è la Russia. Il partenariato ASEAN-Russia risale al 1996, ma fino al 2012 il sostegno e il fatturato della Russia non erano all’altezza degli investimenti europei, americani e cinesi. Ma poi, dopo il 2014, la politica russa ha effettuato un “pivot to the East”. Nel 2018, il vertice ASEAN-Russia di Singapore ha innalzato il livello del dialogo tra la Federazione Russa e l’ASEAN a un partenariato strategico [Dichiarazione congiunta del terzo vertice ASEAN-Federazione Russa sul partenariato strategico // Sito web del Presidente russo]. Il commercio complessivo ASEAN-Russia ha raggiunto i 18,2 miliardi di dollari nel 2019. Gli investimenti diretti esteri della Russia nell’ASEAN sono stati pari a 45 milioni di dollari. TUTTAVIA, LA RUSSIA È SOLO IL NONO CONTRIBUTORE DELL’ASEAN. Tuttavia, la Russia è solo il nono partner commerciale dell’ASEAN e il decimo partner per gli investimenti diretti esteri. Il contributo annuale della Russia al Dialogue Partnership Fund, istituito per rafforzare la cooperazione diversificata tra la Federazione Russa e l’Associazione, è di 1,5 milioni di dollari. Il contributo annuale della Federazione Russa al Fondo di partenariato per il dialogo, istituito per rafforzare la cooperazione multiforme tra la [Federazione Russa e l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico], ammonta a 1,5 milioni di dollari. Si può dire che i meccanismi di cooperazione non sono ancora perfetti; tuttavia, la Russia continua a partecipare attivamente agli accordi con l’ASEAN sugli investimenti nei settori dell’energia, della medicina, della tecnologia dell’informazione, ecc. Inoltre, durante le consultazioni tra S.Y. Glazyev, Ministro per l’Integrazione e la Macroeconomia della Commissione Economica Eurasiatica – l’organo di governo dell’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) – e S. Singh, Vice Segretario Generale per gli Affari della Comunità Economica dell’ASEAN, nel 2021. Le parti hanno dichiarato l’intenzione di sviluppare la cooperazione tra le comunità imprenditoriali dell’EAEU e dell’ASEAN [EAEU and ASEAN declared their intention to promote business cooperation // Russian Union of Industrialists and Entrepreneurs], e nel 2023, a seguito di un incontro tra Glazyev e il Segretario Generale dell’ASEAN K. A Jakarta si è giunti alla conclusione che l’EAEU e l’ASEAN sono focalizzate sullo sviluppo della cooperazione tra le associazioni e che i settori dell’energia, dell’alimentazione, del turismo e della digitalizzazione sono stati indicati come prioritari in questa cooperazione [EAEU and ASEAN are focused on developing cooperation – EEC // RAPSI].

La cooperazione tra l’ASEAN e la RPC ha iniziato a svilupparsi rapidamente dopo l’inclusione di diversi Paesi della regione nell’iniziativa della Via della Seta Marittima del XXI secolo, che si è rivelata vantaggiosa per i Paesi, in quanto il progetto prevede la creazione di nuove rotte marittime dalla costa cinese alla regione del Pacifico meridionale attraverso il Mar Cinese Meridionale e dalle aree costiere della RPC alle coste dell’Europa attraverso il Mar Cinese Meridionale e l’Oceano Indiano [5, P. 5-6]. Nel 2018, durante la conferenza Cina-ASEAN, Han Zheng, vice premier del Consiglio di Stato cinese, ha formulato le principali aree di cooperazione tra Cina e ASEAN: rafforzamento della coniugazione delle strategie; promozione della cooperazione commerciale e degli investimenti; rafforzamento della cooperazione nella costruzione di una catena produttiva e logistica con una più profonda integrazione; implementazione dei progetti ferroviari Cina-Laos e Giacarta-Bandung, della linea ferroviaria nella Thailandia orientale, ecc. [Ibidem].

Inoltre, la Cina ha condotto due volte esercitazioni marittime congiunte con i Paesi del Sud-Est asiatico nel 2018 e nel 2019, Oltre ad aver co-presieduto il gruppo di esperti antiterrorismo alla riunione dei ministri della Difesa dell’ASEAN, dove è stata proposta la prima esercitazione militare su larga scala in Cina nell’ambito di questo meccanismo [中国-东盟合作事实与数据:1991-2021 [China-ASEAN Cooperation in Facts and Figures: 1991-2021 ] // 中华人民共和国外交部 [Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese]. Il 22 novembre 2021, il presidente cinese Xi Jinping e i leader dell’ASEAN hanno partecipato congiuntamente a un vertice commemorativo per celebrare il trentesimo anniversario dell’istituzione delle relazioni di dialogo Cina-ASEAN. Le due parti hanno inoltre tenuto altri 24 incontri dei leader e due vertici speciali. Le due parti hanno istituito 12 meccanismi di incontro a livello ministeriale su diplomazia, economia, commercio, trasporti, dogane, controllo di qualità, salute, telecomunicazioni, cultura e lotta alla criminalità transnazionale. A fine giugno 2021, gli investimenti bilaterali cumulativi superavano i 310 miliardi di dollari. L’ASEAN È LA TERZA ECONOMIA MONDIALE. L’ASEAN è la terza fonte di investimenti esteri per la Cina e nel 2020. La Cina è diventata la quarta fonte di investimenti diretti esteri dell’ASEAN [Ibid].

Pertanto, tutte le principali potenze mondiali sono ora interessate a cooperare con l’ASEAN. Per i Paesi dell’UE è un importante partner economico; per gli Stati Uniti è un alleato strategico; per la Cina è un modo per promuovere i propri progetti e iniziative nazionali; e per la Russia è un partner “orientale” che mantiene ancora legami con la Russia nelle attuali circostanze politiche e con il quale si tengono ancora oggi incontri e riunioni regolari per discutere le condizioni e le aree di ulteriore cooperazione.

 

articolo completo: ASEAN e superpotenze: commercio, accordi, relazioni | Геополитика.RU (geopolitika.ru)

La de-dollarizzazione entra nel vivo

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di Pepe Escobar

 

È ormai assodato che lo status del dollaro USA come valuta di riserva globale si sta erodendo. Quando i media occidentali iniziano ad attaccare seriamente la narrazione della de-dollarizzazione del mondo multipolare, si capisce che il panico a Washington è ormai pienamente diffuso.

I numeri: la quota del dollaro nelle riserve globali era del 73% nel 2001, del 55% nel 2021 e del 47% nel 2022. Il dato fondamentale è che l’anno scorso la quota del dollaro è scivolata 10 volte più velocemente rispetto alla media degli ultimi due decenni.

Ora non è più inverosimile prevedere una quota globale del dollaro di appena il 30% entro la fine del 2024, in coincidenza con le prossime elezioni presidenziali statunitensi.

Il momento decisivo – l’effettiva causa scatenante della caduta dell’egemone – è stato nel febbraio 2022, quando oltre 300 miliardi di dollari di riserve estere russe sono state “congelate” dall’Occidente collettivo e ogni altro Paese del pianeta ha iniziato a temere per i propri depositi di dollari all’estero. In questa mossa assurda, però, c’è stato un po’ di sollievo comico: l’UE “non riesce a trovare” la maggior parte di essi.

Passiamo ora ad alcuni sviluppi essenziali sul fronte del commercio.

Secondo il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov, oltre il 70% degli accordi commerciali tra Russia e Cina utilizza il rublo o lo yuan.

Russia e India commerciano petrolio in rupie. Meno di quattro settimane fa, il Banco Bocom BBM è diventato la prima banca latinoamericana a partecipare direttamente al sistema di pagamento interbancario transfrontaliero (Cross-Border Interbank Payment System, CIPS), che è l’alternativa cinese al sistema di messaggistica finanziaria guidato dall’Occidente, SWIFT.

La cinese CNOOC e la francese Total hanno firmato il loro primo scambio di GNL in yuan attraverso lo Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange.

Anche l’accordo tra Russia e Bangladesh per la costruzione dell’impianto nucleare di Rooppur non prevede l’uso del dollaro. Il primo pagamento di 300 milioni di dollari sarà in yuan, ma la Russia cercherà di cambiare i successivi in rubli.

Il commercio bilaterale tra Russia e Bolivia accetta ora pagamenti in boliviano. Questo è estremamente pertinente, considerando la spinta di Rosatom ad essere una parte cruciale dello sviluppo dei depositi di litio in Bolivia.

In particolare, molti di questi scambi coinvolgono i Paesi BRICS – e non solo. Almeno 19 nazioni hanno già chiesto di entrare a far parte del BRICS+, la versione allargata della principale istituzione multipolare del XXI secolo, i cui membri fondatori sono Brasile, Russia, India e Cina, e poi il Sudafrica. I ministri degli Esteri dei cinque membri originari inizieranno a discutere le modalità di adesione dei nuovi membri in un vertice che si terrà a giugno a Capetown.

Il BRICS, nella sua forma attuale, è già più importante del G7 per l’economia globale. Gli ultimi dati del FMI rivelano che gli attuali cinque Paesi BRICS contribuiranno alla crescita globale per il 32,1%, rispetto al 29,9% del G7.

Con l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia, l’Indonesia e il Messico come possibili nuovi membri, è chiaro che i principali attori del Sud globale stanno iniziando a concentrarsi sulla quintessenza dell’istituzione multilaterale in grado di distruggere l’egemonia occidentale.

Il presidente russo Vladimir Putin e il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (MbS) stanno lavorando in totale sincronia, mentre la partnership di Mosca con Riyadh nell’OPEC+ si trasforma in BRICS+, parallelamente all’approfondimento della partnership strategica Russia-Iran.

MbS ha intenzionalmente indirizzato l’Arabia Saudita verso il nuovo trio di potere dell’Eurasia, Russia-Iran-Cina (RIC), allontanandosi dagli Stati Uniti. Il nuovo gioco in Asia occidentale è l’imminente BRIICSS, che vede la partecipazione di Iran e Arabia Saudita, la cui storica riconciliazione è stata mediata da un altro peso massimo dei BRICS, la Cina.

È importante notare che l’evoluzione del riavvicinamento irano-saudita implica anche una relazione molto più stretta tra il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) nel suo complesso e il partenariato strategico Russia-Cina.

Ciò si tradurrà in ruoli complementari – in termini di connettività commerciale e sistemi di pagamento – per il Corridoio Internazionale di Trasporto Nord-Sud (INSTC), che collega Russia-Iran-India, e per il Corridoio Economico Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale, un asse portante dell’ambiziosa e multimiliardaria Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino.

Oggi solo il Brasile, con il suo presidente Luiz Inácio Lula Da Silva ingabbiato dagli americani e una politica estera erratica, rischia di essere relegato dai BRICS allo status di attore secondario.

Oltre il BRIICS

Il treno della de-dollarizzazione è stato spinto ad alta velocità dagli effetti cumulati del caos della catena di approvvigionamento legato a Covid e dalle sanzioni collettive occidentali contro la Russia.

Il punto essenziale è questo: I BRICS hanno le materie prime e il G7 controlla la finanza. Quest’ultima non può coltivare le materie prime, ma la prima può creare valute, soprattutto quando il loro valore è legato a beni tangibili come oro, petrolio, minerali e altre risorse naturali.

Il fattore chiave di oscillazione è probabilmente il fatto che il prezzo del petrolio e dell’oro si sta già spostando verso la Russia, la Cina e l’Asia occidentale.

Di conseguenza, la domanda di obbligazioni denominate in dollari sta lentamente ma inesorabilmente crollando. Trilioni di dollari statunitensi cominceranno inevitabilmente a tornare a casa, distruggendo il potere d’acquisto del dollaro e il suo tasso di cambio.

Il crollo di una moneta armata finirà per distruggere l’intera logica che sta alla base della rete globale di oltre 800 basi militari degli Stati Uniti e dei loro bilanci operativi.

Da metà marzo, a Mosca, durante il Forum economico della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) – una delle principali organizzazioni intergovernative dell’Eurasia formatesi dopo la caduta dell’URSS – si discute attivamente di un’ulteriore integrazione tra la CSI, l’Unione Economica dell’Eurasia (EAEU), l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO) e i BRICS.

Le organizzazioni eurasiatiche che coordinano il contrattacco all’attuale sistema a guida occidentale, che calpesta il diritto internazionale, sono state non a caso uno dei temi chiave del discorso del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov alle Nazioni Unite all’inizio di questa settimana. Non è nemmeno un caso che quattro Stati membri della CSI – la Russia e tre “stan” dell’Asia centrale – abbiano fondato la SCO insieme alla Cina nel giugno 2001.

L’accoppiata Davos/Grande Reset globalista, a tutti gli effetti, ha dichiarato guerra al petrolio subito dopo l’inizio dell’Operazione militare speciale (OMS) della Russia in Ucraina. Hanno minacciato l’OPEC+ di isolare la Russia – o altrimenti, ma hanno fallito in modo umiliante. L’OPEC+, gestita di fatto da Mosca-Riyadh, ora governa il mercato globale del petrolio.

Le élite occidentali sono nel panico. Soprattutto dopo la notizia bomba lanciata da Lula in terra cinese durante la sua visita con Xi Jinping, quando ha invitato l’intero Sud globale a sostituire il dollaro USA con le proprie valute nel commercio internazionale.

Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea (BCE), ha recentemente dichiarato al Council of Foreign Relations di New York – il cuore della matrice dell’establishment statunitense – che “le tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina potrebbero far aumentare l’inflazione del 5% e minacciare il dominio di dollaro ed euro”.

Il pensiero monolitico dei media mainstream occidentali è che le economie dei BRICS che commerciano normalmente con la Russia “creano nuovi problemi al resto del mondo”. È un’assurdità: crea solo problemi al dollaro e all’euro.

L’Occidente collettivo sta raggiungendo la “Fila della Disperazione”, ora in concomitanza con lo stupefacente annuncio di un ticket presidenziale statunitense Biden-Harris che si ricandiderà nel 2024. Ciò significa che i responsabili neocon dell’amministrazione statunitense raddoppieranno il loro piano per scatenare una guerra industriale contro la Russia e la Cina entro il 2025.

Arriva il petroyuan

E questo ci riporta alla de-dollarizzazione e a ciò che sostituirà la valuta di riserva egemonica del mondo. Oggi il CCG rappresenta oltre il 25% delle esportazioni globali di petrolio (l’Arabia Saudita è al 17%). Oltre il 25% delle importazioni di petrolio della Cina proviene da Riyadh. E la Cina, come prevedibile, è il primo partner commerciale del CCG.

La Borsa del petrolio e del gas naturale di Shanghai è entrata in funzione nel marzo 2018. Oggi qualsiasi produttore di petrolio, di qualsiasi paese, può vendere a Shanghai in yuan. Ciò significa che l’equilibrio di potere nei mercati petroliferi si sta già spostando dal dollaro USA allo yuan.

Il problema è che la maggior parte dei produttori di petrolio preferisce non tenere grandi scorte di yuan; dopo tutto, tutti sono ancora abituati al petrodollaro. Pechino ha quindi deciso di collegare i futures sul greggio a Shanghai alla conversione dello yuan in oro. Il tutto senza toccare le enormi riserve auree della Cina.

Questo semplice processo avviene attraverso le borse dell’oro istituite a Shanghai e Hong Kong. E, non a caso, è al centro di una nuova valuta che scavalca il dollaro, in discussione presso l’EAEU.

L’eliminazione del dollaro ha già un meccanismo: sfruttare appieno i contratti petroliferi futuri in yuan della Shanghai Energy Exchange. Questo è il percorso preferito per la fine del petrodollaro.

La proiezione del potere globale degli Stati Uniti si basa fondamentalmente sul controllo della valuta globale. Il controllo economico è alla base della dottrina del Pentagono “Full Spectrum Dominance”. Tuttavia, ora anche la proiezione militare è in crisi, con la Russia che mantiene un’avanzata irraggiungibile sui missili ipersonici e Russia-Cina-Iran in grado di schierare una serie di portaerei-killer.

L’eemone – aggrappato a un cocktail tossico di neoliberismo, demenza sanzionatoria e minacce difgfuse – sta sanguinando dall’interno. La de-dollarizzazione è una risposta inevitabile al collasso del sistema. In un ambiente Sun Tzu 2.0, non c’è da stupirsi che la partnership strategica Russia-Cina non abbia intenzione di interrompere il nemico quando è così impegnato a sconfiggere se stesso.

Pubblicato su The Cradle

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Articolo completo: https://www.geopolitika.ru/it/article/la-de-dollarizzazione-entra-nel-vivo

La nuova moneta di Argentina e Brasile

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di Katehon think tank

L’Argentina e il Brasile stanno riprendendo le discussioni per la creazione di una moneta comune per le transazioni finanziarie e commerciali, rilanciando un piano spesso discusso che dovrà affrontare numerosi ostacoli politici ed economici. La nuova valuta si chiamerà “sur” (“sud” in spagnolo). Secondo il Financial Times, altri Paesi dell’America Latina saranno invitati ad aderire al progetto.

Alla vigilia dell’incontro di Buenos Aires, il brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva e l’argentino Alberto Fernandez hanno scritto un articolo congiunto sul quotidiano argentino Perfil, osservando che la condivisione delle loro valute potrebbe favorire il commercio regionale. “Intendiamo superare gli ostacoli al nostro scambio, semplificare e modernizzare le regole e promuovere l’uso delle valute locali. Abbiamo anche deciso di portare avanti le discussioni su una valuta comune sudamericana che possa essere utilizzata per le transazioni finanziarie e commerciali, riducendo i costi delle transazioni e la nostra vulnerabilità esterna”, si legge nel comunicato.

Il Brasile e l’Argentina hanno deciso di portare avanti congiuntamente la creazione di una moneta comune, il Sud. Questa moneta non sostituirà le valute dell’Argentina (“Peso argentino”) e del Brasile (“Real”). Sarà utilizzata solo per gli scambi commerciali tra i due Paesi per ridurre la dipendenza dal dollaro e, secondo il ministro delle Finanze brasiliano, per “aiutare l’Argentina ad acquistare beni brasiliani senza intaccare le sue riserve di dollari”. Lula ha elaborato dei piani per creare una moneta comune a beneficio di entrambi i Paesi, in modo da dipendere sempre meno dal dollaro per le transazioni internazionali.

Particolare attenzione sarà rivolta alla reindustrializzazione delle economie con la creazione di posti di lavoro di qualità e investimenti nell’innovazione. Il commercio tra Argentina e Brasile presenta già un’elevata quota di prodotti industrializzati in settori strategici. L’integrazione tra le catene di produzione aiuta a mitigare gli shock esterni, come quelli sperimentati durante la pandemia. I Paesi potranno evitare di affidarsi a fornitori esterni per avere accesso a forniture e beni essenziali per il benessere delle loro popolazioni.

Contesto dello sviluppo dell’idea e dell’inflazione

L’ultima proposta arriva in un momento in cui l’Argentina sta lottando con l’inflazione più alta degli ultimi trent’anni e molti mercati emergenti sono alla ricerca di alternative al forte dollaro statunitense. L’economia brasiliana è destinata a crescere quest’anno e la nuova amministrazione di Lula intende aumentare significativamente la spesa pubblica per mantenere le promesse elettorali.

Secondo un portavoce del governo brasiliano, i negoziati sono stati avviati dall’Argentina. La moneta surrogata non sostituirà il real e il peso argentino – almeno in un primo momento – e sarà utilizzata accanto ad essi. Secondo Bloomberg, i colloqui sono in una fase iniziale e non c’è una tempistica per raggiungere l’obiettivo.

Le due maggiori economie del Sud America stanno valutando da decenni la possibilità di coordinare le loro valute, spesso per contrastare l’influenza del dollaro nella regione. I persistenti squilibri macroeconomici di entrambi i Paesi, così come i continui ostacoli politici all’idea, hanno portato a pochi progressi pratici.

Nel 1987, i leader dei due Paesi hanno annunciato la creazione di un’unità di conto comune, chiamata gaucho, per misurare il commercio tra i Paesi. L’idea fallì a causa delle differenze e dell’elevata volatilità che interessava i Paesi.

Nel 2019, l’allora presidente brasiliano Jair Bolsonaro dichiarò che Brasile e Argentina si stavano preparando a fare il “primo passo” verso “il sogno di una moneta unica nel blocco Mercosur”. L’idea è stata accolta con scetticismo in Brasile: lo speaker della Camera dei deputati nazionale ha suggerito che il piano potrebbe portare a un indebolimento del real brasiliano e a un ritorno dell’inflazione, e la banca centrale del Paese ha ufficialmente negato qualsiasi discussione su un’unione valutaria.

Nel 2021, il ministro dell’Economia brasiliano Paulo Guedes ha affermato che in una potenziale unione valutaria nel Mercosur, il Brasile potrebbe assumere il ruolo svolto dalla Germania nell’eurozona.

Le due nazioni si trovano ora ad affrontare problemi simili. L’Argentina ha un tasso di inflazione annuale di quasi il 100%, mentre il Brasile è al 5,8%. Anche il rapido deprezzamento del peso rispetto al real e l’autonomia della banca centrale brasiliana, che potrebbe opporsi all’iniziativa, sono ostacoli significativi.

In tutto il mondo, i Paesi stanno cercando modi per aggirare l’uso del dollaro USA e stanno cercando di vendere la maggior parte del loro debito in valute locali. La Russia accetta pagamenti esteri in rubli da quando sono state imposte le sanzioni, in seguito al lancio di un’operazione militare speciale in Ucraina. I Paesi asiatici stanno cercando di espandere l’uso dello yuan cinese. L’India e gli Emirati Arabi Uniti stanno cercando di espandere il commercio in rupie.

Critiche

Il commercio tra Argentina e Brasile sta soffrendo a causa del deficit in dollari dell’Argentina. La maggior parte degli economisti ha interpretato la notizia di una potenziale moneta comune tra Brasile e Argentina come un’iniziativa per creare un’unione valutaria.

Se la maggior parte dei contratti in America Latina e con gli altri continenti fosse denominata in valute regionali, la sostenibilità e l’utilizzabilità di tali valute aumenterebbero. Per le imprese e i cittadini sarà più facile pensare in termini di queste valute regionali. I contratti non saranno più espressi in dollari o in euro.

Anche la diversa sensibilità delle due economie agli shock esterni gioca un ruolo importante. Se un Paese, ad esempio, esporta materie prime i cui prezzi sono in calo, può stabilizzare l’effetto sulla propria bilancia dei pagamenti indebolendo la propria valuta. Ma se un partner dell’unione monetaria non vende queste stesse materie prime, l’indebolimento della sua moneta sconvolgerà al contrario l’equilibrio dei flussi esterni.

La teoria dell’area valutaria ottimale e la pratica dell’area dell’euro suggeriscono che, per il successo di una moneta regionale, i paesi devono essere economicamente e politicamente simili e devono essere importanti partner commerciali e finanziari l’uno dell’altro. Inoltre, devono essere disposti a integrarsi ulteriormente, ad esempio per facilitare i flussi di manodopera e di capitali, attenuare gli shock fiscali e proteggere l’unione monetaria.

La principale difficoltà nel formare un’alleanza di questo tipo è l’instabilità politica tra i Paesi e al loro interno. Le relazioni tra Argentina e Brasile si sono un po’ normalizzate con l’arrivo al potere di governi di centro-sinistra in entrambi i Paesi, ma le dinamiche politiche in America Latina sono tali che è difficile fare previsioni a lungo termine.

Per ora, la creazione di un’alleanza è solo un’idea che è solo a livello di discussione, molto lontana dall’essere realizzata, anche se la regione nel suo complesso ha un buon potenziale per i processi di integrazione.

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha dichiarato che Caracas sostiene l’iniziativa di Brasile e Argentina di creare una moneta unica sudamericana, ha riferito Xinhua.

Opportunità per la ripresa economica congiunta del “cono” nel contesto dell’integrazione comune

I Paesi del Cono Sud avevano grandi speranze con la formazione del MERCOSUR. Ma le aspettative che l’apertura del mercato brasiliano avrebbe dato dinamismo al loro sviluppo economico non sono state del tutto soddisfatte. Per il Brasile stesso, il MERCOSUR sta diventando più un progetto politico, con le considerazioni economiche che passano in secondo piano. La capacità del Brasile di agire come “locomotiva” dello sviluppo economico è limitata. La necessità del Brasile di importare materie prime, ad eccezione dell’energia, sta gradualmente diminuendo grazie alla sua grande dotazione mineraria. Il suo interesse per i partner latinoamericani è inoltre limitato dalla scarsa competitività dei loro prodotti, che impedisce alle multinazionali brasiliane di organizzare catene di produzione con loro. Infine, la capacità del Brasile come fonte di investimenti per i Paesi latinoamericani è insufficiente.

Nell’attuale fase di integrazione latinoamericana, le tendenze centrifughe sono forti, oltre a quelle centripete.

Risultati del Vertice CELAC 2023

I documenti adottati al Vertice della CELAC riflettono in generale una posizione equilibrata e costruttiva dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi sullo sfondo di sfide globali come l’aumento delle tensioni geopolitiche, i crescenti problemi di sicurezza alimentare ed energetica, le conseguenze della pandemia.

Tutti i 33 Paesi partecipanti hanno emesso un documento in 100 punti con 11 dichiarazioni speciali che fanno riferimento alla “necessità di dialogo e integrazione regionale”, nonostante le differenze politiche tra alcuni Paesi della regione. Tutti gli Stati si sono impegnati a progredire nella ricerca di aree di cooperazione sovranazionale per progetti di beneficio comune, in particolare su questioni economiche, sociali e di sicurezza.

Nella discussione sulla democrazia e i diritti umani, gli Stati non hanno raggiunto un compromesso a causa delle diverse posizioni sul tema.

Hanno sottolineato la necessità di cercare progetti di interesse multinazionale nella regione che rafforzino la cooperazione e portino benefici condivisi ai Paesi della regione.

Lula ha sottolineato che il Brasile sta tornando a far parte della CELAC. Questo è importante perché tre anni fa l’ex presidente Bolsonaro ha ritirato il Brasile dalla CELAC. Lula ha ricordato che, quando era al potere dal 2003 al 2010, è stato uno dei promotori della CELAC.

Le relazioni tra Argentina e Brasile e la proposta di creare una nuova moneta

Poco prima della riunione della CELAC del 24 gennaio 2023, i presidenti di Argentina e Brasile si sono incontrati per “promuovere il commercio bilaterale e sviluppare progetti comuni”.

I governi brasiliano e argentino hanno concordato di promuovere congiuntamente la creazione di una moneta comune e di facilitare il commercio bilaterale e lo sviluppo di progetti comuni, tra i quali l’Argentina sta cercando di costruire un gasdotto per esportare gas nel Paese vicino. L’inflazione nel 2022 supera il 95% e l’impossibilità di rivolgersi ai mercati internazionali per i finanziamenti rende difficile la realizzazione di grandi opere pubbliche. Uno dei progetti infrastrutturali più urgenti per il governo argentino è il gasdotto. L’importanza della cooperazione tra i due Paesi, e del progetto del gasdotto in particolare, è data dal fatto che l’Argentina vuole riprendere le esportazioni di gas e non dipendere dal gas della Bolivia.

Il presidente argentino ha ora chiesto al Brasile di finanziare il prolungamento del gasdotto fino al confine condiviso dai due Paesi per poter esportare il surplus. L’Argentina ha smesso di essere un Paese esportatore di gas molti anni fa e ogni inverno deve acquistare gas liquefatto dalla Bolivia. A causa di questo le importazioni devono spendere fino a 1,2 miliardi di dollari al mese durante i mesi più freddi dell’anno. In risposta, Lula ha detto che è possibile che il Brasile proponga delle condizioni per il progetto.

Le conclusioni di questo incontro sono anche in linea con le dichiarazioni rilasciate dopo la riunione della CELAC, in cui 33 Paesi, tra cui Argentina e Brasile, si sono impegnati a cercare progetti comuni a beneficio dei Paesi della regione.

Relazioni Argentina-Stati Uniti

Come ha detto il leader argentino durante i colloqui, il suo Paese si trova in una situazione difficile. L’Argentina vuole liberarsi dalla dipendenza dagli Stati Uniti, dal momento che Buenos Aires ha accumulato un grave debito estero soprattutto a causa di Washington.

Fernandez ha spiegato che per decenni l’economia argentina è stata “molto dipendente dagli Stati Uniti”. La presidente ha aggiunto che “il debito con il FMI è sorto anche a causa di questo rapporto”.

Le difficoltà nella ristrutturazione dell’economia sono state aggravate dal fatto che per diversi anni il Paese è stato al potere a favore dell’integrazione con gli Stati Uniti.

Relazioni tra Brasile e Stati Uniti

Con l’avvento del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, gli Stati Uniti hanno un nuovo partner nella regione che fungerà da interlocutore regionale.

In precedenza, questo ruolo era stato riservato al presidente argentino Alberto Fernández. Ma per gli Stati Uniti il Brasile è un partner strategico di grande importanza, molto più importante dell’Argentina. Biden ha ora un nuovo partner nella regione, Luiz Inácio Lula da Silva, che sembra più adatto a svolgere il ruolo di interlocutore regionale.

Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden considera il suo omologo brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva un leader mondiale. Una dichiarazione a seguito di una recente telefonata tra i leader statunitensi e brasiliani ha sottolineato che i due hanno concordato di lavorare insieme su questioni quali “il cambiamento climatico, lo sviluppo economico, la pace e la sicurezza”.

Lo stesso leader brasiliano ha poi ammesso di voler discutere con il suo omologo statunitense dei preparativi del Partito Democratico americano per le prossime elezioni presidenziali di due anni, alla luce della crescente popolarità dei repubblicani. Inoltre, ha proposto un’iniziativa per creare un nuovo formato internazionale che aiuti a risolvere il conflitto in Ucraina. Ma finora non è stata sostenuta.

La Silicon Valley Bank è fallita, e non è un episodio accidentale

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di Andrea Zhok

La Silicon Valley Bank è fallita. Se si trattasse di un episodio accidentale di mala gestione potrebbe essere un fatto secondario.
Tuttavia, come segnalato da molti analisti, questo fallimento dipende in modo critico dall’inasprimento della linea monetaria promosso dalla FED per rispondere all’inflazione (esogena).
L’inflazione statunitense non è tanto dovuta all’aumento dei costi delle materie prime (come avviene in Europa), quanto ad un processo mondiale generale di vendita degli asset in dollari (ad una ridotta domanda di dollari corrisponde un minor valore della moneta, che si traduce in inflazione).
Questo processo ha evidenti motivazioni geopolitiche e rende esplicita la riconduzione dell’egemonia americana ai suoi limiti “naturali” post-1945: gli asset in dollari vengono ceduti da quei paesi che, sulla scorta della guerra in Ucraina, hanno percepito l’occasione di disfarsi della onerosa tutela americana.

Un passo estremamente importante nella stessa direzione si può vedere nella strategia di normalizzazione dei rapporti, promossa dalla mediazione cinese, tra Iran e Arabia Saudita (cioè tra il maggior governo sciita e il maggior governo sunnita). Il successo diplomatico esprime il nuovo ruolo della Cina rispetto al vasto mondo islamico.
Tutto lascia pensare che questo movimento sia semplicemente ai suoi inizi.
Ricordiamo che il ruolo del dollaro come valuta rifugio era finora anche la principale ragione tranquillizzante per gli USA rispetto alla traiettoria del loro debito pubblico. Gli USA hanno infatti raggiunto il loro massimo debitorio nella storia (125% del PIL) con un rapporto deficit/Pil che si attesta quasi al 16%. Finché il dollaro è una valuta rifugio, i titoli del tesoro americano hanno acquirenti garantiti, ma quanto meno si presenta tale ruolo dominante, tanto più è facile che gli acquisti di titoli si riducano.

Il problema all’orizzonte non è, naturalmente, un possibile “default” del debito americano, bensì un’operazione “restrittiva” sulle spese interne (data per certa) e operazioni di dismissione e liquidazione di asset esteri. In sostanza, arrivati a questo punto, per non smentire la propria politica tradizionale, gli USA potrebbero finire per alimentare una grande contrazione economica, che per le aree del mondo più legate agli USA si configura come una forte pressione recessiva.
Come abbiamo già visto nella crisi del 2008, gli scricchiolii dell’impero americano possono facilmente finire per scaricarsi senza mediazione sugli “alleati” (meglio sarebbe chiamarli “ammortizzatori”) europei.

Guerra Ucraina, cosa può succedere in caso di prolungamento o de-escalation?

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di Redazione Wall Street Italia

di Simone Borghi

A più di un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, mercati e investitori si chiedono come cambierà lo scenario nei prossimi mesi. Scontato dire che molto dipenderà dagli sviluppi del conflitto sia sul campo di battaglia che sul lato diplomatico. A questo proposito, gli esperti si dividono tra coloro che temono una guerra prolungata con un peggioramento della situazione geopolitica e quelli che credono in una de-escalation ancora possibile.

Innanzitutto, c’è da dire che i mercati non amano l’incertezza e ciò si visto dall’andamento dei listini a cavallo dei periodi di guerra e tensione geopolitiche. Ad apprendere dalla storia dell’ultimo secolo, la maggiore volatilità dei mercati è sempre stata dovuta all’incertezza del clima politico ed economico che precede l’esplosione di un conflitto importante. Gli investitori, infatti, non temono tanto le guerre quanto piuttosto la mancanza di controllo sugli eventi in corso.

A giudicare da quanto sta accadendo ai mercati globali in questo momento, che sono praticamente tornati sui livelli pre-conflitto, ci sono le premesse per supporre che anche il conflitto tra Russia e Ucraina determini conseguenze borsistiche coerenti a quanto avvenuto nella storia. Le ondate di volatilità che si sono viste sui listini sono una delle caratteristiche chiave del clima dei mercati nelle fasi subito precedenti o appena iniziali di un conflitto e storicamente tale clima si è sempre disteso a conflitto in corso i listini tornano invece a crescere. La storia insegna che le borse non “disdegnano” le guerre, ma la domanda che ci poniamo tutti è quando finirà il conflitto Russia-Ucraina.

Gli effetti di un prolungamento della guerra

La guerra senza fine potrebbe esacerbare la crisi energetica. È quello che pensano gli esperti di S&P Global Ratings, secondo cui c’è un rischio significativo che il conflitto militare tra Russia e Ucraina si protragga, esacerbando la crisi energetica dell’Europa, mentre i tassi d’interesse nei mercati sviluppati potrebbero essere costretti a salire ancora più bruscamente rispetto allo scenario di base, per mitigare le crescenti pressioni inflazionistiche. Ciò potrebbe portare a una recessione più profonda del previsto in Europa e, in misura minore, negli Stati Uniti, con un concomitante aumento della disoccupazione.

Considerando l’aumento dei rischi e la loro potenziale attuazione, S&P Global Ratings ha sviluppato uno scenario negativo, con una probabilità che si verifichi pari a uno su tre. In Europa, lo scenario negativo vedrebbe prezzi energetici elevati e razionamenti. La Bce sarebbe costretta a seguire la Fed a causa del deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, alimentando l’inflazione importata. Dal punto di vista borsistico, questo porterà al perdurare del clima di incertezza, che ai mercati proprio non piace, con ritorno di volatilità nel caso la situazione geopolitica peggiori.

Gli effetti di una de-escalation del conflitto

Uno scenario di de-escalation è quello invece prospettato dagli analisti di Barclays, i quali ritengono che qualsiasi forma di cessate il fuoco tra la Russia e l’Ucraina potrebbe ridurre la pressione sui mercati europei del gas, oltre che su quelle aziende che hanno un’esposizione più ampia alla Russia.

Guardando oltre, la storia degli ultimi cento anni ci insegna che il più delle volte i mercati reagiscono con grande forza alla fine di eventi dal grave impatto socio-economico. Il rimbalzo che solitamente si innesca a fine guerra viene dato dalla tempestività degli investitori nel modificare gli asset economici dalla fase bellica all’investimento post-bellico. Ed è tutta qui che si gioca la partita della ricostruzione.

Nei principali conflitti della storia i mercati azionari hanno impiegato circa 15 sedute per riprendersi. L’equilibrio dei mercati e le prospettive di ripresa sono in mano a tutte queste dinamiche, che gli investitori, anche nel caso del conflitto in corso, non possono ignorare.

Usa contro Cina: l’analisi dei servizi segreti italiani

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Pubblicata la relazione dei servizi segreti italiani per la sicurezza della Repubblica. All’interno l’analisi del confronto, soprattutto economico, tra Usa e Cina un rapporto che può cambiare i destini del Mondo come l’abbiamo conosciuto finora.

“Non c’è stato il sorpasso di Pechino nei confronti degli Stati Uniti, valutato invece da diversi analisti internazionali come imminente.

La tutela della sicurezza nazionale Il confronto tra Stati Uniti e Cina in dieci settori chiave è riportato nell’infografica sotto.

Usa contro Cina: l'analisi dei servizi segreti italiani

 

In molti campi la distanza tra Cina e Stati Uniti è ancora ampia. Non è affatto scontato che il sorpasso, se mai si vedrà, sia questione di anni o di lustri. A livello macroeconomico il rallentamento della crescita cinese rappresenta un nuovo equilibrio. La tendenza statunitense, di contro, rimane stabilmente in crescita. A livello finanziario la Cina è in forte ritardo a causa della sua riluttanza a liberalizzare i flussi di capitali. Inoltre, l’uso internazionale del renminbi rimane molto limitato per il commercio e per gli investimenti transfrontalieri. In relazione ad alcuni settori considerati strategici (aeronautica, semiconduttori, energetico, intelligenza artificiale, dispositivi medici), emerge come gli Stati Uniti siano leader globali, avanti a livello tecnologico, in grado di guidare l’innovazione globale. La Cina fa spesso affidamento sulla tecnologia straniera importata. Il confronto a livello demografico è favorevole agli USA. La popolazione statunitense continuerà a crescere nel corso del secolo. Dal punto di vista del capitale umano, la Cina è agli ultimi posti tra i Paesi al suo livello di sviluppo; gli Stati Uniti partono da una posizione di netto vantaggio”.

Il Mondo sta cambiando è evidente. I rapporti di forza stanno cambiando. Ma il cambiamento è nella storia dell’uomo

Leopoldo Gasbarro 04/03/2023

Rischio recessione più lontano per l’Europa. E anche l’Italia crescerà

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di Luca Losito

La situazione economica dell’Europa potrebbe essere migliore di quanto previsto nei mesi scorsi e la recessione più lontana. E anche l’Italia dovrebbe restare sul trend positivo. I dati positivi emersi dall’analisi pubblicata oggi dalla Commissione europea, oltre alle ultime decisioni prese per aumentare la competitività dell’Europa rispetto a Stati Uniti e Cina, lasciano ben sperare per il futuro. Vediamo il tutto nell’analisi.

Le previsioni per l’Europa

In particolare, Bruxelles si aspetta una crescita nella zona euro dello 0,9% nel 2023 (rispetto a una previsione nell’autunno scorso dello 0,3% e rispetto a una espansione dell’economia che nel 2022 è stata del 3,5%). L’economia europea potrebbe evitare una contrazione nel primo trimestre, dopo averla evitata anche nel quarto trimestre dell’anno scorso. Le ragioni sono un calo del prezzo del gas, un recupero della fiducia e una tenuta del mercato del lavoro, spiega l’esecutivo comunitario.

La ripresa dell’Italia

Buone nuove anche per l’Italia, dove l’espansione dell’economia sarà dello 0,8% nel 2023 e dell’1% nel 2024. Mentre il dato di quest’anno registra un forte aumento rispetto alla previsione di novembre (0,3%), la stima per l’anno prossimo rimane pressoché stabile. L’inflazione è prevista del 6,1% quest’anno e del 2,6% l’anno prossimo. La Banca centrale europea ha già annunciato nuovi rialzi del costo del denaro nei prossimi mesi (attualmente il tasso di riferimento è al 3%).

La sfida globale

Nel frattempo si lavora per rilanciare l’Europa sul piano macroeconomico. Le nuove previsioni giungono mentre l’establishment comunitario si interroga sulla crisi di competitività dell’economia europea, principalmente a causa dello sconquasso energetico. I Ventisette si sono riuniti la settimana scorsa per discutere dei modi per contrastare la concorrenza non sempre leale di Stati Uniti e Cina. Tra le altre cose, hanno deciso di allentare le regole sugli aiuti di Stato, promuovere i progetti di interesse comune, e rendere più efficiente l’uso del denaro comunitario.

Insomma, il quadro globale è complesso e il Vecchio Continente sta cercando la strada migliore per ripartire. Il rebus più grande da risolvere è quello energetico, superato quel problema si potrà tornare a correre più velocemente.

Lo stato dell’economia Usa: verso il punto di non ritorno?

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di Giacomo Gabellini

Fonte: L’Antidiplomatico

Gli Stati Uniti hanno un serio problema di statistiche, specialmente in materia di rilevazione della disoccupazione. Nonostante le autorità di Washington e i mezzi informativi continuino a parlare di “miracolo occupazionale”, i dati indicano che su una popolazione di circa 332 milioni di persone e una forza lavoro che alla fine di gennaio annoverava 265,92 milioni di individui, ben 100,130 milioni di adulti risultavano inoccupati. Il tasso di partecipazione della forza lavoro alla crescita economica oscilla ormai da anni tra il 62 e il 63%, attestandosi ai livelli più bassi dalla fine degli anni ’70, quando ancora si avvertiva pesantemente l’impatto generato dallo sganciamento del dollaro dall’oro e dagli shock petroliferi.

L’economista e statistico John Williams ha richiamato l’attenzione sull’inadeguatezza dei metodi di rilevazione impiegati dalle autorità nazionali, evidenziando che il tasso ufficiale di disoccupazione (U-3) adoperato dalla Federal Reserve tiene conto soltanto del totale dei disoccupati in percentuale rispetto alla forza lavoro. Il Bureau of Labor Statistics (Bls) prende invece in esame un bacino più ampio (U-6), ricavabile dalla sommatoria tra il numero dei disoccupati e l’ammontare complessivo degli individui impiegati con contratti part-time ma anelanti a lavorare a tempo pieno, oltre al computo delle persone che hanno lavorato per un certo periodo negli ultimi 12 mesi ma che al momento non lavorano né sono alla ricerca di un’occupazione e soffrono di questa condizione di disagio dovuta al particolare stato del mercato del lavoro. Nell’ottica di Williams, una statistica capace di riflettere il reale stato occupazionale del Paese deve tassativamente ricomprendere tanto il tasso U-6 quanto i lavoratori scoraggiati di lungo termine.

Qualora Federal Reserve e Bls applicassero un simile metodo di rilevazione, il tasso di disoccupazione effettivo lambirebbe attualmente la soglia critica del 24,5%. Una percentuale di ben sette volte superiore al tasso ufficiale stimato dalla Fed (3,4%), che ridicolizza la narrazione dominante propugnata da istituzioni e organi di stampa circa il “rivoluzionamento” del mercato del lavoro statunitense, asseritamente passato dall’offrire appena un posto di lavoro per ogni 3,1 disoccupati nel dicembre 2012 a garantire due posti di lavoro per ogni disoccupato nel dicembre 2022. Il rapporto tra disoccupati e posti di lavoro disponibili rappresenta un indicatore tutt’altro che affidabile, perché si presta a una serie di distorsioni particolarmente insidiose. Tanto per cominciare, non tiene conto dei criteri di accessibilità, né del fatto che molti statunitensi svolgono due o addirittura tre lavori simultaneamente.

Allo stesso tempo, l’entità del dato concreto relativo alla disoccupazione ridimensiona enormemente la spinta equilibratrice prodotta dai fenomeni in forte crescita della sindacalizzazione – giunta a coinvolgere gli impiegati presso colossi quali Amazon, Alphabet, Microsoft e Starbucks – e degli scioperi. Il marxiano “esercito di riserva” del capitale rimane assai cospicuo, e continua a fungere – a dispetto della ostentata crescita dei salari reali registrata nel 2022 – da calmieratore delle retribuzioni. L’ostentata crescita dei salari nominali registrata nel 2022 è infatti stata ampiamente compensata dall’aumento vertiginoso dei prezzi al consumo, delle bollette elettriche, delle auto (sia nuove che usate), del carburante e dei generi alimentari verificatosi entro lo stesso arco temporale. Si parla di un crollo dei salari reali pari all’1,7% su base annua, tradottosi non in un proporzionale e concomitante decremento dei consumi, ma in un colossale ridimensionamento degli “accantonamenti prudenziali”.

Combinandosi alla penalizzazione del consumo prodotta dai provvedimenti governativi atti a limitare la diffusione del virus Covid-19, le misure straordinarie a sostegno di famiglie e imprese approvate in seguito allo scoppio della crisi pandemica dall’amministrazione Biden in accordo con il Congresso hanno agevolato un ingente accumulo di risparmi da parte della popolazione statunitense che tendevano ad assottigliarsi in coincidenza con ogni singola riapertura. Lo si evince dai dati, attestanti la sincronia tra le chiusure e i maggiori incrementi della percentuale di risparmio rispetto al reddito. All’aumento dall’8,7 al 26,4% tra il quarto trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2020 fece seguito un crollo al 13,7% al quarto trimestre dello stesso anno. Si verificò quindi una risalita al 20,4% al primo trimestre 2021, anticipatrice di una caduta rovinosa e costante che ha ridotto la disponibilità di risparmi rispetto al reddito ad un “misero” 2,9% alla fine del quarto trimestre 2022.

All’aumento incontrollato dell’inflazione, alimentata dalla doppia spinta esercitata dai sostegni straordinari alla popolazione erogati dal governo e da una bulimia di consumo non compensata da produzione autoctona, la Federal Reserve reagì intraprendendo un processo di “normalizzazione monetaria” implicante l’aumento graduale dei tassi di interesse associato a una brusca stretta creditizia.

Per i nuclei famigliari che avevano beneficiato dei sussidi pubblici e dei tassi a zero applicati in epoca pandemica dalla Federal Reserve per contrarre mutui immobiliari, la manovra della Fed si è tradotta in un vero e proprio bagno di sangue, perché ha comportato un drastico aumento degli oneri debitori a carico di nuclei familiari con disponibilità di risparmio già falcidiate dall’inflazione. La situazione appare enormemente problematica, specialmente alla luce dei dati emersi da un recente sondaggio condotto da Lending Club secondo cui il 64% dei consumatori statunitensi — circa 166 milioni di persone — si vede costretto ad operare sistematici razionamenti alle proprie spese, e il 51% dei cittadini statunitensi (contro il 42% registrato lo scorso anno) che percepisce un reddito annuo pari o superiore ai 100.000 dollari non riesce ad accantonare il becco di un dollaro.

All’atto pratico, più che a placare le fiammate inflazionistiche e le rivendicazioni salariali, l’incremento tendenziale dei tassi varato dalla Federal Reserve sembra rispondere alla necessità tassativa che gli Usa hanno di richiamare capitali dall’estero per finanziare i loro squilibri strutturali. Gli Stati Uniti hanno chiuso il 2022 con un disavanzo commerciale pari a 1.181 miliardi di dollari, un deficit di bilancio pari a 1.400 miliardi di dollari e un debito federale pari a 31.420 miliardi di dollari. Ma non è tutto. Dopo esser migliorata, passando da 18.124,293 a 16.285,837 miliardi di dollari di passivo (-1.838,456 miliardi) tra il quarto trimestre del 2021 e il secondo trimestre del 2022, la loro posizione finanziaria netta è tornata a peggiorare rapidamente, giungendo a 16.710,798 miliardi di dollari di passivo nel terzo trimestre 2022 (+424,961 miliardi), nonostante l’immane deflusso di capitali dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico verificatosi in seguito alla degenerazione del conflitto russo-ucraino.

I dati indicano che, tra il settembre e l’ottobre 2022, l’esposizione in Treasury Bond statunitensi del Giappone era diminuita da 1.120,2 a 1.064,4 miliardi di dollari; quella della Repubblica Popolare Cinese, da 933,6 a 877,8 miliardi; quella del Regno Unito, da 664,8 a 641,3 miliardi; quella delle Isole Cayman, da 301,5 a 291,5 miliardi; quella del Lussemburgo, da 299,6 a 298,1 miliardi; quella della Svizzera, da 277,7 a 258,4 miliardi; quella dell’Irlanda, da 265,4 a 244,9 miliardi; quella del Brasile, da 226,4 a 220,1 miliardi; quella di Taiwan, da 216,9 a 214,6 miliardi; quella di Singapore, 177,5 a 175,8 miliardi; quella della Corea del Sud, da 105,3 a 98,7 miliardi; quella della Norvegia, da 99,6 a 95,7 miliardi. Complessivamente, il volume delle detenzioni internazionali di Treasury Bond statunitensi era diminuito tra settembre e ottobre di ben 170,9 miliardi di dollari (da 7.302,6 a 7.131,7 miliardi di dollari), che andavano a sommarsi ai 243 miliardi di dollari (da 7.545,6 a 7.302,6 miliardi) di passivo registrati il mese precedente, nonostante la Federal Reserve avesse portato i tassi di interesse dallo 0,25 al 2,5% tra marzo e settembre. Posta di fronte all’evidenza, la Banca Centrale Usa ha quindi impresso una ulteriore accelerata al processo di “normalizzazione monetaria”, con ben sei correzioni che hanno portato i tassi al 4,75% al febbraio 2023 e il volume complessivo degli investimenti internazionali in Treasury Bond a quota 7.273,6 miliardi di dollari ad ottobre. Un incremento su base mensile (141,9 miliardi) piuttosto modesto se rapportato allo sforzo profuso dagli Usa per accumularlo (una stretta creditizia potenzialmente letale per milioni di cittadini statunitensi), che certifica per di più le crescenti difficoltà in cui Washington va imbattendosi nel tentativo di perpetuare il funzionamento del sistema parassitario instaurato con il ripudio degli Accordi di Bretton Woods ad opera dell’amministrazione Nixon.

Specie a fronte delle allarmanti statistiche fornite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che in un rapporto redatto nel marzo 2022 parlò esplicitamente di «erosione del dominio del dollaro» in riferimento al netto ridimensionamento (dal 71 al 59% tra il 2000 e il 2021) della quota di riserve valutarie mondiali espresse in valuta statunitense dovuto a una migrazione generalizzata verso monete alternative alle tradizionali “big four” (dollaro, euro, sterlina e yen). Da un altro documento datato dicembre 2022 emergeva che il volume dei crediti espressi in dollari detenuti dalla rete bancaria globale era calato da 7.092,31 a 6.441,65 miliardi di dollari tra il terzo trimestre del 2021 e il terzo trimestre 2022.

Le sanzioni non funzionano. La Russia cresce più di Germania ed UK

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L’avevamo scritto e detto più volte: le sanzioni non funzionano, ma indeboliscono gli europei che le pagano…(n.d.r.)

Le stime per 2023 e 2024 del Fondo Monetario Internazionale

 

Lo dice il Fondo Monetario Internazionale. La Russia crescerà effettivamente più velocemente della Germania, Germania che, nell’immaginario collettivo, viene considerata la potenza economica dell’Europa. Gli analisti del FMI hanno pubblicato le previsioni secondo le quali nel corso di quest’anno l’economia russa crescerà più di quella tedesca, mentre quella britannica si contrarrà.

Le sanzioni non funzionano. La Russia cresce più di Germania ed UK

La Yellen, segretario al tesoro americano, aveva predetto la devastazione dell’economia russa. In tanti pensavano al crollo del Rublo. E invece?

Invece le sanzioni occidentali sembra non abbiano sortito gli effetti sperati, se non quelli di aver creato ancor più prolemi ai Paesi che le hanno pensate e messe in opera. Così i blocchi del gas, ora del petrolio, non hanno minimamente intaccato o quantomeno non lo hanno segnato, l’economia di Putin.

Anche i russi si aspettavano una crisi economica più profonda. Qualcuno pensava ad un calo del PIL  di oltre il 10% per il 2022, mentre invece ha chiuso al 2,2%. Gli analisti prevedevano un calo del pil 2023 del 2,5% mentre ora il FMI parla di crescita di almeno lo 0,3% un dato che è in linea con le nazioni europee, addirittura meglio in alcuni casi

Insomma, il crollo che ci si aspettava non c’è stato. Ma come mai?

La risposta inizia con due storie economiche distinte: la prima, su ciò che sta accadendo all’interno della Russia; e la seconda, sui legami della Russia con il mondo esterno.

Le sanzioni occidentali erano progettate per fare pressione su Mosca sia a livello nazionale che internazionale; l’idea era di “ostacolare” l’economia interna della Russia e le sue relazioni commerciali. Le restrizioni includevano misure per tagliare fuori la banca centrale russa dal sistema finanziario internazionale, bloccandone l’accesso a miliardi di dollari in attività estere, e per espellere il settore bancario privato del paese dal cosiddetto sistema SWIFT che le consentiva di effettuare transazioni con controparti globali.

La ricaduta è stata quasi immediata. I russi ordinari, preoccupati per i loro risparmi quando le notizie sulle sanzioni hanno fatto notizia, hanno fatto la fila fuori dagli sportelli automatici all’inizio di marzo, affrettandosi a ritirare tutto il denaro che potevano nel timore che le banche potessero crollare.

Ma le prove ora mostrano che la Russia ha sperimentato una sorta di ripresa interna nella seconda metà del 2022. E il paradosso è che la guerra stessa ha contribuito a guidare l’inversione di tendenza.

Mentre la spesa per vari altri programmi domestici è diminuita di circa un quarto e alcune industrie hanno subito enormi perdite , l’economia di guerra nazionale si è espansa notevolmente.  Ha più che compensato la differenza.

I picchi di produzione in tutto il settore della difesa hanno fatto sì che le statistiche complessive per l’industria russa non fossero così catastrofiche come ci si sarebbe potuto aspettare. Nonostante le sanzioni internazionali, la produzione industriale nei primi 10 mesi del 2022 è diminuita solo dello 0,1%. E ora dovrebbe crescere.

Se il quadro interno è stato sostenuto dalle spese di guerra, oltre i suoi confini la Russia ha continuato a commerciare relativamente liberamente, e per decine di miliardi di dollari, anche se le sanzioni hanno reso più difficile per le aziende russe fare affari con controparti straniere.

Ci sono due ragioni principali per questo: la capacità della Russia di convincere i principali partner commerciali a ignorare le sanzioni occidentali; e le vaste e varie risorse naturali della Russia.

La Russia continua a detenere posizioni dominanti nei mercati mondiali del petrolio e del gas. È anche il più grande esportatore mondiale di fertilizzanti. E per molti paesi, abbandonare improvvisamente le forniture russe si è rivelato troppo costoso, qualunque sia la loro opinione sulla guerra in Ucraina.

L‘India, ad esempio, ha notevolmente aumentato il suo consumo di petrolio russo. In effetti, si stima ora che l’India importi 1,2 milioni di barili di petrolio russo ogni mese, 33 volte i livelli visti un anno prima, secondo i dati di Bloomberg .

E poi la Turchia, continua a commerciare con Mosca. A dicembre, ad esempio, ha importato 213.000 barili di gasolio russo al giorno , il massimo almeno dal 2016.

Anche le importazioni in Russia si sono dimostrate più resilienti di quanto suggerirebbero i titoli sulle sanzioni, poiché Mosca approfondisce le sue relazioni con paesi come Cina e Turchia. Le importazioni in Russia dalla Turchia , ad esempio, a dicembre si sono attestate a nord di 1,3 miliardi di dollari, più del doppio rispetto ai livelli dell’anno precedente.

E nella stessa Europa, anche se il continente si affretta a porre fine alla sua dipendenza dall’energia russa, i leader hanno deciso che non potevano semplicemente chiudere il rubinetto allo scoppio della guerra. Il gruppo di campagna sul clima Europe Beyond Coal stima che, nonostante la guerra, i paesi dell’Unione Europea abbiano speso più di 150 miliardi di dollari – esatto, miliardi – in combustibili fossili russi dall’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca.

Insomma,  quasi un anno dall’inizio della guerra, e nonostante un’azione senza precedenti da parte dell’Occidente, l’economia russa non è crollata affatto e nessun indicatore ci porta in quel contesto di negatività neanche nell’immediato futuro.

03 febbraio 2023  LEOPOLDO GASBARRO

Fonte: https://www.nicolaporro.it/economia-finanza/economia/le-sanzioni-non-funzionano-la-russia-cresce-piu-di-germania-ed-uk/

Le quattro P dell’inflazione: Politica, Politiche, Priorità e Povertà

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di Alexander Azadgan

Vi racconto una storia: l’anno è il 1933. L’economia tedesca è in crisi. La guerra ha lasciato il Paese malconcio e ammaccato. Il Trattato di Versailles ha costretto Berlino a pagare le riparazioni di guerra. Quanto? 132 miliardi di marchi d’oro. Che corrispondono a circa 31,4 miliardi di dollari USA. La Germania ha un debito enorme. I tedeschi sono demoralizzati. Ci sono disordini sociali. Due successive tornate elettorali non sono riuscite a ripristinare la stabilità. C’è un’iperinflazione postbellica. C’è disoccupazione. Ci sono enormi incertezze sociali, politiche ed economiche. Adolph Hitler e il partito nazista decidono di sfruttare questa crisi. Il 30 gennaio 1933, Hitler giura come nuovo leader della Germania. Il resto, come si dice, è storia.

Morale della favola: la crisi finanziaria e l’inflazione hanno il potere di cambiare il corso della storia. In questo articolo cercherò di raccontarvi cosa sta accadendo nel mondo. Come le azioni stanno scendendo, come le valute stanno perdendo valore, come il carburante sta diventando più prezioso, come i prezzi dei beni di prima necessità stanno salendo. Cercherò di spiegarvi cosa significa realmente inflazione in termini più ampi. Non l’inflazione per il vostro potere d’acquisto o per il denaro che avete in banca. Ma per il mondo di oggi in cui viviamo.

Cosa significa l’inflazione per l’ordine mondiale? Il nostro mondo è un conglomerato di democrazie, regimi autoritari e monarchie costituzionali. Rimarrà così anche dopo questa situazione? Oggi il nostro mondo è interconnesso. È strettamente legato. C’è un libero flusso di scambi. Rimarrà così anche dopo la fine di questa crisi finanziaria?

L’inflazione influenza la politica, le politiche, le priorità globali e la povertà. Le quattro P: politica, politiche, priorità e povertà. Parlerò di tutte e quattro, iniziando dalla prima P: Politica. L’inflazione è spesso definita la madre dei cambiamenti politici. Ho spiegato brevemente cosa è successo nella Germania del dopoguerra. Con l’Europa di nuovo in guerra, queste ostilità hanno contribuito all’inflazione. Ci sono proteste in tutto il mondo a causa delle condizioni economiche. I manifestanti possono essere spietati. Chiedete all’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. Quando era in carica, i prezzi del petrolio e dei generi alimentari erano saliti alle stelle. La disoccupazione e l’inflazione fecero cadere Carter. Perse la rielezione contro Ronald Reagan. Oggi i prezzi dei generi alimentari negli Stati Uniti sono aumentati del 20%, quelli del carburante del 10%, anche se stanno scendendo. E arrivò il novembre del 2022. Joe Biden dovette affrontare le elezioni di midterm. I Democratici hanno perso la Camera ma hanno conservato per poco il Senato. È probabile che l’inflazione possa sottrarre a Biden le elezioni presidenziali del 2024. Questo potrebbe cambiare il corso della politica americana!

Ora che avete capito cosa può fare l’inflazione ai governi, considerate questo: A seconda del luogo in cui si vive, l’inflazione globale supera il 15%. I prezzi aggregati dei generi alimentari sono aumentati di almeno il 13%, sempre a seconda del luogo in cui si vive. Circa 50 Paesi andranno alle urne quest’anno e il prossimo. Tra questi ci sono Stati Uniti, Brasile, Israele, Pakistan, Bangladesh, Turchia, ecc. Se i prezzi continueranno a salire, questi leader potrebbero trovarsi fuori dal loro incarico, perché l’aumento dei prezzi può far cadere i governi. Possono anche cambiare il destino di un Paese.

Si pensi al Venezuela. Ha le maggiori riserve di petrolio al mondo. Ma dove si trova sulla mappa globale? È in preda a una crisi politica e a un’insondabile iperinflazione. Tra il 1973 e il 2022, i prezzi in Venezuela sono aumentati del 3.729%. Lasciatevelo dire. Questo non è il dato peggiore. Secondo la Banca Mondiale, nel febbraio 2019 l’inflazione in Venezuela aveva raggiunto il 344.509%. A quel punto, la valuta venezuelana era ormai spazzatura. Dicevano che usare i contanti come carta igienica era più prudente che comprare un rotolo di carta igienica! Che cosa è successo? Più di sei milioni di venezuelani hanno lasciato la loro casa. Si tratta di quasi il 20% della popolazione del Paese.

Quello che una volta era il Paese più ricco dell’America Latina ora sta lottando per rimanere rilevante. Nessun Paese vuole andare incontro a questo destino. Nessun Paese vuole essere spazzato via dall’inflazione. Quindi cosa fanno?

Arriviamo alla seconda P: politiche. Le contee cambiano le loro politiche o, per meglio dire, l’inflazione costringe i Paesi a cambiare politica. Molti Paesi hanno vietato l’esportazione di alcuni prodotti alimentari. Dall’inizio del conflitto in Ucraina, l’Argentina ha vietato l’esportazione di soia, olio e carne. Algeria: pasta, derivati del grano, olio vegetale e zucchero. Egitto: olio vegetale, grano di base, farina, oli, lenticchie, pasta e fagioli. Indonesia: olio di palma e olio di palmisti. Serbia: grano, farina di mais, olio, mais, olio vegetale. Il mondo nel suo complesso ha aumentato i prezzi di tutte queste materie prime. Per i governi di tutto il mondo, la priorità è controllare i prezzi in patria per garantire la sicurezza alimentare, perché gli elettori affamati possono essere spietati e nessun governo vuole rischiare la loro ira. Quindi, con l’inflazione, le politiche commerciali diventano invariabilmente più nazionalistiche e protezionistiche. Il mercato interno diventa la priorità. A volte la diplomazia passa in secondo piano, e anche in questo caso l’inflazione tende a imporre un cambiamento nella diplomazia.

Consideriamo l’Europa. L’inflazione nell’Eurozona ha toccato un livello record. Cos’è l’Eurozona? È un’unione monetaria di 20 paesi dell’UE. Attualmente l’UE conta 27 Paesi. Sette di questi non fanno parte dell’Eurozona. Gli altri hanno l’euro come valuta principale e unica moneta legale. Attualmente l’inflazione nell’Eurozona è ai massimi livelli dalla creazione dell’Euro. Quando è stato? L’anno 1999. Significa che l’inflazione ha toccato un massimo di tre decenni, per gentile concessione del conflitto in Ucraina. Un sondaggio pubblicato nel giugno del 2022 ha chiesto agli europei [in 10 paesi] cosa pensassero del conflitto in Ucraina. Più di un terzo ha dichiarato di volere che finisca il prima possibile, anche se ciò significa che l’Ucraina cede un territorio. Questo conflitto ha influenzato la vita quotidiana di centinaia di milioni di europei. Oltre il 40% del gas europeo proviene dalla Russia. Così come il 26% del petrolio. Le sanzioni contro la Russia e i divieti sulle importazioni russe hanno colpito duramente gli europei. Quest’inverno, avranno bisogno di riscaldare le loro case e non tutti potranno permettersi un’energia alle stelle. La guerra ha fatto lievitare le spese per i pasti. In Italia, i prezzi della pasta sono aumentati del 40%! Non sorprende quindi che gli europei siano quasi equamente divisi quando si tratta del conflitto in Ucraina. Altri dicono di volere “giustizia”.

Ai recenti vertici della NATO e del G7, i leader europei si sono impegnati a sostenere l’Ucraina ad ogni costo. Ma non tutti gli elettori sono pronti a sostenere questo costo. Secondo i sondaggisti, il sondaggio influenzerà la politica europea prima che poi.

L’Europa deve ripensare le proprie priorità, il che ci porta alla terza P: priorità. L’inflazione costringe a spostare non solo le priorità nazionali, ma anche quelle globali. Si pensi al cambiamento climatico. Fare dell’azione per il clima una priorità globale non è facile. Ci sono voluti molti “poliziotti del clima” per convincere il mondo a diventare verde. L’inflazione ha invertito la tendenza. Il carbone diventa grande quando l’inflazione colpisce il settore energetico. L’Europa potrebbe tornare al carbone. L’Austria riapre le centrali a carbone nonostante gli obiettivi climatici. Gli esperti avvertono dei rischi climatici. Gli Stati Uniti fanno marcia indietro sulle promesse ecologiche. Quando l’inflazione colpisce l’energia, quando il gasolio e il gas diventano costosi, i Paesi si affidano a fonti energetiche più economiche come il carbone. Anche se questo significa inquinare la Terra e accelerare il cambiamento climatico.

Non avreste mai pensato che l’inflazione contenesse così tanto, vero? È questo il punto. Tendiamo a limitare la definizione di inflazione a una variazione del potere d’acquisto. L’aumento dei prezzi è sicuramente il significato fondamentale dell’inflazione, ma anche la prima conseguenza. L’inflazione cambia molto di più del denaro nel vostro conto in banca ed è questo il punto che sto cercando di sottolineare.

Concludiamo con l’ultima P: povertà. 1,1 miliardi di persone nel mondo non possono permettersi beni essenziali come il cibo. Vivono al di sotto della soglia di povertà. Con l’aumento dei prezzi, un numero maggiore di persone viene spinto verso la povertà, che comporta una serie di problemi sociali come la malnutrizione, l’aborto, la mortalità infantile, la criminalità, la mancanza di lavoro. L’inflazione scatena una reazione a catena che richiede anni per essere fermata. Questo è l’ABC dell’inflazione.

Foto: Idee&Azione

28 gennaio 2023

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