Geopolitica e immigrazione di massa

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di Andrea Zock

Come ampiamente previsto il tema della pressione migratoria si sta ripresentando con forza. Naturalmente in questa rinnovata salienza gioca un ruolo anche l’opportunità di mettere le promesse del governo Meloni alla prova dei fatti, ma questo rientra nel legittimo gioco politico delle opposizioni (e dell’esteso apparato mediatico che ne rispecchia le posizioni).
Tuttavia il punto di fondo è che ogni crisi degli equilibri internazionali si ripercuote più severamente sugli anelli più deboli, e il doppio colpo Covid + Guerra Russo-Ucraina rappresenta la più pesante crisi dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora arriva semplicemente il conto relativo.
In Italia gli anni esplosivi dell’immigrazione sono stati quelli tra il 2011 e il 2017, e seguono la combinazione tra effetti mondiali della crisi subprime (dal 2008) e avvio delle cosiddette “primavere arabe” (dal 2010).
Il tema migratorio è il primo tema che ha esplicitato l’inadeguatezza dell’Unione Europea al ruolo di cui era stata accreditata.
Si tratta infatti di uno dei pochi temi in cui l’appello ad un’azione europea coordinata sembrerebbe la strada maestra per una soluzione, ed è parimenti un tema in cui si è manifestato nel modo più chiaro il carattere meramente predatorio e opportunista dell’UE, che si è presentata non come una potenza geopolitica, ma come un club dello scaricabarile (“beggar-thy-neighbour” policies).
In ogni singolo momento della gestione migratoria (come per ogni altro tema di rilevanza economica) abbiamo assistito ad un penoso balletto di singoli paesi o alleanze ad hoc, per sfruttare a proprio favore alcune condizioni contingenti, e lasciare gli altri “partner europei” con il cerino in mano. (Il sistema degli accordi di Dublino è esemplare a questo proposito, in quanto mirava a utilizzare i paesi di primo sbarco come “barriera naturale” per quelli interni, impedendo che si spostassero dai paesi d’arrivo a quelli più ambiti del Nord Europa.)
Il fallimento europeo peraltro è tutto tranne che inaspettato. I rapporti europei rispetto all’Africa seguono precisamente il medesimo indirizzo che informa i rapporti interni e in generale tutti i rapporti internazionali nella visione dei trattati europei: si tratta di un modello neoliberale di sfruttamento, massimizzazione del profitto e acquisizione di vantaggi competitivi a breve e medio termine. Non c’è qui nessuna visione politica, salvo la responsività alle lobby economiche interne, che in un’ottica neoliberale sono i più legittimi rappresentanti dell’interesse pubblico.
Così, i rapporti con l’Africa sono sempre stati improntati ad una politica di aiuti ad hoc, che permettevano di tenere le elité africane a catena corta, e ad una politica di trattati di scambio ineguale, che permettevano a questo o quel paese europeo di ritagliarsi un accesso favorevole ad una qualche area di risorse naturali.
E’ però importante capire qual è stata la natura specifica del fallimento europeo nella politica verso l’Africa (e più in generale verso i paesi in via di sviluppo).
Ciò che l’UE ha mancato di fare è stato di subentrare al sistema degli equilibri della Guerra Fredda, cercando di costruire nuovi rapporti di alleanza di lungo periodo.
Alla faccia degli storici della domenica che ti spiegano come “le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno”, bisogna osservare come l’epoca delle migrazioni di massa in Europa dall’area del mediterraneo inizia con la caduta dell’URSS e quindi con il trionfo nella Guerra Fredda dell’Occidente a guida americana.
Per l’Italia la data simbolica dell’inizio del “problema migratorio” è il 1991, con il grande sbarco degli albanesi nel porto di Bari.
Questo non è un caso. La Guerra Fredda, forma rudimentale di multipolarismo, cercava di contendersi i paesi in via di sviluppo, e lo faceva in vari modi, talora in forma cruenta (Corea, Vietnam), più spesso in forma di collaborazione. Questa situazione, per quanto precaria, coltivava l’interesse per una conservazione degli equilibri regionali. Nessuna “primavera araba” sarebbe potuta venire alla luce in quel contesto, perché tutti sapevano che eventuali sommovimenti interni ad un paese sarebbero stati nient’altro che mosse di uno dei due blocchi per finalità proprie. Questo equilbrio, cinico e ostile fin che si vuole, stimolava comunque l’interesse di entrambi i blocchi alla conservazione tendenziale degli equilibri nelle aree in via di sviluppo.
Con il venir meno di questo fattore equilibrante, cioè con il venir meno dell’URSS, il mondo in via di sviluppo (e anche buona parte di quello sviluppato) divenne libero terreno di caccia dei paesi in cima alla catena alimentare capitalistica (USA in testa).
A questo punto l’equilibrio regionale era molto meno importante per i decisori politici delle occasioni di profitto create dagli squilibri.
Ecco, questa prospettiva ci consente di vedere da che punto di vista potrebbe arrivare, nel medio periodo, una soluzione alla colossale questione dei processi migratori (per l’Europa).
A fronte della pelosa impotenza dell’UE, i cui colonnelli sono tutti indaffarati ad accaparrarsi piccoli vantaggi per questa o quella multinazionale di riferimento, subentrerà (sta già subentrando) una forma di competizione geopolitica simile alla Guerra Fredda.
Russia e Cina stanno già operando in questo modo verso molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in area africana. Naturalmente non lo fanno per “umanitarismo” (diffidate sempre quando uno stato afferma di muoversi per “ragioni umanitarie”). Lo fanno perché hanno una visione strategica di lungo periodo, in cui associazioni stabili con stati che siano davvero “in via di sviluppo” – e non semplicemente “condannati ad una sfrutttabile arretratezza” – è nel loro interesse.
Russia e Cina si muovono oggi come attori sovrani su uno scenario geopolitico di lungo periodo, e questo è sufficiente a rovesciare il tavolo alla cultura da “robber barons” del neoliberalismo occidentale e a instaurare un nuovo equilibrio (per quanto intrinsecamente precario).
Dunque alla fine, se qualcosa ci salverà dall’essere travolti da una migrazione incontrollata, questo sarà probabilmente proprio l’insediarsi di un nuovo equilibrio multipolare, la cui alba abbiamo davanti agli occhi.

Migrazioni e confini nazionali: non solo ONG

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

L’emergenza migranti fra doveri di solidarietà umana, diritto del mare e diritto degli Stati al controllo dei propri confini: un sistema multilivello da chiarire e migliorare.

1.​ Per effetto di una serie di provvedimenti delle scorse settimane, il Ministero dell’Interno, di concerto con i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, e anche a seguito di alcuni interventi formali della Farnesina, ha stabilito disposizioni in forza delle quali non sarà consentito alle navi delle ONG – Organizzazioni Non Governative umanitarie- ( che soccorrono e raccolgono i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane a mezzo dei ‘barconi’ salpanti dall’Africa ), di sbarcare i migranti nei porti italiani, eccezione fatta per i ‘fragili’, ossia coloro che presentino riconosciute condizioni di salute e/o personali tali da necessitare immediata assistenza. A seguito di ciò, sembra essersi riaperto il vaso di pandora mediatico delle polemiche, invero allargatesi ben oltre il perimetro nazionale, relative all’ingresso in Italia -e, quindi, in Europa- degli stranieri che utilizzano il liquido confine del Mediterraneo per accedere al territorio della UE – Unione Europea. Al di là della polemica politica, e non restringendo la complessa questione alle sole ONG, appare opportuno provare a ricostruire l’articolato quadro normativo in materia, anche allo scopo di capire chi deve fare cosa.

2.​ Il contesto giuridico attorno al quale la questione ruota è tutt’altro che univoco e chiaro, specie perché le fonti sono multilivello, cioè appartengono a differenti – e a volte anche contrastanti – ambiti ordinamentali, a voler tacere della strutturale difficoltà delle norme di diritto internazionale ad essere efficaci ed effettive quando lo Stato cui si indirizzano si sottragga al principio generale del “pacta sunt servanda”. Occorre distinguere e coordinare, anzitutto, norme di diritto internazionale che disciplinano il salvataggio di naufraghi, spesso indicate come “diritto del mare”, e norme di diritto europeo, in materia di diritto d’asilo. Su tale composito compendio di principi e norme, si innestano poi le prerogative del diritto nazionale.

In materia di diritto d’asilo, le fonti normative di riferimento sono le convenzioni internazionali generali, quali in particolare la Convenzione di Ginevra approvata nel 1951 sotto l’egida dell’ONU, e, per i Paesi europei, le cosiddette Convenzioni di Dublino. L’accordo di Dublino, in particolare, ha ad oggetto l’individuazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità Europea (oggi Unione Europea). È un trattato internazionale multilaterale in tema di diritto di asilo, stipulato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997, poi sostituito con il regolamento di Dublino II (regolamento 2003/343/CE) adottato nel 2003 ed entrato in vigore per tutti i Paesi della Ue (oltre alla Svizzera, Islanda, Liechtenstein ed alla Norvegia), oggi codificato dal  regolamento di Dublino III (2013/604/CE), approvato nel giugno 2013, in aggiornamento del regolamento di Dublino II, e vigente in tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione della Danimarca.

Entrato in vigore il 19 luglio 2013 ed in scadenza decennale il prossimo anno, il regolamento di Dublino III si basa sullo stesso principio dei due precedenti regolamenti: di là dai casi di esigenze connesse al ricongiungimento familiare del richiedente (artt. 8-11) o di preesistenza di un titolo di soggiorno o di un visto (art. 12), quando “ilrichiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale” (art. 13).

Tale regola appariva razionale quando fu introdotta nel 1990, allorché i flussi migratori erano limitati ed erano ancora presenti le frontiere fra i paesi Europei (poi apertesi con gli accordi di Schengen) e, a ben vedere, non implica affatto l’interpretazione che ne danno alcuni Paesi UE del Nord Europa, i quali vorrebbero trarne ostacolo giuridico alla ricollocazione degli stranieri comunque entrati nel territorio del primo Stato membro che se ne dovrebbe occupare in via esclusiva rispetto agli altri, con l’effetto che, se una persona che presenta istanza di asilo nel Paese di ingresso, attraversa le frontiere verso un altro Paese dell’UE, deve essere riconsegnata al primo Stato. Niente di tutto ciò appare postulato dalla norma in questione, che indica unicamente quale debba il primo Stato a occuparsi della gestione della domanda d’asilo.

Anche per effetto di tale interpretazione, la Convenzione di Dublino è ormai da più parti riconosciuta come inadeguata per affrontare le sfide poste dall’attuale atteggiarsi del fenomeno migratorio. A tacer d’altro, essa si pone in evidente contrasto con la capacità dei Paesi del fronte meridionale della UE di gestire da soli l’arrivo dall’Africa di decine di migliaia di migranti che di anno in anno cercano di fuggire dall’oppressione politica dei propri Stati di origine o, più semplicemente, dalla povertà e da altre forme di deprivazione economica. A tale riguardo, è di qualche rilievo considerare che la Conferenza sul futuro dell’Europa in materia di immigrazione, conclusasi il 9 maggio 2022, ha formulato, fra le altre, la seguente proposta: “rivedere il sistema di Dublino al fine di garantire la solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità, compresa la ridistribuzione dei migranti fra gli Stati membri, prevedendo eventualmente anche ulteriori forme di sostegno”. (cfr.: “Conferenza sulle sfide in materia di immigrazione”, Documentazione per le Commissioni, Riunioni Interparlamentari, Dossier, 12 maggio 2022, Senato della Repubblica – Camera dei Deputati).

I plurimi tentativi di ottenerne significativa modifica nel senso della redistribuzione sull’intero territorio dell’Unione degli stranieri inizialmente ospitati dagli Stati di approdo, a fronte della indisponibilità a prevedere quote permanenti ed obbligatorie di ricollocazione, ha, infine, avuto almeno parziale soddisfazione, con l’accordo del 22 giugno 2022 che ha previsto sì la relocation, ma su base meramente volontaria, in formale accoglimento dell’invito rivolto dal Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel ‘Discorso della Presidente sullo stato dell’Unione 2020’: “Salvare vite in mare non è un’opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione europea (…). Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità”, in ossequio all’art. 80 del TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, per il quale le politiche relative ai controlli delle frontiere all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati, in più specifica disciplina della previsione di cui all’art. 3 par. 2 del TUE – Trattato sull’Unione Europea, che prevede che la UE garantisce “misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione”, ed agli artt. 67 TFUE, che dispone che l’Unione sviluppi “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi“, e 77 TFUE, con il quale viene precisato che l’Unione sviluppa una politica volta a “garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne” nonché a “instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne”.

Il Patto, nel quale è confluito il nuovoRegolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione proposto dalla Commissione, di cui la Francia ha annunciato la sospensione dopo il caso Ocean Viking, che coinvolge 23 Paesi, tra cui 19 Stati membri e quattro extra Schengen, essendo un accordo di redistribuzione su base volontaria, peraltro relativo non solo ai richiedenti asilo ma anche ai migranti economici, non impone alcun obbligo a chi l’ha sottoscritto e, dunque, appare, nonostante la professata intenzione di dare finalmente corso alla solidarietà fra gli Stati membri, ancora affetto da un approccio meramente casistico con il rischio di dare luogo ad un sistema, ancora una volta, basato su una solidarietà interstatale easimmetrica (cfr. S. De Stefani, “Cosa resta di Dublino”, in Altalex, 26.3.2021).

Così, a titolo esemplificativo, la Germania ha dichiarato disponibilità all’accoglienza per 3.000 migranti, la Francia 3.500, ma, di fatto, i numeri di effettiva ricollocazione sono, allo stato, rimasti pressoché irrisori (secondo i dati divulgati dal Viminale, non smentiti, al 13 novembre 2022, 8 in Francia, 74 in Germania, 5 in Lussemburgo), specie se confrontati con le statistiche di ingresso nei Paesi rivieraschi: in base al ‘cruscotto’ dei migranti, aggiornato quotidianamente dal Ministero dell’Interno, e pubblicamente fruibile sulla pagina web del Ministero stesso, in Italia sono arrivati dal 1 gennaio 2022 al 14 novembre 2022 91.711 migranti, nel 2021 59.069, nel 2020 (anno della pandemia) 32.032, di cui i minori stranieri non accompagnati sbarcati sono stati per l’anno 2020 4.687, per il 2021 10.053, e finora nel 2022, 11.172. Statistiche all’interno delle quali si devono poi ricercare i minori numeri dei richiedenti asilo ed i numeri, ancor più ristretti, di quelli che vedono accolte le proprie istanze in quanto non semplici migranti economici.

Al riguardo, è appena il caso di precisare che nella larga maggioranza dei casi le operazioni di soccorso ai naufraghi nella zona SAR (Search And Rescue) del Mediterraneo centrale sono condotte dalla Guardia Costiera italiana o da altri mezzi della Marina militare e mercantile, che naturalmente li conducono nei più vicini porti (solitamente siciliani, prevalentemente Lampedusa). La percentuale di ingressi marittimi attribuibili alle navi di soccorso delle ONG riguarda circa il 12% del totale.

Già solo la considerazione di ciò impedirebbe di contestare all’Italia di venire meno al diritto del mare ovvero alle più generali norme umanitarie che impongono di dare soccorso al naufrago, in base al principio PoS – Place of Safety, pur esso codificato dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che più dettagliatamente si esamineranno infra, in virtù del quale occorre garantire al naufrago, appunto, un luogo sicuro dove approdare.

Altro è, poi, il destino dei migranti soccorsi, una volta giunti sul territorio nazionale, poiché, in base alla legislazione domestica vigente (costituita dalla l. 189/2002, cd. Bossi-Fini dal nome dei suoi ispiratori, e dalla legge n. 132/2018) lo straniero clandestinamente introdottosi in Italia non ha diritto di restarvi e deve essere rimpatriato nel Paese d’origine, a meno che non dimostri, dopo averne fatto rituale istanza, di essere qualificabile come rifugiato, cioè di provenire da luogo donde è fuggito per sottrarsi a qualsivoglia forma di persecuzione.

È bene precisare al riguardo che non v’è alcuna norma di diritto internazionale che imponga ad alcuno Stato nazionale di dover dare indiscriminato accesso all’interno dei propri confini a chi non ne ha cittadinanza. Soltanto il diritto d’asilo è previsto in materia ma, come noto, esso si basa su presupposti ben specifici, che non sempre ricorrono.

3.​Ciò detto sul piano del diritto d’asilo, occorre svolgere alcune considerazioni ulteriori circa il ruolo e lo statuto giuridico delle ONG e, in particolare, circa l’applicabilità nei confronti delle operazioni da esse compiute dei principi di cui all’art. 98, comma 2 della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare – cosiddetta UNCLOS.

Occorre considerare, al riguardo, che la convenzione UNCLOS recepisce all’art. 98, comma 1 un diritto internazionale consuetudinario di lunga data sul salvataggio delle persone in mare, mentre al comma 2 dello stesso articolo, al fine di istituire meccanismi di prevenzione delle sciagure marittime, istituisce per la prima volta delle zone di alto mare sulle quali gli Stati hanno compito di organizzare le operazioni di salvataggio (cd. zone SAR). Ne consegue il dovere dello Stato nella cui zona SAR l’evento si verifica di coordinare il soccorso tramite il proprio MRCC (Maritime Rescue Coordination Center, in Italia la Guardia Costiera) e mettere a disposizione un porto sicuro (secondo quanto previsto dalla Convenzione SAR di Amburgo, come modificata nel 2006, come specificato dal manuale IAMSAR, vol. 2, redatto dalla IMO – International Maritime Organization) (in Italia, la competenza all’individuazione del porto sicuro è affidata al Ministero dell’Interno).

Per effetto di ciò, nel caso in cui le operazioni di carico dei migranti non siano avvenute nella zona SAR di uno Stato (es., l’Italia), e questo non abbia coordinato i soccorsi o comunque non abbia accettato di assistere la nave, il comma 2 dell’art. 98 della convenzione UNLCOS non dovrebbe ritenersi applicabile e, conseguentemente, lo Stato non dovrebbe ritenersi avere obblighi di offrire un porto sicuro per lo sbarco. In questo senso si è espressa la dottrina più accorta: “L’Italia non pare avere obblighi di fornire POS se non nei casi previsti dalla Convenzione SAR, e cioè quando il soccorso avviene in zona SAR italiana, sia coordinato dal nostro MRCC, ovvero l’Italia abbia comunque accettato di assistere la nave” o stipulato accordi ad hoc con altri Stati coinvolti (F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, in Dir. Marittimo, 2020, 351; cfr. altresì ibid., 354 e 357).

Tale profilo di regolamentazione, derivante dalla convenzione di Amburgo e relativo manuale attuativo, deve essere ovviamente coordinato con le norme e i principi generali in materia di tutela dei diritti umani: la soluzione in alcuni casi adottata dall’Italia, di far sbarcare unicamente i passeggeri a rischio, è stata ritenuta ragionevole dalla CEDU nel caso Rackete c. Italia, 25 giugno 2019, n. 32969/19 (ma, come noto, non dalla Cassazione nel medesimo caso Sea Watch – Rackete; cfr. Cass. pen., sez. III, n. 6626/2020; per un commento critico a tale pronuncia, cfr. M. Ronco, “L’esercizio dei poteri discrezionali in materia di libertà, sicurezza e giustizia e l’obbligo di lealtà nel rapporto tra gli organi dello Stato”, in Archivio Penale, 2020, 35-54).

Da quanto risulta, ad esempio, nei casi Geo Barents e Humanity le operazioni di carico dei migranti da parte delle navi ONG non sono avvenute nella zona SAR di pertinenza italiana; per questo motivo è stato ritenuto possibile dalle autorità italiane escludere, almeno inizialmente, la concessione di un porto per lo sbarco di tutto il personale, circoscrivendolo soltanto alle persone in stato di effettivo bisogno.

Anche nel caso in cui la convenzione risulti applicabile sul piano della zona nella quale l’operazione di carico dei migranti è avvenuta, peraltro, la dottrina ha sollevato dubbi in merito all’effettiva applicabilità delle convenzioni SAR e UNCLOS.

Invero, come accennato, tali norme convenzionali si pongono in linea con un diritto internazionale di lunga data che si basa su presupposti applicativi diversi da quelli precostituiti dalle ONG. E infatti, come evidenziato dalla più autorevole dottrina (cfr. F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342), nel caso delle operazioni delle ONG:

– manca il presupposto della occasionalità del salvataggio da nave a nave (poiché le navi ONG effettuano tale attività professionalmente);

– manca il fine di applicazione della norma sul salvataggio da nave a nave (poiché il fine non è il rientro dei salvati alle proprie case, tipico del diritto internazionale marittimo, ma la permanenza nello stato di attracco);

– pur non volendo né criminalizzare né generalizzare, è stato revocato in dubbio che il fine del salvataggio sia esclusivamente e unicamente di tipo umanitario (si è, cioè, prospettato che le ONG siano mosse anche da finalità di ritorno d’immagine, con conseguenze in termini di crowdfunding e donazioni, spesso probabilmente provenienti anche da vettori commerciali che incoraggiano il ruolo delle ONG per evitare di doversi trovare davvero in prima persona a effettuare salvataggi)[1].

L’istituto del porto sicuro di cui alla convenzione UNCLOS, in altre parole, deriva da un diritto internazionale consuetudinario ed è concepito in tal senso perché le navi che effettuano soccorso occasionale si presumono non pronte a sostentare per lungo tempo persone a bordo supplementari, mentre le navi ONG si pongono invece proprio il fine di soccorrere e quindi sono organizzate in tal senso. In questa prospettiva, come evidenziato dalla dottrina (F. Munari, op. cit., 344), sussiste un obbligo di controllo di congruità dei mezzi ai fini da parte dello Stato di bandiera[2].

L’invocazione della Convenzione di Amburgo in fattispecie come quelle connesse all’attività delle ONG sembra dar luogo, in altre parole, a una forma di “abuso del diritto” da parte loro. E la circostanza, emersa in alcuni casi, che talune delle navi utilizzate per queste tipologie di operazioni siano formalmente registrate come destinate a funzioni diverse da salvataggio e soccorso sembra confermarlo. Come noto, l’abuso del diritto consiste essenzialmente nell’invocazione strumentale di norme per applicarle a fattispecie diverse dalla ratio delle stesse e dai presupposti tipici di applicazione delle medesime. Il concetto è tipico del diritto europeo (cfr. art. 54 della Carta di Nizza), ma non è estraneo neppure al diritto internazionale propriamente inteso, fermo che naturalmente quest’ultimo investe direttamente i rapporti tra Stati e non tra Stati e operatori.

4. Ciò detto con riferimento al caso in cui le operazioni siano avvenute in zona SAR italiana, diversi sono, invece, i principi applicabili nel caso in cui le operazioni di imbarco dei migranti avvengano al di fuori di tale zona. In tal caso, le responsabilità di assistenza competono allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto (es. la Libia) e, nel caso in cui sia ritenuto un porto non sicuro (in base al decreto interministeriale Esteri-Interni-Giustizia del 4.10.2019, la Libia non è considerato Paese sicuro, mentre lo sono, tra gli altri, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco), competono ragionevolmente allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato l’operazione (in tal senso sembra propendere la ricostruzione del Tribunale dei Ministri di Roma, nel caso Alan Kurdi: sul tema cfr. F. Munari, op. cit., 353, 359, 360).

Tali Stati hanno facoltà di chiedere assistenza allo Stato costiero, ma in mancanza di accordi specifici non risultano obblighi di concedere il proprio assenso (ferma l’incertezza della locuzione utilizzata dalla Convenzione “quando le circostanze lo richiedono”). Nel caso in cui la nave contatti strumentalmente uno Stato diverso da quello competente, esso (cd. First RCC) dovrà smistare la pratica allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto o, infine (ad es. laddove esso non disponga di porti sicuri), allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso: essi sono tenuti ad accettare la competenza, ma non viene chiarito che cosa avvenga nel caso in cui di fatto non la accetti e, soprattutto, se lo Stato che ha ricevuto la richiesta -pur essendo incompetente- sia legittimato a spogliarsi della vicenda dopo aver effettuato la comunicazione alle autorità competenti (cfr. Manuale IAMSAR, su cui cfr. F. Munari, op. cit., 337). Secondo la dottrina più autorevole, “La circostanza che MRCC Italia riceva una richiesta di soccorso fuori dalla propria zona SAR non integra altro obbligo per il nostro Paese se non quello, al massimo, di operare come First RCC, non potendosi quindi pretendere dalle persone concretamente coinvolte nella richiesta di soccorso alcun comportamento diverso da quello previsto dalle norme internazionali in capo a chi opera quale First RCC” (F. Munari, op. cit., 352).

Sotto altro profilo, allo Stato di bandiera competono verifiche sulla idoneità delle proprie imbarcazioni a effettuare il servizio alle quali sono preposte e che, pertanto, l’insufficienza dei mezzi che esse approntano rispetto al fine che si propongono rientra nella responsabilità del comandante ma indirettamente anche dello Stato di bandiera.

5. Vi è di più, in quanto lo Stato di bandiera non dovrebbe ritenersi estraneo neppure agli obblighi connessi alla ricezione della domanda d’asilo, secondo la convenzione di Dublino. Infatti, è principio tradizionale di diritto internazionale quello per cui le navi costituiscono una sorta di appendice del territorio di uno Stato, talché non appare peregrino sostenere che la frontiera europea, cui si collega l’obbligo degli Stati di ricevere le domande d’asilo da parte degli interessati, sia stata varcata nel momento in cui il migrante sale a bordo di un mezzo battente bandiera europea e che tale ingresso interrompa il nesso di provenienza da un Paese terzo.

In tali ipotesi, è dunque lecito utilizzare il sistema della ufficiale chiamata in causa dello Stato di bandiera, per la presa in carico della pratica, entro i termini di cui all’art. 21 del regolamento 604/UE/2013. In caso di declinatoria di competenza da parte dello Stato richiesto (una sorta di conflitto negativo di competenza), il regolamento si limita a prevedere una fase di conciliazione di fronte al Comitato ad hoc dell’art. 37, contiguo alla Commissione, che rende un parere non vincolante. Non si forniscono indicazioni sulla tutela giurisdizionale, ma si può ritenere che sia possibile adire la Corte di Giustizia, quanto meno ai sensi dell’art. 259 TFUE.

Occorre tener conto, peraltro, che la fictio iuris della nave come isola flottante o appendice distaccata dello Stato di bandiera non trova appigli testuali univoci nelle convenzioni internazionali. Le norme che più da vicino la richiamano sono gli artt. 91 e 92 della convenzione sul diritto del mare di Montego Bay (UNCLOS), ove si afferma che “Le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. Fra lo Stato e la nave deve esistere un legame effettivo … Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”.

Sulla base di tali principi, la giurisprudenza internazionale ha avuto modo di affermare quanto segue:

A corollary of the principle of the freedom of the seas is that a ship on the high seas is assimilated to the territory of the State the flag of which it flies, for, just as in its own territory, that State exercises its authority upon it, and no other State may do so. … [B]y virtue of the principle of the freedom of the seas, a ship is placed in the same position as national territory; but there is nothing to support the claim according to which the rights of the State under whose flag the vessel sails may go farther than the rights which it exercises within the territory properly so called.  It follows that what occurs on board a vessel on the high seas must be regarded as if it occurred on the territory of the State whose flag the ship flies …” (trattasi dello storico Lotus Case, Corte Internazionale di Giustizia, 1927).

The ship, everything on it, and every person involved or interested in its operations are treated as an entity linked to the flag State” (caso Saiga 2, Tribunale Internazionale del Mare, 1999).

Numerose sono le deroghe a questa fictio per cui la nave sarebbe una propaggine del territorio dello Stato, ma può darsi atto come lo Stato Italiano abbia recepito pienamente il principio tradizionale, mediante l’art. 4 comma 2 del codice penale, il quale – in ossequio al generale principio della territorialità della giurisdizione penale – stabilisce, tra l’altro, che “le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera”).

Merita di essere ricordato, in proposito, un caso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in materia di migranti, in cui è stata riconosciuta la giurisdizione dello Stato di bandiera della nave che imbarca i migranti in acque internazionali (cfr. CEDU, Grande Chambre, Hirsi Jamaa et al. c. Italia, 2012, parr. 77-82).

In quel caso, si trattava di imbarcazioni italiane che recuperavano migranti in acque internazionali, nel contesto degli accordi con la Libia, e li riportavano in Libia. Fu affermato l’obbligo dello Stato italiano di farsene carico perché imbarcati su navi italiane.  Se il diritto ha un senso, però, dovrebbe valere esattamente il reciproco quando le imbarcazioni battano bandiera di altro Stato e sia l’Italia a far valere il principio stesso.

6.​Se ne ricava conclusivamente un quadro giuridico d’insieme tutt’altro che univoco e concordante ma che, al di là di strumentalizzazioni di parte, non permette di qualificare come radicalmente infondata la pretesa di proteggere i propri confini dall’indiscriminato accesso degli stranieri, in un contesto di assai scarsa considerazione europea del problema che si preferisce nascondere sotto il tappeto degli Stati rivieraschi del Sud, laddove la disciplina dell’ineludibile fenomeno dell’emigrazione dovrebbe essere piuttosto preoccupazione generale dell’intera Europa.

Resta, infine, da considerare una prospettiva radicalmente alternativa di affrontare tale imponente fenomeno migratorio, consistente nella gestione intergovernativa dello stesso. Si tratta, in buona sostanza, di approfondire seriamente la strada della interlocuzione sistematica con i principali Paesi di provenienza dei migranti, al fine di consentirne un maggior sviluppo e permettere ai loro cittadini di realizzare compiutamente la propria esistenza nei propri luoghi natii senza necessità di emigrare per garantirsi una vita dignitosa e, in ogni caso, di regolare i flussi dei migranti e controllarli, in un’ottica finalmente di condivisione europea, che sia improntata alla solidarietà, non solo intraeuropea, ma anche con le Nazioni che patiscono tali emorragie di risorse umane.

È una grande occasione per l’Europa, ancora una volta al bivio fra pulsioni ideologiche suicidarie e soluzioni coraggiose rispettose della dignità di chi migra e di chi accoglie.


[1] “Pur non essendo in discussione gli obiettivi umanitari delle ONG, in molti casi, ai medesimi si aggiungono altre motivazioni, le quali, necessariamente, producono effetti anche giuridici sull’azione delle ONG stesse nel Mediterraneo: alcune di tali motivazioni sono ovvie, e riguardano … l’enorme visibilità mediatica per le ONG scaturenti da operazioni SAR di migranti, e le ricadute sul crowdfunding che tale visibilità determina … Per le ONG di cui trattasi possiamo assumere l’esistenza anche di motivazioni volte a generare ricadute positive in termini di immagine, e di incremento del sostegno a loro favore, che le pongono quindi in una sorta di vantaggio competitivo rispetto ad altre ONG impegnate nell’aiuto ai più deboli: quindi, in senso lato, motivazioni di termini di business in un “mercato” la cui offerta è generata dalle donazioni per scopi caritatevoli (V. J. PARENT, No duty to save lives, no reward for rescue: Is that truly the current state of international salvage law?, in Annual Survey of International & Comparative Law, 2006, 87-91; R.L. KILPATRICK JR. – A. SMITH, The international legal obligation to rescue during mass migration at sea: Navigating the sovereign and commercial dimensions of a Mediterranean crisis, in University of San Francisco Maritime Law Journal, 2015-2016, 141 ss.). Altre motivazioni sono meno ovvie, ma più che plausibili: in particolare, in ambito International Chamber of Shipping si ritiene che le missioni delle ONG nel Mediterraneo svolgano (anche) la funzione di ridurre il rischio per le navi mercantili (e soprattutto per le grandi navi di linea che hanno schedule e costi gestionali molto alti) di subire il coordinamento di un MRCC, con richiesta e obbligo di deviare la rotta per salvare un’unità carica di migranti. Donde l’ipotesi che tra i donors di queste ONG possano anche esservi compagnie di navigazione che “si servono” delle prime per garantirsi la regolarità dei traffici da esse serviti”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342-343.

[2] “La disciplina giuridica della navigazione pretende una relazione precisa tra modalità costruttive, gestionali e organizzative di una spedizione marittima e lo scopo per la quale essa è destinata a muovere. Tutto ciò impone quindi obblighi dallo Stato di bandiera al comandante della nave, siccome previsti a livello internazionale e necessariamente imposti al primo dal diritto nazionale”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 344.

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=ca13a5709a&e=d50c1e7a20

Per il Financial Times è tempo di sostituire demograficamente l’Europa

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Il Financial Times ha pubblicato un articolo in cui afferma che le persone che vivono nei paesi europei dovrebbero “prepararsi al rifornimento demografico da parte di arabi e asiatici”.

Parag Khanna, l’autore dell’articolo, ha anche scritto un libro intitolato “Move: How Mass Migration Will Reshade the World – and What It Means For You”.

Non sorprende che abbia anche stretti legami con il World Economic Forum e il Council on Foreign Relations ed è stato un “Global Governance Fellow” presso la Brookings Institution.

Khanna afferma ridicolmente che vaste aree del pianeta diventeranno “inabitabili” a causa dei cambiamenti climatici, causando “milioni, se non miliardi di persone… di trasferirsi su terreni alle latitudini più adatte alla sopravvivenza”. Per ora nulla di tutto questo è successo, anzi, sta accadendo l’opposto.

Quindi afferma che la “carenza di manodopera” in Nord America e in Europa richiederà a queste regioni di “aprire di conseguenza i rubinetti dell’immigrazione”.

“Il Nord America e l’Eurasia devono assorbire più persone”, chiede Khanna, apparentemente insoddisfatta dell’enorme numero di migranti che stanno già accogliendo.

“Gli odierni paesi di Visegrad, tesi dal punto di vista fiscale e in via di spopolamento, potrebbero fondersi in una federazione più ampia per amministrare meglio le loro foreste vitali, l’agricoltura e i fiumi al fine di prepararsi al rifornimento demografico da parte di arabi e asiatici”, scrive. Sarebbe bello chiedere che ne pensino Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia! Poi uno si lamenta della posizione politica dei governi di quegli stati. hanno forse torto? Tra l’altro l’articolo definisce questi paesi come “Al limite dell’equilibrio finanziario”, mettendo in luce un ulteriore collegamento con le politiche di austerità che tanto piacciono alla Commissione, al FMI e agli altri organi soprannazionali.

L’idea che americani ed europei vengano “riforniti” o “sostituiti” da popolazioni migranti è un’area di discussione che viene trattata in modo molto diverso a seconda di quale parte venga a  parlare.

Per coloro che sostengono la migrazione di massa, l’idea che gli europei bianchi vengano sostituiti demograficamente è inevitabile e/o qualcosa da celebrare e incoraggiare. Nello stesso tempo chiunque suggerisca che traslocare di milioni di persone in luoghi con culture diverse possa incidere negativamente sul paese ricevente e, in fondo costituisca un impoverimento del paese di emigrazione, viene visto  modo negativo è bollato come “razzista” .

Con questi articoli la teoria della “Grande sostituzione” prende una sua tangibile realtà. Non solo, viene a unirsi con l’altra grande, e devastante, teoria del cambiamento climatico, che, allo stato attuale, non ha portato allo spostamento di neppure una persona. Anzi proprio recentemente sono stati contati 1,8 miliardi di alberi in più nell’Africa subsahariana occidentale, fatto che contraddice proprio chi ha scritto l’articolo del Financial Times.

L’emigrazione di massa, non casualmente rivolta proprio a quei paesi europei che maggiormente vogliono difendere la propria libertà e identità, non è altro che l’ennesimo progetto di riallocazione di massa che ha avuto uno dei suoi maggiori sostenitori in Stalin. Progetti che non tengono conto delle persone, delle loro identità e dei loro desideri. Comunque ora il disegno è chiaro: collegare cambiamento climatico e sostituzione demografica. Ora lo potete toccare con mano.

Fonte: https://scenarieconomici.it/per-il-financia-times-e-tempo-di-sostituire-demograficamente-leuropa/

Crisi demografica, l’Europa dell’Est non cede ai ricatti: “Immigrazione non è soluzione”

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Roma, 2 ott – L’immigrazione di massa è la vera soluzione alla crisi demografica dell’Europa? Ammesso che di soluzione si tratti, questa “grande sostituzione” applicata alla realtà è inutile e dannosa. Per tutta una serie di motivi, a partire dal fatto che gli immigrati invecchiano come tutti gli altri e quindi il problema di ripresenterebbe ex novo negli anni a venire. Senza poi considerare tutti gli altri costi, ivi compresi quelli previdenziali (altro che il “pagano le nostre pensioni”). Dati e circostanze che, laddove dalle nostre parti la sinistra continua a battersi in preda ad un disturbo ossessivo-compulsivo, nell’Europa dell’Est sembrano ancora essere di buon senso.

La conferenza di Budapest: meno immigrazione, più politiche di aiuto alla natalità per sconfiggere la crisi demografica

Pochi giorni fa a Budapest si è tenuta una conferenza proprio sull’inverno demografico del vecchio (potremmo dire in tutti i sensi) continente, alla quale hanno preso parte i capi di Stato e di governo delle nazioni dell’Europa dell’est. Raggiungendo un’intesa che sbugiarda la narrazione dominante e fatta propria, tra gli altri, anche dall’Unione Europa.

Leggi anche: Sostenere la natalità, non l’integrazione degli immigrati. La Ue cambi prospettiva

I leader di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Serbia e Slovenia hanno infatti firmato una dichiarazione in cui rifiutano categoricamente di usare l’immigrazione per risolvere la crisi demografica. Impegnandosi al contrario a promuovere politiche attive per favorire la natalità. A spingere di più su questa proposta sono stati il primo ministro magiaro Viktor Orban e il suo omologo ceco Andrej Babis, i quali stanno già facendo una campagna elettorale basata su una forte opposizione all’immigrazione in vista delle elezioni che si terranno nei prossimi mesi.

Giuseppe De Santis

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/europa-est-rifiuta-grande-sostituzione-immigrazione-crisi-demografica-209091/

Moralisti con Morisi, garantisti con Lucano: l’ipocrisia dei manettari

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di Giuseppe De Lorenzo

Andatevi a ripescare alcuni pezzi di Repubblica dell’aprile del 2018. Precisamente il 20-21 aprile, quando cioè nell’aula bunker di Palermo venne emessa la sentenza di condanna sulla Trattativa Stato-Mafia che solo tre anni più tardi sarebbe stata ribaltata, anzi sbugiardata, dalla corte di Appello. “La Trattativa non è più solo un’ipotesi di quei quattro pm”, scrivevano i cronisti. “Non c’è più distinzione fra i mafiosi, il politico, i carabinieri. Sono solo imputati, colpevoli”. Erano tutti lì a parlare di “sentenza storica”. A riportare le grida festanti dei procuratori. A dire che “a trattare ci pensa dell’Ultri”, poi assolto con formula piena. Rep titolò: “Dalla sentenza una verità controvento”, così controvento da cadere poi nel ridicolo pochi anni dopo.

Ecco, perdonate la carrellata. Serve però a mostrare, più che a dimostrare, il solito doppiopesismo giudiziario di certa stampa. Così brava a trascinare i nemici nel fango, tipo Achille con Ettore, e a trattare coi guanti bianchi gli amici incappati in una condanna. Perché “le sentenze si rispettano”, ripetono all’unisono. Ma non proprio tutte tutte.

Tra queste rientra il verdetto di primo grado che oggi ha dichiarato colpevole Mimmo Lucano, accusato di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La storia è nota, e non staremo qui a ripercorrerla. Però a leggere le reazioni alla pesante condanna si resta basiti. Solidarietà è arrivata da Emergency, Sinistra Italiana, Pd, Leu, Rifondazione Comunista e chi più ne ha più ne metta. Un coro unanime di sdegno, peraltro prevedibile. Per Letta addirittura la sentenza “farà crescere la sfiducia nei confronti della magistratura” (la Trattativa invece no?) Ma Repubblica stavolta si è superata: prima si straccia le vesti per “il sindaco che voleva essere umano”; poi fa ironia sui pm che considerano “reato persino gli asinelli che venivano condotti a mano”; infine critica quelle indagini che “non sono riuscite a far saltare fuori un euro intascato indebitamente”. Per delegittimare la sentenza, ciliegina sulla torta, il quotidiano s’è pure avventato a ricordare come il Gip avesse “demolito buona parte delle ipotesi accusatorie più gravi, bollandole come inconsistenti”, pur sapendo che il Gip, così come il Riesame e la Cassazione, si erano espressi solo sui domiciliari. Mentre i giudici, oggi, sono entrati nel merito delle accuse. Confermandole.

Ora, noi siamo e resteremo garantisti. Sempre. Dunque Lucano va considerato innocente come lo è il figlio di Grillo e come lo erano Mori, dell’Utri e De Donno. E lo saranno fino a sentenza definitiva, per quanto ci riguarda. Fa specie però scoprire l’avversione di certi giornaloni alle sentenze. Gli stessi che da tre giorni si gettano come sciacalli sul corpo sfregiato di Luca Morisi, pizzicato a consumare droga e fare festini in casa propria (per ora senza accuse di reato). Gli stessi, peraltro, che hanno ignorato il caso della figlia della Bocassini o sminuito i soldi nella cuccia del cane della Cirinnà. Moralisti con la “Bestia”, garantisti con Lucano&friend. Benvenuti nel magico mondo sinistro dei due pesi e delle due misure.

Fonte: https://www.nicolaporro.it/moralisti-con-morisi-garantisti-con-lucano-lipocrisia-dei-manettari/

Immigrazione, Orban: “è un fenomeno organizzato”

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Noi Cattolici fedeli alla Tradizione, con altri pochi coraggiosi, intellettualmente onesti, sosteniamo queste tesi dagli anni ’80 in incontri pubblici, conferenze, seminari, libri e riviste. Inascoltati, derisi, attaccati, accusati, ostracizzati, processati. Ora che la realtà è sotto gli occhi di tutti…(N.d.R.)

QUINTA COLONNA

BELGRADO, 19 GIU – Immigrazione: il premier conservatore ungherese Viktor Orban ha ribadito la sua aperta ostilità nei confronti del fenomeno migratorio, da lui definito un “male” che avviene a suo avviso non spontaneamente ma in maniera organizzata.
“Quando ai confini ungheresi arrivano decine di migliaia di persone, in massima parte giovani uomini che sono in perfette condizioni fisiche e che incolonnati marciano verso la frontiera, e se cerchiamo di fermarli ci vengono contro, allora non parliamo di immigrazione ma di violazione della sovranità nazionale.

L’immigrazione va fermata

Tutto ciò va fermato”, ha detto Orban al settimanale cattolico croato ‘Voce del Concilio’.
Nell’intervista, ripresa dai media serbi, il premier ungherese si dice convinto che tutto ciò sia organizzato con motivazioni politiche, per far arrivare “enormi masse di musulmani nel continente europeo”.

Ritengo che tutti quelli che non si difenderanno, tra 20 anni non riconosceranno più il loro Paese“. Orban sostiene poi che l’Ungheria paga un alto prezzo poiché va contro le correnti politiche europee dominanti, difende il modello di famiglia cristiana e per il fatto che “la follia Lgbt non ha spazio in Ungheria”. (ANSA)

Leggi anche:


► ONU: “L’immigrazione è parte integrante della globalizzazione”

► Migranti, ONU: aprire canali legali per apportare forza-lavoro al mercato

► Il documento ONU sulla sostituzione etnica lo trovate qui >>>

 

Fonte: https://www.imolaoggi.it/2021/06/19/immigrazione-orban-fenomeno-organizzato/

La Florida manda la guardia nazionale al confine di Texas ed Arizona contro l’immigrazione. Intanto Biden dorme

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Il governatore della Florida Ron DeSantis ha annunciato mercoledì di aver autorizzato l’invio della polizia al confine tra Stati Uniti e Messico in Arizona e Texas, a seguito di una richiesta da parte di questi stati.

DeSantis, un repubblicano, ha affermato che la Florida è il primo stato a rispondere a una lettera dei governi. Greg Abbott e Doug Ducey, entrambi repubblicani, che hanno chiesto aiuto a tutti gli altri stati per controllare il confine. Una accusa indiretta verso il governo Federale, a cui spetterebbe la difesa  dei confini, ma che non sta facendo, oggettivamente, nulla.

“Siamo qui oggi perché abbiamo problemi in Florida che non sono interni  alla Florida,  che siamo stati costretti ad affrontare da molti anni, ma soprattutto negli ultimi sei mesi, a causa del fallimento dell’amministrazione Biden nel proteggere il nostro confine meridionale”, ha detto DeSantis durante un evento mercoledì. “E, in effetti, fare davvero qualcosa di costruttivo su ciò che sta accadendo al confine meridionale”.

Sebbene DeSantis non abbia approfondito la natura dello spiegamento della polizia, ha affermato che ci saranno “maggiori informazioni sui contorni dell’assistenza reciproca” in futuro. “Sono sicuro che in ognuno di questi dipartimenti dello sceriffo, ci sono vice che scalpitano per essere in grado di aiutare”, ha aggiunto.

“Penso che ci siano molte persone del tipo, ‘Amico, vorrei poter fare qualcosa per aiutare’. Beh, hanno l’opportunità di farlo. Penso che vedrai molte mani alzarsi dicendo: “Ehi, mandami, voglio essere utile”, ha aggiunto il governatore repubblicano.

DeSantis ha anche usato la conferenza stampa per criticare le politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Biden, affermando che il presidente Joe Biden ha annullato una serie di mandati di successo dell’era Trump progettati per frenare l’immigrazione illegale

Abbott e Ducey, nella loro lettera in cui chiedevano aiuto mettevano in luce come questa richiesta fosse finalizzata a risparmiare problemi e costi anche agli altri stati:

“Con il tuo aiuto, possiamo fermare meglio  questi autori di crimini statali e federali, prima che possano causare problemi nel tuo stato”, hanno scritto i due governatori.

I dati rilasciati questa settimana da Customs and Border Protection mostrano che gli agenti hanno arrestato circa 180.000 persone entrate illegalmente negli Stati Uniti a maggio, che è la cifra più alta registrata in circa due anni. Più di 112.000 di questi immigrati illegali sono stati espulsi ai sensi della disposizione sanitaria del Titolo 42, che è stata autorizzata tramite una dichiarazione di emergenza lo scorso anno a causa della pandemia di COVID-19. Però il flusso sembra inarrestabile, anche per l’effetto attrazione esercitato da Biden.

Fonte: https://scenarieconomici.it/la-florida-manda-la-guardia-nazionale-al-confine-di-texas-ed-arizona-contro-limmigrazione-intanto-biden-dorme/

La prossima generazione europea? Per l’Ue è africana

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di Alessandro della Guglia

Roma, 15 apr – La “prossima generazione” sognata dall’Ue è “verde, digitale, resiliente”. E africana. Questo si evince dalla foto pubblicata ieri sulla pagina Instagram della Commissione europea, che ritrae un giovane padre di colore con in braccio uno splendido bambino sorridente. L’immagine è accompagnata da questa scritta, piuttosto inequivocabile: “Think future. Think #NextGenerationEu”. Ordunque dovremmo pensare a un futuro europeo così, con una nuova generazione nera.

La “prossima generazione” europea, secondo l’Ue

“In combinazione con il bilancio a lungo termine dell’Ue, dal valore di 1,8 trilioni di euro, lo strumento temporaneo dell’Ue di nuova generazione stimolerà la ripresa e aiuterà a ricostruire un’Europa post-COVID-19”, scrive la Commissione europea. “Insieme, possiamo plasmare il mondo in cui vogliamo vivere”. Parole, anche queste, emblematiche. E intendiamoci, qua non alberga alcun tipo di razzismo. La foto è molto bella e sarebbe perfetta per un qualunque governo di una qualunque nazione africana che intenda programmare seriamente il proprio futuro. Ma se ad utilizzare questa immagine è la Commissione europea è difficile non pensare a una forzatura deliberata, volta a lanciare il classico messaggio politically correct.

Cosa avrebbe pubblicato una nazione africana?

Qualcuno si sta davvero immaginando una sostituzione etnica? E’ davvero questa la prossima generazione che vorrebbe Bruxelles? E perché mai? Qual è esattamente il problema che i vertici Ue hanno con le proprie radici? Provate poi a immaginarvi una nazione africana – prendiamo a titolo esemplificativo la Nigeria – che decide di pubblicare sulle proprie pagine social una foto accompagnata dalla stessa scritta: “Think future. #NextGenerationNigeria”. Ecco, secondo voi il tal caso l’immagine ritrarrà un padre bianco? La risposta è sin troppo scontata. “Oggi annunceremo la nostra strategia di finanziamento per finanziare il piano di ripresa per l’Europa. Rimanete sintonizzati!”, si legge infine sul post Instagram della Commissione europea. Fini strateghi al lavoro, auspicando che almeno le risorse economiche vengano utilizzate seriamente.

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/prossima-generazione-europea-per-ue-africana-189695/

L’assimilazione degli immigrati non è né buona né cattiva: è impossibile

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di Alain de Benoist

Fonte: Barbadillo

Boulevard Voltaire: Il dibattito sull ‘”integrazione” degli immigrati è impantanato da decenni, se non altro perché non viene mai specificato cosa significhi integrare: a una nazione, a una storia, a un’azienda, a un mercato? È in questo contesto che alcuni preferiscono invocare l’”assimilazione”. Due mesi fa, la rivista Causeur ha dedicato a questo concetto un intero dossier, con il titolo in prima pagina: “Assimilati! Cosa le fa pensare?Alain de Benoist: “Negli ambienti più preoccupati per i flussi migratori, si sente spesso dire che l’assimilazione sarebbe la soluzione miracolosa: gli immigrati diventerebbero “francesi come tutti gli altri” e il problema sarebbe risolto. Questa è la posizione difesa con talento da Causeur, ma anche da autori come Vincent Coussedière, che pubblicherà A Praise of Assimilation, o Raphaël Doan (The Dream of Assimilation, from Ancient Greece to the Present Day). Altri obiettano che “gli immigrati sono inassimilabili”. Altri ancora rifiutano l’assimilazione perché implica necessariamente l’incrocio. Queste tre posizioni sono molto diverse, e anche contraddittorie, ma hanno tutte in comune il fatto che ritengono che l’assimilazione sia possibile, almeno in teoria, anche se alcuni non lo vogliono o ritengono che gli immigrati non giochino.

L’assimilazione è un concetto di natura universalista, ereditato dalla filosofia dell’Illuminismo (la parola si trova già in Diderot). Presuppone che le persone siano fondamentalmente tutte uguali. Per far sparire le comunità, dobbiamo quindi convincere gli individui che le compongono a staccarsi da esse. In un certo senso, questo è un patto che ci proponiamo di fare con gli immigrati: diventate individui, comportatevi come noi e sarete pienamente riconosciuti come uguali, poiché ai nostri occhi l’uguaglianza implica l’uguaglianza.

Ricordi l’apostrofo di Stanislas de Clermont-Tonnerre nel dicembre 1789: “Dobbiamo concedere tutto agli ebrei come individui, dobbiamo rifiutare tutto agli ebrei come nazione!” (Gli ebrei non hanno ceduto a questo ricatto, altrimenti avrebbero dovuto rinunciare all’endogamia e oggi non ci sarebbe più comunità ebraica.) Emmanuel Macron non dice altro quando afferma che la cittadinanza francese riconosce “l’individuo razionale libero come stato prima di tutto “. Raphaël Doan è molto chiaro su questo punto: “L’assimilazione è la pratica di richiedere allo straniero di diventare un compagno […]”. Per assimilarsi, bisogna praticare l’astrazione dalle proprie origini. In altre parole, che cessa di essere un Altro e diventa lo Stesso. Per fare questo, deve dimenticare le sue origini e convertirsi. “Emigrare significa cambiare la tua genealogia”, dice Malika Sorel. È più facile a dirsi che a farsi. Perché assimilare “i valori della Repubblica” non significa niente. Assimilare significa adottare una cultura e una storia, una socievolezza, un modello di relazioni tra i sessi, codici di abbigliamento e culinari, modi di vita e di pensiero specifici. Tuttavia, oggi, la maggioranza degli immigrati è portatrice di valori che giustamente contraddicono quelli delle popolazioni ospitanti. Quando offriamo loro di negoziare la loro integrazione, dimentichiamo semplicemente che i valori non sono negoziabili (cosa che una società dominata dalla logica dell’interesse personale ha le maggiori difficoltà a comprendere)”.

E lei pensa che l’assimilazione sia buona o cattiva?

“Né buono né cattivo. Tendo a pensare che sia impossibile. Il motivo principale è che possiamo assimilare gli individui ma non possiamo assimilare le comunità, specialmente quando queste rappresentano dal 20 al 25% della popolazione e queste sono concentrate – “non perché siano messi nei ghetti, ma perché gli esseri umani coltivano naturalmente il vicinato di quelli che vivono come loro ”(Élisabeth Lévy) – in territori che favoriscono l’emergere di contro-società basate esclusivamente sull’identità. Ciò è particolarmente vero in un paese come la Francia, segnato dal giacobinismo, che non ha mai smesso di lottare contro gli organismi intermedi per riportare la vita politica e sociale a un faccia a faccia tra individuo e Stato. Colbert aveva già compiuto grandi sforzi per “francesizzare” gli indiani d’America. È stato ovviamente un fallimento.

In Francia, l’assimilazione raggiunse il suo apice sotto la Terza Repubblica, in un momento in cui la colonizzazione era in pieno svolgimento per iniziativa dei repubblicani di sinistra desiderosi di far conoscere ai “selvaggi” i benefici del “progresso”. Ma la Terza Repubblica è stata anche una grande educatrice: nelle scuole, gli “ussari neri” si sono impegnati a insegnare la gloriosa storia del romanzo nazionale. Non ci siamo più. Sono in crisi tutte le istituzioni (chiese, esercito, partiti e sindacati) che in passato hanno facilitato l’integrazione e l’assimilazione. La Chiesa, le famiglie, le istituzioni non trasmettono più nulla. La scuola stessa, dove il curriculum è dominato dal pentimento, non ha altro da impartire se non la vergogna dei crimini del passato.

L’assimilazione implica la volontà di assimilarsi dalla parte del potere in carica e il desiderio di essere assimilati dalla parte dei nuovi arrivati. Tuttavia, non c’è né l’uno né l’altro. Lo scorso dicembre, Emmanuel Macron ha detto esplicitamente a L’Express: “La nozione di assimilazione non corrisponde più a ciò che vogliamo fare”. È difficile vedere, d’altra parte, quale attrattiva possa ancora esercitare il modello culturale francese sui nuovi arrivati ​​che scoprono che i nativi, che spesso disprezzano, quando non li odiano, sono i primi a non voler sapere nulla della loro storia e battersi il petto per essere perdonati di esistere. Cos’è che vedono che li attrae? Cosa li può apassionare? Spingerli a voler partecipare alla storia del nostro Paese?”

Ultima nota: nel modello assimilazionista, l’assimilazione dovrebbe progredire di generazione in generazione, il che può sembrare logico. Tuttavia, vediamo che in Francia è esattamente l’opposto. Tutti i sondaggi lo dimostrano: sono gli immigrati delle ultime generazioni, quelli che sono nati francesi e hanno la nazionalità francese, che si sentono i più estranei alla Francia, che pensano sempre più che la Sharia abbia la precedenza sul diritto civile e trovano tanti elementi inaccettabili, come un “oltraggio” alla loro religione. Lo scorso agosto, alla domanda sulla proposizione “L’Islam è incompatibile con i valori della società francese”, il 29% dei musulmani ha risposto affermativamente, mentre tra gli under 25 la percentuale era del 45%”.

Un dibattito del genere è solo francese? Nei paesi occidentali? O la questione dell’integrazione attraverso l’assimilazione si trova ovunque?

“I paesi anglosassoni, non essendo stati segnati dal giacobinismo, sono più ospitali nei confronti delle comunità. Negli Stati Uniti, d’altra parte, gli immigrati generalmente non hanno animosità verso il paese in cui cercano di entrare. La stragrande maggioranza di loro, che è stata instillata con il rispetto dei padri fondatori, vuole essere americana. Il “patriottismo costituzionale” fa il resto. In Asia è ancora diverso. La nozione di assimilazione è qui sconosciuta, per il semplice motivo che la cittadinanza è confusa con l’etnia. Per i due miliardi di persone che vivono nel nord e nel nordest asiatico, soprattutto nella zona di influenza confuciana, uno nasce cittadino, non lo diventa. Questo è il motivo per cui Cina e Giappone si rifiutano di fare appello all’immigrazione e naturalizzano solo in piccole quantità (i pochissimi europei che hanno ottenuto la nazionalità giapponese o cinese non verranno comunque mai considerati giapponesi o cinesi)”.

(Intervista condotta da Nicolas Gauthier per Boulevard Voltaire)

 

 

Ecco i magistrati che liberano i criminali immigrati

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Truci coi miti, tolleranti coi delinquenti. La morale elastica italica si esalta in tempo di pandemia. Da una parte le divise, nazionali o municipali, che non sempre, comunque troppo spesso, si sentono investite oltre la logica del ruolo di gendarmi, diventano sceriffi, se esci per avventurarti in farmacia ti fermano, ti identificano anche se ti conoscono benissimo perché nei quartieri e nei borghi tutti sanno tutto di tutti e infatti te lo dicono, tra il preoccupato e il minaccioso: ah, ma noi sappiamo chi sei. E allora, siccome sanno chi sei, gli spieghi, con pazienza incazzata, che questo e quel tribunale, che la Cassazione, che la giurisprudenza, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, che il buon senso, che la dottrina politica escludono certi obblighi da stato di polizia.

Altro sconto di pena per Kabobo

Ma non tutti hanno la fortuna o il peso di restare informati, come nel notiziario del traffico, molti sbigottiscono e basta: sono cittadini qualsiasi, sfibrati dal terrorismo sanitario, dagli sbirri sceriffi che però negli assembramenti di ragazzotti non mettono becco, nei centri sociali balordi non osano entrare, la legge come sempre per qualcuno più uguale, la dura lex che si arresta sulla soglia di un’osteria cospirazionista o semplicemente un locale che ha le amicizie giuste, di paese o di quartiere. Dall’altra parte, la strana ma dilagante indulgenza per i mattoidi, i violenti, i farabutti, meglio se esotici. Citofonare Kabobo, il ghanese che sentiva le voci e ne ammazzò tre a picconate a Milano, scelti a caso, nel 2013: allora furono in tanti a dire, tanto lo liberano presto, e infatti i 42 anni di galera originari per 3 omicidi e altri 4 tentati, già limati a 28 per i meccanismi processuali, vanno ulteriormente evaporando: in arrivo altri sconti di pena, e l’avvocato di una delle vittime ha calcolato, realisticamente, che alla fine la condanna scemerà a undici, dodici anni, otto dei quali già scontati. Il che significa che fra qualche semestre la risorsa, unica vera vittima secondo la vulgata progressista, potrà girare di nuovo con un piccone nuovo di zecca. Troia lex sed lex.

Lunga lista di reati delle “risorse”

Simile è il caso del somalo trentatreenne che a Roma ha accoltellato un povero cristo, lo prendono, lo condanno per direttissima e subito lo rimandano libero ad onta dei precedenti penali. La magistratura moralista, che pretende di uscire dal codice e riscrivere le regole sociali, come succedeva negli anni Settanta, dei pretori d’assalto, dei giudici militanti, e come succede ancora oggi a leggere certe incredibili intercettazioni nel pasticciaccio brutto di Palamara. Sempre a Roma, un nordafricano con machete d’ordinanza distrugge 33 auto parcheggiate: nessuna conseguenza per lui. A Treviso un marocchino trentenne, sbandato, senza fissa dimora, strafatto, ovviamente con precedenti, naturalmente armato di temperino, prima aggredisce i passanti, poi, per non sbagliare, i carabinieri: il giudice di turno neanche lo spedisce in carcere, dopo una notte in camera di sicurezza lo rimanda fuori, libero e bello, con una carezza. A Trieste uno slovacco di 37 anni molesta gente a caso, poi si scaglia contro gli agenti, chiamati da cittadini impauriti: denunciato a piede libero per resistenza, oltraggio, minacce, molestie e la pena non la sconterà mai. Pochi mesi fa ancora a Roma un transessuale ubriaco, ma erculeo, si scaglia su malcapitati brandendo una sbarra di ferro: solito buffetto, denuncia a piede libero per inezie quali aggressione e porto di oggetti atti a offendere.

AllHotel House di Porto Recanati, uno di quegli inferni in terra che nessuno riuscirà mai a sradicare, fatti di sangue quotidiani e ossa di morti seppellite fra gli sterpi, hanno appena scoperto 236 false partite Iva: servivano ad ottenere i permessi di soggiorno, oltre che per lo spaccio ed altri traffici criminali. Trenta chilometri più su, ai Tre Archi di Lido di Fermo, che è più o meno la stessa cosa, si agitano una ventina di etnie con l’80% di pregiudicati. Omicidi e violenze non si contano, durano da trent’anni e si parla di alcune crack house sorvegliate da guardie armate con cani feroci.

Occupazioni, magistratura e Vaticano

Capitolo collegato, quello delle occupazioni abusive, mostrate a più riprese dai talk show d’inchiesta. Immigrati risorsisti che penetrano, cambiano la serratura e se il proprietario osa farsi vedere lo pestano, nella comprensione del cosiddetto Stato di diritto.

A Licata, in Sicilia, in 5 del Gambia hanno sequestrato una abitazione, ci si sono accomodati e, per non farsi mancare niente, si sono attaccati alla rete elettrica pubblica. Contestualmente alla convalida degli arresti sono stati rimessi in libertà, sono rimasti a Licata e adesso si temono ritorsioni violente. Forse dovrebbero chiamare il cardinale elettricista, mandato da Bergoglio a ripristinare l’illegalità. Konrad Krajewski, Elemosiniere, alla lettera, di Sua Santità, aveva promesso di pagare lui l’ammanco provocato dai fannulloni del centro sociale abusivo che fregava l’energia elettrica: non ha mantenuto e quelli hanno continuato.

Non dire falsa testimonianza, non rubare, non desiderare la roba d’altri: ma di questi tempi in Vaticano i comandamenti sembrano roba obsoleta, perfino patetica. Secondo Luigi Bisignani, l’elettricista Krajewski ha ottime chance di diventare papa, lo sponsorizza Bergoglio in persona.

Max Del Papa, 30 marzo 2021

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Ecco i magistrati che liberano i criminali immigrati

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