POLEMICA | Berizzi contro la Curva Sud. Christus Rex-Traditio lo querela: offende generalizzando

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di Redazione Telenuovo

“Dunque gli ultrà neonazisti dell’Hellas Verona, quelli dei cori pro Hitler e della tolleranza zero contro drogati e sbandati, hanno trasformato la Curva Sud e il loro bar di ritrovo in un tempio dello spaccio di cocaina”. Così il giornalista di Repubblica Paolo Berizzi ha commentato su X l’inchiesta veronese sullo spaccio e l’uso di cocaina in Curva Sud. Lo stesso giornalista, noto per le dure prese di posizione nei confronti dei tifosi del Verona ha spiegato su Repubblica nella rubrica Pietre: “Siamo una squadra fantastica fatta a forma di svastica… che bello è… allena Rudolf Hess”. È uno dei cori che intonano da anni gli ultrà neonazisti dell’Hellas Verona. Adesso un’operazione della polizia ha permesso di scoprire che i “duri e puri” della tolleranza zero contro drogati e sbandati avevano trasformato la Curva Sud dello stadio Bentegodi e il bar ritrovo dell’ala più dura della tifoseria scaligera in un tempio dello spaccio di cocaina. Che veniva venduta e consumata prima e durante le partite nei bagni dello stadio e del locale attiguo, in piazzale Olimpia. Centinaia di dosi preparate e portate all’interno dell’impianto sportivo nascoste nell’abbigliamento. Dodici le persone arrestate. Quando si dice la nemesi“.

Dichiarazioni che non sono piaciute a Matteo Castagna, Responsabile Nazionale del Circolo Christus Rex-Traditio, che ha presentato una denuncia querela nei confronti di Berizzi, tramite l’avvocato Andrea Sartori. Si legge nella denuncia:

Il Circolo Christus Rex-Traditio frequenta da almeno trent’anni la Curva Sud dello stadio Marcantonio Bentegodi di Verona per sostenere la squadra del cuore di molti suoi componenti, che è l’ Hellas Verona F.C. Siamo rimasti sconcertati di fronte al tweet del giornalista di Repubblica Paolo Berizzi che getta fango su tutta la tifoseria dell’Hellas Verona, reiterando un livore che lo ha caratterizzato in passato con una “persecuzione” maniacale, non solo con scritti sulla rubrica del quotidiano La Repubblica, denominata “Pietre”, ma anche con libri, tra cui l’ultimo è “E’ gradita la camicia nera” (ed. Rizzoli) ove costantemente la tifoseria dell’Hellas Verona viene genericamente criminalizzata con l’odio che l’autore vorrebbe combattere, ma nella pratica, utilizza anche inventando “trame nere” ove non esiste nulla. Secondo il tweet in oggetto, che ha numerosi followers, noi cattolici che abbiamo la passione per il Verona calcio dalla Curva Sud, saremmo “ultrà neonazisti”, “quelli dei cori pro Hitler…. che hanno trasformato la Curva Sud ed il loro bar di ritrovo in un tempio dello spaccio di cocaina“. Continua Castagna: “Nel mucchio, anche noi saremmo “i “duri e puri” che “pippano prima e durante le partite” tutte le domeniche. Giudichiamo estremamente offensiva la generalizzazione che viene fatta, perché va a colpire tutti, in un settore che tiene oltre 5.000 spettatori. E’ puro veleno, figlio dell’odio e della discriminazione politica così come prevista dalla Legge Mancino, politico anche per la città, che l’Hellas Verona rappresenta nella massima serie ed è una grave diffamazione nei nostri confronti, che non abbiamo mai fatto uso di sostanze stupefacenti né le abbiamo mai vendute. In rappresentanza del gruppo e in proprio, Matteo Castagna come sopra generalizzato, Responsabile Nazionale, ben conosciuto dalle Istituzioni e dalle forze dell’ordine locali ritiene di essere stato diffamato e calunniato dalle affermazioni pubblicate e qui allegate, in questo “gioco” allo scontro di Repubblica e di Berizzi, essendo egli e tutti i componenti che partecipano allo spettacolo calcistico, del tutto estranei ai fatti esposti“.

 

Fonte: https://www.google.com/url?rct=j&sa=t&url=https://tggialloblu.telenuovo.it/hellas-verona/2023/09/04/polemica-berizzi-contro-la-curva-sud-christus-rex-traditio-lo-querela-offende-generalizzando&ct=ga&cd=CAEYACoTNzAyMzIzMjc1NDY2MDU5NzgxNTIZNTRiZjgxMGU4ODU3NDlhMDppdDppdDpJVA&usg=AOvVaw1dJfBI0BhDyqTsE1wGzIRM

 

AMIA Verona: Esposto dell’Avv. Luigi Bellazzi al Sindaco Tommasi

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dell’Avv. Luigi Bellazzi – VERONA

Mi è gradito farvi conoscere il mio Esposto indirizzato alle Autorità cittadine sulla pluriennale illegalità operativa di Amia: il linguaggio è tecnico e, dunque, lontano da quello stile che dovrebbe far sollevare l’indignazione e far gridare “Vergogna!!!”.

Vergogna per tutte le Amministrazioni di Destra come di Sinistra che in questi ultimi decenni hanno rubato , rubano e di questo passo, continueranno a rubare, sperperando denaro pubblico per appaltare lavori inutili ad imprese legate alla Sinistra (Lega delle Cooperative), così come alla Destra (Mazzi), imprese che in realtà sono cadaveri viventi.

Ma, fatto ancora più allarmante, per chi oltre ai principi etici guarda alla realtà più concreta, spese, bilanci, insomma ai soldi sperperati.

Non ho dubbi: sono spese  folli che porteranno il bilancio della Città al fallimento. Sto esagerando? Prima di rispondere permettetemi di segnalarvi  queste  cifre a spanne:

 Amia costa 15 milioni di euri per acquisirla dal gruppo AGSM AIM; altri  60 milioni in 5 anni serviranno per ricapitalizzare la Nuova Amia, la Filovia/ Rubovia costa al Comune al momento 46 milioni,(a cui si dovranno aggiungere tutti gli interventi di contorno) senza tener conto delle spese di gestione.

È vergognoso sottolineare che per la “Rubovia” 90  milioni di euri li tira fuori lo Stato( siamo sempre noi, noi italiani, mica i marziani…), ragion per cui questa Amministrazione sperpera complessivamente non meno di 121 milioni ( 15+60+ 46) di Euri.

Quale l’alternativa? È presto detto: Amia potrebbe essere affidata ai privati, per i danni della Filovia/Rubovia dovrebbe essere  chiamati a risarcirli tutti gli amministratori che l’hanno pervicacemente voluta, nonostante l’inutilità e i costi stratosferici.

Ricordiamoci anche che il danno nei confronti di noi cittadini è doppio: infatti sperperare 121 milioni significa che non avremo soldi per gli asili nido, per anziani non autosufficienti , per i disabili. Tutti questo per me è delinquenza politica… nel significato etimologico latino: de liquere, venir gravemente meno ai propri doveri.

Con questo spirito e tutta la mia e la vostra indignazione,vi auguro buona lettura,

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Al Sindaco del Comune di Verona

Damiano Tommasi

Ai Consiglieri comunali di Verona

Segretario generale del Comune di Verona

dott. Luciano Gobbi

Sindaco di Vicenza

Giacomo Possamai

Segretario generale del Comune di Vicenza

dott.ssa Stefania Di Cindio

Ai Consiglieri comunali di Vicenza

E p.c.                    Presidente del Gruppo Agsm-Aim Spa

Federico Testa

Presidente di Amia Verona Spa

Bruno Tacchella

Procura Regionale Veneta della Corte dei Conti

Presidente dell’ANAC

Egregio Sindaco,

nei giorni scorsi la stampa locale ha dato notizia di un «rallentamento» nel processo che dovrebbe portare alla creazione della «nuova» Amia «in house» del Comune di Verona, finalizzata a legittimare la gestione in via diretta e senza gara del servizio rifiuti e della manutenzione del verde pubblico.

La stampa ha riferito che la nuova Amia (AmiaVr, di proprietà del Comune di Verona) dovrebbe acquistare tutte le quote societarie di Amia Verona Spa al costo di 15 milioni di euro, ma l’operazione è stata rinviata sine die perché i consiglieri di minoranza vicentini di Agsm-Aim Spa (di centrodestra, a differenza del sindaco, che è di centrosinistra) avrebbero messo in dubbio la valutazione societaria chiedendo nuove, ulteriori garanzie.

Con il presente esposto intendo documentare che un siffatto rinvio non è frutto di un banale disguido o ritardo procedurale, ma si configura quale condotta omissiva illegittima foriera di un danno erariale certo, attuale, concreto e determinabile a carico del Comune di Verona.

A fondamento di tale assunto espongo le seguenti considerazioni, dalle quali emerge che il Comune ha abusato dello strumento societario utilizzando Amia Verona Spa in aperto contrasto non solo con la vigente normativa in materia, ma anche con i più elementari principi di buon governo e di sana gestione della cosa pubblica.

Con un processo di fusione per incorporazione attuato nell’anno 2012 il Comune ha conferito Amia Verona Spa in Agsm Verona Spa, e per effetto di tale operazione è venuto meno il rapporto di delegazione interorganica tra Amia e la Pa, il quale costituisce il presupposto di legittimità per la gestione dei servizi pubblici locali in via diretta e senza gara.

Nonostante la perdita della qualifica di società pubblica articolazione organizzativa della Pa, Amia Verona Spa dal 2012 fino ad oggi è rimasta (incredibilmente) concessionaria diretta del servizio rifiuti e della manutenzione del verde pubblico nel territorio comunale, in aperto contrasto con la normativa in materia (art. 16 del Tusp, art. 5 del dlgs 50/2016, ecc.).

Soggiungo, al riguardo, che l’affidamento diretto di servizi pubblici senza gara, oltre a risultare lesivo dei principi nazionali e comunitari in tema di mercato e di libera concorrenza, è foriero di un danno erariale pari alla differenza tra il maggior costo sostenuto dal Comune per oltre 10 anni (dal 2012, appunto), rispetto al costo che l’Ente locale avrebbe sostenuto dando corso una gara pubblica per l’affidamento dei servizi in ottemperanza alle vigenti disposizioni di legge in materia.

D’altra parte, è fuori discussione che Amia Verona Spa – da sempre società in mano pubblica – sia un’azienda fuori mercato, operante secondo condizioni economiche tutt’altro che competitive e concorrenziali.

La stessa Corte dei Conti nelle relazioni annuali in materia ha ripetutamente contestato con durezza le pessime prestazioni economiche delle società pubbliche, definendole, di fatto, le peggiori imprese del tessuto produttivo italiano.

In poche parole, le società pubbliche al 100 per cento, per quanto beneficiarie di affidamenti in regime di monopolio sono quelle meno efficienti, con maggiori perdite, più sbilanciate verso il debito e meno in grado di usare le tecnologie laddove queste possano supplire all’impiego di risorse umane.

È il caso di ricordare che la giurisprudenza contabile ha più volte chiarito che la nozione “danno da concorrenza” ricomprende tanto il nocumento subito dall’amministrazione per non aver conseguito il risparmio di spesa che sarebbe stato possibile ottenere mediante il confronto in gara tra più offerte (“danno alla concorrenza in senso stretto”: cfr. ex multis Sez. II Centr. App. 20 aprile 2011 n. 198), quanto quello corrispondente all’esborso dell’intero corrispettivo pagato all’impresa, al netto dell’utiliter datum, in esecuzione di un contratto nullo per violazione delle norme imperative (“danno alla concorrenza in senso ampio” o “atecnico”).

La circostanza che la Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale e di controllo del Veneto, e l’Anac – benché a suo tempo informate dallo scrivente della gestione illegittima dei servizi locali da parte del Comune di Verona – non siano finora intervenute presso l’Ente locale per porre un argine agli sprechi pubblici e ripristinare la legalità violata, non può certo costituire un “lasciapassare” al Comune di Verona per violare la legge con impunità.

Eppure a fronte della situazione deteriorata sopra descritta il Comune ha ulteriormente peggiorato lo stato delle cose grazie alla fusione per incorporazione di AIM Vicenza Spa in AGSM Verona Spa, con la costituzione dal 1° gennaio 2021 del gruppo AGSM – AIM Spa a capitale interamente pubblico, partecipato dal Comune di Verona con la quota del 61,2 % e dal Comune di Vicenza con la quota del 38,8%.

Va considerato, sul punto, che negli anni 2017 e 2018 AIM Vicenza Spa ha dato corso all’emissione di un prestito obbligazionario mediante quotazione presso il mercato regolamentato della Borsa di Dublino, con la conseguenza che – in base alla disposizione transitoria ex art. 26, comma 5, del dlgs n. 175/2016 – AIM Spa ha potuto acquisire lo status di “società quotata”, trasmettendo (chissà come) questo status all’intero gruppo intersocietario neocostituito.

In seguito alla fusione, la pagina relativa all’”Amministrazione trasparente” del nuovo gruppo AGSM-AIM Spa ha subito un totale cambiamento rispetto al corrispondente regime in vigore per società a controllo pubblico non quotate.

Oggi il sito del gruppo reca il seguente messaggio:

“A seguito dell’operazione di fusione per incorporazione, dal 1° gennaio 2021 la Capogruppo AGSM AIM S.p.A. ha conseguito lo status di “società quotata” ed è, pertanto, sottoposta alla normativa di disclosure applicabile alle società emittenti strumenti finanziari”.

Dopo il messaggio, le informazioni relative alla gestione sociale sono divenute parziali, lacunose o addirittura inesistenti, lasciando intendere che una società “quotata” non sarebbe tenuta all’osservanza degli obblighi di trasparenza, ma deve solo preoccuparsi di evitare la divulgazione di dati potenzialmente dannosa, per l’influenza sull’andamento del titolo e gli effetti nocivi sulla quotazione e/o sul rating della società.

Per effetto della suddetta fusione AMIA Verona Spa – già teatro di infiltrazioni mafiose e losche manovre tuttora al vaglio della magistratura penale* – da un lato è stata sottratta al regime di trasparenza in vigore per le società in controllo pubblico, ma dall’altro non ha cessato di operare come società pubblica (grazie alla collusione dell’Ente affidante) continuando a gestire senza gara servizi pubblici di utilità generale sul territorio, come se fosse ancor oggi un’articolazione organizzativa della Pa.

Da ultimo, con un ritardo marchiano e paradossale il Comune di Verona ha tentato di sanare una situazione radicalmente illegittima con l’adozione della delibera consiliare n. 20 del 13 aprile 2022, con oggetto “Partecipate – provvedimenti in merito alla costituzione di una new.co per la gestione in house del servizio di igiene urbana e del servizio di manutenzione delle aree verdi”.

Il progetto di ristrutturazione societaria contenuto nella delibera puntava a ricondurre l’esercizio dei servizi pubblici di cui sopra alla gestione in via diretta e senza gara, attraverso un percorso a ostacoli estremamente complicato e macchinoso.

In sintesi, la delibera comunale di cui sopra prevede quanto segue.

  1. È decisa la costituzione immediata, da parte del Comune di Verona, di una New.Co (poi denominata AmiaVr) dotata di un capitale sociale di 1 milione di euro;
  2. tale società provvederà all’acquisizione del 100% della partecipazione in AMIA Verona S.p.A., dopo che questa sarà stata depurata dalle attività e dalle partecipazioni non necessarie allo svolgimento del servizio igiene ambientale e manutenzione del verde nel Comune di Verona;
  3. la “depurazione” di AMIA Verona Spa avrà luogo mediante scissione parziale e trasferimento del ramo d’azienda residuale ad altra società, costituita da AGSM AIM S.p.A. e mantenuta sotto il suo controllo.

Si tenga presente che:

–         La società scissa AMIA Verona S.p.A. non si estinguerà, ma proseguirà i propri servizi senza la parte di attività/passività trasferite alla società beneficiaria;

–         Una volta acquisito il 100% di AMIA Verona S.p.A. da parte della New.Co comunale (= AmiaVr), si procederà a una fusione inversa, attraverso cui la NewCo stessa confluirà in AMIA, la quale a sua volta dovrà adeguare lo Statuto per avere le caratteristiche di società in house providing;

–         AMIA proseguirà la propria attività senza soluzione di continuità, e conseguentemente, senza la necessità di espletare procedure di carattere burocratico, consentendo altresì di evitare i relativi costi di trasferimento delle autorizzazioni e dei cespiti, stimati in quasi 1,5 milioni di euro;

–         alla Società così ridefinita potranno essere affidati direttamente, con successivi provvedimenti motivati:

  1. a)da parte dell’Autorità di Bacino Verona Città i servizi di igiene ambientale;
  2. b)da parte del Comune di Verona la manutenzione del verde (fatto salvo il trascinamento di alcuni affidamenti in corso a favore di terzi, comunque nei limiti della quota inferiore al 20% consentita dalla normativa in materia di “in house providing”).

L’operazione consente di mantenere inalterata la quota di partecipazione del Comune di Verona in AGSM AIM S.p.A.

Al di là della complessità (ripeto: artificiosa e non giustificata) dell’operazione programmata, il vero nodo della questione sta nella mancanza di sostenibilità finanziaria per dare corso all’intervento deliberato.

È evidente che la neo-costituita New.Co comunale, con un capitale sociale di un milione di euro e senza la dotazione di ulteriori risorse (né di attività sociali remunerative) non potrà mai realizzare un investimento avente per oggetto l’acquisto di Amia Verona Spa.

E questo non solo per il fatto che, dopo la scissione, il patrimonio di Amia potrebbe assestarsi intorno a un valore di 15 milioni di euro, ma anche perché a tale valore aziendale dovrà aggiungersi un piano di investimenti che, secondo lo studio allegato alla delibera consiliare n. 20/2022, dovrebbe ammontare a circa 60 milioni di Euro nell’arco del periodo 2022-2036, ma soprattutto nei primi 4 esercizi (quasi 22 milioni di euro).

Si tratta di impegni finanziari impraticabili per una scatola vuota, qual è la neo-costituita New.Co comunale, inopinatamente designata quale soggetto acquirente.

A fronte di un siffatto disegno, perfino il prof. Stefano Pozzoli – il cui parere professionale è stato addotto a fondamento e giustificazione dell’intervento programmato – non ha potuto sottrarsi dall’osservare quanto segue:

“Risulta evidente, alla luce di quanto detto in merito agli investimenti, che i maggiori rischi per la NewCo nascono proprio sotto il profilo finanziario (…). Occorre rilevare che il livello molto modesto di capitalizzazione della NewCo, abbinato all’elevato fabbisogno finanziario determinato da necessità correnti e di investimento, rendono gli equilibri particolarmente delicati. È auspicabile, pertanto, che si proceda presto a una ricapitalizzazione della NewCo, e questo sia per evitare che il rischio di perdita, sempre possibile e comunque elevato nei primi esercizi di vita, sia quello di tensione finanziaria, creino difficoltà gestionali alla Società e comportino un rallentamento nel processo di investimento”.

Queste pesanti criticità (desunte dal provvedimento stesso che ha approvato il disegno di riorganizzazione societaria!) si commentano da sole, e spiegano perché la delibera consiliare n. 20/2022 non sia stata ancora eseguita con l’acquisto di Amia Verona Spa da parte della New.Co e con il risultato di ripristinare la gestione senza gara dei servizi pubblici locali interessati.

È singolare che il Documento unico di programmazione (DUP) per gli anni 2024-2027 approvato dal Comune di Verona con la delibera di Giunta n. 766 del 4 agosto 2023, nella Sezione strategica con orizzonte temporale di riferimento pari a quello del mandato amministrativo, veda ancora Amia Verona Spa (e non AmiaVr) titolare del servizio rifiuti e di manutenzione del verde pubblico sul territorio, e si limiti ad annotare meccanicamente  che “AmiaVr S.p.A. è stata costituita in data 01/12/2022, con atto del Notaio Casalini (ns. P.G. n. 438251 del 01/12/2022). Una volta acquisito il 100% di AMIA Verona S.p.A. da parte della NewCo comunale, si procederà ad una fusione inversa, attraverso cui la stessa NewCo confluirà in AMIA, la quale a sua volta dovrà adeguare lo Statuto per avere le caratteristiche di società in house providing”.

Una pura annotazione di stile che non indica date certe, ma che rimanda ancora una volta a un futuro imprecisato il cambiamento della gestione che dovrebbe mettere in regola il Comune davanti alla legge.

Resta il fatto che nel frattempo:

  1. a)in ottemperanza alle indicazioni del piano industriale approvato con la suddetta delibera consiliare n. 20/2022, la tassa sui rifiuti 2023 ha subito un aumento complessivo del 4,68% su tutte le utenze; quelle domestiche costeranno il 3,65% in più rispetto al 2022, quelle non domestiche il 5,67% in più. L’aumento delle tariffe vale circa 1.600.000 euro, su un totale di 52.600.000 euro del costo del servizio;
  2. b)in esecuzione della delibera consiliare di cui sopra la New.Co è stata prontamente costituita, con dovizia di costi e risorse pubbliche (per consulenze, costi di funzionamento della società, perizie di stima, ecc.), senza che il disegno ideato dal Comune di Verona sia stato portato a compimento, dopo ormai più un anno e mezzo dalla sua approvazione.

Oltretutto, la neo-costituita Società comunale rientra tra quelle “società che risultano prive di dipendenti o hanno un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti” (art. 20, comma 2, lett. b) del Tusp) e tra quelle “che, nel triennio precedente, abbiano conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro” (art. 20, comma 2, lett. d) del Tusp).

Di conseguenza, ove l’acquisto di Amia Verona Spa non dovesse aver luogo da parte della Newco entro l’anno corrente, in sede di piano di razionalizzazione da approvarsi a cura del Consiglio comunale entro il 31 dicembre 2023, la nuova società dovrebbe essere posta in liquidazione dall’ente socio, stante l’assenza dei requisiti di legittimità previsti dal Tusp per essere mantenuta tra le partecipazioni comunali.

Resta il fatto, come si è già detto e ripetuto mille volte, che Amia ha operato e sta operando da oltre un decennio contra legem, non avendo alcun titolo giuridico per beneficiare di affidamenti diretti da parte del Comune di Verona.

Al quadro di criticità sopra descritto debbono essere aggiunte ulteriori dolorose note.

Se è vero che oggigiorno i nodi vengono al pettine perché con la delibera consiliare dell’aprile 2022 il Comune di Verona ha escogitato il disegno della New.co al solo fine di retrocedere Amia Verona Spa al patrimonio comunale cercando di evitare (maldestramente) lo stanziamento delle risorse pubbliche occorrenti per dare corso all’operazione, è altrettanto vero che nel settembre 2023 – a distanza di poco più di un anno dal provvedimento di cui sopra – la situazione economica del Comune è precipitata nel baratro, rendendo ormai impossibile e inimmaginabile un intervento di soccorso finanziario a favore di AmiaVr per l’acquisto di Amia Verona Spa.

Questo perché con la sopraggiunta delibera consiliare n. 35 del 22 giugno 2023 il Comune ha approvato l’accordo di contribuzione tra l’Ente locale, Amt3 Spa e la Bei, nonché il nuovo piano economico finanziario per la realizzazione dell’infrastruttura.

In base al nuovo accordo, il Comune si è impegnato al versamento di un contributo a favore di Amt3 Spa pari a 46,653 milioni di euro articolato su un arco temporale di 20 anni, andando a gravare sulla spesa corrente.

Come ha scritto il responsabile finanziario nel parere allegato alla delibera di cui sopra, “gli importanti impegni assunti con la presente proposta di deliberazione renderanno oltremodo necessario mantenere sotto controllo negli anni futuri la spesa del Comune senza alcun incremento di servizi e semmai con una razionalizzazione degli stessi, in ragione anche delle attuali spinte inflazionistiche, oltre ad attuare politiche di ottimizzazione delle entrate”.

Tutto ciò significa, in parole povere, che le avventure di grandezza lanciate dal Comune andranno a falcidiare le risorse (già scarse e ridotte) destinate all’assistenza sociale, all’istruzione scolastica, alle mense, asili nido e a sostegno alle categorie più fragili della popolazione, tra cui in primis gli anziani, le famiglie numerose e/o indigenti, i disabili e i cittadini meno fortunati.

In questa strettoia in cui si è addentrata l’Amministrazione comunale, resta pur vero che la strategia avviata per la ristrutturazione dei servizi pubblici locali deve essere comunque portata a compimento, per evitare il danno erariale conseguente all’impiego di risorse che non siano state messe a frutto.

TUTTO CIÒ PREMESSO

LO SCRIVENTE DIFFIDA IL COMUNE DI VERONA

 

1)    A ULTIMARE ENTRO IL 31.12.2023 L’ESECUZIONE DELLA DELIBERA CONSILIARE N. 20/2022 CON L’ACQUISTO DI AMIA VERONA SPA DA PARTE DI AMIAVR (NEW.CO) E LA MESSA IN ESERCIZIO DI QUEST’ULTIMA SOCIETÀ NEI TERMINI PREVISTI CON LA DELIBERA STESSA;

2)    IN CASO CONTRARIO, A PORRE IN LIQUIDAZIONE AMIAVR (NEW.CO) CON IL PIANO DI RAZIONALIZZAZIONE DA APPROVARSI ENTRO IL 31.12.2023;

3)    DI RISERVARSI L’ADOZIONE DEI RIMEDI DI LEGGE IN CASO DI ULTERIORE INERZIA DA PARTE DEL COMUNE DI VERONA;

4)    DI INVITARE SIN D’ORA LA CORTE DEI CONTI E L’ANAC AD ATTIVARE LE INDAGINI DEL CASO E MONITORARE L’OPERATO DELL’ENTE LOCALE, NELL’ESERCIZIO DELLE LORO RISPETTIVE COMPETENZE.

 

Resto in attesa di cortese sollecito riscontro in ordine a quanto sopra esposto, chiedendo fin d’ora al Comune di Verona di poter essere costantemente e periodicamente aggiornato al riguardo.

Distinti saluti.

luigi bellazzi( bellazzi.luigi@bellazzi.it)

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* È il caso di ricordare che recentemente la Corte d’Appello di Venezia ha confermato l’impianto accusatorio delineato dalla Direzione distrettuale Antimafia di Venezia in ordine alla c.d. operazione “Isola scaligera” e ha condannato l’ex Presidente di Amia Verona Spa per corruzione a una pena di 2 anni e 8 mesi.

Secondo i giudici, si tratta di un segnale che varie organizzazioni di stampo mafioso collegate all’ndrangheta calabrese si sono infiltrate nel circuito dell’economia e delle istituzioni locali, alimentando il malaffare con i reati di estorsione, truffa, riciclaggio, corruzione, turbativa d’asta, fatture false e traffico di droga.

Come ha anche riferito la Direzione investigativa antimafia nella relazione presentata al Parlamento in tema di fenomeni mafiosi del primo semestre 2022, la criminalità organizzata sembra aver messo radici anche nella provincia di Verona e nel Veneto, dove “la presenza delle organizzazioni criminali di tipo mafioso è stata evidenziata da numerose investigazioni, che hanno dimostrato come nel corso degli anni il territorio sia stato infiltrato da esponenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra”.

 

Dio li fa, Licio li accoppia

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QUINTA COLONNA

di Matteo Castagna

Paolo Ojetti su “L’Europeo” del 7/01/1977 scrisse che “Il potere temporale della Chiesa si appoggia e si ramifica grazie alle solite complicità: chi porta alle casse della Santa Sede i mezzi per rinsaldare il potere finanziario sono sempre le banche le grandi società immobiliari, le società assicuratrici, il capitale tradizionalmente vicino agli ambienti della Curia […]. E poi chiosò con una stilettata: “tra l’investimento misericordioso e quello redditizio, la Chiesa sceglie tuttora il secondo”.

Agostino Giovagnoli nella prefazione al testo “IOR” di Francesco Anfossi (Edizioni Ares, 2023) dimostra che non è sempre stato così. Fondato da Papa Pio XII nel 1942, lo IOR raccolse un’ eredità di fine Ottocento per garantire il mantenimento dei flussi finanziari alle opere di religione di tutto il mondo, mantenendosi, per volontà dello stesso Santo Padre papa Pacelli un investimento misericordioso di sostentamento del clero e delle sue buone opere di carità. Fu certamente un’intuizione meravigliosa di Papa Pacelli, utilizzata allo scopo di utilizzare il denaro per i nobili scopi dell’evangelizzazione dei popoli, del soccorso alla povertà, del mantenimento dei beni della Chiesa e del clero. In parte, dopo la morte di Pio XII (1958) i fini di questa istituzione non furono all’altezza del compito assegnato.

Nell’ottobre del 1959 il cardinale Domenico Tardini, Segretario di Stato di Giovanni XXIII, convocò per la prima volta una conferenza stampa a Villa Nazareth per illustrare il bilancio della Santa Sede. si trattava di bilanci assai modesti. Anfossi scrive che “si basava molto sui servizi bancari del Banco di Roma, del Santo Spirito e della Cariplo fungendo da cassa del Vaticano”. 

Il “cambiamento climatico” rispetto al periodo di Pio XII, iniziò con la Presidenza dello Ior di Mons. Paul Marcinkus. La strada dello Ior si intrecciò, anzitutto con quella di Michele Sindona ma soprattutto col Banco ambrosiano di Roberto Calvi, di cui Francesco Anfossi parla con particolari inediti conservati nelle carte del cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato di Karol Wojtyla. Già dagli anni ’70 Licio Gelli, fondatore e Gran Maestro della Loggia massonica P2 continuava a tessere la sua tela massonica internazionale. Iscritti troviamo, dunque, Michele Sindona (tessera n. 1612), Roberto Calvi (tessera n. 1624) e il finanziere Umberto Qrtolani (tessera n. 1622).

Quest’ultimo si inserisce molto bene nella Democrazia Cristiana, intrattenendo rapporti soprattutto con Amintore Fanfani e Giulio Andreotti. Ortolani fonda l’Agenzia di stampa Italia (poi venduta all’ENI) e riesce a farsi eleggere presidente dell’Associazione stampa italiana all’estero. Attraverso le sue conoscenze politiche, lo si vede spesso all’interno delle mura leonine perché fa parte della ristretta cerchia del cardinale Giacomo Lercaro, noto per le sue posizioni ultra-progressiste durante il Concilio Vaticano II, tra i primi religiosi a instaurare il dialogo coi comunisti. le prebende di Lercaro e le frequentazioni politiche di alto livello gli varranno l’insegna del Cavalierato dell’Ordine di Malta e, più tardi, il ruolo di Gentiluomo di Paolo VI, nonché di suo consulente finanziario.

Mentre negli Stati Uniti il duo Gelli-Ortolani rimane piuttosto defilato, ad agire è un terzetto composto da tre finanzieri: il responsabile dello Ior Paul Casimir Marcinkus, Michele Sindona e Roberto Calvi, presidente di un istituto di credito di primaria importanza all’epoca, ossia il Banco Ambrosiano. I tre sono accomunati da caratteristiche molto simili: l’alta frequentazione di ambienti religiosi, la passione per gli affari (non importa di quale tipo)  e da una smisurata ambizione.

La vicenda del Banco Ambrosiano si concluse col suicidio della segretaria di Calvi e la morte a Londra del banchiere, che fu trovato impiccato a un’impalcatura sotto il Blackfriars Bridge. Si trattò di una vicenda oscura, in cui entrarono Licio Gelli e la P2, Umberto Ortolani, Francesco Pazienza e Flavio Carboni. Il Ministro del Tesoro dell’epoca, Beniamino Andreatta disse che “si trattò della più grave deviazione di un’importante istituzione bancaria rispetto alle regole della professione verificatasi in un grande Paese industriale in questi ultimi quarant’anni”. Il democristiano Andreatta afermò che vi era una corresponsabilità dello Ior nella mala gestio della più importante banca privata italiana, chiedendo al Vaticano di pagare 1.159 milioni di dollari. Marcinkus respinse le accuse, dicendo che lo Ior avrebbe concesso solo delle “lettere di patrocinio” a Calvi per frenare ulteriori debiti e finanziamenti alle società. Il riciclaggio era, inoltre, il reato compiuto in gran segretezza per conto di persone molto poco raccomandabili, di tutto il mondo. In particolare, la Commissione d’inchiesta accertò che i soldi sporchi della Banda della Magliana venivano ripuliti in questo sistema finanziario.

M.A. Calabrò, in “Le mani della mafia”, Ed. Associate, Roma 1991, scrive che il quadro del Banco Ambrosiano era disastroso. Calvi, insomma, nei primi anni (1971-1977) passati al vertice dell’Ambrosiano aveva “svaligiato” la banca, e ciò era avvenuto grazie alla filiale di Nassau.

Il “pozzo” senza fondo di miliardi di lire svaniti nel nulla e di acquisizioni societarie incrociate, comprende anche una serie di società scoperte anni dopo la loro costituzione. Risulteranno essere ben 24, tutte cariche di debiti e dislocate tra Panama e l’Europa, poste sotto l’ombrello della capogruppo-schermo, la manic Holding Sa. Attraverso questo fondo, la Loggia P2 controllava segretamente l’Ambrosiano: ciò costituisce uno dei punti fondamentali all’origine del crac della “Banca dei preti”.

Su La Stampa del 6/4/1975, parlando in terza persona, Sindona disse: “[Andreotti] disse che per tre volte aveva chiamato Sindona al capezzale della lira. Mi regalò pure una fontana di Trevi rifatta in argento da una scultrice amica sua”. All’American Club di Roma il banchiere siciliano viene proclamato “uomo dell’Anno 1973”. Ad assegnare il premio al massone piduista, nonché riciclatore di denaro sporo, il suo vecchio amico John Volpe, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia. Questo riconoscimento venne inte4rpretato come un doveroso omaggio a un banchiere che, due anni prima, sostenne la rielezione di Richard Nixon alla presidenza USA, devolvendo – stando a varie fonti – un milione di dollari. Una fortuita coincidenza volle l’8 Agosto 1974, Nixon debba dimettersi da presidente in seguito al clamoroso “scandalo Watergate”.

L’edificio del Watergate era stato costruito dalla Genale Immobiliare (ex proprietà del Vaticano), ovvero la stessa degli affari tra Sindona, Marcinkus e l’americano Bludhorn. 

Anche Gelli era ben introdotto negli ambienti politici americani, tanto che fu presente alle cerimonie di insediamento alla Casa Bianca del democratico Jimmy Carter e del repubblicano Ronald Reagan.

E’ grazie a questa complicità ad alto livello che a Sindona arrivano forti sostegni finanziari. Ad accorrere in suo soccorso è il Banco di Roma, istituto a capitale pubblico. Per una finanziaria sindoniana, la Moneyrex, il Banco conduce operazioni r servizi finanziari che avrebbe potuto benissimo realizzare da sola. Nel luglio e nel dicembre del 1974, la filiale di Nissau del Banco di Roma effettuò un prestito a Sindona di 130 milioni di dollari. E il 20 giugno successivo, perché il banchiere possa tamponare le falle della sua disastrosa attività, sempre il Banco di Roma – presieduto da un vertice di nomina andreottiana – gli accordò altri 100 milioni di dollari. Feudo politico della destra DC, la banca romana cercò poi di correre ai ripari: a luglio, i dirigenti distaccarono ben 40 funzionari negli istituti di credito del banchiere siciliano (Banca Unione, Banca Privata Finanziaria e anche Edilcentro-Sgi) per capire che cosa si nascondesse nell’ormai dissestato dissestato universo finanziario sindoniano.

Già da qualche tempo la Magistratura aveva messo sotto controllo le operazioni. Emergerà che Sindona, oltre a sovvenzioni mensili di qualche decina di milioni (dei primi anni ’70) alla DC ha versato un contributo di ben 2 miliardi dell’epoca. Ed emerse pure che il primo “protettore” politico del mafioso bancarottiere era Giulio Andreotti. Per mesi Sindona si dibatte per uscire dalla palude, manda segnali, soprattutto ai politici ed ai massoni amici, tenta ricatti, inscena un finto rapimento coinvolgendo i suoi compari della mafia. Ordinò l’assassinio dell’avv. Giorgio Ambrosoli, che era il suo curatore fallimentare, ma uomo integerrimo nell’onestà.

E Gelli? Come accertò la Commissione d’inchiesta parlamentare sulla Loggia P2, il Maestro venerabile operò a lungo nei traffici sindoniani. Nella relazione di minoranza, il missino Giorgio Pisanò rivolse un’aspra critica ai colleghi di maggioranza della Commissione, che non avrebbero indagato a fondo su certi legami tra i personaggi coinvolti nell'”affaire Sindona”. Finché gli affari del banchiere (affiliato alla massoneria nel maggio-giugno 1974) filavano lisci, il materassaio di Pistoia proseguiva nella sua tessitura massonica a Roma, espandendo i suoi rapporti in Sud America con personaggi di primissimo piano, soprattutto in Argentina.

L’ironia: “soldi santi e affari diabolici”  è più che azzeccata in questo imbarazzante spaccato di storia italo-vaticana. L’intreccio tra una finanza piena di ombre a una gestione da parte di uomini consacrati a Dio grida scandalo agli occhi del mondo, induce a perdere la Fede, nella rabbia che sovviene di fronte al famoso “pecunia non olet”. San Tommaso d’Aquino ha scritto che “l’avidità è un peccato contro Dio, proprio come tutti i peccati mortali, in quanto l’uomo condanna le cose eterne per il bene delle cose temporali”.

Considerate questo avvertimento di San Giovanni Maria Vianney, Patrono dei parroci:

L’avarizia è un amore disordinato dei beni di questo mondo. Sì, figli miei, è un amore regolato in modo malato, un amore fatale, che ci fa dimenticare il buon Dio, la preghiera, i sacramenti, per amare i beni di questo mondo – oro, argento e terre. L’uomo avido è come un maiale, che cerca il cibo nel fango senza curarsi della sua provenienza. Chinandosi al suolo, non pensa ad altro che alla terra; non guarda più il Cielo, la sua felicità non è più lì. L’uomo avaro non fa del bene fino alla morte. Guardate con che avidità raduna ricchezze, con quanta ansia le mantiene, quanto è afflitto se le perde… In mezzo alle ricchezze, non ne gode; è come se fosse immerso in un fiume e tuttavia morisse di sete; sdraiato su un letto di grano, muore di fame; ha tutto, figli miei, e non osa toccare nulla; il suo oro è per lui sacro, lo rende la sua divinità, lo adora…”

Anche la Scrittura è piena di avvertimenti. Dall’Antico Testamento:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta di una parte, l’insana cupidigia inaridisce l’anima sua” (Siracide 14, 9).

Allo stesso modo, il Nuovo Testamento avverte:

“E disse loro: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni»” (Luca 12, 15).

Infine, è sempre bene ricordare ai buonisti di oggi che Gesù cacciò i mercanti dal tempio con la verga contro un sistema economico, politico e religioso economicista, che non può piacere a Dio. Così, profondamente adirato il Signore gridò: «La Scrittura dice: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate una spelonca di ladri». Ebbene, noi dovremmo tremare, di fronte a tanta giusta severità. Eppure Mammona o il Vitello d’Oro, nella nostra società sembrano divenuti i fini di molti, certamente di cinici speculatori, come Soros, i Rothscild, Bill Gates. Invidiare la loro ricchezza è il primo passo verso l’abisso.

Lasceranno, comunque, tutto in questo mondo e dovranno rispondere nell’Altro se: “ Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” ( 2 Timoteo, 4:7)  

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Cfr: Licio Gelli, Vita, Misteri, scandali del capo della Loggia P2. di Mario Guarino e Fedora Raugei – prefazione di Paolo Bolognesi (Ed. Dedalo, 2016, eu. 21,00)

Cfr.: IOR, Luci e ombre della Banca Vaticana dagli inizi a Marcinkus di Francesco Anfossi (Ed. Ares, 2023, eu. 16,80)

 

Riforma giustizia, cosa c’è dietro le mosse di Nordio

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I principi liberali di una riforma radicale: ecco le idee che il ministro della Giustizia sta applicando per le sue norme

Pubblichiamo un estratto dal capitolo conclusivo dell’ultimo libro di Carlo Nordio dal titolo “Giustizia” edito da Liberilibri. Il titolo di questo ultimo capitolo è “Principi liberali per una riforma radicale” e spiega quale pensiero c’è dietro la riforma varata ieri, primo passo per un cambiamento radicale del sistema giustizia in Italia.

Chiediamo soccorso all’ottimismo della volontà e proviamo a delineare un sistema che distilli al meglio, o almeno nella misura minima sufficiente, i principi idonei a riportare la giustizia italiana nell’ambito della razionalità e dell’efficienza. […] Questi principi, secondo noi, devono esser conformi alla cultura illuministico-liberale. E per attuarli pienamente è necessaria una nuova Costituzione. […]

La nostra Costituzione è un continuo ripensamento di concetti troppo conservatori per placare i progressisti, troppo arditi per gratificare i conservatori, e troppo confusi per convincere ambedue. E se è vero che questo bilanciamento di interessi si trova in tutti i Paesi, è altrettanto vero che soltanto da noi ha assunto una tale alterazione di equilibri da invertire il rapporto tra regola ed eccezione. L’esempio più clamoroso è costituito dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Se ne fanno in un anno circa 150 mila: quasi tutte hanno coinvolto persone ignare e innocenti, alcune hanno coinvolto anche parlamentari e sfiorato un paio di Presidenti della Repubblica. Dopo essere state sapientemente selezionate e mutilate sono state consegnate alla stampa, con grave danno di immagine anche per persone estranee al processo. Di fronte a questa vergogna è difficile pensare che il primo comma dell’art. 15, che fissa la regola della segretezza delle comunicazioni, non ne costituisca piuttosto l’eccezione: la piccola parte di liberalismo che ornava la nostra Costituzione si è decomposta sotto i colpi di una parte della magistratura esaltata dalla sua missione sacerdotale.

Ma che significa concretamente adottare i principi dell’illuminismo liberale? Significa essenzialmente questo: abbandonare la funesta utopia del cosiddetto Stato etico, che fino ad ora ha condizionato il nostro ordinamento attraverso il connubio di teorie apparentemente incompatibili: il fascismo, il cattolicesimo e il marxismo, concordi nel considerare il cittadino una creatura da istruire e tutelare, per assoggettarlo rispettivamente allo Stato, alla Chiesa e al Partito. […]

Lo Stato liberale non ha queste immaginazioni infantili. Prendendo atto dei limiti e dei difetti della nostra imperfetta natura, non pretende di assicurare la felicità ma soltanto di garantire il diritto a procurarsela, attraverso quella libertà economica, religiosa e culturale, nella cui esplicazione lo spirito umano si realizza secondo le sue aspirazioni e le sue possibilità, con la sola imposizione, doverosa e solidale, di una redistribuzione della ricchezza che inevitabilmente si accumula in misura ineguale nelle persone più dotate nel progettarla, più spregiudicate nel perseguirla, e più egoiste nel mantenerla. E la garanzia dello svolgimento di queste attività in modo libero, pacifico e ordinato, sta proprio nella legge: in quella fondamentale, la Costituzione, e in quelle ordinarie, a cominciare dai codici.

Una volta adottata una Costituzione realmente liberale, si dovrà infatti prendere atto che le nostre leggi sono troppo numerose per essere conosciute, e troppo contraddittorie per essere applicate. Il loro numero è inversamente proporzionale alla loro efficacia, e la loro incertezza è sinonimo di disordine, sciatteria, opinabilità e corruzione. […]

Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e il fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere. Siamo anche un po’ ipocriti; contrabbandiamo la nostra accoglienza dei migranti come carità cristiana, mentre si tratta solo di impotenza e rassegnazione davanti alle spregiudicate strategie delle organizzazioni criminali. Abbiamo decretato l’espulsione di decine di migliaia di clandestini, ma di fatto ne abbiamo rispediti indietro una trascurabile minoranza. Abbiamo guadagnato il loro rancore e perso la nostra fiducia. La riforma radicale e per certi aspetti rivoluzionaria di uno Stato liberale si propone di affrancare il cittadino dall’abbraccio soffocante dello Stato, di favorirne l’avvicinamento attraverso una semplificazione dei diritti e dei doveri, e, per quanto riguarda la giustizia penale, attuare il garantismo nella sua duplice funzione: la presunzione di innocenza e la certezza della pena.

Carlo Nordio

Fonte: https://www.nicolaporro.it/riforma-giustizia-cosa-ce-dietro-le-mosse-di-nordio/

Corruzione Biden? Il documento esiste, ma l’FBI non lo consegna al Congresso

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di Federico Punzi

Il direttore Wray rischia l’accusa di oltraggio. Fonte “altamente credibile”, informazioni non smentite e indagine ancora in corso. Presunta tangente da uomo d’affari ucraino

Vi avevamo già parlato di un documento non classificato in possesso dell’FBI in cui è descritto per filo e per segno uno schema di corruzione pay to play (scambio di soldi per decisioni politiche) in cui sarebbe stato coinvolto l’attuale presidente Joe Biden, all’epoca dei fatti vicepresidente, con un cittadino straniero.

L’esistenza di questo documento, un modulo FD-1023 (quello che viene utilizzato per raccogliere le dichiarazioni di “fonti umane riservate”), era stata resa nota dal presidente della Commissione vigilanza della Camera, il Repubblicano James Comer, che aveva immediatamente emesso un mandato per obbligare l’FBI a fornire il documento al Congresso, anzi tutti gli FD-1023 che contenessero la parola “Biden” e relativi allegati.

Ma finora l’FBI si è rifiutata. Lunedì scorso il presidente Comer ha spiegato che sebbene l’FBI gli abbia mostrato il documento, tuttavia ha “nuovamente rifiutato” di consegnarlo, non rispettando quindi la citazione della Commissione. Ora, ha annunciato, “avvieremo il procedimento di oltraggio al Congresso” nei confronti del direttore dell’FBI Christopher Wray. Le udienze inizieranno già giovedì.

Informatore affidabile

L’FBI però ha confermato a Comer che (1) il documento, non classificato, secondo cui l’allora vicepresidente Biden era coinvolto in uno schema di corruzione da 5 milioni di dollari con un cittadino straniero, esiste; (2) la fonte delle informazioni è un informatore “altamente credibile”; (3) le sue affermazioni non sono state smentite e, anzi, l’indagine è ancora aperta, nonostante siano trascorsi tre anni.

“Oggi i funzionari dell’FBI hanno confermato che il documento non classificato non è stato smentito e che le informazioni in esso contenute sono attualmente utilizzate in un’indagine in corso”, ha affermato Comer. “La fonte umana confidenziale che ha fornito informazioni sull’allora vicepresidente Biden coinvolto in un piano di corruzione criminale è un informatore affidabile e altamente credibile, utilizzato dall’FBI per anni”.

“Data la gravità e la complessità delle accuse contenute in questo documento, il Congresso deve indagare ulteriormente“, ha dichiarato Comer, aggiungendo che “gli americani hanno perso la fiducia nella capacità dell’FBI di far rispettare la legge in modo imparziale e chiedono risposte, trasparenza e responsabilità. La Commissione deve seguire i fatti per il popolo americano e assicurarsi che il governo federale sia ritenuto responsabile”.

Denaro dall’Ucraina

Lo schema di corruzione riguarderebbe l’Ucraina, dove il figlio del presidente, Hunter Biden, aveva ottenuto nel 2014, mentre il padre era vicepresidente, un redditizio posto nel board di una importante società energetica, Burisma, ed è stato portato a conoscenza dell’FBI per la prima volta nel 2017, cioè all’inizio della presidenza Trump, ha spiegato lo stesso Comer al giornalista John Solomon.

“Sì, si tratta dell’Ucraina”, ha confermato Comer a Just the News: “Questo modulo 1023 coinvolge un uomo d’affari ucraino, che avrebbe inviato una tangente, una tangente sostanziosa all’allora vicepresidente Biden”.

Poi l’informatore, ritenuto affidabile e ben pagato dall’FBI, ha ribadito le sue affermazioni una seconda volta, e ancora una terza nel rapporto del giugno 2020.

Comer ha riferito che l’accusa principale è che un uomo d’affari ucraino avrebbe pagato 5 milioni di dollari alla famiglia Biden in cambio di una decisione politica degli Stati Uniti su cui Joe Biden poteva avere influenza.

Comer ha inoltre affermato di avere forti motivi per credere che l’FBI non abbia mai indagato adeguatamente su queste accuse, allo stesso modo in cui il Dipartimento del Tesoro di Obama non indagò quasi per nulla sulle segnalazioni di attività sospette associate a transazioni di Hunter Biden e soci.

 

Articolo completo: Corruzione Biden? Il documento esiste, ma l’FBI non lo consegna al Congresso (nicolaporro.it)

 

Sondaggi, la sorpresa su Schlein (e il dato che va visto davvero) e le uscite di Zaia…

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La rilevazione nei sondaggi Ipsos: cresce il Pd della Schlein, cala il centrodestra di Meloni. Ma c’è un grosso “però” da considerare

sondaggi vanno sempre presi con beneficio di inventario, soprattutto quando sono così lontani da una tornata elettorale. E poi casa sondaggistica che vai, risultato che trovi: variazioni percentuali, saliscendi, gradimenti che si muovono anche in base ai temi del momento. Eppure l’ultima rilevazione realizzata da Ipsos per il Corriere della Sera qualche indicazione la dà.  La prima l’avevamo esternata anche nella Zuppa di Porro di ieriElly Schlein alla fine della fiera, nonostante fosse sfavorita alle primarie, non solo ha vinto la sfida delle urne ma sta pure convincendo gli elettori di centrosinistra. Piace a quel circolo di giovani, meno giovani e anziani che vedono nella cancel culture, nel progressismo ambientalista e nel movimentismo emo-lesbo-trans-femminista il futuro della sinistra. Beati loro, vien da dire. Ma la democrazia funziona così. Funziona che fino a l’altro ieri Giuseppe Conte sembrava il sol dell’avvenire della sinistra (“un punto di riferimento fortissimo per i progressisti”, ebbe a dire Nicola Zingaretti) e adesso annaspa dietro Elly. Una Schlein che oltre al vantaggio di essere “nuova” è pure donna. E nella sfida con Meloni la cosa certo di male non fa.

I sondaggi su Elly Schlein

Lo si capisce dai sondaggi sul partito della Schlein. Il Pd è salito di due punti rispetto alla settimana del 23 febbraio 2023: rispetto al 17% cui era crollato, è risalito al 19%. Direte: “Fico”. Ed è vero. Però va anche notato un altro dettaglio: si tratta di una rincorsa affannata se si considera che alle politiche del 2022 il Partito Democratico di Enrico Letta, uscito bastonato dalle urne, raccolse il 19,1%. Cioè più di quanto valgono oggi i dem con Elly. Certo aver recuperato in così poco tempo il terreno perso non è cosa da poco, ma va anche detto che al momento il computo finale dei potenziali elettori dem non è “cresciuto” rispetto all’ultima tornata politica. Staremo a vedere nelle prossime settimane se la crescita di Schlein nei sondaggi continuerà con questi ritmi o se sarà solo la fiammata iniziale. L’obiettivo – alle prossime europee – sarà fare meglio di quel 22,7% raccolto nel 2019 dai suoi predecessori. Al momento mancano ancora 3,7 punti percentuali. Tanti.

Cala il centrodestra, ma…

E arriviamo agli altri partiti. Mentre il Pd cresce, il M5S scende: dal 17,5 di due settimane fa siamo arrivati al 16,8% con un saldo negativo di -0,7%. In negativo anche tutti i partiti di centrodestra: -0,7% per Meloni, -0,6 per Salvini, -0,2 per Berlusconi e -0,2 per Noi Moderati. Occhio anche qui, però: il dato riguarda la differenza rispetto all’ultimo sondaggio del 23 febbraio. Ma se osserviamo la differenza col risultato elettorale alle Politiche del settembre 2022, scopriamo che Meloni sta al 30,3% rispetto al 26% di cinque mesi fa mentre gli alleati annaspano (Lega: 8%, Forza Italia: 7,2%).

Per approfondire:

Le coalizioni: chi vince?

Interessanti anche i numeri sulle coalizioni, che poi a ben vedere è la partita dove si gioca il governo del Paese. Al momento Ipsos assegna al centrodestra il 46,5% dei voti e al centrosinistra il 24,5%. La distanza è netta, anche aggiungendo al centrosinistra la probabile alleanza col M5S (totale giallorossi: 41,3%). Guardiamo il dato rispetto alle elezioni del 2022: quando Meloni scoprì di essere la prima donna premier d’Italia, il contatore delle coalizioni diceva centrodestra al 43,8% (oggi il dato è maggiore del +2,7%), il centrosinistra al 26,1% (oggi il dato è inferiore del -1,6%) e l’eventuale alleanza giallorossa al 41,5% (esattamente come oggi). Cosa significa? Significa che al momento, al netto delle oscillazioni mensili e del calo nelle ultime settimane, la distanza tra centrodestra e centrosinistra non è cambiata. Per ora vince ancora Meloni. Domani, chissà.

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NOTA DI “CHRISTUS REX”: E’ innegabile, in questo contesto, che le dichiarazioni del Governatore leghista del Veneto Luca Zaia, favorevole al centro per il cambio di sesso all’ospedale di Padova, così come quelle del deputato Centinaio che apre alle unioni di fatto tra persone dello stesso sesso, sono assist di grande aiuto alla politica della Shlein che il segretario Matteo Salvini non può permettersi di liquidare con un semplice “non è una priorità”, riferito al concetto fluido di civiltà di Zaia. L’orizzonte valoriale dei conservatori deve essere differente da quello dei progressisti, altrimenti si alimentano l’astensionismo e la confusione. Restando, comunque, ciascuno libero di cambiare strada, percorso e…partito.

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Paolo Di Nella, 37 anni fa l’ennesimo omicidio comunista impunito. Oggi lo ricordiamo

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di Antonio Pannullo

Paolo Di Nella morì 37 anni fa, in questo giorno. Morì, fuori tempo massimo, nel 1983, dopo la stagione degli anni di piombo. Sembrava che quel periodo tragico fosse ormai concluso, con la morte nel marzo 1980 di Angelo Mancia. Il dipendente del nostro giornale assassinato in un agguato partigiano dalla Volante Rossa. Come gli assassini di Paolo Di Nella, anche quelli di Angelo Mancia rimasero impuniti. Paolo Di Nella lo conoscevo, frequentava la sezione del Msi del Trieste Salario in viale Somalia e la federazione provinciale del Fronte della Gioventù. Era amico di tutta quella meglio gioventù di attivisti di quegli anni. Ma in particolare dei fratelli Buffo, di Gianni Alemanno, di Sergio Mariani, di Paolo Omodei e di quel gruppo di giovanissimi che frequentavano la sezione Trieste. Era apparentemente un po’ chiuso, ma sempre pronto a scherzare quando stava con i suoi fratelli. Il gruppo era profondamente legato. Era spesso preso in giro per le sue battaglie ambientaliste, alle quali dedicava tutte le sue energie. Allora non capivamo che Paolo Di Nella era avanti tutti noi.

Di Nella, “uccidere un fascista non è reato”

I fatti sono noti, ma li rievochiamo per quei giovani che oggi portano avanti anche la sua battaglia. Alle 20.05 di quel 9 febbraio 1983 il suo cuore smise di battere. Noi ragazzi del Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano) ci sentimmo allora irrimediabilmente più soli. Perché sapevamo perfettamente che “uccidere un fascista non è reato” non era solo uno slogan dei “duri” dell’Autonomia operaia (che rivendicò l’assassinio), ma era diventata una legge non scritta. L’avevamo subìta parecchie volte e non ci eravamo mai fermati. Il Fronte non si fermò neanche allora, benché sapessimo perfettamente che anche questo omicidio non sarebbe mai stato punito, così come era accaduto per Francesco Cecchin, ucciso da sconosciuti a piazza Vescovio pochi anni prima. E così è stato. Ancora oggi aggressori a piede libero. Nel caso di Paolo Di Nella le cose andarono un po’ diversamente, anche se una sfortunata vicenda giudiziaria chiuse il caso senza che si fosse arrivati a un colpevole.

Gli inquirenti si mossero solo dopo l’arrivo di Pertini

Anche perché gli inquirenti si mossero con un certo impegno solo dopo che l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini accorse, in forma privata, al capezzale di Paolo. Era evidentemente stato colpito dall’efferatezza e dalla gratuità del gesto feroce verso un ragazzo di vent’anni che si batteva per il verde pubblico nel suo quartiere. Pertini fu affrontato – è il caso di dirlo – da una ragazza del Fronte, Marina, che eludendo la sorveglianza al presidente, riuscì a intercettarlo e a dirgli quello che pensava. «Questo è il frutto dell’odio che avete alimentato per quarant’anni! Ci stanno ammazzando tutti!», disse Marina. Pertini la guardò in faccia, rimase a capo chino in silenzio, le posò una mano sulla spalla e si allontanò. Il vecchio partigiano ascoltò con molta attenzione la ragazza in lacrime di rabbia e di dolore, e probabilmente capì che i tempi della giustizia sommaria erano davvero finiti per sempre. Possiamo affermare senza timore di essere smentiti da nessuno, che se gli anni di piombo si chiusero fu solo ed esclusivamente grazie alla buona volontà, al senso di responsabilità, alla civiltà degli “estremisti di destra” di allora, che scelsero consapevolmente di non attuare ritorsioni di alcun genere.

Di Nella e la sua battaglia pacifica

E dopo Pertini, fu un profluvio, piuttosto stupefacente, per noi missini, di solidarietà da tutte le parti: l’allora sindaco di Roma Ugo Vetere, del Pci, venne all’ospedale, il segretario del partito Enrico Berlinguer mandò un commosso telegramma. Il giornalista Giuliano Ferrara scrisse un articolo in difesa di Di Nella e del suo diritto a pensarla come la pensava. E proprio così Paolo conduceva la sua lotta politica: civilmente e pacificamente, talmente fiducioso nel suo diritto da andare ad attaccare manifesti da solo con la sua ragazza, in un periodo in cui questo non era consigliabile.

Paolo aggredito vigliaccamente alle spalle

Paolo non era assolutamente un violento, ma non si fermava mai. Non c’era nulla che si potesse dire o fare per impedirgli di agire come a lui sembrava giusto. Anche quella sera, poiché non c’erano persone disponibili ad accompagnarlo, gli fu proposto di rimandare alla sera successiva l’affissione, ma lui non ne volle sapere. La battaglia di combatte tutti i giorni, e guai a chi si ferma. Andò con una militante del Trieste Salario, che lo accompagnò con l’automobile. E’ grazie a lei se abbiamo una testimonianza precisa di tutto quello che accadde. Paolo scendeva, affiggeva, e ripartivano. L’Autonomia operaia era molto attiva nel quartiere Africano, quello dove Paolo e i suoi camerati lottavano affinché Villa Chigi fosse restituita alla gente. Negli anni e precedenti le sezioni missine della zona, via Migiurtiniaviale Somalia, la Monte Sacro, la Talenti, la Tufello, erano state oggetto di decine di attentati dinamitardi incendiari, assalti armati.

Quella notte in viale Libia

A piazza Gondar, in viale Libia (dove oggi c’è la scritta che lo ricorda), Paolo fu aggredito da dietro da due ragazzi, uno dei quali lo colpì con un oggetto contundente mai identificato. Gli causò la commozione cerebrale che lo portò, dopo una settimana di agonia, alla morte. La ragazza lo accompagnò a sciacquarsi la testa alla fontanella, e lui le gece promettere di non dire nulla a nessuno, che non er aniente. Ma tornato a casa si sentì male e fu portato in ospedale. Vegliato incessantemente – oltre che dalla sua splendida famiglia – da tutti i suoi camerati. Il suo sacrificio è servito a far accorgere agli italiani di quanto accadeva, a far diventare Villa Chigi parco pubblico – oggi è intitolato a suo nome – e a far finire gli anni di piombo.

La responsabilità morale della sua e di altre morti è ascritta per sempre a tutta una classe politica e mediatica che per anni ha chiuso gli occhi di fronte alla palese ingiustizia a cui i giovani missini erano sottoposti da parte di tutti. In quella settimana di agonia di Paolo ci furono affissioni per denunciare l’accaduto, un corteo sfilò per il quartiere, assemblee nelle scuole, ma a nessuno sembrava gliene fregasse qualcosa: al Giulio Cesare anzi si arrivò a confermare il diktat che uccidere un fascista non è reato.

Il comunicato del FdG: “Caduto per la Rivoluzione”

Vogliamo concludere questo ricordo con il comunicato del Fronte della Gioventù emesso qualche giorno dopo la morte di Paolo. “Con Paolo di Nella è morto un combattente per il proprio popolo, un nazional-rivoluzionario. Nessuno si permetta di offendere questo martire con inutili isterismi. L’unica vendetta è continuare la sua lotta contro il sistema che lo ha assassinato”. Al suo funerale, quando la bara avvolta nella bandiera con la croce celtica uscì dalla chiesa di piazza Verbano, a migliaia salutarono Paolo Di Nella col braccio teso.

Il volantino di rivendicazione dell’assassinio spuntò il 14 febbraio, in una cabina telefonica di piazza Gondar, a pochissimi metri da dove c’era stata l’aggressione. È firmato da Autonomia Operaia. L’ultimo atto della tragedia avviene nel dicembre del 2008, il papà di Paolo è morto e la famiglia ha deciso di farli riposare insieme. La bara di Paolo è lentamente esposta e appaiono ancora quei colori: il rosso, il bianco, il nero; per venticinque anni la bandiera con la celtica ha riposato insieme a Paolo. La bara di Paolo viene messa vicino a quella del padre, si stende di nuovo sopra la sua bandiera, e c’è una piccola scritta: “Caduto per la Rivoluzione”.

Fonte: https://www.secoloditalia.it/2020/02/paolo-di-nella-37-anni-fa-lennesimo-omicidio-comunista-impunito-oggi-lo-ricordiamo/#amp_tf=Da%20%251%24s&aoh=16759337127036&referrer=https%3A%2F%2Fwww.google.com&ampshare=https%3A%2F%2Fwww.secoloditalia.it%2F2020%2F02%2Fpaolo-di-nella-37-anni-fa-lennesimo-omicidio-comunista-impunito-oggi-lo-ricordiamo%2F

Cospito, il plico segreto in moto o via mail? Siamo un Paese ridicolo

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QUINTA COLONNA
Una storia clamorosa che mi ha fatto sorridere e incazzare allo stesso tempo

3 Febbraio 2023, 16:30

Stamani ho letto il famoso documento per cui Repubblica sostiene che in Italia abbiamo come parlamentare e come sottosegretario delle persone dedite a mentire. Vabbè. Ma sulla vicenda Cospito e il documento del Dap c’è una storia clamorosa che mi ha fatto sorridere e incazzare allo stesso tempo e che quindi vi voglio raccontare.

I fatti sono questi. Il ministro Carlo Nordio aveva bisogno delle carte per capire la situazione di Cospito, allora il carcere di Sassari redige una relazione riguardo ai rapporti tra questi mafiosi e l’anarchico. Per consegnare queste carte al Ministro, però, incaricano un motociclista che da Sassari deve arrivare a Roma.

Io mi immagino il motociclista che mette questo rapporto segreto nello zaino, prende il traghetto per la Toscana e scende giù per l’Aurelia arrivando stanco da Nordio. È un’immagine tanto esilarante quanto ridicola tant’è che per un momento ho pensato che fossimo piombati nel Medioevo.

Per approfondire

Tuttavia Nordio ha fretta: ha bisogno di leggere la relazione per capire che cosa sta succedendo in carcere e non può aspettare che il motociclista arrivi a Roma. Quindi, mentre il motociclista è sulla sua motocicletta, il carcere manda una mail allegando il rapporto richiesto dal ministro. Geniale!
Peccato però che, per le leggi straordinarie di questo Stato, i documenti, una volta inviati per mail, non sono più segreti.

Avete capito bene. In tutto il mondo si possono mandare mail segrete, ma in Italia evidentemente no. E non c’è Pec che tenga: i documenti inviati tramite posta elettronica passano infatti da essere segreti a riservati.

Ragazzi, questa è l’Italia: mentre tutto il mondo è alle prese con l’intelligenza artificiale, noi non siamo in grado di mandare una mail segreta e dobbiamo ricorrere ad un poliziotto motociclista per portare dei documenti segreti. Cazzo, esisterà una via di mezzo?

Nicola Porro, 3 febbraio 2023

IL SEME DELL’ETICA: LA VITA E LA TESTIMONIANZA DI ROSARIO LIVATINO PER LA MAGISTRATURA

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

QUINTA COLONNA

di Gianluca Grasso

Testo della relazione di Gianluca Grasso, presentata al Convegno “L’attualità del Beato Rosario Livatino” il 18 gennaio 2023 presso la biblioteca di Santa Maria sopra Minerva, Roma, organizzato da Centro Studi Rosario Livatino.

Sommario: 1. Il seme dell’etica. – 2. L’etica e la Magistratura. – 3. La formazione sull’etica giudiziaria nell’esperienza della Scuola superiore della magistratura.

1. Il seme dell’etica.

«26 (..) “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme in terra, 27 dorme e si alza, la notte e il giorno; il seme intanto germoglia e cresce nel modo che egli stesso ignora. 28 La terra da sé stessa dà il suo frutto: prima l’erba e poi la spiga, poi nella spiga il grano ben formato. 29 E, quando il frutto è maturo, subito il mietitore vi mette la falce perché è giunta l’ora della mietitura» (Marco 4, 26-29).

In questa parabola il seminatore pianta in fede e raccoglie in gioia. Dopo aver finito di piantare, egli un giorno si sveglia per scoprire che i suoi semi sono diventati maturi.

Rosario Livatino, all’età di 38 anni, veniva assassinato dalla “stidda agrigentina” il 21 settembre del 1990, mentre percorreva, senza scorta per sua scelta, la strada per il Tribunale di Agrigento.

La storia del giudice Livatino, proclamato beato il 9 maggio 2021, ci dona la prospettiva di una figura di riferimento non solo per la Magistratura ma per tutti gli operatori di giustizia[1].

In questo mio breve intervento vorrei soffermarmi su uno dei semi piantati da Livatino con la sua vita e la testimonianza di giudice fedele alla Costituzione e alle leggi. E si badi non magistrato bigotto ma un laico consapevole del suo ruolo nella società, che ha ricoperto anche un incarico di carattere associativo, quale quello di segretario della sezione di Agrigento dell’Associazione nazionale magistrati.

Due sono gli interventi a metà degli anni 80 che Livatino ci ha lasciato e che delineano in maniera puntuale il suo itinerario di fede e di azione: Il ruolo del giudice nella società che cambia (17 Aprile 1984) e Fede diritto (30 Aprile 1986).

Bastano pochi passaggi per delineare il ruolo del magistrato, il cui compito non si esaurisce nelle aule di giustizia ma prosegue nel quotidiano; non con l’atteggiamento di un giustiziere o del moralista, ma della persona semplice e umile, lontana dai riflettori ma al tempo stesso  consapevole del proprio ruolo e dell’esempio (positivo o negativo) che da lui può derivare: “quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” .

Queste le parole di Livatino[2], ben note ma ogni volta illuminanti:

«Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro, ineliminabile, di forma.

L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.

Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.

Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile.

Bisogna riconoscere che, quando l’art. 18 della legge sulle guarentigie dice “che il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere”, esprime un’esigenza reale.

La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. “Un giudice”, dice il canone II del già richiamato codice professionale degli U.S.A. “deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario”.

Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive.

Qui è importante che egli offra di se stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.

Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole».

2. L’etica e la Magistratura.

In qualsiasi società, qualunque sia il modo in cui vengono assunti, la formazione e la portata del loro mandato, i magistrati sono investiti di poteri penetranti, che consentono di intervenire in ambiti che riguardano gli aspetti essenziali della vita dei cittadini e dell’economia.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce, dal punto di vista del cittadino, che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge» (art. 6, par. 1). Lungi dall’enfatizzare l’onnipotenza del giudice, la norma mette in evidenza le garanzie fornite ai contendenti e stabilisce i principi su cui si basano i doveri del giudice: indipendenza e imparzialità.

È pertanto necessario che, sia all’interno degli uffici giudiziari, sia al di fuori, vi siano regole di condotta concepite per mantenere la fiducia in queste aspettative, quello che va sotto il nome di etica giudiziaria.

Qui va chiarito che l’etica va intesa come complesso di principi e di regole che devono orientare il corretto comportamento del magistrato, a prescindere da una sanzione prevista dall’ordinamento per la loro violazione. Si ha così riguardo alla sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate[3]. In tal senso, le regole dell’etica rappresentano il modello a cui tendere, il “massimo etico”, mentre il disciplinare costituisce il cosiddetto “minimo etico”, ovvero la soglia di accettabilità al di sotto della quale il comportamento deve essere oggetto di sanzione[4].

L’etica giudiziaria ha assunto nel corso degli anni un posto di rilievo nel contesto internazionale, a partire dall’adozione dei principi di Bangalore  (2001), nel quadro delle Nazioni unite, cui hanno fatto seguito il parere n. 3 del Consiglio consultivo dei giudici europei (Ccje) sull’etica e la responsabilità dei giudici  (2002), il codice ibero-americano di etica giudiziaria  (2006), la dichiarazione di Londra sull’etica dei giudici con cui è stato approvato il rapporto intitolato “Etica dei giudici – Principi, valori e qualità” come linee guida per la deontologia dei magistrati europei  (2010), promossa dalla Rete europea dei consigli di giustizia, la Raccomandazione R(2010)12 del 17 novembre 2012 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità.

Negli ultimi anni la gran parte dei Paesi dell’Ue si è dotata di testi di etica giudiziaria (codici, guide, raccolte di principi) di diversa origine (Consigli di giustizia, associazioni giudiziarie, conferenze dei giudici, presidenti di tribunali, ecc.).

L’ordinamento italiano è stato tra i precursori di questo orientamento tra i paesi di civil law, essendosi dotato di un codice etico fin dal 1994.

3. La formazione sull’etica giudiziaria nell’esperienza della Scuola superiore della magistratura.

Costituisce talvolta un luogo comune che l’etica professionale non si insegna e a sostegno di questo assunto si evidenzia il fatto che l’etica – interessantissima, coinvolgente, divisiva quando si affrontano i singoli casi concreti e le questioni controverse – rischia di risultare banale quando si enunciano in astratto principi e regole di comportamento, senza esplorarne la genesi storica e senza discuterne le contaminazioni con la realtà.

L’etica, è vero, si insegna innanzitutto con l’esempio; Livatino ne costituisce un modello paradigmatico perché vivendo tutti i giorni la sua professione con serietà e dedizione costituiva un riferimento per tutti i colleghi che lo incontravano e il suo esempio continua a produrre frutti e proprio quel tragico martirio li ha moltiplicati, essendo divenuto un modello non solo per le persone che lo conoscevano ma per tutti gli operatori di giustizia. Si deve allora rinunciare all’idea di realizzare attività di formazione sull’etica?

L’esperienza maturata nel corso degli anni dalla Scuola superiore della magistratura mostra che è possibile realizzare questa formazione, coniugando la riflessione sui principi e le regole dell’etica dei comportamenti con la dimensione applicativa. Essa si inserisce in un contesto europeo (Rete europea di formazione giudiziaria), internazionale (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga, UNODC) e comparato dove, specie nei paesi di tradizione di common law, questo tipo di formazione è particolarmente sentita.

La magistratura italiana ha affrontato uno dei momenti più complessi e difficili degli ultimi decenni. Il Presidente della Repubblica, nel suo intervento del 18 giugno 2020, in occasione della cerimonia commemorativa del quarantesimo anniversario dell’uccisione di Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa e del trentennale dell’omicidio di Rosario Livatino ha evidenziato che la magistratura deve necessariamente impegnarsi «a recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca».

E per far sì che la correttezza sia costantemente praticata, tanto nell’esercizio delle funzioni quanto al di fuori dell’ufficio, un utile ausilio risiede nelle attività di formazione che fanno capo alla Scuola, a cui il Capo dello Stato ha rivolto l’invito a dedicare sessioni specifiche all’etica dei comportamenti.

La Scuola ha raccolto questo invito dedicando specifiche sessioni all’etica giudiziaria sia nei corsi dedicati ai magistrati in tirocinio sia nella formazione permanente.

Le attività di formazione sui profili etici formano oggetto delle linee programmatiche annuali sulla formazione e l’aggiornamento professionale dei magistrati e sul tirocinio e a tali temi la Scuola dedica specifici momenti di approfondimento, anche nella dimensione europea nei programmi dedicati alla formazione iniziale (programmi THEMIS e AIAKOS).

Nel settore della formazione iniziale, alla fine del 2020, grazie al lavoro svolto da un gruppo di magistrati esperti in materia, è stata elaborata una raccolta sistematica di questioni etiche con cui ciascun magistrato si può trovare a confrontare all’interno e al di fuori dell’ufficio. Le questioni sono state poste in forma interrogativa al fine di consentire a ciascun partecipante alla sessione di proporre delle soluzioni. Esse spaziano dai rapporti con i colleghi, il personale amministrativo, le parti, all’uso dei social network, ai rapporti con la stampa, alle frequentazioni, alla spendita del nome, solo per fare alcuni esempi. Per aiutare a trovare le risposte più adeguate abbiamo raccolto i testi principali in materia di etica sul piano nazionale e internazionale. Le questioni etiche e i principi vengono condivisi per tempo con coloro che dovranno prendere parte alla sessione, mentre un ulteriore testo, che contiene le possibili soluzioni, viene distribuito solo in prossimità dell’evento. I partecipanti vengono organizzati in gruppi ristretti di 15/20 persone affidate al coordinamento di un esperto, chiamato a facilitare la discussione.

Questa metodologia, che ha riscontrato grande apprezzamento tra i magistrati in tirocinio, è stata utilizzata con successo anche nei corsi di formazione permanente realizzati negli ultimi due anni: il primo[5] caratterizzato dallo sguardo alla situazione interna, il secondo[6], inserito nel semestre di Presidenza italiana del Comitato di ministri del Consiglio d’Europa, con una prospettiva internazionale e mandato in streaming con interpretariato in inglese in tutti i paesi del Consiglio d’Europa. Entrambi i corsi sono disponibili tra i seminari pubblicati sul canale YouTube della Scuola[7]. A fine anno, il corso riguarderà l’etica della giustizia, in una prospettiva allargata a tutte le professioni legali a partire dall’Avvocatura, con la cui Scuola il seminario è organizzato.

La raccolta sistematica delle questioni etiche è liberamente disponibile e consultabile  sul sito della SSM[8], così come il volume sull’etica giudiziaria[9], inserito nella collana dei Quaderni della Scuola, che contiene i contributi tratti dai corsi degli ultimi due anni.

Per ampliare ulteriormente la formazione sull’etica al di là di coloro che abbiano partecipato ai corsi di formazione permanente, il Comitato direttivo, partendo dai materiali del corso del 2021, ha deliberato di invitare tutte le formazioni decentrate della Scuola a realizzare in ciascun distretto, nel corso del 2021, un corso sull’etica del magistrato secondo un format condiviso. Il documento diffuso alle strutture di formazione decentrata in tutta Italia contiene in premessa un estratto testuale dalla conferenza di Livatino su Il ruolo del giudice nella società che cambia. Diverse sono le strutture di formazione decentrata che hanno realizzato con successo questo seminario.

Questa metodologia casistica, inoltre, è alla base di un volume recentemente portato a compimento sull’etica della magistratura onoraria e che a breve verrà pubblicato sul sito della SSM allo scopo di fornire un manuale operativo per la formazione dei magistrati onorari anche su queste tematiche, fin qui mai fatte oggetto di un’analisi sistematica.

Da ultimo, va segnalato il seminario in programma nel gennaio 2024 su “Etica giudiziaria in Europa e nel mondo arabo: una panoramica comparata” che la Scuola ha in programma presso la sede di Napoli nell’ambito delle attività della Rete euro araba di formazione giudiziaria. Attingendo al quadro internazionale e alla giurisprudenza pertinente, il corso mira a un confronto sui dilemmi etici nell’esercizio dei doveri professionali tra realtà europea e araba.

Queste attività che ho provato a rappresentare sono la testimonianza di come il seme di Rosario Livatino abbia fruttificato anche nell’ambito dell’etica giudiziaria.

Gianluca Grasso


[1] Significativa la letteratura che riguarda la figura del magistrato. Tra i più recenti contributi: A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Milano, 2021; I. Abate, Il piccolo giudice. Fede e giustizia in Rosario Livatino, Roma, 2021; A. Mira , Rosario Livatino. Il giudice giusto, Alba, 2021;  R. Mistretta, Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente, Nuova ediz., Alba, 2022. Si v. altresì A. Balsamo in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione, Rosario Livatino: il “giudice ragazzino” e la lotta alla mafia tra giustizia e fedehttps://www.unicost.eu/rosario-livatino-il-giudice-ragazzino-e-la-lotta-alla-mafia-tra-giustizia-e-fede/

[2] R. Livatino, Il ruolo del giudice nella società che cambia. Conferenza tenuta dal giudice Rosario Livatino il 7 aprile 1984, presso il Rotary Club di Canicattì https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_6_9.wp?contentId=NOL82525

[3] Etica, Enciclopedia on line Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/etica/

[4] G. Natoli, Etica & deontologiahttp://movimentoperlagiustizia.org/non-ci-posso-credere/186.html

[5] P21040 L’etica del magistrato, in https://tinyurl.com/mr2bs4kc

[6] P22022 L’etica e la deontologia del magistrato, in https://tinyurl.com/yc23tpym; Judicial Ethics, https://www.scuolamagistratura.it/web/portalessm/judicial-ethics

[7] https://www.youtube.com/c/ScuolaSuperioredellaMagistratura

[8] https://tinyurl.com/yt8sb85h

[9] https://www.scuolamagistratura.it/web/portalessm/nuovi-quaderni-ssm-frontend

 

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=443b532327&e=d50c1e7a20

Allarme criminalità straniera, gli immigrati rappresentano il 31% della popolazione carceraria in Italia: vi mostriamo tutti i dati

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QUINTA COLONNA

di Redazione

Riteniamo importante pubblicare questo articolo di Francesca Totolo per Il Primato Nazionale perché fornisce i dati sulla popolazione carceraria. Abituati ai numeri di chi sta con Caino, noi convinti sostenitori di Abele troviamo molto importanti queste tabelle. Ci permettiamo, nel nostro piccolo, di proporre che venga inserita nella riforma della giustizia anche la riforma carceraria. Il sovraffollamento e le condizioni disumane non appartengono ad una logica cristiana. Possiamo riqualificare edifici dismessi, presenti in tutta Italia e adibirli a nuove strutture penitenziarie. Inoltre, sarebbe un dovere che gli extracomunitari scontassero la pena nel loro Paese d’origine, attraverso degli accordi internazionali. (n.d.r.)

di Francesca Totolo

Roma, 27 gen – In un precedente articolo, avevamo documentato che gli immigrati hanno una propensione al crimine 5 volte superiore rispetto a quella degli italiani. Ora, passiamo ad analizzare i dati Istat sulla popolazione carceraria. Nel 2021, erano 54.134 i detenuti in Italia, 37.091 italiani (il 69 per cento) e 17.043 stranieri (il 31 per cento). Quindi, gli immigrati hanno una probabilità di carcerazione 5 volte superiore rispetto a quella degli italiani.

Questi dati diventano ancora più allarmanti se si considerano i dati Istat riguardanti il luogo di nascita dei detenuti invece della cittadinanza. Il 33 per cento dei detenuti in Italia è nato in Paesi stranieri. Ciò significa che quasi 900 carcerati sono i cosiddetti “nuovi italiani”.

Detenuti e tipi di reato

Analizzando i tipi di reato, si evince chiaramente che il business della prostituzione in Italia è un monopolio degli stranieri. Il 73 per cento dei detenuti per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione è immigrato.

Il 41 per cento dei detenuti per violenza sessuale è straniero, il 40 per cento per violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, il 38 per cento per omicidio preterintenzionale e per lesioni personali volontarie, il 34 per cento per furto e il 29 per cento per rapina. Questi numeri spiegano chiaramente che non è una percezione distorta dei cittadini italiani quella riguardante l’insicurezza causata dalla criminalità straniera.

Le nazionalità dei detenuti

Analizzando le nazionalità dei detenuti, si evince che il 17 cento dei detenuti proviene dall’Africa, addirittura il 6 per cento è di nazionalità marocchina e il 3 per cento tunisina.

Rapportando tali dati alla popolazione residente in Italia, si evidenzia che un algerino ha una probabilità di carcerazione 34 volte superiore a quella di un italiano, un tunisino 26 volte superiore, un nigeriano 16 volte superiore e un marocchino 12 volte superiore.

La composizione della popolazione carceraria in base alla posizione giuridica dei detenuti

Spesso si è detto che gli stranieri sono più soggetti alle misure restrittive della libertà prima della effettiva condanna rispetto agli italiani. Analizzando i dati Istat, questa tesi viene confutata.

Infatti, sono “a disposizione delle autorità” quasi le medesime percentuali di detenuti: il 34 per cento di stranieri sono “a disposizione delle autorità” rispetto al 33 per cento di detenuti totali nati in Paesi esteri, il 66 per cento di italiani rispetto al 67 per cento di detenuti totali nati in Italia.

Carceri italiane sovraffollate, l’esempio della Danimarca

È noto che in Italia le carceri siano sovraffollate. Al 31 dicembre del 2022, erano quasi 5mila i detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare delle carceri. Per ovviare a questo problema, l’Italia potrebbe prendere spunto dalla socialdemocratica Danimarca, la quale ha versato al Kosovo 15 milioni di canone annuo per affittare 300 celle nella prigione di Gjilan, città non lontana da Pristina, dove verranno inviati gli immigrati condannati. Calcolando che un detenuto nelle carceri italiane costa allo Stato 137 euro al giorno, sarebbe un grande risparmio per i contribuenti italiani. Nel 2021, il mantenimento in carcere dei 17.043 detenuti stranieri è costato 853 milioni di euro.

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