Rinascita-Scott, pentito Arena: ”Prima di Gratteri la massoneria deviata arrivava dappertutto”

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Il collaboratore di giustizia in aula: “Massoneria deviata, ‘Ndrangheta e politica sono la stessa cosa

“Prima che alla Dda approdasse il dottore Gratteri si riusciva ad arrivare dappertutto. La ‘Ndrangheta, tramite la massoneria, riusciva ad arrivare dappertutto. E questo vale per la pubblica amministrazione, per i palazzi di giustizia, per le Questure, per i carabinieri, da tutte le parti. E sono sicuro di quello che dico”. Sono state queste le parole pronunciate dal collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena nel corso del controesame condotto dall’avvocato Alessandro Diddi, che nel processo Rinascita-Scott difende Mario De Rito.

Secondo Bartolomeo Arena esiste un prima e un dopo Gratteri e per spiegare il concetto il pentito in aula ha fatto alcuni esempi. “Sono stati toccati in particolare due esercenti a Vibo: il bar di Daffinà e il Tribeca di Filippo La Scala. Siccome Daffinà è un soggetto che è legato a poteri forti e anche Filippo La Scala per amicizia era legato a soggetti… per adesso chiamiamoli poteri forti. Io non volevo che si toccassero questi soggetti perché sapevo come sarebbe andata a finire, cioè che quelli più intercettati eravamo noi, le perquisizioni le ricevevamo solo noi, le microspie erano solo per noi. Ai Lo Bianco-Barba, quando parlavamo di un’ipotetica operazione, io lo dicevo che avrebbero arrestato solo noi, ovvero il mio gruppo: io, i Pardea, i Camillò, i Macrì, i Lo Bianco. Poi per fortuna non avevano fatto i conti con la Dda di Catanzaro che – ha continuato – da quando è entrato il dottore Gratteri, indaga a 360 gradi e quindi non tocca (non indaga, ndr) solo a una parte, tocca pure agli altri e quindi ci siamo finiti tutti nel pentolone. Se fosse stato come ai tempi passati avrebbero arrestato solo noi. Quelli che avevano i santi in paradiso tutte le colpe le avrebbero fatte cadere su di noi“.

Il pentito durante l’udienza ha spiegato che lui cercava di spiegare a quelli del suo gruppo che “se andiamo a toccare certe persone, non solo ci mettiamo contro alcuni ‘ndranghetisti, che sono pure massoni, ma poi ci saltano addosso tutti gli altri massoni e di conseguenza le indagini le girano e le dirottano come vogliono su di noi“.

Perché massoneria fa indagini contro di voi?“, ha chiesto l’avvocato Diddi.

Perché massoneria deviata, ‘Ndrangheta e politica sono la stessa cosa” ha risposto Arena, sottolineando che “c’erano dei soggetti che le cosche volevano toccare e io dicevo: ‘Quel soggetto non lo tocchiamo perché è amico di quel politico, di quell’altro massone e con questi soggetti poi abbiamo problemi perché non solo sono collegati a ‘ndranghetisti di un certo livello ma poi possiamo avere problemi con la magistratura’. Io sto parlando sempre del periodo prima che arrivasse Gratteri alla Dda“.

L’estorsione all’ex direttore generale della Vibonese calcio
Durante l’udienza il collaboratore di giustizia ha parlato di una estorsione condotta dallo stesso pentito nei confronti di Danilo Beccaria, ex direttore generale della Vibonese calcio.  “Io sono andato – ha detto Arena – perché lo conoscevo e gli ho detto che avevamo bisogno di soldi perché c’erano diversi miei parenti che erano usciti da poco dal carcere. Nel giro di un paio d’anni mi ha dato intorno ai 50-60 mila euro circa. Una volta ricordo che aveva avuto un problema con un giocatore perché non se ne voleva andare, o forse gli voleva mettere l’avvocato, non ricordo, e mi ha chiesto se io potevo intervenire. Io ho accettato poi però lui ha fatto diversamente e non è successo nulla. Io a Beccaria non gli ho fatto mai nessun favore. Questa estorsione è stata la più grossa e facile perché senza fare nessuna intimidazione, senza andare a minacciare nessuno in due anni, forse meno, abbiamo preso 50/60mila euro“.

Io con le estorsioni – ha continuato il collaboratore – ho guadagnato qualcosa ma le facevo a modo mio, gli altri usavano farle col metodo del danneggiamento, i proiettili… a me non piaceva questa metodologia. Mettevano sotto estorsione chiunque, anche quello che doveva fare il ponteggio per pitturare una casa. A me non piaceva di andare a ingarbugliarmi in una situazione con la giustizia per una fesseria“.

Al tempo, come raccontato dal pentito, “Vibo era una polveriera, forse era l’unica provincia dove ancora si mettevano le bottigliette incendiarie e i proiettili. Certe cose non succedono nemmeno a Reggio. Una volta un soggetto della cosca Libri, quando seppe che il mio gruppo faceva estorsioni con danneggiamento, ci disse: ‘Ma voi ancora con i danneggiamenti siete?’. Ormai nelle altre zone sono meglio organizzati. Ormai un commerciante o un imprenditore che viene dal nord sa già dove andare perché o c’è un colletto bianco che fa da ponte tra l’imprenditoria e la ‘Ndrangheta o perché ci si accorda con l’amico dell’amico. Insomma non c’è più bisogno del danneggiamento“, ha detto Arena.

Ma il vero cambiato nella strategia nel compiere estorsioni era avvenuto con l’arrivo di Gratteri. “Quelli del mio gruppo non ci credevano – ha detto Arena – a quello che dicevo e le facevano lo stesso (le estorsioni con danneggiamento, ndr). Io appena è arrivato a Catanzaro (Gratteri) lo avevo detto: ‘Ci arresta a tutti’. E non lo dico perché c’è il procuratore in aula. L’ho sempre detto“. Arena racconta di avere proposto al proprio gruppo di cambiare strategia, “di avvicinare imprenditori che versavano in condizioni precarie e diventarne soci. Loro non volevano perché dicevano che non volevano investire e continuavano a fare le estorsioni come quando c’era Andrea Mantella cioè con i danneggiamenti“.

Fonte:corrieredellacalabria.it

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Fonte: https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/306-giustizia/86006-rinascita-scott-pentito-arena-prima-di-gratteri-la-massoneria-deviata-arrivava-dappertutto.html

Magistrati amici e nemici. Ecco il vero scandalo Lucano

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Dietro il processo all'”intoccabile” ci sono gli scontri fra toghe di vari gruppi. Ma quasi tutte vicine a Palamara

di Luca Fazzo

La disperazione di un uomo che si sente tradito: c’è questo, nel day after di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato a tredici anni per l’allegra gestione dell’accoglienza ai migranti. Lucano si sente abbandonato da due poteri da cui, a torto a ragione, si credeva tutelato: la politica e la giustizia. E nel suo sfogo di ieri al Corriere contro le «ombre poco chiare» e «un magistrato molto importante e un politico di razza» che starebbero dietro la sua condanna si coglie tutta l’amarezza di un ex intoccabile. Chi avrebbe mai osato scalfire un simbolo mondiale dell’Italia migliore, un candidato al Nobel per la pace?

Invece è accaduto, per mano della magistratura e senza che la politica facesse nulla (proclami di solidarietà a parte) per salvare l’ex sindaco. Su Lucano cade la condanna per reati pesanti come il peculato e la truffa allo Stato, resi ancora più gravi dalla legge «spazzacorrotti». Ma anche tra le toghe intorno al «caso Lucano» ci sono posizioni assai diverse: d’altronde se a contribuire alla incriminazione e alla condanna del sindaco hanno contribuito magistrati di tutte le correnti – sinistra, centro, destra – è anche vero che in aiuto all’indagato eccellente qualche «manina» in toga è intervenuta, con la benedizione del Consiglio superiore della magistratura. Ed anche il fatto che un ex giudice importante come Luigi de Magistris abbia accolto nelle sue file l’ex sindaco qualcosa vuole dire.

La «manina» che venne in aiuto a Lucano ha un nome e un cognome: Emilio Sirianni, esponente di Magistratura democratica, che venne intercettato dalla Guardia di finanza mentre dava istruzioni a Lucano su come difendersi, compreso il consiglio di non parlare troppo al telefono. L’allora ministro Bonafede mise Sirianni sotto procedimento disciplinare: il Csm lo salvò con una sentenza secondo cui dare consigli a un indagato rientrava tra i diritti del magistrato. Difficile immaginare il Csm decidere ugualmente se a ricevere consigli fosse stato un indagato di altra risma.

Ma con chi ce l’ha, adesso, Lucano? Se il «politico di razza» cui accenna potrebbe essere Marco Minniti, il «magistrato importante» è meno facile da identificare. Anche perché l’inchiesta su Riace ha finito con l’accavallarsi e in parte intrecciarsi col terremoto scaturito all’interno della magistratura dal «caso Palamara», nelle cui chat compaiono alcuni dei magistrati che si sono occupati di Lucano. A partire dal grande accusatore del candidato al Nobel, l’allora procuratore di Locri Luigi D’Alessio. D’Alessio è considerato anche lui una «toga rossa», fa parte di Magistratura democratica. Però parte ugualmente a testa bassa contro il sindaco-icona della sinistra. Ma il posto di procuratore a Locri a D’Alessio va stretto, punta a Potenza: a sponsorizzarlo con Palamara è però una toga di centro, il futuro capo delle carceri Francesco Basentini. Niente da fare. Altro nome importante nella vicenda di Riace è quello di Tommasina Cotroneo, presidente del tribunale di Reggio Calabria. È la Cotroneo, nel maggio 2019, a respingere il ricorso di Lucano contro il divieto di dimora a Riace: è uno snodo cruciale della vicenda, perché è la prima volta in cui le tesi della Procura vengono confermate, la Cotroneo dice che Lucano «si muove ed agisce nel Comune di Riace con disinvoltura e abilità sorprendenti, raggiungendo scopi che persegue in spregio assoluto della legge». E anche la Cotroneo finirà sotto procedimento disciplinare per avere chiesto sponda a Palamara («aiutami, stratega!») contro colleghi con cui era in lizza.

Fonte: https://www.ilgiornale.it/news/politica/magistrati-amici-e-nemici-ecco-vero-scandalo-lucano-1979109.html

Relazione Dia: ”Così la mafia cambia faccia e si infiltra nell’economia”

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Nuove infiltrazioni nell’emergenza Covid, nei fondi pubblici, il gaming, e nel settore carburanti. Ma il settore principale resta sempre il traffico di droga

Le mafie (Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita a cui si aggiungono con forza i clan foggiani e stranieri) guardano al futuro dando una nuova immagine di sé, “sostituendo l’uso della violenza, sempre più residuale, con linee d’azione” di “silente infiltrazione”. Un modus operandi che le permette di stringere ulteriormente i contatti con i colletti bianchi della politica, della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria.
E’ questo il quadro che emerge leggendo la relazione della Direzione investigativa antimafia nazionale (Dia) riferita al secondo semestre del 2020, oggi presentata al Parlamento. Le mafie, spiegano senza mezzi termini gli investigatori, hanno accelerato il “processo di trasformazione e sommersione già in atto da tempo, senza però rinunciare del tutto all’indispensabile radicamento sul territorio e a quella pressione intimidatoria che garantisce loro la riconoscibilità in termini di potere criminale”.
Inoltre, con il prolungamento dell’emergenza dovuta al Covid, “la tendenza ad infiltrare in modo capillare il tessuto economico e sociale sano” da parte delle organizzazioni criminali “si sarebbe ulteriormente evidenziata”.
Gli analisti sottolineano come vi sia ormai una “strategia criminale che, in un periodo di grave crisi, offrirebbe alle organizzazioni l’occasione sia di poter rilevare a buon mercato imprese in difficoltà, sia di accaparrarsi le risorse pubbliche stanziate per fronteggiare l’emergenza sanitaria”.

Le nuove opportunità economiche
I dati parlano chiaro con i delitti connessi alla gestione illecita dell’imprenditoria, le infiltrazioni nei settori produttivi e l’accaparramento di fondi pubblici in costante crescita. Gli episodi di corruzione e concussione sono passati da 20 a 27, l’induzione indebita a dare o promettere utilità da 9 a 16, il traffico di influenze illecite da 28 a 32, la turbata libertà degli incanti da 28 a 32.
Inoltre si evidenzia come ai ‘tradizionali’ settori di interesse – usura, estorsioni, traffico di droga – le attenzioni delle organizzazioni si siano orientate sui settori del gioco d’azzardo e delle scommesse, anche grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia.
Si legge nella relazione che imprenditori riconducibili ai clan costituiscono società nei paradisi fiscali e creano così un circuito parallelo a quello legale che consente di ottenere non solo ampi guadagni ma anche di riciclare in maniera del tutto anonima enormi quantità di denaro.
Analoghe infiltrazioni ad opera della criminalità organizzata, in prevalenza della camorra e della ‘Ndrangheta, si registrano nel settore del contrabbando di prodotti energetici (oli lubrificanti ed oli base) in virtù dei notevoli vantaggi economici derivanti dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti a prezzi sensibilmente più bassi di quelli praticati dalle compagnie petrolifere.
E’ questo uno dei sistemi con sui si creano vere e proprie “sinergie tra mafie e colletti bianchi”. Sempre più spesso inoltre, spiegano ancora gli investigatori della Dia, le mafie ricorrono a pagamenti in criptovalute: i bitcoin e, più recentemente, il ‘Monero’, che non consentono il tracciamento e sfuggono al monitoraggio bancario”.

‘Ndrangheta globalità: “holding criminale del narcotraffico”
Fra le mafie italiane, “la ‘Ndrangheta, negli anni, è stata quella che ha sviluppato maggiormente una visione ‘globalista’, che l’ha portata a stabilirsi in molti Paesi e a creare efficaci affinità con i produttori di stupefacenti dell’America Latina, così da poter essere considerata una vera e propria holding criminale del narcotraffico”. E’ quanto si legge nella relazione semestrale della Dia.
La droga è considerata ancora come il primo ‘business’ delle organizzazioni criminali italiane all’estero, che quando si trovano ad avere base in altri Paesi evitano l’uso della violenza, preferendo ricorrere invece alla corruzione. “L’ambito criminale che a livello internazionale continua ad offrire una maggiore redditività è quello del narcotraffico – si legge nella relazione semestrale della Dia – Al riguardo, negli ultimi anni l’Africa occidentale sembrerebbe essere diventata un importante snodo per i traffici di droga. In particolare, la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau e il Ghana rientrano tra i Paesi finiti nelle mire delle mafie, rappresentando al momento cruciali basi logistiche per i narcos”. In questo schema, appunto, la ‘Ndrangheta è leader “avvalendosi di qualificati professionisti, capaci di ‘ripulire’ i capitali illeciti, prevalentemente provento del narcotraffico”.
Sempre nella relazione viene ricordato come locali di ‘Ndrangheta sono presenti in tutte le regioni italiane (46 quelle individuate, di cui 25 in Lombardia, 14 in Piemonte e 3 in Liguria), ma anche in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonché in Australia, Stati Uniti e Canada.

La forza di Cosa nostra nel territorio e l’ascesa della Stidda
Per quanto riguarda la Sicilia la Relazione racconta della storica preminenza di Cosa nostra che ultimamente sembra avere riaperto le porte ai cosiddetti “scappati” o meglio alle nuove generazioni di coloro i cui padri avevano dovuto trovare rifugio all’estero a seguito della guerra di mafia dei primi anni ’80, che vide l’ascesa dei corleonesi.
Nell’area centro-orientale a Cosa nostra si affiancano altre compagini di matrice mafiosa, tra di esse un particolare rilievo è da attribuire alla Stidda la quale è costituita da gruppi autonomi che operano secondo un modello di tipo orizzontale. Tali sodalizi sono inizialmente nati in contrapposizione a cosa nostra ma oggi ricercano con la stessa accordi funzionali alla cooperazione negli affari illeciti.
Permane l’infiltrazione nei settori economici caratterizzati dall’erogazione di contributi pubblici come nel caso della produzione di energia da fonti rinnovabili, dell’agricoltura e dell’allevamento. Spesso ciò si realizza attraverso il condizionamento degli Enti locali anche avvalendosi della complicità di politici e funzionari infedeli. Si reputa inoltre opportuno sottolineare il crescente interesse criminale per il gaming che nelle aree di proiezione è utilizzato quale strumento di riciclaggio mentre in Sicilia sarebbe funzionale anche al controllo del territorio.
Secondo gli investigatori “i reati cardine sui quali si impernia l’azione mafiosa sono sempre i medesimi” e “resta costante l’imposizione del pizzo”. Tra gli esempi riportati nella relazione il blitz antimafia del 13 ottobre 2020, quando i carabinieri di Palermo hanno fermato venti affiliati alla famiglia di Borgo Vecchio: si tratta dell’indagine ‘Resilienza’, “che ha evidenziato le numerose attività estorsive – ricorda la Dia- coordinate dal capo della famiglia il quale esercitava funzioni direttive dell’organizzazione”.

La Camorra come welfare dell’economia
Secondo la Dia tra le più capaci di strumentalizzare “a proprio vantaggio le gravi situazioni di disagio” dovute al “protrarsi dell’epidemia da Covid” vi è la Camorra.
Nel dossier si afferma inoltre che l’organizzazione campana “resta per dinamiche e metodi un fenomeno macro-criminale dalla configurazione pulviscolare-conflittuale”. Le consorterie che operano sul territorio “sono tra loro autonome ed estremamente eterogenee per struttura, potenza, forme di radicamento, modalità operative e settori criminali ed economici di interesse”. Queste peculiarità le “contraddistinguono dalle mafie organicamente gerarchizzate come cosa nostra siciliana e ne garantiscono la flessibilità, la propensione rigenerativa e la straordinaria capacità di espansione affaristica”. Una strategia volta a rimodulare “di volta in volta gli oscillanti rapporti di conflittualità, non belligeranza e alleanza in funzione di contingenti strategie volte a massimizzare i propri profitti fino ad arrivare, per i sodalizi più evoluti, alla costituzione di veri e propri cartelli e holding criminali. Di qui anche il contenimento – si afferma nella relazione -, in linea di massima, del numero degli omicidi di matrice camorristica il più delle volte ormai paradossalmente ascrivibili proprio a politiche di “prevenzione” e/o logiche di epurazione interna, finalizzate a preservare gli equilibri complessivi e a controllare ogni spinta centrifuga”.
Resta comunque “alto l’interesse della criminalità campana verso i settori più remunerativi tra i quali figura quello dei rifiuti. Inoltre, continua a trovare riscontro su più fronti l’ingerenza delle compagini malavitose nel mondo politico-amministrativo dell’intera regione”.

La mafia foggiana come “emergenza nazionale”
Anche in Puglia il perdurare dell’emergenza sanitaria da covid-19 ha accentuato le conseguenze negative sul sistema sociale ed economico italiano consentendo l’avanzata della criminalità organizzata. Qui le associazioni malavitose risultano “sempre più orientate verso una sorta di metamorfosi evolutiva volta a ridurre le strategie cruente per concentrarsi progressivamente sulla silente infiltrazione del sistema imprenditoriale”. Per quanto attiene ai sodalizi pugliesi “varie sono le espressioni criminali legate rispettivamente alla provincia di Foggia, al territorio di Bari e al basso Salento. Un’attenzione particolare per le possibili dinamiche evolutive merita il contesto foggiano dove operano le tre storiche organizzazioni della società foggiana, della mafia garganica e della delinquenza cerignolana. Da segnalare a fattore comune come i sodalizi mafiosi, avvalendosi sempre più delle possibilità offerte dalla tecnologia, si stiano orientando verso i settori del gioco d’azzardo (gaming) e delle scommesse (betting) realizzando circuiti paralleli a quello legale allo scopo sia di riciclare, sia di incrementare le cospicue risorse a disposizione.

PDF Scarica la relazione della DIA: Clicca qui!

Fonte: https://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/309-topnews/85880-relazione-dia-cosi-la-mafia-cambia-faccia-e-si-infiltra-nell-economia.html

Ancora su Cassazione e Crocifisso, fra laicità e reasonable accomodation

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QUINTA COLONNA – LA PAROLA AI GIURISTI

Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Manuel Genarin per https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=f6e75b580c&e=d50c1e7a20

Da una prima lettura della sentenza 9 settembre 2021, n. 24414 delle Sezioni unite civili della Cassazione, sull’esposizione del crocifisso nelle scuole, emergono luci e ombre, le cui ricadute pratiche saranno tutte da verificare.

Prosegue la riflessione avviata il giorno stesso della pubblicazione (https://www.centrostudilivatino.it/cassazione-sul-crocifisso-nessun-divieto-di-affissione-ma-adesso-necessario-lintervento-del-parlamento/), proseguita con gli interventi dell’avv. Angelo Salvi (https://www.centrostudilivatino.it/sezioni-unite-e-crocifisso-perplessita-sulla-regola-del-caso-per-caso/) e del presidente emerito di Cassazione Piero Dubolino (https://www.centrostudilivatino.it/sezioni-unite-e-crocifisso-perche-il-ragionevole-accomodamento-non-convince/), con l’intervento del dott. Manuel Ganarin, ricercatore di Diritto ecclesiastico e canonico all’Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna.

1. Sono due i punti centrali affrontati nella sentenza.

Quanto al primo punto, le Sezioni unite evidenziano come l’obbligo di esposizione del crocifisso (art. 118 del r.d. n. 965/1924) si inserisca in un «quadro normativo fragile», ponendosi in contrasto con l’ordinamento costituzionale. Esso si sostanzierebbe in una precisa «scelta confessionale» con la quale lo Stato si identifica con una religione, violando il principio che distingue l’ordine suo proprio da quello delle confessioni religiose (art. 7 c. 1 e 8 c. 2 Cost.). Lo Stato, del resto, non può servirsi di simboli religiosi per conseguire i suoi fini.

Il richiamo di tale principio suscita perplessità alla luce della funzione e del significato del crocifisso nel contesto italiano. La Cassazione infatti sottolinea come la croce «descriv[a] anche uno dei tratti del patrimonio culturale italiano e rappresent[i] una storia e una tradizione di popolo», richiamando «valori (la dignità umana, la pace, la fratellanza, l’amore verso il prossimo e la solidarietà) condivisibili, per il loro carattere universale, anche da chi non è credente». La centralità della valenza culturale e valoriale del crocifisso ci pare faccia sì che l’imposizione dello stesso possa considerarsi un’opzione pienamente laica – anche per il credente, si badi bene, nel contesto scolastico, e proprio per quel dualismo che connota nel profondo il cristianesimo –. L’obbligo di esibizione del simbolo non si traduce in una scelta tipica di uno Stato confessionale, introducendo semmai una differenziazione ragionevole tra simboli religiosi che prende atto di come il cattolicesimo sia parte della cultura popolare italiana (cfr. art. 9, n. 2 Accordo 1984). Appare allora incongruo invocare la distinzione degli ordini, onde restituire a Dio un simbolo che appartiene pure a Cesare, avendo contribuito a forgiare la sua identità.

2. Le Sezioni unite menzionano altri due corollari del principio di laicità: «l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni». I giudici tuttavia avallano una certa idea di neutralità, omettendo di richiamare parti della nota sentenza Lautsi c. Italia della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, ove si è precisato che «la decisione di perpetuare o meno una tradizione rientra in linea di principio nell’ambito del potere discrezionale dello Stato» (§ 68). In Europa, d’altronde, convivono diversi modelli di laicità; pertanto occorrerebbe relativizzare il concetto di neutralità perché lo Stato, qualsiasi decisione prenda circa i simboli religiosi, è in qualche modo ‘di parte’: e ciò sia quando li vieta, sia quando li include, sia quando ne impone uno solo per ragioni culturali e valoriali, compiendo, nel rispetto dei diritti e delle libertà individuali, valutazioni politiche di sua esclusiva pertinenza. E questo a fortiori sulla base dell’asserto della Corte di Strasburgo fatto proprio dalla Cassazione, che ribadisce come il crocifisso sia «un simbolo essenzialmente passivo, perché non implica da parte del potenziale destinatario alcun atto, neppure implicito, di adesione ad esso». Continua a leggere

Carlo Nordio punta il dito contro una “magistratura decrepita: giudici alle corde, agire ora o mai più”

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Instancabile lottatore. L’ex procuratore Carlo Nordio da sempre è insofferente alle dinamiche del suo mondo, del quale ha denunciato le storture molto prima di Palamara e con la credibilità, rispetto all’ex capo dell’Anm, di chi non ha mangiato nel piatto delle mele marce. La sua battaglia va avanti da tempo, ma mai come oggi il magistrato ha confidato nel successo finale.

Procuratore, come mai la vediamo in trincea, impegnatissimo in favore dei referendum di Lega e Radicali sulla giustizia?
«Perché questo è il momento giusto, per la prima volta da tangentopoli, per dare uno scossone a una giustizia decrepita. Sulla necessità di queste riforme insisto da oltre vent’ anni: mentre ero in servizio ero considerato un eretico o un disfattista, ora vedo che gran parte dei giuristi e dell’opinione pubblica condivide le mie idee. Sono contento e motivato».

Se non ora quando, parafrasando slogan di altre battaglie?
«È un treno che non si può perdere. Fino ad ora le riforme sono state paralizzate dallo strapotere della magistratura e dall’ignavia della politica. Ora il governo, pur avendo come ho detto un limitato potere, ha un grande prestigio, e soprattutto è inamovibile. Inoltre la magistratura è crollata nella credibilità, e non può più condizionare la politica come ha fatto fino a ieri».

Un quesito del referendum è la separazione delle carriere tra giudici e pm. Da ex procuratore, perché è favorevole?
«Perché la separazione è consustanziale al processo penale accusatorio, cosiddetto alla Perry Mason, che abbiamo adottato nel 1988. In tutto il mondo anglosassone le carriere sono separate, per evitare un’irragionevole confusione di ruoli. Per di più, da noi il pm è un mostro di potenza: gode delle garanzie del giudice ma è anche capo della polizia giudiziaria e monopolista dell’azione penale. È l’unico organo al mondo, con un grande potere senza responsabilità».

Un magistrato che sbaglia deve pagare per i propri errori?
«Un magistrato inetto, incapace o peggio ancora in malafede non va colpito sul portafoglio, ché tanto è assicurato. Va punito nella carriera, e cacciato dalla magistratura».

Non ritiene che i referendum siano un di più e che la riforma Cartabia sia sufficiente per combattere i mali della giustizia?
«La riforma Cartabia è il cosiddetto minimo sindacale per ottenere i finanziamenti europei. Lei è il miglior Guardasigilli dai tempi di Gonella, ma non può far molto perché le riforme le fa il Parlamento, che è dominato da un maggioranza retriva e giacobina. Anche se credo che, per ragioni di sopravvivenza, i grillini si adegueranno alle proposte, importanti ma non certo risolutive, del governo».

Che giudizio dà della riforma, che per non abolire la prescrizione ha introdotto il principio metagiuridico dell’improcedibilità?
«È un compromesso escogitato per non umiliare i grillini. Non potendo incidere sulla prescrizione voluta da Bonafede, si punta a estinguere non il reato ma il processo. Se non è zuppa, è pan bagnato. Il risultato è accettabile, perché comunque il cittadino non starà in eterno sulla graticola giudiziaria. Personalmente avrei preferito una soluzione più lineare: mantenere bassi i termini della prescrizione, ma farli decorrere non dalla commissione del reato ma dall’esercizio dell’azione penale. Comunque, per ora, questo è il massimo che si potesse ottenere».
A cosa è dovuto il tracollo di credibilità della magistratura?
«Il tracollo è dovuto a mille cause remote. Ma la causa prossima è stato lo scandalo di Palamara e quello, assai più grave anche se se ne parla poco, di Milano e della consegna illegittima di verbali secretati. Il Consiglio Superiore della Magistratura fa finta di nulla, ma i cittadini queste cose le intuiscono».

Palamara sostiene che dopo la sua cacciata nulla sia cambiato, se non che l’Associazione Nazionale Magistrati si è spostata ancora di più a sinistra…
«Più che l’Anm, è il Csm che si è spostato a sinistra, perché alcuni dei suoi membri moderati sono stati invitati o costretti alle dimissioni, in quanto le loro chat con Palamara erano state sapientemente divulgate. Ma Palamara non ha parlato solo con loro. Bisogna domandarsi perché le altre siano state omesse, o addirittura siano andate perdute. Ma è un canto del cigno. Se il referendum passa, il Csm cambierà radicalmente, e prima o dopo arriveremo al sorteggio, unica vera riforma efficace per eliminare la degenerazione correntizia».

Si avvererà la profezia del radicale Massimo Bordin, secondo il quale i magistrati finiranno per arrestarsi tra loro?
«No. I più, cioè i bravi e gli onesti, spereranno in una riforma che li affranchi dallo strapotere delle correnti. Gli altri attenderanno che passi la nottata. Ma quando si sveglieranno, se il referendum avrà vinto, vedranno un’alba diversa».

Da magistrato, come mai sostiene la supremazia della politica sul potere giudiziario?
«Perché prima di essere un magistrato sono un cittadino. E in democrazia il potere appartiene agli elettori, non ai magistrati».

Si dice che solo una piccola parte dei magistrati sia politicizzato: perché gli altri non si ribellano?
«La maggior parte dei magistrati pensa a lavorare; non si ribella perché sa che, se alza troppo la testa, entra nel libro nero dei vertici associativi. Questo non compromette la carriera economica, che è automatica, ma impedisce di ambire a qualche carica importante».
Sarebbe auspicabile un ripensamento dell’azione penale obbligatoria, con un’indicazione delle priorità che i pm devono seguire?
«L’azione penale obbligatoria è incompatibile con il nostro processo accusatorio introdotto da Vassalli. Ma d’altra parte è prevista dalla Costituzione. Avrebbero dovuto coordinare i due testi. Comunque, se deve esserci un indirizzo sulle priorità da seguire nelle indagini, questo dovrebbe essere conferito al Parlamento, che se ne assume la responsabilità politica».

L’influenza delle toghe sulla politica segue un disegno preciso?
«La magistratura più conservatrice vedrà sempre un nemico in chiunque voglia le riforme: Berlusconi, Salvini, Renzi. Con Salvini si è toccato il fondo: assolto di qua e rinviato a giudizio di là per fatti identici. Anche se la colpa maggiore è stata del Parlamento: ha preso due decisioni opposte solo perché era cambiata la maggioranza. Una prostituzione della giustizia che mi ha disgustato».

Alla fine Berlusconi è stato vittima delle toghe o di se stesso?
«Berlusconi è stato vittima di entrambe le cose. L’informazione di garanzia notificata a mezzo stampa a Napoli è stata una gravissima violazione di legge, ma nessuno ha mai indagato sui responsabili depositari del segreto violato. Quando però Berlusconi ne ha avuto la possibilità, invece di agire con riforme serie e organiche ha perso tempo con leggi personali, oltretutto inutili per le sue vicende. Una grande occasione perduta».

A proposito di politica, lei ha attaccato la legge Zan: cosa non la convince?
«Da qualsiasi aspetto la si guardi, tecnico, lessicale, sistematico, per non dire etico, la legge Zan è un pasticcio colossale. Per di più è scritta in pessimo italiano, il che la rende oscura e suscettibile di varie interpretazioni. Portata in tribunale creerebbe enormi problemi. Vulnera il Concordato, al quale siamo vincolati dalla Costituzione. La Santa Sede ha ragione nel sollevare obiezioni. E ancora, non mi convince perché vulnera i principi di tassatività, legalità e specificità che costituiscono la struttura della fattispecie di reato. Questo aspetto è stato fatto presente in Commissione da quasi tutti i giuristi. Ma dubito che i grillini li abbiano capiti. Quanto al Pd lo ha capito benissimo, ma il suo è un ragionamento solo politico».

Ritiene che sia necessaria una tutela rafforzata dei gay e delle minoranze?
«Le tutele che già ci sono bastano e avanzano. Io sono il primo a sostenere che chi offende la sessualità altrui è un grossolano cialtrone: ma va trattato come tale, con l’ironia e la polemica civile, non con il carabiniere e il magistrato».

I difensori della legge Zan sostengono si tratta di un’estensione della legge Mancino contro il razzismo e l’odio religioso…
«La legge Mancino aveva una forte connotazione politica, per quei tempi anche giustificata. Ma per conto mio anch’ essa è superata. Le opinioni si combattono con le opinioni, non con la galera».

Quindi per lei i reati d’opinione non sono mai giustificabili?
«No. Tra l’altro, c’è una contraddizione palese. Per combattere la discriminazione, la legge Zan introduce una discriminazione ancora più feroce, perché vuole sbattere in prigione i discriminatori. Combatte l’intolleranza con un’intolleranza ancor più severa».

DA

https://www.liberoquotidiano.it/news/giustizia/27939174/carlo-nordio-magistratura-decrepita-giudici-corde-agire-ora-mai-piu.html

NICOLA GRATTERI / EUROPA DEBOLE CONTRO LE MAFIE

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L’Europa si è appena dotata di un organismo giurisdizionale per studiare e – ci si augura – contrastare, l’espansione delle mafie, e soprattutto le sue sempre più frequenti maxi operazioni di riciclaggio. Ancor più temibili adesso, con la pandemia che sta mettendo in ginocchio interi pezzi delle economie.

L’organismo sarà composto da inquirenti dei vari Paesi, molti dei quali, come ad esempio la Germania, hanno una scarsissima conoscenza sul terreno delle mafie e sulle loro modalità operative.

Certo non positivo nè ottimistico il giudizio espresso dal procuratore capo di Catanzaro, un super esperto di mafie e ovviamente di ‘ndrangheta in particolare, Nicola Gratteri, intervenuto il 21 aprile ad un convegno online su Le mafie in tempo di pandemia, un problema da non sottovalutare.

Ecco i passaggi salienti del suo intervento.

“Il sistema giudiziario dell’Europa non è sufficiente a contrastare le mafie e tantomeno un certo tipo di riciclaggio. Di mafia si discute poco in Europa, salvo quando bisogna bacchettare l’Italia nell’uso delle carceri”.

“La Germania è il paese più ricco d’Europa dove penso ci sia il maggior numero di ‘ndranghetisti proprio per la sua disponibilità di ricchezza. Il leggo le direttive europee in merito alle politiche di antiriciclaggio. Sono stringenti, ma solo sulla carta, perché poi gli Stati membri non le osservano”.

“Ho una forte rabbia dovuta a questa assuefazione della Comunità Europea e del potere politico europeo che non intende minimamente rinunciare di un millimetro alla propria libertà. Come la questione della limitazione della tracciabilità del denaro, per la quale i tedeschi non hanno assolutamente interesse nè intendimenti a cambiare la norma in nome della privacy. Basti pensare a quanto è facile riciclare denaro in Germania potendo varcare i confini con 80 mila euro in contanti senza che nessuno mi dica nulla”.

“A questo punto, devo pensare che questi Stati ricchi come la Germania hanno interesse a non denunciare e a non creare scandalo perché così, con il silenzio di tutti, si riescono a riciclare somme ingenti di denaro, cosa che in Italia non è possibile”.

“L’Italia è stata molto debole nei confronti degli altri Stati europei in tema di lotta alle mafie. E inconcepibile che la sede di Europol ed Eurojust siano in Olanda. Ad oggi, poi, è stata costituita questa neo struttura di contrasto alla ‘Ndrangheta alla quale prendono parte dieci paesi del mondo dove c’è un’alta densità di presenza di ‘Ndrangheta. E dov’è la sede di questa struttura? A Lione. Mi chiedo: ma è normale che un organismo che si occupa di contrasto internazionale alla ‘Ndrangheta abbia sede in Francia e non nello Stato in cui ha origine la mafia?”.

Fonte: http://www.lavocedellevoci.it/2021/04/26/nicola-gratteri-europa-debole-contro-le-mafie/

Pentimento Grande Aracri, terremoto giudiziario in caso di conferma delle dichiarazioni

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di AMDuemila

Se le dichiarazioni del boss Nicolino Grande Aracri venissero riscontrate da parte degli inquirenti si scatenerebbe un vero e proprio terremoto giudiziario, non solo contro la ‘Ndrangheta ma anche nei confronti di quel “mondo di mezzo” composto dai cosiddetti “colletti bianchi”, professionisti e funzionari infedeli compiacenti.
Sopratutto le sue dichiarazioni potrebbero andare a incidere su molti filoni investigativi e processuali in corso o conclusi in assoluzione, in virtù del ruolo apicale ricoperto per molto tempo all’interno della consorteria criminale.
Ma se la sua decisione di collaborare con la giustizia da un lato potrebbe portare notevole beneficio all’azione giudiziaria, dall’altro solleva molte domande. Andiamo per ordine.
Nicolino Grande Aracri oltre ad essere stato condannato a molteplici ergastoli per essere stato il mandante di sette delitti che insanguinarono il Crotonese negli anni tra il ’99 e il 2000 e per l’omicidio di Giuseppe Ruggero, commesso a Brescello nel ’92 ed eseguito da un commando di killer travestiti da carabinieri, ha anche subito diverse altre condanne detentive ed è tutt’ora implicato in numerosi processi penali su cui potrebbero piovere come macigni le sue presunte confessioni. Come ad esempio, il processo Scacco Matto, nel quale Aracri è stato condannato a 17anni di carcere (ormai esauriti) per associazione mafiosa e in cui si è sancito come la famiglia Grande Aracri si era legata con i Nicoscia di Isola Capo Rizzuto per scalzare il comando dei Dragone a Cutro e degli Arena a Isola Capo Rizzuto, è direttamente collegato ad un altro un altro processo, denominato Kyterion – in cui si è scoperto che il boss della famiglia Dragone, Raffale, venne ucciso da Grande Aracri – citato nel maxi processo “Rinascita Scott” in corso a Lamezia Terme. Vedremo quindi il boss Grande Aracri testimoniare davanti ai pm dell’aula bunker?
Sarà in grado di dirci qualcosa in merito anche ad altri avvenimenti in cui è implicato? Come ad esempio sull’assoluzione decisa dalla corte di appello di Bologna per i suoi presunti sodali, Angelo Greco, Antonino Ciampà e Antonio Lerose finiti sotto processo per l’uccisione di Nicola Vasapollo, compiuto a Reggio Emilia; o anche in merito ai quattro omicidi commessi nei primi anni novanta dal pentito Salvatore Cortese, suo ex braccio destro; c’è poi il processo Grimilde contro le “nuove leve” della cellula emiliana di ‘Ndrangheta e l’inchiesta FarmaBusiness, in cui i suoi familiari (di Grande Aracri n.d.r) sono stati accusati di aver messo le mani sullo smercio e la vendita dei farmaci e di aver cercato un accordo con l’ex presidente del consiglio regionale Domenico Tallini.
Poi ancora c’è l’inchiesta Thomas contro i presunti colletti bianchi del clan e le indagini più recenti contro la cosca di San Leonardo di Cutro, ritenuto organico della “provincia” di ‘Ndrangheta fondata da Grande Aracri, E sulla faida scoppiata in Emilia negli anni di piombo? Continua a leggere

Il “Buscetta” della ‘ndrangheta ora collabora

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di Redazione

Avevamo iniziato a studiare questi fenomeni, riferiti soprattutto alle ramificazioni in Veneto ed a Verona, sin dal lontano 2014. Ora sembrano giungere notizie confortanti che, probabilmente, nei prossimi mesi potrebbero rivelarsi degli tzunami per alcuni ambienti legati alla politica, al mondo imprenditoriale, ai colletti bianchi, alla massoneria deviata e, addirittura a uomini di Chiesa. Ce lo rivela un altro collaboratore di giustizia… (n.d.r.)

Nicola Grande Aracri decide di parlare col procuratore anti mafia Gratteri

di Felice Manti

«Nicolino Grande Aracri si è pentito? Che bella notizia. Ora spero lo proteggano mandandolo all’estero con una nuova identità, a lui e alla sua famiglia. Perché presto le Regioni rosse esploderanno». Al telefono con il Giornale c’è Luigi Bonaventura, pentito di ‘ndrangheta dell’omonima cosca, colui che fece scattare la prima condanna all’ergastolo per il capo del clan che dettava legge a Cutro, nell’intera Calabria centro-settentrionale e soprattutto tra Toscana, Umbria ed Emilia Romagna. L’annuncio della collaborazione della giustizia del potente boss da oltre un mese – notizia che ha colto di sorpresa il suo legale Gregorio Aversa («Decisione personale, ne ero all’oscuro») è decisiva nella lotta alla ‘ndrangheta soprattutto nelle sue ramificazioni nel Centro Italia, come confermano le sentenze del processo AEmilia per cui Grande Aracri è all’ergastolo al 41bis e i guai giudiziari del braccio destro del governatore toscano del Pd Eugenio Giani, sfiorato da un’indagine per ‘ndrangheta.

Nella potente organizzazione calabrese, ramificata ormai in tutto il mondo, il boss crotonese Nicolino ha (anzi, aveva) un ruolo fondamentale. Ha deciso di consegnarsi al suo peggior nemico, Nicola Gratteri, l’unico forse in grado di soppesare e valutare gli indicibili segreti che Nicolino detto manu i gumma custodisce da più di 40 anni. «Era il capo delle ‘ndrine di Catanzaro, Cosenza, Crotone e di una parte di Vibo – dice Bonaventura al telefono – il suo pentimento rischia di distruggere buona parte del potere dei clan. Soprattutto per quanto riguarda i rapporti con massoneria, colletti bianchi, Chiesa e politica». Continua a leggere

Covid, l’Italia ha nascosto tutto. Der Spiegel all’attacco: Conte rischia il processo del secolo

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“Prima è arrivato il virus, poi l’occultamento”. Ci va giù duro il tedesco Der Spiegel che dedica alla gestione dell’Italia della pandemia un lungo report che passa in rassegna omissionierrori e forse di più da parte del governo.

“Le accuse sono gravi: l’Italia ha reagito troppo tardi e in modo errato alla pandemia – si legge nell’articolo firmato da Jan Petter e Alessandro Puglia –  Il Paese è stato travolto, anche perché i piani di crisi erano obsoleti e inadeguati. Gli errori sono stati tenuti segreti. Era per questo che le persone dovevano morire? Genitori, nonni, coniugi?”, è la domanda retorica che risuona nell’articolo del settimanale tedesco lanciato online.

In Italia alcune procure, tra cui quella di Bergamo, indagano o hanno indagato sull’operato del governo, a partire dalla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro. “L’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo ministro della Salute sono già stati interrogati, e da mesi stanno venendo alla luce nuove omissioni. Non si tratta più solo di singoli casi tragici, ma di fallimenti fondamentali e di insabbiamenti. L’ufficio del pubblico ministero deciderà a breve se e contro chi sporgere denuncia. Potrebbe essere un processo del secolo“, si legge su Der Spiegel.

Sul tavolo anche il clamoroso caso del piano pandemico italiano.  “Non era stato aggiornato dal 2006, anche se il governo italiano si è impegnato e ha riferito all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) solo poche settimane prima dello scoppio della pandemia corona che era ben preparato per un’emergenza – ricorda il settimanale – Già nel maggio 2020, tuttavia, l’OMS ha affermato: ‘Senza essere preparati a una tale marea di pazienti malati, la prima reazione degli ospedali è stata improvvisata, caotica e creativa‘”. Qualcuno dovrà risponderne.

DA

https://www.iltempo.it/politica/2021/03/22/news/covid-giuseppe-conte-der-spiegel-accuse-errori-occultamento-virus-italia-processo-morti-inchiesta-procura-bergamo-roma-26625811/#.YFhxv5TE-lk.twitter

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