Maternità surrogata, morte del genitore biologico e trascrizione automatica dell’atto di nascita

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di Mauro Paladini

 

Una discutibile decisione del Tribunale di Milano.

  1. Il caso

Il problema del riconoscimento in Italia dello status di genitori, ottenuto all’estero mediante la pratica di surrogazione di maternità, si è recentemente posto in un caso deciso dal Tribunale di Milano, particolarmente interessante sia per la peculiarità della fattispecie sia per la soluzione a cui i Giudici pervengono. Si trattava di una surrogazione di maternità realizzata negli Stati Uniti da una coppia di uomini, l’uno cittadino italiano e l’altro con doppia cittadinanza italiana e statunitense, che aveva contratto matrimonio a New York e aveva successivamente trascritto nel Comune italiano di residenza tale matrimonio come unione civile, in seguito all’entrata in vigore della legge n. 76/2016.

Il minore veniva registrato in Italia come figlio del solo cittadino italiano, posto che soltanto nei confronti di quest’ultimo sussisteva il legame biologico. Tuttavia, il genitore biologico decedeva nel 2022. Su ricorso dei genitori del defunto e con il consenso della sorella, il Giudice Tutelare di Milano nominava tutore il c.d. genitore intenzionale, il quale proponeva successivamente ricorso al Tribunale per ottenere la rettifica dell’atto di nascita del minore, sulla base del certificato di nascita americano recante la doppia paternità, deducendo l’illegittimità e la contrarietà all’interesse del minore dell’originaria trascrizione nella parte in cui non riportava l’indicazione anche del “genitore d’intenzione”.

Il Tribunale di Milano si è pronunziato con il Decreto 24/4/2023 n. 562, accogliendo il ricorso e ordinando all’Ufficiale di Stato Civile di trascrivere integralmente nei registri dello stato civile l’atto di nascita del minore con l’indicazione quale genitore anche del genitore “intenzionale” ricorrente.

  • Il diritto vivente in punto di adozione in casi particolari del nato da surrogazione di maternità.

Com’è noto – esaminando il problema del riconoscimento dell’atto di nascita formato all’estero in Stati in cui la maternità surrogata è ritenuta lecita – le Sezioni Unite n. 38162 del 2022[1] hanno escluso che il rapporto di genitorialità possa essere automaticamente riconosciuto nei confronti del genitore privo di alcun legame biologico col minore, posto che la surrogazione di maternità è “una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donnae mina nel profondo le relazioni umane”[2] e deve ritenersi, pertanto, contraria all’ordine pubblico.

Nonostante affermazioni così nette, tuttavia, le SU n. 38162/22 hanno confermato il precedente orientamento[3] per cui il rapporto di filiazione col genitore non biologico può essere comunque costituito col procedimento di adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, lett. d), legge n. 184/83. È vero, infatti, che la disciplina dell’adozione in casi particolari richiede, ai fini del perfezionamento della procedura, l’assenso del genitore biologico (art. 46, legge n. 184 del 1983) il quale potrebbe non prestarlo in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, ma occorre tuttavia considerare – avverte la Suprema Corte – che, qualora l’assenso sia negato, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunciare ugualmente l’adozione.

Secondo questa interpretazione, è possibile, quindi, superare il dato letterale della norma dell’art. 46 (che parrebbe attribuire rilevanza ostativa al dissenso del genitore biologico), affidando al giudice la soluzione del contrasto tra genitore biologico e genitore intenzionale, mediante la valutazione in concreto dell’interesse del minore. Il rifiuto dell’assenso all’adozione da parte del genitore biologico può essere ragionevole, quindi – ad avviso della Suprema Corte – soltanto in casi eccezionali, ad esempio nell’ipotesi in cui il richiedente non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore.

In definitiva, pur negando del tutto correttamente la trascrizione automatica dell’atto di nascita formato all’estero, la decisione delle Sezioni Unite spalanca le porte all’instaurazione del rapporto genitoriale col genitore non biologico attraverso un’interpretazione metaletterale delle norme sull’adozione in casi particolari, che finirà col rendere in concreto marginale l’eventualità che tale rapporto non venga riconosciuto dai tribunali.

Anche la recente pronuncia della CEDU del 31 agosto 2023[4] – emessa in una vicenda di maternità surrogata compiuta da cittadini italiani, ai quali era stata successivamente negata la trascrizione dell’atto di nascita sia nei confronti del padre biologico sia della “aspirante” madre – ha sostanzialmente avallato la soluzione delle Sezioni Unite, affermando che, da una parte, l’art. 8 della Convenzione richiede che il diritto interno preveda la possibilità di riconoscimento del rapporto giuridico tra il bambino e il padre biologico, ma che, invece, rispetto al c.d. genitore intenzionale la scelta dei mezzi con cui consentire il riconoscimento del rapporto giuridico con l’aspirante genitore rientra nella discrezionalità degli Stati. La Convenzione non impone, quindi, alcun riconoscimento automatico del rapporto genitoriale con colui che sia privo di vincolo biologico; di conseguenza, la via dell’adozione particolare – indicata dalla giurisprudenza italiana – non viola alcun diritto né del nato né dell’aspirante genitore.

  • La decisione del Tribunale di Milano.

Orbene, nel descritto contesto normativo e giurisprudenziale, il Tribunale di Milano – dopo aver riportato ampi passaggi della motivazione delle Sezioni Unite n. 38162 del 2022 ed aver preso atto, quindi, del “diritto vivente” relativo alla necessità di instaurare un procedimento di adozione in casi particolari (ex art. 44, lett. d, legge n. 184/83) per la costituzione dello status filiationis col genitore non biologico – ritiene che, nel caso in esame, l’impossibilità di ottenere il consenso del genitore biologico, a causa della sua prematura morte, consenta di pervenire direttamente alla trascrizione integrale dell’atto di nascita formato all’estero. In altri termini, l’impossibilità di ottenere il consenso del genitore biologico deceduto consente al genitore non biologico di aggirare il procedimento adottivo e di ottenere la trascrizione diretta dell’atto di nascita formatosi all’estero.

Non potrebbe il consenso – afferma il Tribunale – essere manifestato dagli eredi del genitore deceduto, posto che “il consenso/dissenso è un diritto personalissimo che non può certo trovare equipollenti nel consenso degli eredi del genitore defunto e che non può, peraltro, neppure essere desunto dal solo consenso originariamente prestato al percorso procreativo di maternità surrogata che potrebbe anche prescindere da un successivo progetto di condivisione di vita e di crescita di quel minore”. Di conseguenza, il Tribunale trae dall’impossibilità di espressione del consenso del genitore nell’ambito del procedimento adozione la conseguenza della stessa inutilità del procedimento di adozione e dell’ammissibilità della trascrizione diretta dell’atto di nascita.

Si tratta di una conclusione, tuttavia, per molti aspetti criticabile.

a) Anzitutto, il Tribunale di Milano non tiene conto del dettato normativo dell’art. 46, comma 2, ultima parte, legge n. 184 del 1983, che prevede che «…Parimenti il tribunale può pronunciare l’adozione quando è impossibile ottenere l’assenso per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo»: sebbene la nozione di morte sia diversa da quella di incapacità, sarebbe assai meno avulsa dal dato normativo un’interpretazione dell’art. 46 che estendesse il concetto di “incapacità” a quello di “impossibilità”, in modo da ricomprendere anche l’estrema ipotesi della morte del genitore. D’altra parte, si è sopra illustrato come le Sezioni Unite, nel riconoscere il sindacato del giudice in caso di dissenso ingiustificato del genitore biologico, abbiano adottato un’interpretazione dell’art. 46 tutt’altro che letterale e conforme alle originarie intenzioni del legislatore.

b) In secondo luogo, la soluzione del Tribunale di Milano finisce col disporre la trascrizione diretta dell’atto di nascita, senza sindacato in ordine all’interesse del minore, proprio nell’ipotesi in cui, stante la mancanza fisica del genitore biologico, tale sindacato dovrebbe essere più approfondito nella direzione della verifica del progetto genitoriale, dell’avvenuta instaurazione della relazione affettiva e della sussistenza, in definitiva, dell’interesse del minore all’instaurazione del rapporto di filiazione.

c) Inoltre, la trascrizione diretta dell’atto di nascita è proprio quell’esito che – secondo i principi affermati da SU n. 38162 del 2022 – è contraria all’ordine pubblico, sicché non si comprende la ragione per cui, in nome dell’interesse del minore, nella situazione di maggiore fragilità di quest’ultimo, l’opzione interpretativa sia proprio quella categoricamente “bocciata” dalle Sezioni Unite[5].

d) Infine, non può non notarsi il paradosso logico della decisione del Tribunale di Milano. Infatti, il dissenso eventualmente espresso dal genitore biologico può essere oggetto di valutazione da parte del giudice, il quale, in funzione dell’interesse del minore, può addivenire a una decisione difforme dalla volontà del genitore biologico; al contrario, ove tale consenso o dissenso non possa essere espresso, si prescinde completamente da ogni valutazione e si conclude aprioristicamente per la conformità all’interesse del minore (il quale, altrimenti – si legge nel decreto – “resterebbe allo stato privo di genitori, di fatto orfano”) dell’automatica costituzione del rapporto genitoriale col genitore “d’intenzione”.

e) Nella parte finale della pronuncia si nota, peraltro, una sorta di aperto dissenso nei confronti di tale intervento nomofilattico, poiché il Tribunale espressamente afferma una “condizione di vuoto normativo”, negata invece dai Supremi Giudici, e si conclude la motivazione definendo la trascrizione dell’atto di nascita straniero «l’unica modalità di approntare, anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale, una risposta che assicuri al minore nato da maternità surrogata una posizione di tutela dei propri diritti costituzionali di figlio non deteriore rispetto ai diritti della donna gestante e dell’adottato che, nell’attuale contesto normativo, non può che essergli assicurato se non con la trascrizione dell’atto di nascita».

In definitiva, una decisione non soltanto discutibile sul piano dell’itinerario logico-giuridico, ma chiaramente ostile al diritto vivente, così come, a torto o a ragione, configurato dalla giurisprudenza di legittimità, e che dimostra la necessità che il legislatore sancisca limiti ancor più netti, per contenere e respingere la pratica della maternità surrogata, di cui non si sottolineano mai abbastanza gli aspetti della mercificazione e dello sfruttamento economico del corpo umano e, di conseguenza, la grave violazione dei diritti fondamentali della donna e del bambino.

 

Articolo completo: Maternità surrogata, morte del genitore biologico e trascrizione automatica dell’atto di nascita (centrostudilivatino.it)

Depistaggio sull’origine del Covid: Fauci “in segreto” nella sede CIA

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di Federico Punzi

Ha partecipato all’indagine dell’Agenzia per influenzarne le conclusioni spingendo per l’origine naturale. I finanziamenti a Wuhan e la falsa testimonianza al Congresso

Il Congresso Usa la commissione sulla pandemia Covid l’ha istituita davvero, pochi giorni dopo l’inizio della legislatura, e non si è fatto limitare l’ambito di indagine da una conferenza stampa del presidente Biden. Ebbene, la Commissione ha scoperto che il dottor Anthony Fauci, all’epoca direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e membro della task force presidenziale per l’emergenza Covid, è stato accompagnato in segreto nel quartier generale della CIA, dove ha “partecipato all’analisi” per “influenzare” l’indagine dell’Agenzia sulle origini del Covid-19.

Che vuol dire in segreto? Che è stato fatto entrare “senza una registrazione di ingresso”. Il presidente della Commissione, Brad Wenstrup, ha chiesto all’ispettore generale del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, documenti, comunicazioni e altre prove dei contatti tra Fauci e la CIA.

Ora, i contatti tra il virologo e la CIA sono interessanti perché proprio Fauci ha promosso la stesura di “Proximal Origin”, il famigerato documento utilizzato per bollare come teoria del complotto l’ipotesi della fuga di laboratorio.

 

Trattato come una rockstar

Secondo una inchiesta di Michael Shellenberger, Matt Taibbi e Alex Gutentag, Fauci avrebbe screditato la tesi della fuga di laboratorio e “spinto” invece il controverso articolo “Proximal Origin” durante le riunioni della CIA, del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca. “Le opinioni degli esperti di Fauci sono state prese in significativa considerazione e facevano parte della nostra valutazione classificata”, ha spiegato un agente CIA decorato e con esperienza in Asia. “La sua opinione ha sostanzialmente modificato le conclusioni che sono state successivamente tratte”.

La stessa fonte conferma che Fauci è stato fatto entrare e uscire dalla sede CIA senza registrazione e che veniva per “promuovere la tesi dell’origine naturale”. “Sapeva cosa stava succedendo. Si stava parando il culo e stava cercando di farlo con la comunità di Intelligence. So che è venuto più volte ed è stato trattato come una rockstar“.

Fauci e la CIA potrebbero aver collaborato ad un vero e proprio insabbiamento e depistaggio sulle origini del Covid ai danni del pubblico americano ma anche delle autorità politiche del loro Paese. Tra aprile e maggio 2020 l’allora presidente Donald Trump accennò al virus prodotto nel laboratorio di Wuhan, ma la tesi era già stata screditata da Fauci nel governo.

 

Corrotti sei analisti

Contatti preoccupanti, osserva la Commissione della Camera, anche alla luce delle recenti testimonianze di informatori secondo cui la CIA avrebbe corrotto sei analisti, con “significativi incentivi monetari”, per modificare le loro conclusioni sull’origine del Covid-19, dalla fuga da un laboratorio cinese alla trasmissione da un animale.

Secondo un informatore di “alto livello” della CIA, l’Agenzia “ha cercato di ricompensare sei analisti che avevano scoperto che il SARS-CoV-2 probabilmente aveva avuto origine in un laboratorio di Wuhan, se avessero cambiato posizione e avessero affermato che il virus era passato dagli animali all’uomo”. Al termine dell’analisi, sei dei sette membri del team ritenevano che l’intelligence e la scienza fossero “sufficienti per effettuare una valutazione con basso grado di certezza che il Covid-19 provenisse da un laboratorio a Wuhan, in Cina”, si legge nella lettera di Wenstrup. “Il settimo membro della squadra, il più anziano, era l’unico a credere che avesse avuto origine per zoonosi”.

L’informatore sostiene, si legge inoltre nella lettera, che “per arrivare alla decisione pubblica finale di incertezza, agli altri sei membri sia stato dato un significativo incentivo monetario per cambiare la loro posizione”, specificando che gli analisti erano “funzionari esperti con significative competenze scientifiche”.

 

I rapporti Fauci-CIA

Come si legge nel comunicato di martedì della Commissione:

La discutibile presenza del dottor Fauci alla CIA, insieme alle prove recentemente scoperte secondo cui il dottor Fauci “ha spinto” la stesura di “Proximal Origin” – il famigerato documento utilizzato per tentare di “confutare” la teoria della fuga di laboratorio – dà credito alle crescenti preoccupazioni circa la promozione di una falsa narrazione sulle origini del Covid-19 da parte di più agenzie governative federali. Il presidente Wenstrup sta cercando tutti i documenti e le comunicazioni relativi all’accesso del dottor Fauci alle strutture della CIA e ai dipendenti della CIA in relazione a queste accuse. Inoltre, dopo essere venuto a conoscenza di ulteriori informazioni, il Sottocomitato ristretto chiede all’agente speciale Brett Rowland di comparire per un’intervista trascritta riguardante i presunti movimenti del dottor Fauci da e verso la CIA. Poiché le prove crescenti continuano a suggerire che i funzionari del governo federale abbiano nascosto le origini del Covid-19, indagare su qualsiasi influenza impropria garantirà la futura responsabilità non solo della comunità dell’Intelligence, ma anche dei funzionari della sanità pubblica.

 

Cosa bisognava nascondere

Ma perché il dottor Fauci e la CIA avrebbero dovuto collaborare ad un depistaggio sulle origini del Covid. Perché, come abbiamo riportato su Atlantico Quotidiano già nel settembre 2021, il laboratorio di Wuhan da cui il virus è uscito è stato indirettamente finanziato dal National Institutes of Health (NIH), tramite la EcoHealth Alliance di Peter Daszak, dal 2014 al 2020, con un importo di 600.000 dollari, per “studiare la trasmissione dei coronavirus dai pipistrelli all’uomo”, nonostante si conducessero notoriamente ricerche di guadagno di funzione (potenziamento dei virus, per renderli più infettivi per l’uomo), sottoposte a moratoria dall’amministrazione Obama.

Solo di recente il NIH ha ammesso che “l’Istituto di Virologia di Wuhan ha condotto un esperimento che ha violato i termini dell’accordo di finanziamento per quanto riguarda l’attività virale e che potrebbe causare problemi sanitari e altri esiti inaccettabili”.

Gli ex direttori del NIAID e del NIH, Fauci e Collins, “hanno ripetutamente mentito – consapevolmente, volontariamente e sfacciatamente – su questo argomento”, ha scritto su Twitter il prof. Richard H. Ebright:

Hanno mentito perché avevano finanziato la ricerca sul guadagno di funzione e potenziato la ricerca su potenziali agenti pandemici a Wuhan. Hanno anche mentito perché avevano violato in modo illecito le politiche del governo Usa per finanziare la ricerca, violando la moratoria sulla ricerca sul guadagno di funzione in vigore nel 2014-2016 e violando il requisito del rapporto rischio-beneficio della ricerca ePPP in vigore dal 2017. Il loro finanziamento ad una ricerca sconsiderata e il loro comportamento illecito nel violare le politiche del governo Usa, hanno probabilmente causato la pandemia di Covid-19 e probabilmente hanno ucciso più di 20 milioni di persone e sono costati più di 25 trilioni di dollari.

 

Falsa testimonianza al Congresso

Il dottor Fauci ha negato persino davanti al Congresso, tanto da essere stato deferito al Dipartimento di Giustizia, nell’agosto scorso, dal senatore Repubblicano Rand Paul per aver presumibilmente mentito sotto giuramento: “Non esiste caso di spergiuro più evidente nella storia delle testimonianze governative di quello di Fauci”.

L’ex direttore del NIAID “ha affermato categoricamente che il governo non ha mai finanziato questa ricerca sul guadagno di funzione”, ha spiegato il senatore Paul a Fox News. “Ora abbiamo il Government Accountability Office che ha ammesso che il finanziamento proveniva dal NIH” e “il direttore ad interim del NIH, Lawrence Tabak, che ammette per iscritto che proveniva dal NIH”.

 

Le e-mail

La “smoking gun”, secondo Paul, è che “Fauci in privato diceva l’opposto di ciò che ha detto in pubblico, quando mi ha detto che assolutamente non finanziamo la ricerca sul guadagno di funzione in Cina”. “In privato dice sospettiamo che il virus sia stato manipolato e siamo sospettosi perché sappiamo che stanno facendo ricerche sul guadagno di funzione. Poi prosegue descrivendo la ricerca, ed è esattamente la ricerca finanziata dal NIH”.

Il senatore si riferiva ad una e-mail del febbraio 2020 in cui Fauci descriveva dettagliatamente una chiamata con il ricercatore britannico Jeremy Farrar, all’epoca direttore del Wellcome Trust. Secondo Fauci, i partecipanti alla chiamata della task force, tra cui Francis Collins, ex direttore del NIH, e altri scienziati “altamente credibili” con esperienza in biologia evoluzionistica, avevano espresso preoccupazione per il “fatto che, dopo aver visto le sequenze di diversi isolati di nCoV, c’erano mutazioni nel virus che sarebbe stato molto insolito che si fossero evolute naturalmente nei pipistrelli e c’era il sospetto che questa mutazione fosse stata inserita intenzionalmente“.

“Sospetto accresciuto dal fatto che gli scienziati dell’Università di Wuhan sono noti per aver lavorato a esperimenti di guadagno di funzione per determinare i meccanismi molecolari associati ai virus dei pipistrelli che si adattano alle infezioni umane, e l’epidemia ha avuto origine a Wuhan”, scriveva Fauci.

 

Articolo completo: Depistaggio sull’origine del Covid: Fauci “in segreto” nella sede CIA (nicolaporro.it)

 

Ascesa e declino del re delle virostar, Anthony Fauci

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di Gianluca Spera,

Stella sempre più cadente: il suo approccio basato su chiusure e mascherine smentito da nuovi studi, mentre si aggiungono accuse di depistaggio sull’origine del virus

 

Chissà se il ricordo dell’era pandemica influirà sull’esito delle elezioni presidenziali americane del novembre 2024. Certo, se in Italia a sinistra si è provato a costruire una nuova egemonia culturale, anche negli States sul virus venuto della Cina si è imbastita una narrazione politica martellante con cui è creata una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi, responsabili e incoscienti, obbedienti e “negazionisti”.

A dominare in modo preponderante la scena è stato senza dubbio il dottor Anthony Fauci, ricevuto alla CIA “come una rockstar”, secondo il racconto di un agente dell’Intelligence. Eppure, la stella di Fauci è sempre più cadente mentre le sue teorie vacillano di fronte alle più recenti evidenze scientifiche.

Le luci della ribalta

Già, qualche tempo fa, la rivista Newsweek gli aveva rinfacciato una serie di errori commessi quando suggeriva prima a Trump e poi a Biden il catalogo di restrizioni per affrontare l’epidemia (ne abbiamo dato conto su Atlantico Quotidiano lo scorso 11 marzo).

Nominato da The Donald a capo della task force sanitaria, ha conservato e rafforzato i suoi poteri con Biden che lo nominò consigliere medico capo del presidente. Con Trump i rapporti sono stati segnati da frequenti contrasti anche sotto la spinta di una parte del partito repubblicano che mal digeriva le misure estreme come lockdown e chiusure.

Col cambio di guardia alla Casa Bianca, Fauci si è preso tutto il palcoscenico mostrando una maggiore affinità con il presidente democratico. La fama dell’immunologo non si è fermata in America. L’approccio draconiano non poteva non essere apprezzato alle nostre latitudini.

Tanto è vero che, nel maggio 2022, l’allora ministro Roberto Speranza, nell’annunciare in maniera altisonante la creazione di un hub italiano contro le pandemie, comunicò pure che il nuovo centro avrebbe annoverato tra i suoi collaboratori Fauci (poi insignito di una laurea honoris causa dall’Università di Siena). Insomma, ci siamo ritrovati davanti ad una specie di totem da venerare, il cui verbo infallibile non poteva essere contestato pena una sicura scomunica.

Le ombre

Ebbene, dietro tanta gloria, cominciano ad addensarsi altrettante ombre. Non bastano le discutibili teorie (poi messe in pratica) sulla massiccia e generalizzata campagna di vaccinazione, sul richiamo ossessivo all’uso delle mascherine o sulla necessità di chiudere le scuole. A tal proposito, bisognerebbe contrapporgli i risultati diramati dall’Agenzia governativa per la sicurezza sanitaria del Regno Unito che ha certificato come siano carenti le prove circa l’efficacia degli NPI (interventi non farmaceutici) nel ridurre la trasmissione del virus.

In altre parole, i lockdown, le chiusure prolungate degli istituti scolastici, le restrizioni legate ai viaggi, le mascherine, l’isolamento dei positivi sono misure che non hanno apportato un significativo contributo al contrasto dell’epidemia. Per rintracciare questo studio così importante (e forse anche tardivo) è sufficiente consultare il sito del governo inglese. Naturalmente, pochi hanno dato la giusta rilevanza a delle conclusioni che ribaltano completamente il credo pandemico tanto caro a Fauci e ai suoi seguaci.

Il depistaggio

Peraltro, per l’immunologo americano i grattacapi non finiscono qui. Ora, torna in ballo un argomento piuttosto scivoloso: quello sull’origine del virus che ha provocato la cinesizzazione delle democrazie occidentali. La questione insegue da tempo Fauci che aveva tacciato di cospirazionismo tutti coloro che sostenevano l’ipotesi della fuga dal laboratorio di Wuhan.

Su questi malcapitati si abbatté perfino la censura a mezzo social con gli zelanti fact-checkers, guardiani del politicamente corretto e delle tesi filo governative, a segnalare i pericolosi complottisti che inondavano – a loro dire – l’etere di fake-news. Chi usciva dallo stretto recinto del pandemicamente consentito veniva subito bannato e messo all’indice.

Adesso, invece, la Commissione sulla pandemia istituita dal Congresso degli Stati Uniti ha raccolto una serie di elementi che indicano come il dottor Fauci abbia provato a indirizzare l’indagine sull’origine del virus sostenendo la tesi contraria alla fuga del laboratorio di Wuhan. Si parla anche di incontri non ufficiali (cioè senza registrazione all’ingresso) presso gli uffici della CIA in cui lo stesso Fauci avrebbe caldeggiato con vigore la sua teoria sull’origine naturale del Covid. La questione è già stata trattata con dovizia di particolari da Federico Punzi.

Manipolazione

Perciò, non resta che evidenziare quello che appare un aspetto assai inquietante di questa vicenda. La Commissione ha scritto un documento nel quale ha espresso la sua profonda preoccupazione circa “la promozione di una falsa narrazione sulle origini del Covid-19”. Da quello che sta emergendo, lo storytelling farlocco ha riguardato anche altro, in particolare tutti i teoremi non dimostrati e non dimostrabili sulla base dei quali si è lacerato il tessuto civile delle società occidentali e si è sospeso il normale corso delle nostre democrazie.

Al di là di quelle che saranno le conclusioni della Commissione, si confermano tutti i timori di chi ha denunciato in presa diretta la deplorevole polarizzazione delle posizioni scaturita dai comandamenti sanitari, l’incredibile manipolazione della popolazione attraverso la grancassa dell’informazione mainstream e, da ultimo ma non in ordine di importanza, la subordinazione delle libertà individuali a deboli precetti sanitari privi di supporto scientifico. Di questo parliamo quando parliamo ancora di Covid. Con buona pace dei nostalgici sacerdoti dell’ortodossia sanitaria che ancora pontificano dalle loro cattedre ormai traballanti.

 

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LA MATERNITÀ SURROGATA COME REATO UNIVERSALE: COMPRENDERE PRIMA DI VALUTARE

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

Sommario: 1- Premessa. 2- La tutela dei minori 3-La valutazione sulla surrogazione di maternità. 4-La modifica prevista dal disegno di legge. 5- Le caratteristiche del reato universale. 6-Conclusioni

di Cesare Parodi
Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Torino

1. Premessa

La valutazione sulla modifica del reato di maternità surrogata – che si vorrebbe trasformare in “reato universale” – inevitabilmente risente dell’approccio ideologico e culturale al problema; una questione che non può essere affrontata correttamente senza una disamina del quadro normativo e delle interpretazioni fornite dalla Corte Costituzionale, dalla Cassazione e dalle autorità europee sul tema.

Il significato di questo breve contributo è esattamente questo. Prima di esprimere valutazioni personali – indubbiamente tutte legittime- sul significato sociale prima ancora che giuridico della maternità surrogata è indispensabile individuare con chiarezza le posizioni ufficiali sull’argomento – a livello nazionale e internazionale – al fine di comprendere se forme di intervento su quella che è la realtà del settore siano giustificate e condivisibili anche laddove riguardino condotte che non avvengono sul territorio nazionale.

Per chiarezza, occorre ricordare che la surrogazione di maternità non solo è fenomeno differente dalla fecondazione eterologa, ma non è fenomeno univoco, in quanto può assumere due forme distinte:

  • surrogazione di concepimento e di gestazione, quando una donna demanda a un’altra donna sia la produzione di ovociti, sia la gestazione, non fornendo alcun apporto biologico
  • surrogazione di gestazione, nella quale l’aspirante madre produce l’ovocita il quale, una volta fecondato dallo spermatozoo, viene impiantato nell’utero di un’altra donna che fungerà esclusivamente da gestante.

2. La tutela dei minori

E’ necessario premettere un aspetto che- almeno apparentemente- risulta condiviso: la assoluta, prioritaria, imprescindibile tutela dei minori “frutto” di tali pratiche.  Un concetto che è stato ribadito – se mai ce ne fosse stato bisogno – dalle S.U. della S.C.[1], per la quale il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla gestazione per altri e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto assoluto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, volto a tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione non solo soggettiva, ma anche oggettiva; ne consegue che, in presenza di una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non è consentito al giudice, mediante una valutazione caso per caso, escludere in via interpretativa la lesività della dignità della persona umana e, con essa il contrasto con l’ordine pubblico internazionale, anche laddove la pratica della surrogazione di maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino.

In tale occasione la S.C. ha precisato che « anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d)».

Indicazioni univoche sul punto giungono anche dalla Corte Costituzionale. Al proposito, la sentenza 32/2021 richiama la sentenza 347/1998, nella quale si evidenziava l’urgenza d’individuare idonei strumenti di tutela del nato a seguito di fecondazione assistita (situazione per vari aspetti assimilabile a quella della maternità surrogata), soprattutto in relazione «ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendosene le relative responsabilità».  Proprio in conseguenza di questa esigenza il legislatore, agli artt. 8 e 9 della l. 40/2004, ha previsto che il consenso alla P.M.A. determina l’effetto per chi lo abbia prestato di divenire responsabile nei confronti del nato quale destinatario naturale dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico e ciò sebbene il dato della provenienza genetica non costituisca un imprescindibile requisito della famiglia (Corte Cost., n. 162/ 2014; n. 272/2017).

E’ considerato determinante «il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche in contrasto con la verità biologica» (Corte Cost., n. 127/2020).

Anche la sentenza 33/2021, con oggetto la valutazione della violazione dei principi di cui agli art. 12, comma 6, l 40/2004, (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), fa proprie in larga misura le preoccupazioni espresse da altre decisioni in ordine all’esigenza di assicurare al minore il diritto a un inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, segnalando il rischio di situazioni d’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti che non hanno determinato la condizione filiale in cui versano.

Sul punto, si segnala anche l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU che afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del «legame di filiazione» (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (sentenza Mennesson contro Francia, paragrafo 100; sentenza D. contro Francia, paragrafo 64).

La menzionata sentenza delle S.U., inoltre, segnala l’opportunità di affidare il riconoscimento della genitorialità a strumenti adeguati in grado di tutelare i minori, che non possono di certo essere quelli automatici. «L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore…..non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale». Una diversa soluzione «porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata».

Pare chiaro che su questo aspetto non vi possono essere esitazioni. Tutti i minori – quale che siano state le circostanze del loro concepimento e della loro gestazione- hanno diritto a una condizione assolutamente paritaria, sotto tutti i profili.

3. La valutazione sulla surrogazione di maternità

Vediamo, allora, se esiste una valutazione sulla surrogazione di maternità espressa a prescindere dai condizionamenti culturali e ideologici dei singoli.

Anche sul punto, deve essere riportata la valutazione delle S.U. della S.C. (si tratta, come è evidente, dalla più autorevole espressione a livello giurisdizionale); la decisione sottolinea la volontà di disincentivare il ricorso alla maternità surrogata, una pratica che per i giudici di legittimità «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo». Sul punto, la S.C. osserva che il riconoscimento mediante delibazione o trascrizione del provvedimento straniero «finirebbe per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante», aggiungendo che detto automatismo non sarebbe neppure funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, «attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi» (p. 51).

Le Sezioni unite, nel richiamare la sentenza numero 79/2022 della Corte costituzionale, hanno messo in evidenza che la fecondazione eterologa va tenuta distinta dalla maternità surrogata: nel caso di quest’ultima, infatti, “la genitorialità giuridica non può fondarsi sulla volontà della coppia” perché “dalla disciplina degli articoli 8 e 9 della legge 40 del 2004 non possono trarsi argomenti per sostenere l’idoneità del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternità”.

Sul tema la Corte Costituzionale (sentenza 272/2017) ha affermato che il desiderio di genitorialità attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita o alla gestazione per altri, «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” e non può legittimare un illimitato diritto alla genitorialità».

Indicazioni sostanzialmente non difformi sono reperibili anche a livello europeo; il 17 dicembre 2015, nel corso dell’Assemblea plenaria del Parlamento europeo, è stata approvata la Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014, sulla politica dell’Unione Europea in materia, di cui alla risoluzione 2015/2229 (INI); la Relazione contiene un emendamento che stabilisce che il Parlamento europeo «condanna la pratica della maternità surrogata, che mina la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce; considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani» a disposizione dell’Unione europea nel dialogo con i Paesi terzi.

Anche recentemente il Parlamento Europeo ha ribadito la sua posizione nei confronti della pratica della maternità surrogata; il 5 maggio 2022 sono stati pubblicati tutti i testi approvati da tale organo, tra i quali è presente il documento che riguarda la risoluzione sull’impatto della guerra contro l’Ucraina sulle donne, al cui interno è possibile trovare la posizione chiara del Parlamento nei confronti della maternità surrogata. Al proposito il Parlamento Europeo:

«13. condanna la pratica della maternità surrogata, che può esporre allo sfruttamento le donne di tutto il mondo, in particolare quelle più povere e in situazioni di vulnerabilità, come nel contesto della guerra; chiede che l’UE e i suoi Stati membri prestino particolare attenzione alla protezione delle madri surrogate durante la gravidanza, il parto e il puerperio e rispettino tutti i loro diritti nonché quelli dei neonati;

14. sottolinea le gravi ripercussioni della maternità surrogata sulle donne, sui loro diritti e sulla loro salute, le conseguenze negative per l’uguaglianza di genere nonché le sfide derivanti dalle implicazioni transfrontaliere di tale pratica, come è avvenuto nel caso delle donne e dei bambini colpiti dalla guerra contro l’Ucraina; chiede che l’UE e i suoi Stati membri analizzino le dimensioni di tale industria, il contesto socioeconomico e la situazione delle donne incinte, nonché le conseguenze per la loro salute fisica e mentale e per il benessere dei neonati; chiede l’introduzione di misure vincolanti volte a contrastare la maternità surrogata, tutelando i diritti delle donne e dei neonati»

Ancora, il 18 marzo 2016, il Comitato nazionale per la bioetica, organo di consulenza al Governo, al Parlamento e alle altre istituzioni, ha approvato una mozione con la quale definisce la maternità surrogata come « un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione », ritenendo che «l’ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i princìpi bioetici fondamentali ».

Alla luce di tali indicazioni, si può ragionevolmente affermare che – allo stato- è rilevabile un giudizio autorevole, ampiamente condiviso, negativo sulla maternità surrogata, proprio in relazione alla condizione della donna e allo sfruttamento e alla lesione della dignità della stessa.

4. La modifica prevista dal disegno di legge.

La legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita», all’articolo 12, comma 6, prevede che «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Il disegno di legge 306[2] prevede che all’articolo 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il reato di surrogazione di maternità è perseguibile anche quando è commesso in territorio estero da un cittadino italiano».

La finalità è chiara: al momento la legge non sanziona le condotte commesse dai cittadini fuori dal territorio nazionale, così che le coppie interessate stipulano contratti di maternità surrogata all’estero, nei paesi in cui tale pratica è lecita. Sul presupposto della non illeceità del fatto commesso all’estero, può essere, in seguito richiesto il riconoscimento dei minori, considerando la necessità di tutelare – ovviamente – i diritti di questi ultimi.

Proprio considerando il giudizio negativo espresso – come sopra ricordato- sulla maternità surrogata dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale, si ritiene necessario integrare l’attuale disciplina prevista dalla Legge numero 40/2004 estendendo il divieto e la sanzione penale anche alle condotte commesse all’estero.

5. Le caratteristiche del reato universale

Numerose e varie sono le critiche che si sono levate nei confronti della prospettiva di trasformare il delitto in oggetto in reato universale.

In estrema sintesi si assume:

  • che si tratterebbe di un “attacco” alla sovranità dei Paesi nei quali tale pratica è lecita
  • che sussisterebbero oggettive difficoltà di accertamento del reato, atteso che tali Stati potrebbero rifiutare forme di collaborazione, alla luce della liceità della condotta per i propri ordinamenti.
  • che la categoria del reato di carattere universale, per cui chiunque commette il reato, anche al di fuori del nostro territorio nazionale, sarebbe prevista dal codice penale – all’art. 7 c.p.- solo per delitti contro l’umanità, casi estremi, di assoluta gravità, perseguiti in tutti gli ordinamenti del mondo.

Si tratta di argomentazione che non convincono sino in fondo. Vediamo per quali ragioni.

Sul primo aspetto, si deve rilevare che “l’attacco” alla sovranità potrebbe essere ipotizzato ove la nuova fattispecie non presentasse una forte caratterizzazione di carattere nazionale. La norma, in effetti, non è diretta a stigmatizzare negativamente qualsiasi forma di maternità surrogata, ma solo quando la condotta avviene in territorio estero da parte di un cittadino italiano. E’ la connotazione soggettiva dell’autore del reato che impedisce di rilevare una indebita ingerenza nella “sovranità” di altri Stati, in quanto il legislatore italiano intende intervenire sulle condotte di soggetti che- evidentemente- intendono ottenere una “ricaduta” giuridica a livello nazionale della condotta posta in essere all’estero e non genericamente su condotte dirette a determinare una maternità surrogata.  Per altro, il codice penale prevede in termini generali la punibilità per reati commessi all’estero, siano essi politici (art 8 c.p.) siano essi comuni, sebbene a determinate condizioni, tra le quali specifici “livelli” di pena ( art 9 e 10 c.p.) sia nel caso di cittadini italiani che di stranieri, senza che in concreto si sia posti in generale un problema di “rispetto” dell’altrui sovranità.

Sul secondo aspetto si impone una duplice considerazione. La difficoltà (in alcuni casi concreta impossibilità) della prova non può rilevare sulla valutazione sull’esigenza di riconoscere la rilevanza penale di una condotta. E’ un dato di fatto, significativo ma non decisivo. Se consideriamo, ad esempio, alcuni reati informatici, la presenza su territorio estero di molti server e la non collaborazione di tali soggetti imporrebbero di rivedere l’ambito di penale rilevanza di molti fenomeni presenti sul web. Non è così, ovviamente, e non vi sono ragioni per applicare tale principio al caso di specie. La mancata volontà di collaborazione di altri Stati- verosimili ma da verificare- si scontra, comunque, con un dato di fatto non trascurabile: la necessità per i soggetti che chiedono il riconoscimento di minori concepiti tramite maternità surrogata di “documentare” la provenienza del minore e di fornire indicazione sui soggetti che intendo riconoscere lo stesso. Un quadro che- evidentemente- può essere in gran parte completato con accertamenti praticabili sul territorio nazionale.

In relazione, infine al fatto che l’art. 7 c.p. sarebbe stato inserito nel codice solo per sanzionare condotte di assoluta gravità, perseguiti in tutti gli ordinamenti del mondo – quali i crimini contro l’umanità- o poste in essere in contrasto con interessi nazionali di natura pubblicistica, occorre verificare se in concreto ciò corrisponda al vero.

L’art. 7 c.p. indubbiamente prevede la punibilità secondo la legge italiana per soggetti che commettono anche in territorio estero reati con matrice fortemente “pubblicistica”[3]. Nondimeno, è altresì prevista la punibilità per «ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana».

Se andiamo a verificare alcuni casi specifici per i quali tale punibilità è prevista, si può rilevare che si tratta di situazione di esigenze di tutela di singoli soggetti, che si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità. Così l’art. 591 comma 4 c.p., in tema di abbandono di minori o di incapaci, sanziona la condotta di chi «abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro».

Non solo: in termini generali ai sensi dell’art. 604 c.p. (Fatto commesso all’estero) estende la punibilità di una serie di reati in materia sessuale (segnatamente «le disposizioni di questa sezione nonché quelle previste dagli articoli 609bis, 609ter, 609quater, 609quinquies, 609 octies e 609 undecies») anche ai fatti commesso all’estero da cittadino italiano ovvero in danno di cittadino italiano…..

Infine- ed emblematicamente- nessun limite territoriale o legato alla cittadinanza è previsto, in base all’art. 600 quinquies c.p., per stabilire la punibilità di chi «organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività…».

6. Conclusioni

Se si esaminano le valutazioni globalmente negative espresse sulla maternità surrogata dalla Corte Costituzionale, dalle Sezioni Unite della S.C. e dal Parlamento pare difficile ritenere che condotte di contrasto a tale pratica possono essere espressive di una scelta “eccentrica” rispetto a una considerazione ampiamente diffusa e correttamente giustificata rispetto a tale pratica, in relazione alla necessità di tutela della dignità della donna e dei diritti del minore.  In questa prospettiva non pare risolutiva la prospettazione della  distinzione tra una surrogazione di maternità dietro compenso – non facilmente difendibile in relazione alla menzionata tutela della dignità della donna- da quella gratuita, che sarebbe effettuata per scopo sostanzialmente solidaristico, proposta sulla base di un parallelismo con la donazione di organi. Si tratta di una tesi indubbiamente suggestiva, anche se pare improponibile assimilare un organo al prodotto del concepimento, anche e soprattutto in relazione al minore che di tale operazione è il frutto. Si tratta di una prospettazione che non tiene conto che dopo nove mesi di gestazione quella donna potrebbe maturare- magari nel futuro- un rapporto psicologicamente non facile da gestire con quel bambino ( con il quale non ha potuto mantenere alcun rapporto) e di come quello stesso minore potrebbe sentirsi negata una parte importante – anche se sconosciuta e proprio in quanto sconosciuta – della propria esistenza. Un bambino non è un rene e un utero non è una incubatrice per conto terzi.

Per altro, la menzionata sentenza delle S.U. della S.C. ha precisato che non è possibile in questi casi il riconoscimento diretto in Italia delle sentenze straniere che riconoscono la filiazione, indicando la strada dell’adozione speciale, attraverso una valutazione attenta dell’interesse del minore, che è l’aspetto fondamentale da tenere in considerazione e al limite valutando una revisione globale della disciplina dell’adozione, che non è stata “toccata” dalla recente riforma del diritto di famiglia.[4]

In fondo, questo è il vero nocciolo del problema: proprio l’assoluta necessità di  fornire comunque e soprattutto tutela ai minori- a tutti i minori, indistintamente- ha suggerito l’esigenza di strutturare un forte disincentivo per una pratica che – come sopra precisato- è stata censurata in varie e autorevolissime sedi. Come è stato correttamente osservato «La tutela dei minori – se veramente questo è l’obiettivo che si vuole perseguire ‒ dovrebbe …essere anticipata fino al punto da impedire pratiche disumanizzanti, non già essere strumentalizzata per obbligare l’ordinamento ad accettare qualcosa che ha vietato, attraverso la logica del “fatto compiuto”. La tutela dei minori già nati con il ricorso alla maternità surrogata dovrebbe andare di pari passo con la stigmatizzazione di coloro che hanno fatto ricorso ad una pratica lesiva della dignità umana».[5]


[1] Cass. civ, S.U. n. 38162, 30 dicembre 2023. Rv. 666544

[2] Proposta di legge 306 Modifica all’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano

[3]. Si  tratta dei delitti contro la personalità dello Stato italiano, dei delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; dei delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano e dei delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni

[4] Su questi temi I. Perinu, Da Padova un monito: il giudice (e il sindaco) non possono sostituirsi al legislatore, wwww.centrostudilivatino.i

[5] Così D. Bianchini, Maternità surrogata e giurisprudenza creativa: in danno di donne e bambiniwww.centrostudilivatino.it

La verità su Galileo Galilei

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Tratto da Pensare la storia, Ed. Paoline, Vittorio Messori, 1992, cap. 178-180, pp. 383-397.

Stando a un’inchiesta dei Consiglio d’Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro – non molti, in verità – che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase “sicuramente storica”, un suo “Eppur si muove!”, fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici. Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest’ultimo falso: la “frase storica” fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.

Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo “vero” (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali – tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto – per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici – tra i quali c’erano uomini di scienza non inferiore alla sua – assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.

Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo “scuotimento” delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un’altra che Galileo giudicava “da imbecilli”: era, invece, quella giusta. L’alzarsi e l’abbassarsi dell’acqua dei mari, cioè, è dovuta all’attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.
Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c’è da stupirsi: il Sant’Uffizio non si opponeva affatto all’evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.
In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il “novatore” Copernico, condannato invece da Lutero.

Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua “scommessa” copernicana,si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece – e giustamente – sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo
è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente frasi “titaniche” (il troppo celebre “Eppur si muove!”) comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti – vedasi Bertolt Brecht – che crearono a tavolino un “caso” che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l’incompatibilità tra scienza e fede.

Torture? carceri dell’Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il “condannato” si trasferì come ospite nel palazzo dell’arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo “Il gioiello”.

Non perdette né la stima né l’amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro – Discorsi e dimostrazioni sopra  due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d’Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa “pena”, in realtà, era anch’essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall’ergersi come difensore della ragione contro l’oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: “In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa“. Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell’indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l’8 gennaio 1642, nove anni dopo la “condanna” e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: “Gesù!“. I suoi guai, del resto, più che da parte “clericale” gli erano sempre venuti dai “laici”: dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l’offesa dall’Università.

In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto “grande” quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II “non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell’inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo“. Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il “caso” è troppo importante, per non parlarne ancora.

Il Galilei – alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo – convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. “Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una loro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Sennonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle – una di 13 e
l’altra di 12 anni – entravano nel monastero di San Matteo d’Arcetri e dopo poco vestirono l’abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia
” (Sofia Vanni Rovighi).

Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.

“Sarebbe”, diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant’Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. “Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i “concubini” come lui venivano decapitati” (Rino Canimilleri).

È un’osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: “Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo “oscurantismo” che avrebbe bloccato la ricerca scientifica”. Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l’affermazione di un altro studioso, il Dessauer: “Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati“.
Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l’altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti:
l’approvazione ecclesiastica per il libro “incriminato”, i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com’era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.

Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant’anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.
Dei resto, proprio nell’astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana – ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti – consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un’eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.

Il governo dell’Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell’Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell’astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della “nuova Italia” che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.

Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico – fuori, cioè, dall’orbita di regioni cattoliche – le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell’onda possono permettersi, non certo l’Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.

La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un “filosofo” come era anche lo
scienziato, darsi a simili attività “utilitarie”. (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l’impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici “profani”).

È chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno – come gli olandesi o gli inglesi – grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all’intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all’arte stessa, a partire dall’epoca moderna è legata al commercio, all’industria, alla guerra. Al denaro, insomma.


È un’osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: “Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo “oscurantismo” che avrebbe bloccato la ricerca scientifica”. Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l’affermazione di un altro studioso, il Dessauer: “Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati“.
Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l’altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti:
l’approvazione ecclesiastica per il libro “incriminato”, i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com’era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.

Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant’anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.
Dei resto, proprio nell’astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana – ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti – consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un’eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.

Il governo dell’Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell’Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell’astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della “nuova Italia” che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.

Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico – fuori, cioè, dall’orbita di regioni cattoliche – le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell’onda possono permettersi, non certo l’Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.

La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un “filosofo” come era anche lo
scienziato, darsi a simili attività “utilitarie”. (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l’impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici “profani”).

È chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno – come gli olandesi o gli inglesi – grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all’intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all’arte stessa, a partire dall’epoca moderna è legata al commercio, all’industria, alla guerra. Al denaro, insomma.

Che questa – e non la pretesa “persecuzione cattolica” di cui, l’abbiamo visto, parlano anche storici cattolici – sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l’intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato “perseguitato”) è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L’opera fondamentale che pubblica nel 1543 – La rotazione dei corpi
celesti 
– è dedicata al papa Paolo III, anch’egli, tra l’altro, appassionato astronomo. L’imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna. Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com’è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria “eliocentrica” copernicana, ma spesso l’incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell’Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.

Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: “La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all’aria tutti i princìpi dell’astronomia“. E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: “Simili fantasie da noi non saranno tollerate“.
Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al “copernicano” e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.

Sempre Lutero ripeté più volte: “Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni“. Questo “letteralismo”, questo “fondamentalismo” che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com’è dall’ala in grande espansione – negli Usa e altrove – di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.
A proposito di università (e di “oscurantismo”): ci sarà pure una ragione se, all’inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università – questa tipica creazione del Medio Evo cattolico – ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani. E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi. Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell’inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana…

Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.
Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.

È successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della “modernità”, e del conseguente “progresso”, per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: “Pio IX e gli altri papi  “reazionari” erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che
scopre l’altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso
“.
È successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come “conservatrici”, “superate”, mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hannosufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli “attardati” di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più “reazionario”: l’Humanae Vitae.

Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel “caso Galileo” che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.

Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra  luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.

Dai tempi dell’antichità classica sino ad allora, in tutto l’Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.
D’altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto – e con lui un’altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio – a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche;
ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.

Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant’Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: “Un po’ come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica“. D’altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l’apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: L’intento dello Spirito Santo, nell’ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo“.
Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l’essersi anch’egli impelagato nel “concordismo biblico”: davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch’egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella “fermata” una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.

Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti – al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano – giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell’uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla “Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione. “La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto“. Così uno storico d’oggi. Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c’è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale.

Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti – accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l’autorità del ragionare umano e dell’esperienza dei nostri sensi.
Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) – se non un’altra specie di fideismo – che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il “vero”? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette “verità scientifiche” non sono affatto “verità” indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata “oggettività e infallibilità della Scienza”).

Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant’Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.
L’irrigidimento avviene soltanto quando dall’ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello “scientismo” in cui in effetti degenererà. “In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all’Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino:
raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!
” (Agostino Gemelli).

Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con
un’intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati “intolleranti” per definizione. La stima per lo scienziato e l’affetto per l’uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come “arroganza e vanità spesso assai vive“. Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch’essi “sperimentali”.

Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) “un imbecille con la testa tra le nuvole“, uno “appena degno di essere chiamato uomo“, “una macchia sull’onore del genere umano“, uno “rimasto alla fanciullaggine“; e via insultando.

In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell’autorità ecclesiastica. Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell’intellettuale moderno, fu quella sua “vanità”, quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l’altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l’altro, il suo rifiuto del latino: “Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all’uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza” (Rino Cammilleri).
Di recente, l`erede” degli inquisitori, il Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca – una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura “progressista” – che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull’oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere “perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all’origine del terrorismo degli scienziati, dell’autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti…“. Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito:
semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto “moderno” della Scienza alla consapevolezza “postmoderna” che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.

Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato – da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era – in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:
Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall’altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l’una e l’altra convinte della verità della loro opinione, l’una e l’altra in buona fede ma che adoperano l’una e l’altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l’autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse

ogni possibile agevolazione materiale. Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe  dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un’ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto“.

Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato:
Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell’azione di Galileo va giudicata tenendo presente l’epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari
di Galileo
“.
Prosegue la studiosa: “Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l’autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l’errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto
della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che – diamine! – Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un’oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l’uno è colpa ben più grave che tormentare l’altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie
“.
Nella “Lettera alla Granduchessa Cristina”, Galileo si fece giudice ed esegeta “scientifico” della Bibbia, dicendo – in merito all’arresto del sole e della luna al comando di Giosuè – che “coll’aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso facile, letterale e chiaro del comando”.
Inoltre,

“[…] Galileo aveva scritto che alcune volte le Scritture “oscurano” il loro proprio significato. Nella copia mandata a Roma la parola “oscurano” era cambiata in “pervertono”. Questa e l’altra parola contraffatta, “falso”, furono le uniche due criticate dal consultore del Santo Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La lettera nell’insieme fu trovata in accordo con l’insegnamento cattolico” (cit. in James Brodrick s.j., S. Roberto Bellarmino, Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436).

La nuova campagna elettorale di Biden costerà molti aborti

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Mauro Faverzani

Come già fu per il primo mandato, anche l’eventuale rielezione di Joe Biden potrebbe costare molte vite umane. La sua campagna elettorale ha fatto dell’aborto, infatti, uno dei propri cavalli di battaglia. A colpi di spot, come quello intitolato «These Guys», lanciato lo scorso 1° settembre e programmato per due settimane in sette Stati americani ovvero Arizona, Georgia, Michigan, Pennsylvania, Nevada, Wisconsin e Carolina del Nord.

Forti le critiche giunte in merito dalle associazioni pro-life, che han definito, senza mezzi termini, «estreme» le politiche abortiste promosse da un Biden, che solo a parole ama proclamarsi “cattolico”. Laura Echevarría, portavoce di National Right to Life, ha evidenziato come Biden sia «il presidente più favorevole all’aborto nella storia della nostra nazione», al punto da coinvolgere l’intera amministrazione «per promuovere e proteggere l’aborto illimitato», oltre tutto a spese dei contribuenti.

D’altra parte, la lobby pro-choice negli Stati Uniti può contare su finanziatori potenti. E non si tratta solo della multinazionale dell’aborto, Planned Parenthood, che ovviamente è parte in causa, bensì anche di miliardari pronti a sostenere coi propri soldi la ferale causa. Come l’amministratore delegato della multinazionale Berkshire Hathaway, Warren Buffett, quinto uomo più ricco al mondo: ad un’età (93 anni), in cui bene sarebbe fare i conti con la propria anima, ha deciso invece di sponsorizzare la campagna abortista. Negli ultimi vent’anni ha destinato per questo decine di miliardi di dollari, convinto della necessità di ridurre la popolazione del pianeta, come ha rivelato un dettagliato reportage in due puntate, firmato da Hayden Ludwig per Restoration News. L’agenzia d’informazione InfoCatólica ha riportato anche le dichiarazioni della figlia di Buffett, Susie, che nel 1997 ha specificato come il controllo demografico sia «ciò che mio padre ha sempre ritenuto essere il problema più grande e più importante».

Quest’indagine giornalistica ha permesso di evidenziare come dal 2000 ad oggi Buffett abbia versato almeno 5,3 miliardi di dollari a favore di attivisti ed esecutori di aborti. Dal 2002 avrebbe elargito anche 41 miliardi di dollari a quattro fondazioni, impegnate a promuovere l’aborto all’estero. Assolutamente fittizio e fuorviante, dunque, quanto dichiarato dallo stesso Buffett nel 2003, quando annunciò che le azioni della Berkshire Hathaway non sarebbero più state donate a gruppi abortisti: in realtà, ha spiegato Hayden Ludwig nel proprio reportage, «migliaia di sovvenzioni sono state versate negli ultimi due decenni» dalla Howard G. Buffett Foundation, dalla NoVo Foundation e dalla Susan Thompson Buffett Foundation, tutti organismi gestiti da membri della famiglia Buffett. Da qui sarebbero usciti più di 3 miliardi di dollari, destinati tutti ad organizzazioni dichiaratamente pro-choice quali Planned ParenthoodMarie Stopes International, la National Abortion FederationNaralDKT International e molte altre. Con questi soldi sarebbero stati finanziati aborti non solo negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, in Africa ed altrove.

L’ideologia mortifera però si serve anche di altri strumenti, per imporsi come pensiero dominante ovunque, anche cancellando chiunque abbia un’opinione differente. Ed il web in questo torna a distinguersi una volta di più quale veicolo privilegiato dell’incubo orwelliano.YouTube, ad esempio, secondo quanto rivelato dalle agenzie InfoCatólica Zenit, starebbe predisponendo una nuova politica atta a censurare i contenuti pro-life od, in ogni caso, contrari all’aborto ed alle linee-guida dell’Oms in materia (linee-guida, che considerano l’aborto un “diritto umano”), con modalità ancora da definire, ma tali in ogni caso da vanificare i dubbi di quei pochi, che ancora ne nutrissero, circa l’imparzialità dei social media – come anche Meta (o Facebook, che dir si voglia) e Twitter nella moderazione dei contenuti.

 

la pornografia è un CANCRO!

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di Maria Rachele Ruiu

 

la pornografia è un CANCRO!

I recenti fatti di cronaca, in particolare Caivano e Palermo, hanno squarciato il velo di fronte a questa emergenza educativa centrale, che tante volte abbiamo denunciato come Pro Vita & Famiglia, cioè l’ipersessualizzazione, anzi, la pornificazione della nostra società.

In particolare, i messaggi scambiati dai membri del branco di Palermo dopo l’atroce atto di violenza rappresentano un esempio significativo…

ATTENZIONE: i seguenti contenuti evidenziati in giallo possono risultare offensivi. Ho voluto riportarteli qui per dare maggiore informazione. Ti invito a non leggerli se sei una persona suscettibile.

«Se ci penso mi viene lo schifo perché eravamo cento cani sopra una gatta, una cosa così l’avevo vista solo nei porno, [..] dopo che si è sentita pure male, piegata a terra, ha chiamato l’ambulanza, l’abbiamo lasciata lì e siamo andati via. Voleva farsi a tutti, alla fine gli abbiamo fatto passare il capriccio»

Sì Matteo, la pornografia è un cancro di questa generazione che provoca dipendenza e violenza e deve essere estirpata senza se e senza ma! 

Queste ed altre sono state le parole che ho rivolto a Rocco Siffredi e a tutti i sostenitori del mercato del porno.

Il mio intervento – che ti invito a guardare – ha causato la risposta irritata di Rocco Siffredi che mi ha scritto su Instagram sia in privato che in pubblico, per banalizzare il mio intervento e per provare a giustificare, anzi, normalizzare la fogna che è il porno.

Il porno è diventato un impero che guadagna sulla pelle dei più fragili, che ne diventano dipendenti, che sfrutta il corpo delle donne. Sapevi che le attrici hard si anestetizzano per poter girare le scene dei film? Una violenza inaudita!

Lo sai che i bambini incappano nel primo video porno (senza cercarlo) già a 8 anni?

Nel mio intervento, ho voluto spiegare come la pornografia sia un vero e proprio carcere neurobiologico infernale.

Funziona come le dipendenze da sostanza: i bambini, ragazzi e adulti si ritrovano a cercare stimoli sempre maggiori e violenti, finanche video pedopornografici, come denuncia da tempo Don Fortunato Di Noto; una diminuzione dell’empatia verso le donne fino a una maggiore accettazione della violenza contro le donne e una normalizzazione delle pratiche sessuali non comuni.

La bella notizia è che proprio la famiglia è la soluzione di questa crisi. Per esempio, un fattore protettivo imprescindibile contro la sessualità malata è la figura del padre, come ho spiegato durante la trasmissione!

Pro Vita & Famiglia ha promosso da tempo una campagna per avere misure di verifica dell’età online più restrittive. Ma l’Agcom ha applicato la norma approvata nella scorsa legislatura solo per i servizi telefonici rivolti ai minori, ignorando che la maggior parte di loro ha i piani tariffari degli adulti e svuotando così l’efficacia della norma sul parental control.

Matteo, il porno è un impero così potente che non basta una difesa casalinga ma è necessario che ciascuno faccia la sua parte!

Assieme al tuo sostegno e alle tue donazioni, con Pro Vita & Famiglia continueremo a batterci affinché questa piaga sociale venga estirpata.

La mia è più di una promessa.

Grazie per tutto ciò che fai con Pro Vita & Famiglia.

Insieme possiamo!

Video completo: (137) La pornografia è un cancro: Maria Rachele Ruiu risponde a Rocco Siffredi – YouTube

 

“Le donne non hanno il pene”. E lo censurano

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L’OVVIO SOTTO ATTACCO NELLA SOCIETA’ FLUIDA E DISTOPICA DEL III° MILLENNIO (N.D.R.)
IL CASO A EDIMBURGO
Graham Linehan escluso dal Fringe di Edimburgo per le sue opinioni sul gender. Il locale: “Non in linea coi nostri valori”. La protesta dei fan

Il dibattito sulla libertà di espressione nella comicità è arrivato ai livelli più alti in seguito alla cancellazione dell’evento del famoso scrittore di Father TedGraham Linehan, al Fringe festival di Edimburgo. Come riportato dal Daily Mail, l’evento è stato interrotto a causa delle sue visioni critiche sulla questione di genere, scatenando indignazione tra i fan e critiche verso il festival stesso. Il locale che doveva ospitarlo, il Leith Arches, ha detto di aver annullato l’evento perché le opinioni dell’artista sulle questioni transgender non erano “in linea con i nostri valori generali”. “Non supportiamo questo comico o le sue opinioni e non gli sarà permesso di esibirsi nella nostra sede”.

La posizione di Linehan sulle questioni di genere

Linehan è famoso per la sua ferma credenza che le donne non possono avere un pene e “chiunque sostenga il contrario è un estremista”. Una posizione molto netta contro la possibilità di “autoidentificazione” del genere. Le sue opinioni però hanno portato all’annullamento del suo spettacolo al Leith Arches di Edimburgo, decisione che Linehan ha deciso di sfidare con una performance all’aperto davanti al Parlamento scozzese a Holyrood. Questa iniziativa ha attirato un considerevole numero di fan e ha suscitato molti commenti, tra cui quello di una spettatrice che ha dichiarato: “È osceno che sia stato cancellato per opinioni che la maggioranza della popolazione ha”.

Linehan contro gli attivisti trans

Nonostante le paure di possibili scontri con gruppi trans, lo spettacolo si è svolto senza intoppi. Linehan ha energicamente dichiarato alla stampa che “gli attivisti per i diritti dei trans devono essere completamente sconfitti”, elogiando i suoi fan per il loro sostegno e rivelando come la pressione su di lui e la sua famiglia l’abbia fatto ricorrere ai farmaci per l’ansia.

La libertà di espressione comica sotto attacco?

Il dibattito sulla libertà di espressione comica si è inasprito quando Andrew Doyle, organizzatore dello spettacolo Comedy Unleashed di Linehan, si è rivolto a Twitter annunciando che anche il locale alternativo aveva cancellato l’evento. Tuttavia, Linehan ha deciso di svolgere comunque lo spettacolo di fronte al parlamento scozzese, dichiarando al termine della performance: “Non ho mai visto nulla di così folle come gli ultimi due giorni”.

Linehan, attraverso le sue azioni, non ha solo sfidato le decisioni del festival, ma ha anche sollevato nuove domande sulla libertà di espressione nel mondo della comicità, mettendo in evidenza la tensione tra le opinioni personali degli artisti e le sensibilità del pubblico.

Fonte: https://www.nicolaporro.it/le-donne-non-hanno-il-pene-e-lo-censurano/

Carriera alias? No grazie!

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Segnalazione di Toni Brandi

un paio di giorni fa, abbiamo ottenuto un’ulteriore vittoria nella nostra battaglia contro l’ideologia gender nelle scuole…

Una grande scuola in Lombardia (non rivelo il nome per proteggerla da eventuali ritorsioni della lobby Lgbtqia), dopo aver ricevuto la nostra diffida legale che chiedeva di annullare la Carriera alias approvata dalla scuola, ha comunicato ufficialmente di aver sospeso la Carriera alias, in attesa di chiarimenti da parte del Ministero dell’Istruzione.

Questa è solo l’ultima di una serie di scuole che hanno annullato o sospeso la Carriera alias dopo l’azione legale di Pro Vita & Famiglia…

È una prova tangibile che il nostro impegno e la nostra azione stanno facendo la differenza!

Questa vittoria dimostra che la nostra campagna, grazie soprattutto al prezioso aiuto dei nostri sostenitori, sta avendo un impatto reale nella difesa dell’identità dei nostri figli e della libertà educativa delle famiglie.

Tuttavia, non possiamo abbassare la guardia. Questa notizia ci obbliga a intensificare la pressione sul Ministro dell’Istruzione Valditara, affinché prenda provvedimenti definitivi contro la Carriera alias e tutte le altre iniziative gender nelle scuole.

Nell’email che ti ho scritto giovedì scorso (puoi rileggerla qui sotto) ti spiegavo che abbiamo soltanto il mese di agosto per preparare e realizzare un forte contrattacco prima dell’apertura delle scuole, perché a settembre – per via degli ultimi sviluppi – la Carriera alias e l’ideologia gender rischiano di dilagare nelle scuole…

L’attivazione della “identità alias” per i docenti rischia di incentivare la diffusione di regolamenti “alias” anche per gli studenti, inclusi i minorenni, con gravi conseguenze per tutta la comunità scolastica.

In Pro Vita & Famiglia, stiamo lavorando instancabilmente per preparare e implementare un piano d’azione incisivo prima dell’apertura delle scuole a settembre. Abbiamo dimostrato che possiamo fare la differenza, ma abbiamo bisogno di te per continuare questa lotta.

Siamo determinati a fare tutto il possibile ma senza il tuo sostegno finanziario, le nostre azioni sono limitate e rischiamo di non essere pronti per la riapertura delle scuole…

IL RAFFORZAMENTO DEL PROPOSITO DI SUICIDIO INTEGRANTE ISTIGAZIONE AL SUICIDIO PUNIBILE AI SENSI DELL’ART. 580 C.P.

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Carmelo Leotta

Il 12 luglio scorso è stata depositata la sentenza della Corte di assise di appello di Catania – di cui i media hanno dato ampia notizia a seguito dell’udienza del 28 giugno – che, ribaltando il giudizio di primo grado, ha condannato Emilio Coveri,  presidente dell’associazione Exit Italia, per il delitto punito dall’art. 580 c.p. (istigazione e aiuto al suicidio) per aver rafforzato il proposito di suicidio di una donna, capace di intendere e di volere, affetta da depressione e da sindrome di Eagle, non sottoposta a cure di sostegno vitale. L’intento suicidario era portato a compimento dalla donna a Zurigo presso la clinica Dignitas, il 27.3.2019.

1. Il thema decidendum: la condotta di rafforzamento del proposito di suicidio rilevante ai sensi dell’art. 580 c.p. Pur non essendosi ancora formato il giudicato sulla vicenda, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania, a prescindere dal riferimento specifico al fatto di cronaca qui non oggetto di commento, si rivela di profondo interesse nella discussione penalistica sul fine-vita dal momento che fornisce una serie di preziosi criteri per accertare l’efficacia causale di condotte “comunicative” di convincimento rivolte da una terza persona ad un soggetto che, avendo già precedentemente contemplato tale possibilità, infine decide e mette in atto il suicidio proprio a seguito del contatto con il “rafforzatore”. La sentenza, in verità, si presta anche a talune critiche, di cui pure si dirà, allorquando tratta del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., limitandosi a individuare nell’autonomia individuale l’oggetto di tutela della fattispecie di istigazione al suicidio.

2. Il giudizio di primo grado. Il giudizio di primo grado si svolge dinnanzi al g.u.p. di Catania che, con sentenza del 10.11.2021 assolve l’imputato dall’accusa di istigazione al suicidio di G.B., L’istigazione si sarebbe realizzata, nell’ipotesi accusatoria, con plurime condotte messe in atto dall’imputato che intratteneva con la paziente rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica, a far data dal 2017 e fino al decesso, inducendola altresì ad iscriversi alla sezione italiana di un’associazione di diritto svizzero il cui scopo è quello di diffondere una cultura per la morte dignitosa, di cui lo stesso imputato era (come è tuttora) presidente. Il g.u.p catanese assolveva l’imputato ritenendo che le condotte contestate fossero sprovviste di una effettiva capacità di influenzare la decisione della donna, in particolare in considerazione del fatto che l’imputato era stato contattato dalla paziente quando già aveva maturato il proprio proposito di suicidio affinché le fornisse informazioni circa l’associazione di cui egli era presidente. Dal punto di vista strettamente fattuale il giudice delle prime cure valorizza a sostegno della propria decisione in particolare i seguenti elementi: la irreversibilità della patologia della paziente; la sua capacità di autodeterminazione (su cui si erano espressi i c.t. del P.M.); il fatto che la stessa si fosse procurata autonomamente la documentazione richiesta dalla struttura dove avvenne il suicidio e che si fosse fatta accompagnare da una propria conoscente in aeroporto per andare in Svizzera (dunque, senza l’intervento diretto dell’imputato), peraltro mentendo sulla ragione del suo viaggio.

3. L’appello del P.M. e la riforma della sentenza di assoluzione. Il P.M. siciliano chiede la riforma della sentenza di prime cure, posto che il g.u.p. non avrebbe correttamente valutato l’efficacia causale delle condotte contestate rispetto all’effetto finale di decisione e messa in atto del suicidio da parte della G.B. La Corte di assise di appello di Catania, accogliendo l’appello del P.M., all’esito di rinnovazione dibattimentale, in riforma della sentenza appellata, condanna l’imputato (peraltro escludendo la concessione delle attenuanti generiche) per avere «fornito un contributo causale idoneo a rafforzare il proposito suicidario di una persona affetta da patologie non irreversibili, seppur dolorose ma trattabili, sfruttando la fragilità e vulnerabilità della donna per convincerla, in maniera definitiva, a porre fine alla sua vita». Come si legge in sentenza, «la formazione della volontà della G. di porre fine alla propria vita non è stato il frutto di un percorso di autodeterminazione della donna: la stessa, sebbene capace di intendere e d volere, è stata rafforzata nel proprio intento suicidario dall’operato dell’odierno imputato avendo lo stesso influito in maniera determinante nel processo psichico di un soggetto vulnerabile che non aveva ancora deciso in maniera autonoma di porre fine alla propria esistenza in quanto il suo proposito suicidario, già in essere, non era ancora definitivo».

La decisione depositata lo scorso 12 luglio ripercorre i temi di maggior interesse riferiti alla fattispecie di istigazione al suicidio punita dall’art. 580 c.p. che può essere integrata, come noto, sia da una condotta di determinazione sia da una condotta di rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio. L’art. 580 c.p., che contempla altresì, quale terza ipotesi delittuosa, l’autonoma condotta di aiuto al suicidio, sanziona pertanto, tre distinti comportamenti (determinazione, rafforzamento, aiuto) che hanno in comune l’intervento del terzo, a titolo materiale o morale, nell’altrui suicidio, senza che il fatto integri il più grave delitto di omicidio del consenziente.

Nel caso di specie il fatto contestato all’imputato sarebbe consistito, come si è sopra evidenziato, nel rafforzamento del proposito di suicidio già in precedenza manifestato dalla persona offesa. La condotta di rafforzamento può dirsi integrata solo a fronte di un obiettivo contributo alla maturazione della decisione definitiva del suicida, accompagnato, sul piano soggettivo, dalla prefigurazione dell’evento come conseguenza della propria condotta e dalla consapevolezza dell’obiettiva serietà del proposito della persona offesa.

4. I criteri di accertamento del delitto di istigazione al suicidio realizzato nella forma del rafforzamento dell’altrui intento suicidario. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento penalmente rilevante è, invero, piuttosto complesso; il rafforzamento, infatti, viene realizzato con condotte “comunicative” che perlopiù si estrinsecano in un “dire” e che, sul piano degli effetti, operano su di un piano psichico, tuttavia presupponendo, diversamente dalle condotte di determinazione, la previa e autonoma esistenza di un’intenzione suicidaria, necessariamente non definitiva, su cui si innesta un impulso esterno che segna, appunto, il passaggio, nel suicida, dalla possibilità alla decisione di morte. La Corte, al fine di vagliare la rilevanza penale della condotta di rafforzamento, individua taluni criteri particolarmente calzanti, che possono essere così catalogati:

a) l’esistenza di uno stato iniziale di incertezza della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio;

b) la vulnerabilità della persona offesa, originata (ad es.) dalla sua sofferenza fisica e psichica che la rende esposta alle interferenze di soggetti terzi. Il giudizio sulla vulnerabilità deve tenere conto della sussistenza di un eventuale stato depressivo in capo alla persona offesa e in genere delle implicazioni psicologiche generate dalla sofferenza fisica, come pure degli effetti della patologia depressiva sulla percezione del dolore causato dalla patologia fisica (c.d. “somatizzazione”);

c) la consapevolezza, da parte dell’autore della condotta di rafforzamento, sia dello stato di incertezza iniziale della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio sia  della sua condizione di vulnerabilità;

d) la possibilità di inferire la consapevolezza sulla condizione di vulnerabilità della persona offesa dalla conoscenza (da parte dell’imputato) delle condizioni di sofferenza/malessere del malato, senza che sia necessario, per l’autore della condotta di rafforzamento, il possesso di competenze mediche;

e) il carattere non neutro e non asettico con cui sono rese le informazioni sulle procedure di suicidio assistito all’estero;

f) la perduranza e la quantità delle comunicazioni con cui si esorta il futuro suicida a vincere le resistenze alla propria decisione, anche «esprimendo pensieri negativi e sottolineando gli aspetti peggiori della sua vita» che, rivolti ad un interlocutore sofferente e affetto da depressione, accentuano «il senso di inutilità della sua esistenza»;

g) la formulazione e la comunicazione alla persona offesa di un giudizio positivo sul piano etico riferito alla scelta di suicidio e la prospettazione del suicidio assistito quale unica forma di sollievo delle sue sofferenze;

h) il tono dissacrante o spregiativo con cui l’autore della condotta rafforzativa connota gli argomenti contrari al suicidio (legati, ad es., alla fede religiosa della persona offesa).

Non integra, invece, condotta penalmente rilevante il fatto di limitarsi a «fornire informazioni per realizzare il proposito già definitivo […] di ricorrere al suicidio assistito». Quanto al giudizio di valore secondo cui la morte sia preferibile ad una vita sofferente, si tratta – afferma la Corte – di «principio che di per sé non è censurabile in tale sede soltanto se è frutto di una libera scelta, non se viene propinato ad un soggetto, quale era la G.A. [persona offesa] vulnerabile e che aveva qualche resistenza a mettere in atto l’intento suicidario».

Non escludono la responsabilità per istigazione al suicidio:

– il fatto che, a valle di una condotta di rafforzamento, i successivi contatti con la persona offesa siano sporadici e abbiano solo un contenuto informativo;

– la circostanza che l’ultimo contatto con la persona offesa avvenga diversi mesi (nel caso di specie, sei mesi) prima del decesso;

– la dichiarazione, resa dalla persona offesa, che la decisione «“è solo sua”, quasi avesse la necessità di dimostrare che la scelta era stata presa autonomamente»;

– la manifestazione a terzi, da parte del suicida, del desiderio di morire avvenuto in tempi antecedenti al contatto con l’autore della condotta di rafforzamento;

– l’irremovibilità della decisione di suicidio, provata ad. es. dall’assenza di tentennamenti, nel momento in cui l’atto anticorservativo è portato a compimento.

In particolare, l’irrilevanza, al fine di escludere la responsabilità, di una eventuale distanza temporale tra l’ultimo contatto del “rafforzatore” con il suicida e la morte di questi trova ragione nel fatto che l’efficacia causale della condotta oggetto di scrutinio non deve valutarsi rispetto all’evento finale del suicidio, bensì rispetto alla maturazione definitiva della decisione di morire della persona offesa. E’ pur vero che trattandosi di fatti psichici, l’individuazione del momento preciso in cui l’aspirante suicida assume la decisione definitiva di morte non è semplice; a tal fine, appare ragionevole, come in effetti si evince dalla sentenza in commento, valorizzare comportamenti materiali della vittima (in sentenza si rinviene l’espressione «fattiva determinazione»), quali, nella vicenda di G.A., furono il reperimento della documentazione necessaria per accedere alla clinica svizzera e la fissazione dell’appuntamento presso la stessa clinica.

L’attenzione con cui la Corte siciliana fornisce un catalogo di criteri per valutare l’integrazione della condotta di rafforzamento punita dall’art. 580 c.p. risponde adeguatamente all’esigenza di ponderare, nel caso concreto, l’efficacia causale delle condotte comunicative rivolte nei confronti dell’aspirante suicida, il quale ha già considerato, eventualmente anche esternando tale ipotesi con terzi, ma non ancora deciso in via definitiva, di ricorrere al suicidio. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento comporta uno scrutinio delicato non solo per la difficoltà di valutare comportamenti che esplicano la loro efficacia sulla psiche del soggetto passivo, ma anche perché la condotta censurata si pone al confine con una mera manifestazione di pensiero avente come contenuto un giudizio positivo sull’atto di suicidio. Tale manifestazione di opinione merita, in verità, di essere fortemente criticata su di un piano morale e giuridico dal momento che il suicidio in sé e per sé rappresenta l’atto definitivo e irrevocabile con cui il soggetto esprime un giudizio pratico di immeritevolezza sulla conservazione del proprio essere. Il suicidio, pertanto, è sempre contrario alla dignità umana. Ancorché una manifestazione di pensiero che associ un valore positivo al suicidio sia quindi deprecabile perché pregna di un grave disvalore con immediate ricadute anche giuridiche, essa non può ancora meritare lo stigma penale. Da qui origina, pertanto, la difficoltà, ai fini della individuazione della tipicità delle condotte punite come istigazione al suicidio dall’art. 580 c.p., di tracciare la linea di confine tra una mera manifestazione di opinione, non ancora punibile, seppur contraria alla dignità della persona, e una condotta, invece punibile, perché effettivamente attivante (nel caso di condotta di determinazione) o incentivante (nel caso di condotta di rafforzamento) una volontà anticonservativa di una vittima vulnerabile.

Posto il problema in questi termini, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania ha il pregio di fornire una serie di utili strumenti per valutare quando le “parole”, collocate in un certo contesto, che tiene conto anzitutto delle caratteristiche della vittima, abbiano innescato un suo processo decisionale definitivo in vista della morte.

Ciò detto, la decisione in commento presenta, tuttavia, come si dirà, talune non marginali criticità nella parte in cui individua essenzialmente nell’autodeterminazione individuale il bene protetto dalle norme incriminatrici che puniscono l’istigazione al suicidio.

5. Quale bene protegge la norma che punisce l’istigazione al suicidio ?

La Corte di assise di appello di Catania ripercorre, in apertura, la ratio di incriminazione della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e di istigazione e aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), che segnalano il persistente riconoscimento da parte dell’ordinamento del «valore fondamentale di rilevanza collettiva» assegnato alla vita umana. Tali previsioni incriminatrici si pongono all’esito di una «scelta per così dire di compromesso, per cui – pur non riconoscendo espressamente un cd. “diritto al suicidio”in quanto scelta negatrice del fondamentale principio del rispetto e della promozione della vita, e perciò non tutelata dall’ordinamento – si esclude la punibilità del tentativo di suicidio, poiché giuridicamente privo di offensività erga alios (trattandosi di fatto compiuto esclusivamente sulla propria persona e a proprio danno), ma vengono punite tutte quelle condotte esecutrici, agevolatrici, istigatrici o rafforzative del proposito suicidario altrui».

La sentenza dà atto che il principio ora richiamato ha subìto nel tempo una rilettura giurisprudenziale nell’ambito del fine-vita, in particolare a partire dalle decisioni dei casi Welby ed Englaro che, come noto, hanno segnato un’enfasi in chiave auto-deterministica del diritto al rifiuto delle cure, anche quanto queste siano necessarie alla conservazione della vita.

Venendo a trattare della ratio di incriminazione delle tre autonome ipotesi delittuose contemplate dall’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio, determinazione e rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio), la Corte di assise di appello individua l’offesa delle tre condotte nel «danno sociale che proviene dall’intervento di terzi nel suicidio di una persona, senza che il fatto assuma l’aspetto dell’omicidio del consenziente. Ciò è espressione – continua la sentenza – della qualificazione, nel nostro ordinamento, del suicidio quale fatto moralmente e socialmente dannoso, che cessa di essere penalmente indifferente quando a cagionarlo, concorra, insieme con l’attività del soggetto principale (il suicida), anche un’altra forza individuale estranea. Proprio detto percorso costituisce, appunto, quel rapporto tra persone che determina l’intervento preventivo-repressivo del diritto contro il terzo, poiché proprio da quest’ultimo proviene l’elemento che determina l’evento dannoso, concretizzando ciò che sarebbe stato relegato alla sfera intima del suicida».

Fin qui, a parte il riferimento al concetto di “danno sociale” che, in verità, non è appropriato perché oscura la dimensione personalistica del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., la sentenza in commento esclude con chiarezza la configurabilità di un diritto individuale al suicidio.

Nel seguito, tuttavia, la stessa sentenza ripercorre in termini piuttosto affrettati i princìpi in materia dettati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nei precedenti Pretty (2002), Hass (2011) e Gross (2013), i quali, come noto, si sono occupati dell’ammissibilità dei limiti posti dagli Stati all’accesso a pratiche di suicidio assistito. Prendendo le mosse dalla decisione più risalente (Pretty c. Regno Unito), la Corte siciliana, pur menzionando alcuni passaggi di quella sentenza, omette, ad es., di richiamarne almeno due nodi fondamentali in cui i giudici europei espressamente escludono che il diritto alla vita sancito dall’art. 2 CEDU possa ricomprendere anche il diritto alla morte per mano di terze persone o con l’assistenza di un’autorità pubblica (cfr. Pretty c. U.K., par. 40) e in cui ribadiscono il dovere per gli Stati di adottare ogni atto o misura preventiva per salvaguardare l’incolumità individuale

Con riferimento, poi, al precedente Hass c. Svizzera, è pur vero, come si legge nella sentenza catanese, che la Corte EDU fa discendere dall’art. 8 CEDU il diritto individuale a decidere quando e in che modo mettere fine alla propria vita, a condizione che il soggetto sia in grado di orientare liberamente la propria volontà; tuttavia, l’arresto Hass pure afferma (precisazione omessa nella sentenza depositata lo scorso 12 luglio) che la pretesa al suicidio assistito non sia giuridicamente azionabile, in quanto non è un diritto ad una prestazione da parte dello Stato o all’intervento del terzo.

Soprattutto nella ricostruzione del diritto vivente interno in materia di fine vita, la Corte di assise di appello non offre una lettura adeguata della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, che, nel giudizio incidentale promosso nell’ambito del processo milanese contro Marco Cappato, ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 580 c.p. Tale decisione, diversamente da quanto affermano i giudici siciliani, non ha introdotto, infatti, un diritto al suicidio assistito per le persone affette da patologia irreversibile e sofferenze intollerabili, sottoposte a trattamento di sostegno vitale e capaci di formulare personalmente la richiesta di suicidio: qualora ricorrano tali quattro condizioni, la sentenza della Consulta del 2019, dichiarando l’incostituzionalità parziale della sola norma incriminatrice (tra le tre dettate dall’art. 580 c.p.) dell’aiuto al suicidio, si è limitata a prevedere una causa di non punibilità nei confronti del sanitario che, nel contesto di una sua adesione volontaria e libera alla richiesta del malato, lo aiuti nel darsi la morte. Dalla sentenza n. 242 non discende, infatti, alcun obbligo di intervento anticonservativo per il sanitario, a riprova del fatto il suicidio assistito non costituisce una pretesa individuale che il malato possa far valere nei confronti di terzi.  Proprio a tal proposito si legge nella pronuncia della Consulta: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».

A fronte di queste premesse, l’arresto catanese finisce per travisare la stessa oggettività giuridica delle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p. Si legge in sentenza: «Il quadro fin qui tracciato spinge ad evidenziare, alla luce di quanto positivizzato anche nella l. 219/2017, che il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. non è la vita in quanto valore superindividuale e non disponibile come risalenti orientamenti pretendevano di sostenere. Il bene giuridico che viene in rilievo nel caso dell’istigazione è, infatti, la libertà di autodeterminazione del soggetto: non si vuole evitare che si sviluppi un proposito suicidario ma si vuole garantire che questo avvenga in maniera del tutto autonoma e libera da condizionamenti esterni. Proprio in caso di condizionamento esterno l’evento morte non sarebbe causa di una scelta libera del suicida ma conseguenza di un comportamento volontario e cosciente di un altro soggetto volto a causarne, mediante suicidio, la morte: in caso di istigazione al suicidio, il suicida non è più un soggetto attivo, bensì un soggetto passivo della decisione altrui».

Una siffatta ricostruzione del bene giuridico protetto dall’art. 580 c.p. (e specificamente delle norme dettate da tale articolo che incriminano l’istigazione al suicidio nelle due ipotesi di determinazione e di rafforzamento dell’intento di suicidio), disattende del tutto le indicazioni della Corte costituzionale.  Come da quest’ultima chiarito con l’ord. n. 207 del 2018, infatti, «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».

D’altronde se il bene protetto dalla norma incriminatrice dell’art. 580 c.p. fosse esclusivamente l’autodeterminazione individuale non si giustificherebbe più, a ben vedere, né l’incriminazione, dettata dallo stesso art. 580 c.p., dell’aiuto al suicidio, né quella dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. che sanzionano fatti in cui non vi è intromissione da parte di un soggetto terzo nel processo decisionale del suicida.

La sentenza in commento, pertanto, pur lodevole per lo sforzo di fornire all’interprete un catalogo articolato di criteri per valutare la consumazione della condotta di rafforzamento dell’intento di suicidio punita dall’art. 580 c.p., finisce per fraintendere, forse all’esito di una lettura affrettata dei precedenti di Strasburgo e, soprattutto, delle due decisioni costituzionali relative al caso Cappato (n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019), l’oggettività giuridica dello stesso art. 580 c.p. che, invero, non svolge la funzione di garantire che la scelta individuale di suicidarsi sia compiuta in un contesto di libertà morale del suicida, in nome dell’autodeterminazione individuale, ma tutela piuttosto la vita del soggetto esposto al rischio di suicidio, inibendo le condotte materiali e morali di terzi che agevolino su di un piano o sull’altro il compimento dell’atto suicida. È, dunque, senz’altro il diritto alla vita (e non l’autodeterminazione individuale) il bene protetto dall’articolo in questione.

Fonte: https://www.centrostudilivatino.it/il-rafforzamento-del-proposito-di-suicidio-integrante-istigazione-al-suicidio-punibile-ai-sensi-dellart-580-c-p/

 

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