Insistono con la sciocchezze sul colonialismo italiano

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di Stelio Fergola,

 

Roma, 20 nov – La sberla alla Mostra coloniale di Torino è stata fortissima e insindacabile. Al punto da fare irritare i fegati di molti esponenti della sedicente cultura mainstream. Gli italiani che offrivano contratti di lavoro in Somalia devono dare troppo fastidio a una narrazione stupida e completamente anti-scientifica, quella del colonialismo italiano oppressore, violento e schiavista praticamente per principio, senza guardare minimamente ai fatti storici ben evidenziati da Alberto Alpozzi, che della “sberla” di cui sopra e della marcia indietro della direzione dei musei stessi è stato indubbiamente artefice. E allora reagisce goffamente Gianni Oliva (e Alpozzi gli risponde su queste pagine), reagisce un sistema intero addirittura andato a pubblicare sulla Treccani una sottospecie di esaltazione di Angelo Del Boca, uno degli autori maggiormente protagonisti di questa storia senza dati storici ma solo di parole vuote spacciate per profonde.

 

Treccani, l’apologia di Del Boca

Secondo ciò che è pubblicato sulla Treccani, Del Boca sarebbe addirittura un rivoluzionario. E la narrazione che definisce il colonialismo italiano in termini scientifici, dati e fatti alla mano, un “luogo comune”, una “vulgata”. Si legge: “La polemica è nota: italiani brava gente, per dire che il nostro fu un colonialismo “buono”, che non si è macchiato di atrocità e persecuzioni. La vulgata è diventata luogo comune, titolo di film, certezza storica basata su testimonianze di italiani presenti e protagonisti in quei luoghi lontani”. Il tutto mentre quel Sant’uomo di Del Boca, noto per aver diffuso le narrazioni in assoluto più mainstream nella cultura italiana degli ultimi decenni (si pensi anche alle aperte sciocchezze raccontate sulla Grande Guerra, aggiunta doverosa da parte di chi scrive) è nientemeno che una “voce solitaria”. Ma solitaria di cosa, ribattiamo noi, che non ha fatto altro che perpetrare narrazioni sostenute da musica, cinematografia e giornalismo di massa, tutto rigorosamente a senso unico?  Ma si sa, il pensiero dominante lavora spesso in questo modo: si auto-definisce anticonformista nonostante sia l’apice estremo dell’assenza critica.

 

La sberla resta e la verità non è negoziabile

Il penoso tentativo pubblicato sulla Treccani, in buona sostanza, si estrinseca nello sciorinare il curriculum del personaggio in questione. Ha scritto tante cose, è tanto figo, come può avere torto? Ha ricevuto dei premi, come può avere torto? Come si può pensare che sia anche lontanamente in malafede? Macché, per il sito della popolare – e in teoria prestigiosa – Enciclopedia, quelli in malafede sono coloro che, come Alpozzi, portano i documenti e i fatti. La questione dei Musei di Torino trova, in questa nuova evoluzione, un nuovo ambito di tristezza. Quello di chi non ammette di averla sparata grossolana e ignorante, nemmeno di fronte all’evidenza. La verità però è nei documenti, e per quanto si possa sbattere i piedini non viene scalfita.

 

Aricolo completo: https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/musei-torino-il-pensiero-unico-insiste-in-treccani-lapologia-di-chi-racconta-sciocchezze-sul-colonialismo-italiano-271581/

 

Paolo VI, 24 maggio 1976: “Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico”

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Celebriamo oggi la Patrona (insieme ai SS. Pietro e Paolo e a San Pio V) del Sodalitium Pianum, associazione fondata da monsignor Umberto Benigni nel 1909 per contrastare i nemici interni ed esterni della Chiesa, in particolare per applicare il programma antimodernista tracciato da san Pio X (programma del Sodalitium Pianum: http://www.sodalitium.biz/documenti/programma-del-sodalitium-pianum/ ).

In tale occasione il Centro Studi don Paolo de Töth intende rendere gloria alla SS. Madre di Dio, Aiuto dei Cristiani, proponendo la lettura e la riflessione di un Discorso tenuto durante un Concistoro da ‘San Paolo VI’ (per noi card. G.B. Montini) proprio il 24 maggio 1976, nel quale imponeva la ‘Nuova Messa’ e vietava conseguentemente la precedente.

Chi colpevolizza oggi Bergoglio di vietare la Messa ‘in latino’ sappia che ‘Francesco’ è in perfetta continuità ed armonia con un suo Santo predecessore e chi accusa quello accusa anche questo, accusando così un Santo Papa della Chiesa, che avrebbe promulgato una Messa cattiva, insegnato errori, imposto Riti inaccettabili, etc. E l’assurdo è che tutto questo sarebbe affermato da veri Cattolici…

Anche il semplice Sagrestano nella famosa Tosca di pucciniana memoria, affermava più volte, rimbrottando il Cavaradossi, con la sua peculiare voce da basso: “Scherza coi fanti, ma lascia stare i Santi!!”, che sono tali, ovviamente, solo se canonizzati da Legittimi Successori di san Pietro, aggiungiamo noi.

 

Dal DISCORSO AL CONCISTORO
DEL SANTO PADRE PAOLO VI
(lunedì, 24 maggio 1976):

 

«…coloro che, col pretesto di una più grande fedeltà alla Chiesa e al Magistero, rifiutano sistematicamente gli insegnamenti del Concilio stesso, la sua applicazione e le riforme che ne derivano, la sua graduale applicazione a opera della Sede Apostolica e delle Conferenze Episcopali, […] si allontanano i fedeli dai legami di obbedienza alla Sede di Pietro come ai loro legittimi Vescovi; si rifiuta l’autorità di oggi, in nome di quella di ieri. E il fatto è tanto più grave, in quanto l’opposizione di cui parliamo non è soltanto incoraggiata da alcuni sacerdoti, ma capeggiata da un Vescovo, da Noi tuttavia sempre venerato, Monsignor Marcel Lefebvre.

È tanto doloroso il notarlo: ma come non vedere in tale atteggiamento – qualunque possano essere le intenzioni di queste persone – porsi fuori dell’obbedienza e della comunione con il Successore di Pietro e quindi della Chiesa?

Poiché questa, purtroppo, è la conseguenza logica, quando cioè si sostiene essere preferibile disobbedire col pretesto di conservare intatta la propria fede, di lavorare a proprio modo alla preservazione della Chiesa cattolica, negandole al tempo stesso un’effettiva obbedienza. E lo si dice apertamente! Si osa affermare che il Concilio Vaticano II non è vincolante; che la fede sarebbe in pericolo altresì a motivo delle riforme e degli orientamenti Post-conciliari, che si ha il dovere di disobbedire per conservare certe tradizioni. Quali tradizioni? È questo gruppo, e non il Papa, non il Collegio Episcopale, non il Concilio Ecumenico, a stabilire quali, fra le innumerevoli tradizioni debbono essere considerate come norma di fede! Come vedete, venerati Fratelli nostri, tale atteggiamento si erge a giudice di quella volontà divina, che ha posto Pietro e i Suoi Successori legittimi a Capo della Chiesa per confermare i fratelli nella fede, e per pascere il gregge universale (Cfr. Luc. 22, 32; Io. 21, 15 ss.), che lo ha stabilito garante e custode del deposito della Fede.

E ciò è tanto più grave, in particolare, quando si introduce la divisione, proprio là dove congregavit nos in unum Christi amor, nella Liturgia e nel Sacrificio Eucaristico, rifiutando l’ossequio alle norme definite in campo liturgico. È nel nome della Tradizione che noi domandiamo a tutti i nostri figli, a tutte le comunità cattoliche, di celebrare, in dignità e fervore la Liturgia rinnovata. L’adozione del nuovo “Ordo Missae” non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l’Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell’antica forma, con l’autorizzazione dell’ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populoIl nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino.

La stessa disponibilità noi esigiamo, con la stessa autorità suprema che ci viene da Cristo Gesù, a tutte le altre riforme liturgiche, disciplinari, pastorali, maturate in questi anni in applicazione ai decreti conciliari. Ogni iniziativa che miri a ostacolarli non può arrogarsi la prerogativa di rendere un servizio alla Chiesa: in effetti reca ad essa grave danno».

(https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1976/documents/hf_p-vi_spe_19760524_concistoro.html)

Invocazione di San Giovanni Bosco a Maria Ausiliatrice

O Maria, vergine potente, tu sei grande e sublime difesa della Chiesa; tu mirabile aiuto dei cristiani; tu sei terribile come una schiera ordinata a battaglia; tu che da sola sbaragliasti tutte le eresie nel mondo intero; tu nelle afflizioni, nella guerra, nelle difficoltà difendici dal nemico e nell’eterna gioia accoglici nell’ora della morte. Così sia.

La devozione per il Papa, secondo S. Giovanni Bosco

Infine riportiamo, in questo giorno così caro a don Bosco, i suoi insegnamenti e le testimonianze della sua vita a riguardo del Papa. Allora come adesso se un Papa è un vero Papa, Legittimo Successore di San Pietro, Vicario di Cristo etc, ecco come dobbiamo rapportarci a lui, se siamo veri cattolici e non un qualsivoglia protestante.

 

Tratto da: San Giovanni Bosco, meditazioni per la novena, le commemorazioni mensili e la formazione salesiana. Autore: Sac. Domenico Bertetto SDB

Il grande amore e la indefettibile fedeltà di Don Bosco verso il Papa sono fondati sulla viva fede che lo illuminava, circa la dignità e le prerogative del Papa, facendogli vedere in lui il Vicario di Gesù Cristo, il Maestro infallibile, il supremo Pastore a cui Gesù ha affidate tutte le pecorelle del suo mistico Gregge, e che lo Spirito Santo assiste e dirige con specialissima provvidenza nel governo della Chiesa, affinché non abbia ad errare, ma invece assolva fedelmente al suo altissimo ufficio.

Un giorno Pio IX domandò a Don Bosco: «Mi amano i vostri giovani?». «Santo Padre, se vi amano? — rispose Don Bosco — vi hanno nel cuore. Il vostro nome lo portano intrecciato con quello di Dio». (VIII , 719).

La frase è ardita, ma vera. Infatti il Papa è Dio sulla terra. Gesù, dopo aver compiuta la sua missione redentrice, se ne partì, ma al suo stesso posto lasciò il Papa. E’ vero che Gesù torna e rimane in mezzo a noi nell’Eucaristia, ma in essa resta muto; ci nutre, ma non parla e non ci governa in modo visibile. A parlarci e a governarci lasciò il Papa, «il dolce Cristo in terra».

Gesù ha posto il Papa:

al di sopra dei profeti: perché questi preannunziano Gesù, mentre il Papa è la voce di Gesù;

al di sopra del Precursore: perché S. Giovanni Battista diceva: «Io non sono degno di sciogliergli i calzari», mentre il Papa deve dire: «Deo exhortante per nos, Dio parla per mezzo nostro»;

al di sopra degli angeli: a quale degli angeli ha detto: Siedi alla mia destra? A S. Pietro invece ed agli apostoli Egli ha detto: Voi sederete a giudicare le dodici tribù d’Israele.

Gesù ha collocato il Papa al livello stesso di Dio. Egli infatti dice a Pietro e ai suoi successori: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato». (Luca, 10, 16).

Perciò al Papa non si deve solo rispetto, ma venerazione, tenendo conto della sua eccelsa dignità e delle sue prerogative di Maestro infallibile e Pastore supremo, di cui Gesù lo ha insignito.

Se i fedeli genuflettono alla sua presenza, non fanno che tradurre all’esterno il sentimento che domina la loro anima: rendere omaggio a Gesù Cristo, presente nel suo Vicario in terra.

Conoscere il Papa, far conoscere il Papa: ecco l’impegno costante di Don Bosco nei suoi studi teologici, nei suoi scritti (basta pensare ai numerosi fascicoli delle Letture Cattoliche dedicati a questo argomento), nelle sue prediche e parlate ai giovani. Ho lo stesso interesse per il Papa? Mi dò premura di conoscere i documenti pontifici? I giovani trovano in me anzitutto un maestro illuminato e convinto, che fa loro conoscere il Papa?

Amare il Papa

Ecco i sentimenti professati costantemente da Don Bosco verso il Romano Pontefice: «Se mai la mia voce potesse giungere a quell’angelo consolatore: Beatissimo Padre, io direi, ascoltate e gradite le parole di un figlio povero, ma a Voi affezionatissimo. Noi vogliamo assicurarci la via che ci conduce al possesso della vera felicita; perciò tutti ci raccogliamo intorno a Voi come Padre amoroso e Maestro infallibile. Le Vostre parole saranno guida ai nostri passi, norma alle nostre azioni. I Vostri pensieri, i Vostri scritti, saranno accolti con la massima venerazione e con viva sollecitudine diffusi nelle nostre famiglie, fra i nostri parenti, e se fosse possibile, per tutto il mondo. Le Vostre gioie saranno pur quelle dei Vostri figli e le Vostre pene e le Vostre spine saranno parimenti con noi divise. E come torna a gloria del soldato, che in campo di battaglia muore per il suo sovrano, così sarà il più bel giorno di nostra vita, quando per Voi, o Beatissimo Padre, potessimo dare sostanza e vita, perché morendo per Voi, abbiamo sicura caparra di morire per quel Dio che corona i momentanei patimenti della terra con gli eterni godimenti del cielo». (XII, 171).

«Confesso altamente che fo miei tutti i sentimenti di fede, di stima, di rispetto, di venerazione, di amore inalterabile di S. Francesco di Sales verso il Sommo Pontefice». (XVIII, 277).

L’amore di Don Bosco verso il Papa si effondeva in fervide esortazioni per suscitare tale amore anche negli altri.

«Amiamoli i Romani Pontefici — egli diceva con convinzione ed ardore — e non facciamo distinzione del tempo e del luogo in cui parlano; quando ci danno un consiglio e più ancora quando ci manifestano un desiderio, questo sia per noi un comando». (V, 573).

«Volete voi essere forti per combattere contro il demonio e le sue tentazioni? Amate la Chiesa, venerate il Sommo Pontefice». (VI, 347).

Il programma di Don Bosco fu sempre questo: tutto col Papa, pel Papa, amando il Papa. (I, 12).

Con ragione gli stessi giornali liberali scrivevano: «In Don Bosco l’arte di innamorare al Papato è tutto e si può dire che in ciò vale mille maestri clericali». (XIV, 189).

Ecco quindi il programma che Don Bosco mi affida: far ardere nel mio cuore i grandi amori che hanno infiammato il suo: Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice e il Papa.

Che cosa posso fare per amare di più il Papa? Come adoperarmi per suscitare nelle anime a me affidate l’amore al Papa. Con l’occhio agli esempi di Don Bosco e il cuore dilatato dai palpiti d’amore che da essi si sprigionano, non avrò certo difficoltà a regolare pensieri, affetti e opere, in modo che risulti chiaro il mio amore al Papa e divampi dal mio nel cuore di quanti da me dipendono.

Servire il Papa

L’amore al Papa si deve tradurre nella piena e incondizionata fedeltà a tutte le sue direttive.

«Il mio sistema — afferma Don Bosco — è quello di professare la Dottrina Cattolica, e seguire ogni detto, ogni desiderio, ogni consiglio del Romano Pontefice». (XV, 251).

«Io sottometto ogni detto, scritto o stampa a qualsiasi correzione, decisione o semplice consiglio della Santa Madre, la Chiesa Cattolica», ossia al suo capo, il Papa. (XVII, 265).

«Io sono attaccato al Papa più che il polipo allo scoglio». (VIII, 862). «Col Papa intendo rimanere da buon cattolico fino alla morte». (VI, 679).

In questa nobilissima consegna Don Bosco ha impegnato tutti i suoi figli, avendo fondata la Congregazione salesiana per la difesa del Papa. «Scopo fondamentale della Congregazione… fin dal suo principio fu costantemente sostenere e difendere l’autorità del Capo supremo della Chiesa nella classe meno agiata della società e particolarmente della gioventù pericolante». (X, 762).

«Intendo che gli alunni dell’umile Congregazione di S. Francesco di Sales non si discostino mai dai sentimenti di questo gran Santo verso la Sede Apostolica; che raccolgano prontamente e con semplicità di mente e di cuore, non solo le decisioni del Papa circa il dogma e la disciplina, ma che nelle cose stesse disputabili abbraccino sempre la sentenza di Lui». (XVIII, 277).

«Siccome è un cattivo figlio quello che censura la condotta di suo padre, così è un cattivo cristiano colui che censura il Papa, che è padre dei fedeli cristiani che sono in tutto il mondo». (IV, 55).

Con ragione Pio XI in un pubblico discorso chiamò Don Bosco «un grande, fedele e veramente sensato servo della Chiesa Romana, della S. Sede… perché tale egli fu sempre veramente».

Anche di ogni Salesiano si deve poter dire, sempre ed ovunque, che è un fedele e convinto figlio della Chiesa e del Papa. Solo a questa condizione Don Bosco lo riconosce come suo figlio, vivente nel suo stesso spirito.

Aiutami dunque, o buon Padre, ad imitarti sempre meglio nel conoscere, amare ed obbedire al Papa.

Mi devo impegnare in modo speciale a conoscere meglio gli insegnamenti del Papa. Con mirabile e continuo magistero Egli diffonde perennemente la luce del Vangelo nei vari settori della vita e dell’attività individuale, familiare e sociale. Debbo quindi attingere ai suoi insegnamenti per rendere sicuro e aggiornato il mio magistero catechistico e la mia predicazione.

I nemici di Dio spargono le più infami calunnie contro il Papa, che presentano come istigatore di guerra, nemico degli operai, oppressore della libertà. Il Papa deve trovare in me un soldato valoroso che sa prendere con competenza le Sue difese per far trionfare la verità.

Conoscendo e divulgando l’insegnamento del Papa ne promuoverò certamente anche l’amore e la fedeltà.

Fonte: https://www.paolodetoth.it/paolo-vi-24-maggio-1976-il-nuovo-ordo-e-stato-promulgato-perche-si-sostituisse-allantico/

La battaglia di Vienna, che ci salvò dall’invasione islamica

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Historia magistra vitae. Purtroppo l’attuale Europa dimentica la propria identità. Noi intendiamo ricordarla, perché non si compiano gli errori del passato (n.d.r.)

di Matteo Castagna

UNA GUERRA SCONOSCIUTA AI PIÙ, PROBABILMENTE PERCHÉ POCO STUDIATA IN QUANTO POLITICAMENTE SCORRETTISSIMA

Una guerra sconosciuta ai più, probabilmente perché poco studiata in quanto politicamente scorrettissima, ha fatto la storia dell’Europa: la battaglia di Vienna del 12 Settembre 1683. Di questa straordinaria e fondamentale vittoria, paladini della cristianità del XVII secolo: il cappuccino Carlo Domenico Cristofori, chiamato Marco D’Aviano e il Papa Innocenzo XI. la crociata fu preparata da un’ intensa opera di apostolato e predicazione in tutta l’Europa, effettuata instancabilmente dal frate, ed accompagnata da una serie di miracoli che accrescevano la credibilità e l’autorevolezza del religioso, in tutto il continente.

Innocenzo XI si fidò unicamente della Provvidenza divina: “In sola spe gratiae coelestis”. Si è occupato della riforma dei costumi, soprattutto in riguardo allo stato spirituale degli ecclesiastici. In particolare, si scagliò contro il lusso che regnava tra i vescovi e cardinali dell’epoca. Nella sua camera e nel suo studio si vide solo la figura di Cristo risorto. “Era tale la compassione che Innocenzo XI provava per i poveri, che si tenne la stessa veste per tutta la durata del pontificato: mai la volle cambiare, nemmeno quando divenne logora e quasi inutilizzabile […]”. Lo storico Ludwig von Pastor, nella sua “Storia dei Papi”, descrive così Benedetto Odescalchi: “Il significato storico-universale del suo pontificato, di gran lunga il più importante e glorioso nella seconda metà del secolo XVII…consiste nella sua politica, mantenuta ferma sino all’ultimo respiro, di unire le potenze cristiane contro l’attacco violento dell’islam”. Naturalmente l’impegno più importante per cui sarà ricordato per sempre è la liberazione di Vienna dall’assedio degli Ottomani nel 1683. Contemporaneamente, Padre Marco d’Aviano trascorreva un’esistenza austera e isolata, dormiva solo tre per notte su un letto di foglie secche, per il resto pregava e leggeva. Mangiava pochissimo, mai carne, uova e formaggio, la sua dieta era poco latte e poi frutta e verdura. Cercò sempre di rispettare scrupolosamente le regole dell’Ordine francescano. Sostanzialmente condusse una “vita intensa e spirito di preghiera; devozione e contemplazione; pratica radicale dell’altissima povertà interiore es esteriore […] grande ardore nella predicazione e apostolato ricondotto alla semplicità e umiltà evangeliche; carità concreta e prontezza nel servire ogni fratello bisognoso; spirito ecclesiale nella sottomissione e totale docilità al Pontefice romano e alla Chiesa gerarchica: queste erano le linee fondamentali della spiritualità ‘cappuccina’ che adottò il frate di Aviano”.

Il Seicento fu, per l’Europa cristiana, intriso di paura di essere invasi e conquistati dai turchi. Di fronte a questo vero e proprio incubo, c’era la divisione politica dell’Europa. In particolare, la Francia di Luigi XIV era in continuo dissidio sia con l’imperatore Leopoldo I, che con la Chiesa di Roma. Capita che alcuni governanti diventano protestanti per accaparrarsi i beni della Chiesa. Il re di Francia osteggiò apertamente gli Asburgo nella lotta contro gli ottomani.“Per tutto il Seicento, la discordia fra i principi all’interno degli stati cristiani fu grande e capillarmente diffusa. Essi si combatterono e si indebolirono a vicenda per egoistiche ragioni di predominio”. Invece padre Marco e Innocenzo XI, lavoravano per la liberazione della cristianità dal flagello turco, pertanto appoggiarono l’impero. Addirittura, il Papa affermò: “[…] saria andato volentieri alla testa dell’esercito e salito sulle navi da guerra per combattere contro il comune esercito”. Il pensiero dominante del Pontefice era quello di organizzare una Lega difensiva contro il pericolo turco. Oltre ai due beati, altre grandi personalità li affiancarono o con essi si scontrarono in quel frangente per il futuro dell’intero continente europeo.

Solo qualche nome, segnalo oltre a Luigi IV e Leopoldo I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero. Il compagno di viaggio di Marco D’Aviano, padre Cosma da Castelfranco. Giovanni III Sobieski re di Polonia e granduca di Lituania, grande ammiratore di padre Marco. Infine, Eugenio di Savoia-Garignano, comandante supremo dell’esercito imperiale. E poi Kara Mustafa Pasha di Merzifon, comandante in capo dell’armata turca.

Le truppe cristiane erano composte da settantamila uomini, un numero assai inferiore rispetto ai centocinquantamila dell’armata turca del gran visir Kara Mustafa Pasha che intendeva conquistare prima Vienna e successivamente Roma per fare di San Pietro la scuderia per i suoi cavalli. A questo proposito scrive lo storico Arrigo Petacco in “L’ultima crociata”: “con i se e con i ma la storia non si fa, va comunque sottolineato che se a Vienna, quel 12 settembre 1683, un qualsiasi accidente avesse fermato la carica degli ‘ussari alati’ che si scatenarono contro i turchi come arcangeli vendicatori, oggi probabilmente le nostre donne porterebbero il velo”.

Il 12 settembre prima della battaglia, sulle alture del Kahlemberg, padre Marco celebra la Messa, servita da due chierichetti d’eccezione: il re di Polonia e il Duca di Lorena, distribuisce la comunione ai comandanti, benedice l’esercito cristiano con la sua croce di legno. Attorno alle 12 ebbe inizio la battaglia. Lo scontro viene descritto da padre Cosma, testimone diretto dell’evento. La battaglia ben presto costringe miracolosamente i turchi alla resa. I trionfi dell’esercito cristiano – scrive il “cardinale” Schonborn – a Vienna, e poi a Buda, allontanarono il serio rischio di un’islamizzazione dell’Europa”. L’esultanza in tutta l’Europa fu immensa, l’unico a non esultare fu il re di Francia.

La preoccupazione dei due grandi della Civitas Christiana, Innocenzo XI e padre Marco, “fu la difesa della cristianità, e del cattolicesimo in modo particolare, e non la supremazia sull’islam. Si trattò, dunque, di un’azione di tutela e non di una crociata…”. Ne è convinto anche Petacco, le crociate, furono invece una legittima risposta al jihad. Tra l’altro padre Marco dopo queste liberazioni cercò di convincere i regnanti di completare l’opera di liberazione dei territori europei ancora in mano agli ottomani, la salvezza dell’Europa era sempre in cima ai suoi pensieri.

Il cattolico tiepido o chi si finge cattolico è restio a riconoscere la verità storica, determinata sia dall’eccezionale spiritualità dei due sopraccitati protagonisti, che dalle loro indiscutibili capacità politiche, nell’arte della mediazione, della diplomazia, dell’intuizione, della capacità oratoria, basate su quel connubio inscindibile tra Fede e Ragione così caro a San Tommaso d’Aquino. oggi, se si parla di loro, lo si attraverso un’oleografia molto parziale per non urtare la sensibilità degli islamici. Fortunatamente, il beato Innocenzo XI e padre Marco d’Aviano non furono buonisti, altrimenti da almeno 500 anni saremmo tutti in ginocchio verso la Mecca.

Fonte: https://www.informazionecattolica.it/2023/09/12/quella-battaglia-che-ci-salvo-dallinvasione-islamica/

L’Assedio dell’Alcàzar di Toledo

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di Matteo Castagna

 

L’uomo della modernità ha perso la Fede e non riconosce più la figura dell’eroe. Mentre nel mondo classico quest’ultima nutriva grande rispetto, se non venerazione, per la sua audacia nel compiere il bene, guidata da una sua fede nella benevolenza degli dèi, in epoca cristiana trovò nei Santi, martiri per la Fede in Gesù Cristo, il suo modello d’eroe da imitare. L’eroe della tradizione combatteva per il prossimo senza un secondo fine. Era il popolo che gli attribuiva la gloria conforme all’azione compiuta. Il cristiano rifuggiva la gloria che gli aumentava l’orgoglio, accrescendo, così, con l’umiltà, il suo spirito eroico.

Come ha detto il fisico Sheldon Cooper: “Il vero eroe non cerca l’adulazione, combatte per la verità e la giustizia solo perché quella è la sua natura”. Oggi gli ideali seguiti dagli “eroi” contemporanei sono tremendamente distorti rispetto all’antichità: tutto si fa, spesso, per fini economici ed encomiastici; eppure, anche se ci sono soggetti come loro, ciò non vuol dire che non si possa scorgere traccia di eroicità in coloro che combattono per una giusta causa.

E’ il caso dello spagnolo José Moscardó Ituarte. Egli nacque a Madrid il 26 Ottobre del 1878, nel periodo del declino dell’Impero di Madrid. Venne descritto come uomo molto religioso e risoluto. Le truppe al suo comando, ad ogni pausa delle battaglie, si raccoglievano in preghiera, si confessavano e assistevano alla Santa Messa celebrata da uno dei diversi cappellani militari.

Il 21 Luglio 1936, a quattro giorni dallo scoppio della Guerra Civile, iniziò l’assedio dell’Alcazar (dall’arabo al-qasr, fortezza) di Toledo, città sotto il comando di Ituarte, che disponeva di un migliaio di soldati e di qualche centinaio di civili per difendere il suo territorio. Il 23 Luglio, le forze armate Repubblicane riuscirono a catturare il figlio di Ituarte, Luis Moscardò, minacciando di fucilarlo, se Josè non si fosse arreso.

Così, egli disse al figlio: “raccomanda la tua anima a Dio, grida “¡Viva España!” e muori con onore”. Luis, con grande compostezza e lo sguardo fiero, si fece fucilare da eroe. La battaglia continuava, i bombardamenti pure, le morti si intensificavano ma all’Alcazar si resisteva. Le truppe repubblicane non riuscivano a sfondare, nonostante i loro ottomila uomini.

L’assedio dell’Alcazar di Toledo fu uno dei momenti più unici della guerra civile spagnola. Durante la rivolta dei generali in diverse città, vi furono rastrellamenti da parte dei comunisti e dei repubblicani che colpirono i monarchici, falangisti, militari, clero, e guardia civil, comprese le famiglie. A Toledo il colonnello Moscardò concentrò la guardia civil, i cadetti e un certo numero di falangisti, con oltre 500 civili, nella vecchia fortezza dell’Alcazar e, spinto da una fede eroica riuscì a resistere fino allo stremo delle forze. Il 22 agosto un SM-81 dell’Aviazione legionaria (ossia italiano) sorvolò l’Alcazar e lanciò degli involti contenenti viveri e volantini con scritto: “L’esercito saluta i prodi difensori dell’Alcazar. Stiamo marciando in vostro aiuto. Le nostre colonne avanzano rompendo ogni resistenza. Viva gli eroici difensori delll’Alcazar! Arrìba España ! Il comandante dell’Armata Africa, generale Francisco Franco”.

Franco, infatti, a capo dell’esercito nazionalista, deviò verso Toledo, mise in fuga i repubblicani e interruppe l’assedio, ricongiungendosi con le truppe di Moscardò. Vittoria!

Salutati i difensori, Franco si rivolse ai giornalisti presenti. «Adesso la guerra è vinta» dichiarò. «La liberazione dell’Alcázar è stata la vittoria più importante della mia vita». Tre giorni dopo, Franco veniva nominato capo del governo e capo dello Stato spagnolo, nonché generalissimo delle forze armate di terra, di mare e dell’aria. Il mito del «Caudillo» sorgeva fra le rovine della ormai celebre fortezza, che all’insaputa degli indomiti belligeranti legittimisti e controrivoluzionari spagnoli, veniva raccontata, giorno dopo giorno, come un’eroica impresa, ai limiti del romanzo epico, dai mezzi di informazione.

 

L’Assedio dell’Alcàzar di Toledo

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di Matteto Castagna

 

L’uomo della modernità ha perso la Fede e non riconosce più la figura dell’eroe. Mentre nel mondo classico quest’ultima nutriva grande rispetto, se non venerazione, per la sua audacia nel compiere il bene, guidata da una sua fede nella benevolenza degli dèi, in epoca cristiana trovò nei Santi, martiri per la Fede in Gesù Cristo, il suo modello d’eroe da imitare. L’eroe della tradizione combatteva per il prossimo senza un secondo fine. Era il popolo che gli attribuiva la gloria conforme all’azione compiuta. Il cristiano rifuggiva la gloria che gli aumentava l’orgoglio, accrescendo, così, con l’umiltà, il suo spirito eroico.

Come ha detto il fisico Sheldon Cooper: “Il vero eroe non cerca l’adulazione, combatte per la verità e la giustizia solo perché quella è la sua natura”. Oggi gli ideali seguiti dagli “eroi” contemporanei sono tremendamente distorti rispetto all’antichità: tutto si fa, spesso, per fini economici ed encomiastici; eppure, anche se ci sono soggetti come loro, ciò non vuol dire che non si possa scorgere traccia di eroicità in coloro che combattono per una giusta causa.

E’ il caso dello spagnolo José Moscardó Ituarte. Egli nacque a Madrid il 26 Ottobre del 1878, nel periodo del declino dell’Impero di Madrid. Venne descritto come uomo molto religioso e risoluto. Le truppe al suo comando, ad ogni pausa delle battaglie, si raccoglievano in preghiera, si confessavano e assistevano alla Santa Messa celebrata da uno dei diversi cappellani militari.

Il 21 Luglio 1936, a quattro giorni dallo scoppio della Guerra Civile, iniziò l’assedio dell’Alcazar (dall’arabo al-qasr, fortezza) di Toledo, città sotto il comando di Ituarte, che disponeva di un migliaio di soldati e di qualche centinaio di civili per difendere il suo territorio. Il 23 Luglio, le forze armate Repubblicane riuscirono a catturare il figlio di Ituarte, Luis Moscardò, minacciando di fucilarlo, se Josè non si fosse arreso.

Così, egli disse al figlio: “raccomanda la tua anima a Dio, grida “¡Viva España!” e muori con onore”. Luis, con grande compostezza e lo sguardo fiero, si fece fucilare da eroe. La battaglia continuava, i bombardamenti pure, le morti si intensificavano ma all’Alcazar si resisteva. Le truppe repubblicane non riuscivano a sfondare, nonostante i loro ottomila uomini.

 

L’assedio dell’Alcazar di Toledo fu uno dei momenti più unici della guerra civile spagnola. Durante la rivolta dei generali in diverse città, vi furono rastrellamenti da parte dei comunisti e dei repubblicani che colpirono i monarchici, falangisti, militari, clero, e guardia civil, comprese le famiglie. A Toledo il colonnello Moscardò concentrò la guardia civil, i cadetti e un certo numero di falangisti, con oltre 500 civili, nella vecchia fortezza dell’Alcazar e, spinto da una fede eroica riuscì a resistere fino allo stremo delle forze. Il 22 agosto un SM-81 dell’Aviazione legionaria (ossia italiano) sorvolò l’Alcazar e lanciò degli involti contenenti viveri e volantini con scritto: “L’esercito saluta i prodi difensori dell’Alcazar. Stiamo marciando in vostro aiuto. Le nostre colonne avanzano rompendo ogni resistenza. Viva gli eroici difensori delll’Alcazar! Arrìba España ! Il comandante dell’Armata Africa, generale Francisco Franco”.

Franco, infatti, a capo dell’esercito nazionalista, deviò verso Toledo, mise in fuga i repubblicani e interruppe l’assedio, ricongiungendosi con le truppe di Moscardò. Vittoria!

Salutati i difensori, Franco si rivolse ai giornalisti presenti. «Adesso la guerra è vinta» dichiarò. «La liberazione dell’Alcázar è stata la vittoria più importante della mia vita». Tre giorni dopo, Franco veniva nominato capo del governo e capo dello Stato spagnolo, nonché generalissimo delle forze armate di terra, di mare e dell’aria. Il mito del «Caudillo» sorgeva fra le rovine della ormai celebre fortezza, che all’insaputa degli indomiti belligeranti legittimisti e controrivoluzionari spagnoli, veniva raccontata, giorno dopo giorno, come un’eroica impresa, ai limiti del romanzo epico, dai mezzi di informazione.

 

Il 25 luglio nacque dalle bombe del 19 luglio

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di Marcello Veneziani

L’Italia si sfasciò, in ogni senso, tra il 25 luglio e l’8 settembre di ottant’anni fa. Ma prima ci fu il 19 luglio, un antefatto che di solito non viene collegato alla caduta del regime fascista. Che successe il 19 luglio? Roma fu pesantemente bombardata dagli americani; dai tempi delle invasioni barbariche, e poi del sacco di Roma di cinque secoli fa, a opera dei Lanzichenecchi, non era stata messa a ferro e fuoco in quel modo. Tremila morti nella popolazione, di cui la metà nel solo quartiere di San Lorenzo, migliaia di feriti, case distrutte, terrore. Cinquemila bombe sganciate sulla capitale da cinquecento bombardieri, un secondo bombardamento fu effettuato il 13 agosto. La fatidica immagine del Papa Pio XII a San Giovanni in Laterano che allarga le braccia in un atto estremo di paternità e soccorso; la Città Eterna ormai si raccomanda a Dio, avendo perso l’incrollabile fiducia nella storia e nella sua gloriosa incolumità.
Di solito si collega allo sbarco angloamericano in Sicilia iniziato pochi giorni prima, la spinta decisiva alla svolta del 25 luglio. Ma si sottovaluta l’impatto emotivo, la paura e la percezione di vulnerabilità che il bombardamento del 19 luglio ha procurato nell’establishment, tra le gerarchie militari e sulla stessa Corona. Tutti, dal Re ai capi e capataz avvertono di essere ormai in balia degli eventi, esposti alla tragedia, ormai insicuri fin dentro casa, nei palazzi del potere romano…
Il fatidico 25 luglio, spartiacque nella storia del novecento italiano e punto di svolta nella seconda guerra mondiale, ebbe però un significato storico proverbiale e paradigmatico nella storia d’Italia. Se non fosse per la galoppante amnesia che ci prende ormai da anni e cancella rapidamente pagine e pagine di storia e memoria, dovremmo ricordare gli ottant’anni del 25 luglio perché è una data “fondativa” che rivela l’indole italiana ed è soprattutto il tormentone della storia d’Italia, il suo archetipo.
Il giorno in cui cadde il regime fascista, per voto democratico del Gran Consiglio, quando il Re Vittorio Emanuele III passò da Imperatore per grazia del Duce a carceriere del Duce medesimo, diventò la data ufficiale dello sbandamento e dello sdoppiamento nazionale. Il 25 luglio è il paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo. Ogni leader deposto nella nostra repubblica ha subito la sindrome del 25 luglio: da Craxi a d’Alema, da Berlusconi a Bossi, da Letta a Renzi, fino a Salvini e perfino Di Maio, solo per dire dei più recenti. Forse fa eccezione Giuseppe Conte, che si tradì da solo, e non fu, come un film biblico famoso, “Giuseppe venduto dai fratelli”.
Per i missini la replica del 25 luglio era la scissione di Democrazia Nazionale dal Msi, compiuta dai “migliori” della classe dirigente missina nel 1976; Giorgio Almirante ripeteva a loro proposito che era stato coniato dopo il 25 luglio un verbo in inglese, To Badogliate, per indicare il tradimento, usando come verbo il nome del Maresciallo Badoglio, colui che assunse la guida del governo dopo la caduta di Mussolini. Poi venne il caso Fini, divenuto in Alleanza Nazionale il nuovo Badoglio per antonomasia.
Il 25 luglio fu un mezzo golpe, come del resto era stato ventun anni prima la Marcia su Roma. Metà istituzionale e metà atto di forza, ma incruenti in ambo i casi, all’inizio e alla fine del regime fascista nel XXI anno della sua era (per essere un’era, durò pochino). Il 25 luglio è anche un evento paradossale: un dittatore va al Gran Consiglio consapevole del destino che lo attende, cade democraticamente, con voto di maggioranza, rimette il suo mandato nelle mani del Re e poi si fa arrestare senza alcuna reazione, forse concordando il suo esautoramento e perfino scegliendo la destinazione della sua prigionia. Perfino Donna Rachele, che non era un raffinato politologo ma una vivace donna del popolo, aveva capito il tranello e lo aveva scongiurato di non andare a quella seduta. Lui invece ci va, come se volesse quel che poi accadde; era un modo per dimettersi e per lasciare che l’Italia avesse le mani libere dall’alleato tedesco. Seguono due anni di orrori ma non sono solo legati ai campi di sterminio, alle esecuzioni naziste e fasciste ma ai bombardamenti americani sulle città e sulle popolazioni, alle migliaia di ragazze stuprate dai marocchini francesi e agli eccidi partigiani (foibe incluse).
Il 25 luglio ad abbattere il regime fascista sono i suoi quadrumviri superstititi della Marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi (Italo Balbo e Michelino Bianchi erano morti), le migliori intelligenze del regime, da Dino Grandi a Giuseppe Bottai, personalità di valore come l’economista Alberto de’ Stefani, il giurista Alfredo de Marsico, il sindacalista Edmondo Rossoni, il nazionalista Luigi Federzoni; quella che si potrebbe chiamare la destra del regime, sotto l’egida del Re, più qualche spurio. Con il Duce al Gran Consiglio restano in pochi. Mussolini è stanco e sfiduciato, non ama la prospettiva di andare al rimorchio dei tedeschi, magari voterebbe anche lui per la caduta del regime… Poi con l’8 settembre verranno le tragedie, da Salò al processo di Verona, gli eccidi rossi, i rastrellamenti tedeschi, la guerra civile, il tentativo di riprendere con la Repubblica sociale, con Mussolini metà prigioniero di Hitler e metà intenzionato a creare uno Stato cuscinetto, come dissero alcuni storici come Renzo De Felice, per impedire che i tedeschi, i nazisti prendessero il diretto controllo del nord d’Italia e si accanissero sugli italiani. Ma il Paese spaesato e decapitato, con la classe dirigente che si squaglia e va a vendersi l’Italia, comincia in quel dì, il 25 luglio (salvo antichi precedenti). Il 25 luglio, facendosi poi 8 settembre, non finì più, diventò un black friday in cui compiere periodicamente la svendita del magazzino morale e istituzionale del nostro Paese.

La Verità – 19 luglio 2023

In nome di Cristo Re, le insorgenze: la Vandea, le insorgenze antigiacobine, il carlismo

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A cura della Redazione di Rassegna Stampa

L’ESEMPIO DI CHI SEPPE OPPOPRSI ALL’OPPRESSIONE PRODOTTA DALLA MODERNA DEMOCRAZIA RELATIVISTICA

«Ogni società storica, dopo aver resistito all’inverosimile, reagisce all’imposizione di un abito organizzativo, istituzionale inadeguato e/o al tentativo di snaturarla per renderla docile a tale imposizione».

Nel nome di Cristo Re si raccontano tre insorgenze – la Vandea, le insorgenze antigiacobine, il carlismo – che pur non essendo gli unici e i principali episodi in cui il popolo cattolico ha reagito a chi voleva estinguere con la violenza la fede, sono quelli ancora poco conosciuti ai più, forse proprio per il loro esempio di coerenza cattolica.

Il lettore si commuoverà di fronte ai numerosissimi atti di difesa fino al supremo sacrificio di Cristo e della Chiesa; una commozione che occorre custodire nel cuore. Tuttavia, lo scopo di questa raccolta non è la consolazione, bensì le risoluzioni conseguenti la riflessione su queste grandi rivolte del passato.

Sì, meditiamo sulle inefficienze compiute nel passato, perché quelle attuali e future non siano più soltanto «un’espressione “debole” del tentativo di riappropriarsi della sovranità da parte di un “popolo” ridotto a “massa” dallo Stato moderno».

In ogni insorgenza son stati commessi errori e ingenuità: – l’improvvisazione dei vandeani, che tornavano ai campi con la bella stagione; – la mancanza di collegamento tra le numerosissime insorgenze italiane; – l’errore di fidarsi di un Governo autoritario da parte dei carlisti.

Meditando l’Insorgenza, l’accento non va posto soltanto sulla legittimità dinastica, sulla difesa della regione o della famiglia, ma su tutte queste tre cose (pro aris, focis, rege) e sull’oppressione prodotta dalla moderna democrazia relativistica. Così, è facile prevedere che ci saranno sempre più insorgenze, dovute alla crescente «sfiducia nelle istituzioni che documenta la crisi di legittimità», come illustra il profondo saggio che chiude questa raccolta.

Su Rassegna Stampa è possibile leggere e scaricare il volume

Fonte: www.informazionecattolica.it 

I conti mai fatti col fascismo

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di Massimo Fini

 

ARIANNA EDITRICE

Fonte: Massimo Fini

Claudio Anastasio, Presidente della 3-I, società pubblica, è stato massacrato (“apologia del fascismo” secondo il Pd e il quotidiano La Repubblica che ha fatto il presunto scoop) e quindi costretto a dimettersi perché in una mail interna inviata ai componenti del Consiglio di Amministrazione assumendosi la responsabilità dell’andamento dell’azienda, ha parafrasato, ripeto: parafrasato, il discorso con cui Benito Mussolini il 3 gennaio 1925 si era attribuito la responsabilità politica e morale dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Riferimento, quello di Anastasio, certamente inopportuno, sempre che sia stato voluto, ma nulla più. Winston Churchill replicò il famoso discorso di Catilina ai soldati prima della battaglia copiando letteralmente l’ultima frase: “vi prometto solo lacrime e sangue”. Non per questo Churchill può essere segnato a dito come un eversore dello Stato come lo fu Catilina. Si è andati a ravanare nel passato di Anastasio, si è scoperto che nel 1997 aveva curato un programma sulla storia del Duce. Forse che in Italia è proibito rifare, seguendo le proprie opinioni, giuste o sbagliate che siano, la storia di Mussolini e della sua famiglia? E allora mettiamo in galera anche Renzo De Felice che, come storico, ha chiarito dati alla mano che il Fascismo ebbe un largo consenso fra gli italiani (“gli anni del consenso”).
Polemiche sepolcrali come quelle sul fascismo e l’antifascismo possono esistere, a 75 anni dalla fine della guerra, solo in Italia. Il fatto è che noi italiani non abbiamo fatto i conti con la nostra storia recente assumendo come buona la sciagurata interpretazione di Benedetto Croce secondo il quale il Fascismo era stato “solo una parentesi della nostra storia”. Invece il Fascismo fa parte a pieno titolo della nostra storia nel male ma anche nel bene che pur ci fu. Montando la leggenda partigiana, e lo dico con il massimo rispetto per gli uomini e le donne che partigiani lo furono davvero e non solo dopo il 25 luglio, come ho rispetto dei ragazzi che andarono a morire per Salò in nome di altri valori, l’onore e la lealtà, che a quei tempi erano moneta corrente (non ho aspettato Luciano Violante per riconoscere pari dignità ai ragazzi che andarono a morire per Salò), noi abbiamo fatto finta di aver vinto una guerra che avevamo invece perso nel più sciagurato dei modi, tradendo, in una lotta per la vita e per la morte, l’alleato che ci eravamo scelti e schierandoci, come avevamo già fatto nella Prima guerra mondiale, col vincitore. In realtà la lotta partigiana, pur benemerita, fu marginale in quella tragica epopea che fu la Seconda guerra mondiale. I protagonisti furono altri: gli americani, gli inglesi, i russi sovietici da una parte (la Francia si è seduta arbitrariamente al tavolo dei vincitori, tanto che oggi conserva un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’ONU avendo avuto una Resistenza ancor più marginale di quella italiana, una correità col governo filo nazista del maresciallo Pétain e un’adesione della popolazione a quel regime filofascista maggiore di quella italiana) i nazisti tedeschi, gli italiani fascisti, i giapponesi dall’altra.
Fra le benemerenze di Mussolini si può mettere, paradossalmente, che fu il miglior alleato degli Alleati: “spezzeremo le reni alla Grecia” e dovette intervenire la Wermacht per salvarci, il Duce aprì il fronte africano di cui Hitler non voleva sapere e ci fu la sconfitta nella battaglia di El Alamein in cui gli italiani si portarono benissimo come ammise lo stesso Rommel, sconfitta scontata data la disparità delle forze in campo.
Uscendo dal paradossale fu Mussolini, come abbiamo già ricordato, a resistere alla crisi di Wall Street del ’29 creando l’IRI, e poi ci furono leggi economiche di tutto rispetto e un’attenzione all’istruzione con il  liceo classico curato da Giovanni Gentile, che è stato valido fino agli anni ’60 del dopoguerra e in qualche misura lo è ancora oggi (“il classico mi sta aiutando a cercare me stesso, a capire da dove vengo e chi devo diventare, fornendomi una preparazione versatile e multiforme” ha scritto al Corriere il sedicenne Flavio Maria Coticoni, che sia fascista anche lui?). Ci sono poi cose minori, molto irrise, come la divisa. Mi ha detto qualche anno fa una vecchia signora che fu ragazza durante il regime e che indossò quella divisa: “per noi ragazze e per i ragazzi la divisa nascondeva le differenze sociali fra chi può permettersi ed ostentare le griffe e chi no” come è storia di oggi. Ci sono le attività sportive imposte alla gioventù, anche se poi Starace, col salto nel ‘cerchio di fuoco’, rendeva ridicolo ciò che invece aveva un suo senso: tenere allenata la nostra gioventù, invece di accontentarsi di andare a vedere le partite di calcio.
E veniamo agli errori ed anche agli orrori di cui primo responsabile fu Benito Mussolini. Il primo fu quello di far entrare l’Italia in guerra assolutamente impreparata (“ci basteranno poche migliaia di morti per sederci al tavolo della pace”, abbiamo visto) e fu la tragedia dell’Armir. Ci sono poi il delitto Matteotti, l’assassinio a Parigi dei fratelli Rosselli, aver tenuto in galera per una decina di anni Antonio Gramsci il vero leader del Partito comunista (“dobbiamo impedire a questa mente di funzionare”). Anche se bisogna pur dire che fra tutti i totalitarismi di quei tempi nazismo, stalinismo, Mao Tse-tung, il Fascismo fu certamente il meno sanguinario.
C’è infine l’adesione alle leggi razziali che i nazisti non ci avevano nemmeno chiesto. Questa, sotto il profilo etico, è la colpa più grave oltre che grottesca. Se c’è un popolo che, “per fortuna o purtroppo” per dirla con Gaber, non può vantare alcuna purezza raziale è quello italiano che, conquistato di volta in volta da questo o da quello, è un crogiolo di etnie diverse (“Franza o Spagna purché se magna”).
Ma anche la questione semitismo/antisemitismo ha fatto il suo tempo. Gli ebrei non sono più i perseguitati di un tempo, appartengono anzi, grazie alla finanza internazionale, all’élite che governano il mondo. Si riconoscono in uno Stato, Israele, che un giorno sì e uno no ammazza bambini palestinesi solo perché palestinesi. Nella striscia di Gaza tengono un popolo in un lager a cielo aperto, proprio loro che dei lager furono le prime, anche se non le sole, vittime.
Gli emarginati oggi sono altri. Sono i migranti, in genere dell’Africa subsahariana, che vengono a morire sulle nostre coste e che Salvini, e tutti i razzisti alla Salvini, vorrebbero tener lontani così che anneghino in mare o siano respinti nell’inferno della Libia che proprio noi, francesi, americani, italiani, abbiamo creato, violando tutte le leggi internazionali a cui oggi siamo molto attenti nella guerra russo-ucraina, aggredendo uno Stato sovrano, come sovrani erano la Serbia e l’Iraq, e macellando il colonnello Muhammar Gheddafi in una maniera che disgusterebbe anche i ‘tagliagole’ dell’Isis.

 

Per approfondimenti: https://ariannaeditrice.musvc2.net/e/t?q=4%3dFd8VI%26F%3d4%26E%3dCY8X%26x%3dU6RF%26O%3djK3Ju_IZwR_Tj_LStY_Vh_IZwR_SoQyN.jLk2wHc6mCvIr7g.03_LStY_Vh21Nk4xFk_IZwR_SoC-eFwNk-DjC-h22j5c3Nk-4xH-kC-o5u4rMoF%26m%3dGwJ574.EnN%26kJ%3dEZ4U&mupckp=mupAtu4m8OiX0wt

 

Foibe: quando il Ricordo non basta

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di Giovanni Perez

La memoria delle foibe carsiche e istriane e l’esodo della popolazione italiana dalla Venezia-Giulia e dalla Dalmazia, che si protrasse fino alla fine degli anni Cinquanta, si è tramandata attraverso un sottilissimo filo, che ha rischiato più volte di spezzarsi; un filo che si rinforza soprattutto grazie a coloro che raccolgono in qualche modo l’eredità di quella pagina di storia lacerata da ferite non ancora rimarginate e che tali rimarranno, forse per sempre.

A rinforzare quel sottilissimo filo sono libri come quello recentemente edito dalle Edizioni Vita Nova, scritto da Lamberto Maria Amadei, in cui sono state raccolte le “giovani memorie fiumane” di Marina Smaila, quando fu strappata da quel mondo in cui muoveva i suoi primi passi e assaporava le prime gioie di bambina. Siamo in questo racconto di fronte al sovrapporsi delle vicende di una famiglia che viveva a Fiume, perciò italianissima, che cercò di sfuggire ad un destino di morte, catapultati così nella Storia, con la “S” maiuscola, che si consumò nei confini orientali di un’Italia uscita sconfitta dal conflitto mondiale. Furono anni terribili, in cui la realpolitik dei vincitori, soprattutto di quelli legati alla Russia sovietica, mai si coniugò con il più elementare sentimento di umanità, fino a perseguire, per ragioni ideologiche, il progetto di un annientamento totale della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, anche distr ggendo gli archivi, i monumenti su cui era impressa l’italianità di quei luoghi, trasmessa nel corso dei secoli attraverso innumerevoli generazioni.

Il 10 febbraio 1947, l’Italia stipulò con la Jugoslavia l’oneroso Trattato di pace con cui vennero cedute le terre istriane fiumane e dalmate, da secoli italianissime, e la creazione del Territorio Libero di Trieste.    A Fiume, Pola, Zara, Capodistria, Pirano, Parenzo e in tante altre città da sempre italiane e venete, i giovani sono stati educati all’idea, invece, che quelle terre furono sempre state abitate da sloveni e croati.

Le questioni delle foibe e dell’Esodo, che insanguinarono l’Istria e il Carso, la Venezia Giulia e la Dalmazia, sono intimamente connesse tra loro, sebbene ancora oggi vi sia chi tenta di negarlo. Entrambi sono l’esito di due cause, anche queste tra loro intimamente collegate. Da una parte un radicale odio anti-italiano, dalle radici antiche, ed ora scatenatosi senza alcun argine militare, dopo la ritirata dell’esercito italiano, dall’altra parte, lo svelamento della natura intrinsecamente criminogena dell’ideologia comunista, che, questa volta, aveva assunto il volto delle bande partigiane del maresciallo Tito.

Se non si comprende il concorso di questi due elementi, la Legge del 30 marzo 2004, istitutiva del Giorno del Ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati, presto o tardi diverrà carta straccia. Di ciò, purtroppo, si cominciano ad intravvedere i primi segnali, unitamente al prevalere delle tesi non più negazioniste delle foibe, ma di quelle giustificazioniste, che attribuiscono la reazione criminale degli slavi alla precedente politica fascista. Fortunatamente, sempre a sinistra, non mancano le eccezioni, e i vari Giampaolo Pansa hanno avuto il coraggio intellettuale di ammettere come sono andate veramente le cose, confutando alla radice quella assurda e insostenibile tesi.

Per i trecentocinquantamila esuli, iniziò un’odissea senza ritorno, negata non solo dal Partito comunista italiano, per il quale essi altro non erano che “criminali fascisti sfuggiti alla giustizia popolare jugoslava”. E l’identificazione tra le vittime delle foibe e quanti dovettero abbandonare case, affetti, ricordi e una loro presunta appartenenza ideale al fascismo, ha ispirato la storiografia negazionista e giustificazionista. Tale tesi ancora oggi non è stata affatto definitivamente confutata e si ritrova nelle volgari e squallide parole di un Tomaso Montanari e di altri epigoni e nostalgici del socialismo reale.

Il Partito comunista di Togliatti si schierò naturaliter con le bande partigiane del Maresciallo Tito, sebbene il loro odio anti-italiano, più forte dello stesso antifascismo, fosse ben noto agli stessi partigiani comunisti italiani che operarono nella Venezia-Giulia, costretta dalle necessità politiche ad un complice e omertoso silenzio. L’episodio di Malga Porzûs, che non fu affatto un caso isolato, ha fatto completa giustizia di questo aspetto tra i più esecrabili della lotta partigiana, e non solo di quella combattuta sul confine orientale.

Di Togliatti, il cosiddetto “Migliore”, si dovranno sempre ricordare le ignobili parole scritte nella lettera inviata il 7 febbraio del 1945 a Ivanoe Bonomi, in cui finì anche per riconoscere che a difendere gli italiani di quelle terre erano rimasti i fascisti e tedeschi! Un lapsus, si dirà, sicuramente tragico, per non dire comico.

Sono fin troppo note le angherie commesse in seguito, nell’Italia liberata, dai militanti comunisti ai danni degli esuli al loro arrivo in Italia, mentre ancora oggi non è stata adeguatamente considerato l’altrettanto orribile e sostanzialmente complice atteggiamento assunto dalla Democrazia cristiana, in ossequio alle scelte dei vincitori statunitensi e inglesi, come risultò evidente con la cessione della Zona B di Trieste alla Jugoslavia del novembre 1975. Le lacrime di Sandro Pertini sulla bara di Tito, poi, sono un episodio talmente inqualificabile, che merita solo disprezzo e silenzio; esso fu talmente sconcertante, che si commenta da solo.

Tragicamente sincere le parole di Oskar Piskulic, uno dei peggiori infoibatori, trascinato in giudizio presso il Tribunale di Roma dal giudice Giuseppe Pititto, che arrivò ad ammettere la verità, sostenendo che, in fondo, di italiani e fascisti, i partigiani comunisti avrebbero dovuto assassinarne ancora di più, fino alla completa loro estinzione, in quanto nemici di classe, ossia ostacolo da eliminare per realizzare finalmente la società comunista secondo le indicazioni di Tito.

Purtroppo, se vogliamo essere sinceri, ai tanti esuli che per ragioni molteplici, umanamente addirittura comprensibili, occultarono il proprio passato, la propria identità, si aggiunsero quelli che finirono per accettare la tesi che la responsabilità dei crimini commessi contro gli italiani, era da attribuire effettivamente alla politica del governo fascista, così assolvendo i propri carnefici, per ragioni perciò ideologiche. Non solo, perché contribuì anche un meccanismo ben noto alla psicologia e ben noto anche al coraggioso Giovannino Guareschi, che fu tra i primi a denunciarlo.

Più difficile, ovviamente, è riuscire ad imporre, nonostante l’evidenza storica, la tesi dell’intrinseca natura criminogena dell’ideologia comunista, per cui le foibe e i circa cento milioni di vittime dei tanti socialismi compiuti in nome del celebrato “Sol dell’avvenire”, non furono affatto effetti indesiderati dello stesso tentativo di realizzare sulla terra il paradiso socialista.

Secondo una leggenda balcanica, al termine di una uccisione e aver scaraventato nelle foibe i morti, i moribondi e le vittime ancor vive, si gettava anche la carcassa di un cane nero, affinché facesse la guardia alle anime delle vittime impedendo loro di affiorare e reclamare giustizia. Una leggenda, appunto, che dimostra però come, ancor oggi, la storia viene raccontata dai vincitori, violentando da cima a fondo la verità.

Spetta a noi fare in modo che le anime dei quindicimila infoibati non saranno mai dimenticate, perché se dovesse vincere l’oscuro guardiano della leggenda, sarebbe per tutti loro come morire una seconda volta.

“1945 Germania anno zero”: Atrocità e crimini di guerra Alleati nel “memorandum di Darmstadt”

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Segnalazione di Federico Prati

Nè revisionismo, né negazionismo: i crimini di una parte non giustificano, né elidono i crimini dell’altra parte: la conoscenza completa e onesta del passato, oltre a consapevolizzarci sull’oscurità che alberga nell’uomo, può impedire l’uso strumentale della storia e quindi il perpetuarsi di spirali di odio, violenza  e vendetta per i decenni successivi.

Con questa ispirazione è nato “Germania anno zero” (Italiastorica) l’ultimo libro dello studioso Massimo Lucioli, (già autore di notevoli studi sull’ultima guerra), dedicato al cosiddetto “Memorandum di Darmstadt”. Il volume comprende una sconvolgente raccolta di immagini, di cui molte inedite.

Nel 1946, il campo di internamento americano 91 a Darmstadt, in Assia, contava 24.000 prigionieri tedeschi. Qui, in segreto, durante il processo di Norimberga, un gruppo di avvocati internati raccolse per quattro mesi le dichiarazioni giurate di 6.000 testimoni sulle violazioni delle leggi e delle regole di guerra da parte degli Alleati: dagli eccidi sulla popolazione tedesca etnica in Polonia nel 1939 (che fornirono il casus belli a Hitler), alle uccisioni dei prigionieri di guerra germanici da parte sovietica prima –con casi di torture e mutilazioni – e Alleata poi. Si documentano le violenze sessuali e le brutalità dei soldati Alleati contro i civili tedeschi; gli stupri e i massacri di massa sovietici nelle province orientali della Germania nel 1944-’45; i bombardamenti incendiari sui quartieri popolari e centri storici delle città tedesche.

Particolare attenzione è dedicata  alle draconiane misure punitive concepite dal sottosegretario al tesoro americano Henry Morgenthau applicate – di fatto – nella direttiva JCS 1067. Questa circolare disciplinava la vita dei civili e prigionieri militari nella Germania occupata dagli Usa, ma fu poi recepita anche nei settori governati da francesi, inglesi e russi dopo la conferenza di Postdam del luglio’ 45.

La popolazione tedesca, già stremata dalla guerra, fu sottoposta a privazioni tali da portare alla morte per fame, freddo e malattie centinaia di migliaia di civili – specie anziani, bambini e donne – con tassi di mortalità infantile, in alcune città, del 100%.

Nel libro si tratta anche dell’ordine segreto emesso da Eisenhower il 10 marzo ‘45 con cui i prigionieri tedeschi venivano classificati come DEF (Disarmed Enemy Forces), perdendo il loro status di POW, (Prisoners of war): in tal modo, non potevano più godere delle garanzie di assistenza minima previste della Convenzione di Ginevra. In ordini successivi, Eisenhower autorizzò a sparare su tutti i civili tedeschi che portassero da mangiare ai loro compatrioti militari prigionieri, dato che questi “dovevano essere alimentati dal Governo tedesco”. Dettaglio: il governo tedesco non esisteva, e questo condurrà alla morte circa un milione di prigionieri di guerra germanici per fame, stenti e malattie nel periodo 1945-‘47.

Il memorandum di Darmstadt, compilato in sei copie, doveva essere presentato da Hermann Göring al tribunale di Norimberga nel suo discorso di chiusura il 5 luglio del 1946. Ciò però non avvenne: gli Alleati sequestrarono e bruciarono il memorandum, tuttavia, una copia fu trafugata, pubblicata in Argentina nel ‘53 e successivamente in Germania.

Una pila di menzogne per difendere l’indifendibile? Le testimonianze dei prigionieri tedeschi trovano effettivo riscontro su tempi, luoghi, vittime, procedure e responsabili nei saggi del funzionario ONU, esperto di diritto umanitario Alfred M. de Zayas e dello storico Franz W. Seidler dell’Università Bundeswehr di Monaco. Altre testimonianze sono state verificate da Lucioli nell’archivio online del dipartimento Personenbezogene Auskünft di Berlino-Reinickendorf (con schede su 2,5 mln di caduti tedeschi).

“Devo ancora leggere il libro – commenta lo storico Franco Cardini all’Adn Kronos –  ma non è una novità che anche gli Alleati abbiano commesso atti infami. Il memorandum di Darmstadt lo conosco e ci sono invecchiato insieme. Lo dicevo da anni e qualcuno insorgeva contro di me. Ormai certe verità uniche e menzogne sono diventate patrimonio dell’umanità. Ci vorrebbe più coraggio a dirlo, nessuno ha tutta la ragione in tasca. E questo non significa ridimensionare i crimini del nazismo, sia ben chiaro. I vincitori, quando hanno vinto, hanno fatto di tutto per imbiancare le loro coscienze e annerire quelle dei vinti. Abbiamo immagazzinato una quantità infinita di errori e inesattezze storiche incredibili, una tale potenza di accuse nei confronti dei vinti, alcune anche calunniose, da far paura. Solo adesso, dopo 80 anni, si comincia a fare i conti con la verità. Attenzione, dire che Churchill sia stato un mascalzone, non significa dire che Hitler aveva ragione”.

Chiosa Massimo Lucioli: “Bisogna ricordare che gran parte di tali crimini sconvolgenti furono compiuti a guerra finita contro la popolazione civile tedesca. Non si può parlare, quindi, di crimini di guerra, bensì di crimini contro l’umanità: una forma di vendetta. Lo stesso John F. Kennedy nel libro “Profiles in Courage” del 1956 ebbe parole molto critiche sul processo di Norimberga: «Un processo tenuto dai vincitori a cari­co dei vinti non può essere imparziale perché in esso prevale il biso­gno di vendetta. E dove c’è vendetta non c’è giustizia. A Norimberga, noi accettammo la mentalità sovietica che antepone la politica alla giustizia, mentalità che nulla ha in comune con la tradi­zione anglosassone. Gettammo discredito sull’idea di giustizia, mac­chiammo la nostra costituzione e ci allontanammo da una tradizione che aveva attirato sulla nostra nazione il rispetto di tutto il mondo»”.

Insomma, “1945. Germania anno zero” farà parlare di sé.
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