La donazione di Trump per influenzare il Conclave? 14 milioni per tirare la volata a Prevost

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L’assegno staccato in occasione del funerale di papa Francesco. Il tycoon punta sull’attività negoziale del cardinale americano Dolan

Città del Vaticano, 8 maggio 2025 – Dollari, dollari e ancora dollari. Sembra quasi un déjà-vu rispetto al Conclave del 1922 quando furono proprio i dollari americani a salvare la realizzazione dell’elezione del Papa. In quel caso, dopo quattordici scrutini, venne eletto papa il cardinale Achille Ratti, che prese il nome di Pio XI.

Che il Vaticano sia in deficit non è una novità ma certo è stato ben accolto l’assegno di 14 milioni di dollari staccato da Donald Trump in occasione del funerale di Papa Francesco, quando ha avuto il colloquio a quattr’occhi con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Una donazione molto generosa per un Vaticano che ha un deficit di circa 70 milioni di euro e che tira la volata a qualche candidato gradito proprio al presidente americano che è pur sempre impegnato in un grande sforzo di pacificazione mondiale.

Un’interferenza, un’indebita intromissione, un possibile caso di simonia? Le domande sono legittime, ma storicamente gli Stati Uniti sono insieme con la Germania tra i maggiori contributori della Santa Sede. Un’organizzazione che non vive del gettito fiscale, ma di una serie di entrate che puntano appunto sulle donazioni in primis e poi sui biglietti dei Musei Vaticani, concessione italiana ai tempi dei Patti Lateranensi.

Donald Trump, che è già stato in Vaticano come presidente degli Stati Uniti al primo mandato, sa come funzionano le cose di mondo. D’altronde anche nelle campagne presidenziali americane generosi donatori finanziano i possibili presidenti. E certo si tratta di una bella mano per un Vaticano che sta affrontando le spese extra e ingenti proprio del conclave, con il personale in pensione richiamato a mille euro per assistere la sicurezza, il servizio d’ordine, con le ingenti spese dei rifacimenti delle stanze di Santa Marta con nuove suppellettili e arredi di prim’ordine. Quando venne nel corso del suo primo mandato, Donald Trump fu accompagnato dalla moglie Melania che si aspettava da Jorge Mario Bergoglio una donazione per la sua Fondazione a sostegno dei bambini. Un vero equivoco: a sua volta il Vaticano si aspettava una donazione per il Bambino Gesù, l’ospedale che a Roma accoglie bambini malati e incurabili da tutto il mondo. Non se ne fece nulla e rimase molta ruggine.

Ma ora Francesco è morto, gli Stati Uniti rispolverano l’antica alleanza con il Vaticano (Pio XII temeva il rapimento da parte dei nazisti e per questo firmò una preventiva lettera di dimissioni che avrebbe invalidato un rapimento) e Trump ha un alleato di ferro nel Conclave come il cardinale di New York, Timothy Dolan. Non un papabile, ma un king maker. Uno che può dire la sua con una certa influenza.

In questi giorni Dolan, nelle sue stanze del Pontificio collegio americano vista Cupolone di San Pietro, ha avuto diversi incontri, colloqui. Probabilmente a favore del cardinale statunitense ma spendibile anche nel Sudamerica, Francis Prevost. Su di lui ci sarebbe stata in queste ultime ore una convergenza degli americani. Tra Nord, Sud e Centro America, un bel pacchetto di voti.

Non Santo Padre ma Fratello

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di Marcello Veneziani

Papa Bergoglio è stato un papa umano, troppo umano. Ha fatto dell’umanità il senso e l’orizzonte del suo pontificato. Ha umanizzato il divino, ha desacralizzato la fede, ha socializzato la cristianità, ha tradotto la carità in filantropia. Non è stato Santo Padre ma Papa Fratello, e la sua fratellanza era un po’ come la fraternité sposata all’egalité. Il cristiano concepisce la fratellanza rispetto al Padreterno. Voleva abbattere muri e confini, aprirsi ai non credenti o ai credenti di altre fedi, ma ha eretto muri e solcato confini all’interno della cristianità, tra i cattolici della tradizione e i cattolici del progresso, ponendosi dalla parte di questi ultimi. Umano troppo umano è, come sapete, il titolo di un’opera di Friedrich Nietzsche; il filosofo dell’anticristo avrebbe ritrovato in lui esattamente quel che lui intendeva per cristianesimo e che avversava: la religione degli ultimi, la cristianità come preambolo religioso del socialismo, del pauperismo, il Vangelo come riscatto e denuncia sociale. In fondo la visione del cristianesimo in Nietzsche combacia con quella dei cristiani progressisti. Naturalmente è opposto il segno, negativo in Nietzsche e positivo in loro, ma la diagnosi è simile.

Non siamo nessuno per giudicare un papa, e la storia dirà qual è stata la sua impronta sulla Chiesa e sul mondo. Ma se è permesso esprimere in piena umiltà un sommesso parere sul suo papato, oltre le untuose ipocrisie che ci sommergono da due giorni, Francesco non è stato un grande Papa, o un Papa grande, come si dice nella Chiesa che intende la grandezza come presagio di santità. È stato, invece, un Papa Piccolo, che ha voluto rendere se stesso e la Chiesa all’altezza del mondo, dei tempi, della situazione sociale. Si è fatto piccolo per essere dentro questo tempo; umile se volete, anche se non di buon carattere.

Anche questa definizione di Papa Piccolo dovrebbe in fondo non dispiacere a chi ha esaltato in lui proprio questo suo aspetto di vicinanza all’umanità, a partire dagli esclusi. Il carisma è il segno di una raggiante paternità e di una luminosa presenza del divino in terra; Bergoglio ha invece scelto la via opposta, quella di umanizzare Cristo e il Vicario di Cristo in terra, fino a renderlo “uno di noi”. Non l’amore per il Lontano ma l’amore per i lontani, i più lontani dalla civiltà cristiana, dal nostro occidente, dalla chiesa, occupandosi largamente di migranti, cioè di coloro che venivano da altri mondi, da altre religioni. Non ha affrontato il nichilismo della nostra epoca, la desertificazione della vita spirituale, limitandosi a criticare legittimamente l’egoismo e la prepotenza. Ha cercato la simpatia, a tratti la piacioneria, più che la conversione e il mistero della fede.

È morto nel giorno del Sepolcro vuoto, il giorno che segue alla Pasqua, in cui l’Angelo annuncia alle donne che il Figlio è tornato dal Padre, non è più in terra, e anche questo – per chi crede ai simboli – è una coincideva significativa. Un giorno speciale, non solo perché lunedì dell’Angelo, ma perché quest’anno la pasqua cattolica coincideva con quella ortodossa; ed era il 21 aprile, il giorno del Natale di Roma, in cui il sole entra perfettamente nell’opaion del Pantheon, l’oculo aperto nella sommità del cerchio e trafigge il portone di bronzo e chi vi si pone alla soglia del tempo dedicato a tutti gli dei. Il suo papato è durato dodici anni, un tempo non lungo come quello di Giovanni Paolo II, né breve come quello dei papi meteore, come accadde a Giovanni Paolo I, Papa Luciani.

Lascerà un’eredità importante sul Conclave che dovrà eleggere il nuovo Papa e magari avviare la santificazione di Papa Bergoglio: ha eletto più cardinali di ogni altro predecessore, l’ottanta per cento del Conclave, lasciando così una larga maggioranza bergogliana. Per questo la sua eredità sarà davvero importante sul prossimo Conclave, a parte l’ispirazione dello Spirito Santo.

Non è riuscito a fermare l’emorragia della fede cristiana nel mondo, il calo senza precedenti di vocazioni in chiesa e nei conventi e di partecipazione dei fedeli ai sacramenti e alle messe; le chiese vuotate, la fede disertata.

Un processo lungo che dura da tempo, che si è accelerato almeno dai tempi del Concilio Vaticano II in poi e che i suoi predecessori non riuscirono ad arginare; con lui la scristianizzazione è stata ancora più vasta e veloce.

Papa Bergoglio raccoglieva simpatie di molti che cristiani e credenti non erano e che tali restavano; non ha convertito nessuno dei suoi simpatizzanti non credenti, mentre all’interno della cristianità, dicevamo, si è acuito il dissenso e la divisione tra i cattolici più legati alla tradizione e i cattolici più aperti ai tempi nuovi e al mondo sempre più scristianizzato. Ha dialogato più con i progressisti non cattolici che con i cattolici non progressisti; aperto ai primi, ostile ai secondi, la fede cattolica diventava una variabile secondaria rispetto alla posizione storico-sociale. Ha elogiato il dialogo intereligioso ma non a partire dai più vicini, come i cristiani ortodossi, di rito greco-bizantino, ma dai più lontani, come gli islamici e i più remoti nel mondo.

I suoi temi dominanti sono stati la pace, l’accoglienza, i migranti, l’ambiente, l’apertura alle donne con ruoli ecclesiali, il dialogo con gli atei. Ha denunciato le ingiustizie sociali, ha difeso i poveri, ha criticato il capitalismo e il consumismo, come è giusto che faccia un Papa. Ha tenuto fermi alcuni principi e alcune scelte di vita, in tema d’aborto, maternità, famiglia, lobby gay; ma i mass media hanno posto la sordina a questi suoi appelli in contrasto col mainstream. Anche in tema di pace ha fatto risuonare con forza la sua parola davanti alle guerre e ai genocidi senza distinguere tra gli uni e gli altri. Meno attento, invece, sulle persecuzioni dei cristiani nel mondo. È apparso refrattario ai riti, ai simboli, alla liturgia sacra.

Restano alcuni grandi e piccoli misteri, come il non essere mai tornato in dodici anni di pontificato nella sua Argentina; è stato in Brasile, ai suoi confini ma non ha mai varcato la soglia di casa, e su sui motivi di questa stranezza i media hanno sempre taciuto.

La chiesa che lascia è più fragile, disabitata e lacerata di quella, già in crisi, che raccolse dal suo predecessore, Papa Benedetto XVI. E gravata ancora da alcune ombre d’infamia, come la pedofilia e la corruzione, che funestano la chiesa, i sacerdoti, ormai da tanti anni.

Qualcuno per rispondere alla crisi di vocazioni e alla pedofilia, propone il matrimonio per i preti, ma non è un rimedio per nessuno dei due. Non entreremo nella spinosa questione della legittimità del suo pontificato, non ne abbiamo la competenza, ed è materia troppo delicata per affrontarla nel corso di un articolo. Siamo sempre stati combattuti tra l’ossequio al Papa, chiunque egli sia, per quel che comunque rappresenta e per la nostra inadeguatezza a giudicare, e la critica per alcune sue posizioni che erano in palese contraddizione con il magistero dei precedenti pontefici e con la lezione di santi, teologi e dottori della Chiesa.

La sua morte esige rispetto, pietà e preghiera per il suo ritorno al Padre. Bergoglio esercitò il suo ruolo di Pontifex innalzando ponti tra i popoli più che tra l’uomo e Dio. Non ha costruito ponti tra il tempo e l’eternità, ma tra la chiesa e il suo tempo, a senso unico. Infatti, la sua Chiesa si è aperta all’oggi ma l’oggi non si è aperto alla Chiesa.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/non-santo-padre-ma-fratello/

La follia di chi uccide, la stupidità di chi depista

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di Marcello Veneziani

Due ragazzi pretendono l’amore da due ragazze che non vogliono darglielo e allora le uccidono. Uno è un ex fidanzato lasciato che non accetta la fine del rapporto, l’altro è solo un pretendente che pretende troppo. Poi leggi la spiegazione sui giornali e viene fuori il solito referto: è colpa del patriarcato. Ancora una volta gli stregoni cercano la soluzione fuori dal campo reale, non affrontano la vita sul suo terreno di gioco, lanciano il pallone in tribuna, e nel passato remoto. Se fossimo ideologici e astratti come loro, dovremmo indicare il referto simmetrico: il femminicidio è colpa del femminismo. Da quando le donne hanno dichiarato guerra agli uomini, odiano la figura maschile, il maschio reagisce e si vendica. Tesi generale, ideologica, astratta che avrebbe la stessa plausibilità di quella opposta, anzi con un vantaggio in più: il patriarcato si riferisce al passato, a un mondo che non c’è più, almeno da noi in Occidente, mentre il femminismo si riferisce al presente, a un mondo presente e militante, almeno da noi in Occidente.

Ma la realtà è un’altra cosa. La realtà racconta la tragedia di un mondo che quanto più si fa globale al suo esterno, tanto più si fa piccolo, solitario, privato, introverso e incomunicante nella dimensione personale.

Per molti, per troppi ragazzi, e anche adulti, il mondo si riduce a una persona sola, e se quella persona sola viene meno, crolla il mondo, perdi la testa, ti senti totalmente povero e solo e così decidi di mutare il bisogno assoluto di lei in cancellazione assoluta di lei, col sottinteso che quell’omicidio sia pure un suicidio. Quasi nessuno del resto sopravvive indenne e immacolato all’uccisione della partner, anche perché in un mondo piccolo come il nostro, se una ragazza viene uccisa il primo indiziato è il suo ragazzo, il suo ex, il suo spasimante. Non ci vuole molto a capirlo. O è un estraneo che ha tentato violenza carnale, o è la persona a lei più vicina che è stata lasciata. Sono davvero poche le varianti.

Se ti sparisce il mondo intorno, se perdi la realtà, la vita, le amicizie, i legami, la famiglia, resta solo lei a tenere in vita il tuo essere al mondo, la tua relazione esterna con la vita. E se non proietti la tua vita oltre te stesso, in una fede, in un Dio, in un’idea, in una comunità, in un’opera, in una missione, resta solo lei a dare uno scopo e una proiezione alla tua vita. Ragazzi così non sono figli della società patriarcale ma vivono sulle macerie della società patriarcale, nel pieno della società egoista, egocentrica, egopatica. Della società patriarcale non riconoscono già il primo comandamento, la padronanza sovrana nei rapporti e nelle situazioni, la non dipendenza del “superiore” dall’”inferiore”, del maschio-capo dalla femmina sottomessa. Non sono forti ma fragili i cosiddetti femminicidi, non sono leader ma cuccioli bisognosi, non sono padri padroni ma soggiogati dalla tossicodipendenza per la loro donna-mondo. Se ne sono privati reagiscono come disperati. Sono fragili come specchi, e se abbandonati, lo specchio s’infrange, l’immagine di sé crolla, sparisce col mondo e le schegge diventano coltelli, spade, armi letali.

Fino a quando continueremo ad accusare un morto, il patriarcato, di aver ucciso un vivo, tramite femminicidio, non verremo mai a capo di nulla. Naturalmente la spiegazione non è la soluzione, la diagnosi non è il rimedio. Ma perlomeno è il ritorno alla realtà per capire poi come reagire, sapendo del resto quanto poco si possa fare. Quel che sappiamo è che la condanna del patriarcato non solo è una falsa risposta, deviata, deviante, ai cosiddetti femminicidi, ma come si vede, non produce alcun effetto, alcun calo o contenimento della lunga scia di uccisioni che si allunga ogni giorno di più. E che negli ultimi tempi colpisce una fascia ancora più giovanile di protagonisti e di vittime, cioè persone che non vivono sotto lo stesso tetto da anni, che per ragioni anagrafiche non hanno vissuto neppure di striscio qualche ultima eredità del patriarcato; ma ragazzi venuti dal nulla, vissuti nel nulla, disarmati, anzi alle prime armi.

Quando può avere qualche valore la diagnosi del patriarcato? Quando si riferisce, ad esempio, all’uccisione di mogli e di figlie disobbedienti che trasgrediscono i costumi tradizionali e religiosi ancora vigenti in un quadro sociale prestabilito; ma questo può accadere tra gli islamici, per esempio, non certo da noi. Un assassinio maturato nel clima del patriarcato è stato per esempio, quello di Saman Abbas che si era ribellata ai costumi della sua famiglia; ma stiamo parlando di una famiglia pakistana, islamica.

Il caso Cecchettin, per citare il più famoso, rientra invece in quest’altra tipologia e patologia del nostro tempo e del suo individualismo assoluto, malato, psico-fragile, tossicodipendente, che nasce in società in cui la famiglia è in dissoluzione, le figure di riferimento sono crollate, a cominciare dal padre, e così il contesto di valori. Ma pensate davvero che la soluzione siano le campagne ideologiche e mediatiche contro il maschilismo e la società patriarcale? Ritenete davvero che il rimedio sia rafforzare i centri antiviolenza, con tutti gli esorcisti stipendiati che insegnano il bene e dunque fugano ogni tentazione violenta? O addirittura confidate sul serio che “l’educazione all’affettività” nelle scuole, cioè l’elogio e l’istigazione alla sessualità transitoria, variabile e polivalente, inclusiva e omosessuale, possa davvero frenare la pulsione omicida verso le donne? Pensate davvero che queste misure abbiano qualche vaga efficacia su chi si pone fuori dal mondo ed è fuori di testa, avverte una disperata solitudine, non accetta la realtà e odia a morte chi lo rifiuta, soprattutto se proviene dalla persona-mondo, su cui ha costruito la sua esistenza? Ma non vedete che le vostre parole scivolano nel nulla – come le nostre, del resto – perché non saranno mai i sermoni e le campagne contro gli estinti patriarchi, a frenare i crimini attuali e a ridare sicurezza e vita alle ragazze?

Su un punto concordo, invece, con i sociologi del patriarcato: alle origini c’è la riduzione dell’amore a possesso. L’amore di coppia si fonda sulla reciprocità, non può esistere l’amore unilaterale; anche se a volte, nel caso di genitori e figli, i casi più straordinari e toccanti d’amore sono quelli di chi ama senza essere amato, di chi dà senza ricevere nulla in cambio, nemmeno gratitudine; ma in quel caso l’amore è dare, non pretendere, è donare, non possedere. Comunque, è vero che la radice di questi crimini è nella pretesa di possesso assoluto della persona amata. Ma il salto patologico che trasforma un vizio in un crimine è dal possesso alla possessione: chi pretende di possedere la sua donna a ogni costo, in realtà è posseduto. Da lei, dal suo spettro, dal proprio demone.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/la-follia-di-chi-uccide-la-stupidita-di-chi-depista/

L’invenzione dell’INCOLPEVOLE

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di Emilio Giuliana

“L’onnipotenza di Dio, una volta terminati gli eventi, non è in grado di modificarli successivamente, mentre invece possono farlo gli storici mutando la narrazione degli avvenimenti effettivamente accaduti” (Voltaire). La citazione di Voltaire non fa sconti neanche sul caso del beato Simonino, né è riprova la pervicace capziosità con la quale costantemente, si vuol negare la verità, nonostante ebrei importanti del peso di Ariel Toaff e Sergio Luzzato, hanno raccontato attraverso le loro ricerche documentali che i sacrifici rituali sono stati in seno al mondo ebraico praticati, così come fu praticato sul povero martire beato Simonino.

E.G.

di don Ugolino Giugni

Molto è stato scritto, in passato, sul beato Simonino da Trento e ancora oggi, malgrado la “soppressione” del suo culto egli è al centro dell’interesse degli studiosi. Nel 2007 fece molto scalpore il libro “Pasque di Sangue” di Ariel Toaff, figlio del gran rabbino di Roma Elio, nel quale l’autore affrontava scientificamente e storicamente la questione della “cultura del sangue” nelle tradizioni e credenze popolari ebraiche nel medioevo. Questa “accusa del sangue”, secondo Toaff, emerge proprio dai verbali dei processi per l’accusa di “omicidio rituale” (di cui proprio quello di Trento del 1475 riguardante il beato Simonino è uno dei più famosi), contro gli ebrei ashkenaziti trentini.

È molto interessante quanto scrive Toaff per spiegare il suo metodo di ricerca, poichè egli non può essere certamente accusato di essere di parte e antisemita: «voglio precisare che nella mia ricerca ho inteso principalmente indagare sul ruolo occupato dalla cosiddetta “cultura del sangue” nel mondo ebraico di lingua tedesca, come nella società circostante. Un ruolo polivalente, terapeutico, magico, scaramantico, alchemico, che prescindeva dal severo, divieto biblico e rabbinico relativo al consumo del sangue. In sostanza, mi sono proposto di verificare come, anche su questo punto, la prassi, modellata dalle influenze esterne, avesse modificato la norma e quali ne fossero state le conseguenze, impreviste o prevedibili, nell’ambito dell’aperto e aspro confronto con le comunità dei cristiani.

 

In altre parole, intendevo ricostruire restituendo loro vita e spessore, le credenze popolari dell’ebraismo ashkenazita medioevale, un mondo sotterraneo, imbevuto di superstizione e di magia e animato da viscerali sentimenti anti-cristiani. Un mondo che, più o meno intenzionalmente, è stato coperto dall’oblio, almeno fino ai tempi recenti. Il processo di Trento per l’infanticidio di Simonino (1475) e la sua ampia documentazione mi hanno fornito la possibilità di esaminare in dettaglio le confessioni degli imputati. Mi sono chiesto quindi se in esse, pur tenendo conto che erano state estorte con la tortura [metodo comune a tutti i processi, anche quelli civili… a quell’epoca, n.d.r.] si potessero riscontrare elementi riconducibili alla mentalità, alle tradizioni e ai riti particolari di quegli ebrei per quanto concerneva sia la vita quotidiana sia la celebrazione delle festività, e in particolare la Pasqua. Sulla base di significativi riscontri e verifiche incrociate con le fonti ebraiche sono giunto alla conclusione che vi siano solidi elementi per ipotizzare che un uso magico e simbolico del sangue, essiccato e ridotto in polvere, fosse divenuto con il tempo, a dispetto dell’opposizione dei rabbini, parte integrante di riti e liturgie particolari nell’ambito della celebrazione della Pasqua ebraica.

L’immagine emersa da una documentazione ebraica rilevante, di recente pubblicata da Israel Yuval, trova conferma nel quadro che sull’argomento ci viene disegnato dagli imputati di Trento, indicando chiaramente che esso caratterizzava in particolare gruppi estremisti ashkenaziti. Questi, che facevano parte di un ebraismo tedesco reduce dai traumi delle crociate, dai massacri e dai battesimi forzati, esprimevano nel corso della cena pasquale la loro risoluta avversione al cristianesimo nel cosiddetto “rituale delle maledizioni”. Secondo la mia ipotesi, che ritengo suffragata da indizi significativi, questi anatemi sacralizzati acquistavano una terribile valenza magica quando simbolicamente qualche granello di sangue cristiano in polvere veniva sciolto nel vino, trasformandolo nel sangue di Edom, il cristianesimo, l’irriducibile persecutore cui le maledizioni erano indirizzate» (1).

Toaff fa notare come il bambino ucciso sia identificato, in maniera commovente per un cristiano, con lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo: «“Tu sei crocefisso e trafitto come Gesù l’appeso, in ignominia e vergogna come Gesù”. Per i partecipanti al rito sembra che l’infante cristiano avesse perduto la sua identità (se mai l’aveva posseduta ai loro occhi) e si fosse trasformato in Gesù “crocifisso e appeso”» (2). Quanto affermato qui da Toaff sembra smentire quella “evidente mancanza assoluta di prove” che Gemma Volli invocava nel 1963, all’alba dei tempi nuovi del Concilio Vaticano II, nell’opuscoletto di sedici pagine (3) che ella scrisse per chiedere la revisione dei processi trentini e la soppressione del culto di Simonino.

La storia è nota, la revisione invocata arrivò con il Concilio, e grazie ad un insignificante articolo di W. P. Eckert op. (4), nel 1965 il vescovo di Trento Gottardi fu solerte a sopprimere il culto di Simonino e occultarne le reliquie per cancellarne per sempre, se ciò fosse stato possibile, la memoria.

Questo nuovo libro vuole far conoscere la vera storia di Simonino come l’ha insegnata e creduta Santa Madre Chiesa prima dei “tempi nuovi del Vaticano II”, e vuole ricordare ai cattolici quello che ci sembra essere un punto fondamentale della questione, e che si è sempre cercato di far passare in secondo piano; il fatto cioè che nel caso del culto di San Simonino è in gioco l’autorità stessa e la credibilità della Chiesa. Essa infatti è infallibile nella canonizzazione dei suoi santi, per cui non è possibile che approvi un culto che si rivelerebbe in seguito falso e necessiti di essere soppresso.

Certo la beatificazione, in quanto atto non definitivo e limitato ad un culto locale che non obbliga tutta la Chiesa, non è ancora infallibile; ma è opinione comune dei teologi che sia quanto meno temerario sostenere che vi possa essere errore in un tale giudizio. Inoltre nel nostro caso bisogna considerare il fatto che nel 1584 il nome di Simonino fu inserito nel martirologio romano da Papa Gregorio XIII, col titolo di Santo e che nel 1588 Papa Sisto V concesse per la diocesi di Trento Messa e Officio proprio del Beato Simonino. In seguito con la Bolla Beatus Andreas del 22 febbraio 1755 Papa Benedetto XIV, riconobbe nuovamente il culto prestato a san Simonino affermando che “fu crudelmente messo a morte in odio alla fede”, culto confermato da innumerevoli miracoli.

La bolla di Papa Lambertini (Benedetto XIV) ha un valore particolare, in quanto essa esamina a fondo i casi strettamente collegati del martirio di Andrea da Rinn e Simone di Trento, ed è a tutti nota la somma autorità del Lambertini in materia di canonizzazione di Santi. È da notare che il popolo di Trento ha sempre venerato con un culto pubblico e solenne il suo piccolo patrono fino al 1965. Se ci si pone in questa prospettiva cattolica, non c’è posto, nella questione del culto a Simonino, per il cosiddetto “antisemitismo” col quale, in maniera strumentale, si pretende accusare i cattolici che venerano San Simonino.

Il libro è diviso in due parti affinché il lettore possa farsi un’idea precisa della storia e dello stato del culto di Simonino prima e dopo il Concilio. La prima parte è la ristampa anastatica di un libro degli anni trenta del secolo scorso che racconta abbastanza dettagliatamente la storia del bimbo trentino, il suo martirio e i processi che ne seguirono. L’autore (Cives in latino cioè cittadino) si basa soprattutto sull’opera del Divina (5) parroco di S. Pietro all’inizio del secolo, chiesa in cui venivano custodite le reliquie del beato fino alla soppressione del culto.

Nella seconda parte (appendice) curata dal “Comitato san Simonino” sono raccolti una serie di documenti importanti a testimonianza del culto che la Chiesa ha reso per secoli al piccolo beato. Sono presenti i testi della liturgia tratti dal Messale, dal Breviario e del Martirologio, i documenti del Magistero, e anche il decreto di soppressione del culto del vescovo Gottardi. Molto interessanti sono le immagini, a testimonianza del culto, che si trovano in molte chiese del Trentino e della val Camonica (BS) nonché alcune foto delle processioni nella città di Trento.

 

Civis, La vera storia del Beato Simonino da Trento Innocente e Martire e del suo culto, Comitato San Simonino, Trento 2013, 100 pag. euro 12,00.

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Note

1) Ariel Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, Il Mulino Bologna 2007, Postfazione, pagg. 364-365.

2) Ariel Toaff, Pasque di sangue…, op.cit., p. 196)

3) Gemma Volli, I “processi tridentini” e il culto del Beato Simone da Trento, La nuova Italia, Firenze 1963. Significativo dei tempi nuovi, è quanto scritto in nota a chiusura del libro: «questo scritto viene pubblicato dopo che il cardinale Bea, il 19 novembre, ha tenuto al Concilio un discorso che rovescia l’atteggiamento ancora tradizionale della Chiesa nei confronti degli ebrei e che, insieme con il discorso sulla libertà di religione, fa compiere ci sembra un passo decisivo per l’insegnamento della Chiesa nell’epoca moderna. Tale atteggiamento della Chiesa dovrebbe peraltro trovare immediata ripercussione anche in casi palesi di culti e glorificazioni che nulla hanno a che fare con la verità e con lo spirito dei tempi nuovi come è appunto il caso trattato da questo articolo, caso che dimostra quanto necessaria sia la nuova posizione della Chiesa e quanto pervicaci i modi medievali di intendere il cristianesimo (n.d.r.)» (pag. 16).

4) W. P. Eckert op. Il beato Simonino negli “atti” del processo di Trento contro gli ebrei, Temi tipografia editrice, Trento 1965.

5) Mons. Giuseppe Divina, Il Beato Simone da Trento, Tip. Artigianelli D. F. D. M. – Trento, 1902.

Quelle Pasque di Sangue (Corriere della Sera, 6 febbraio, 2007)

Il fondamentalismo ebraico nelle tenebre del Medioevo

Sergio Luzzatto

Trento, 23 marzo 1475. Vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica. Nell’abitazione-sinagoga di un israelita di origine tedesca, il prestatore di denaro Samuele da Norimberga, viene rinvenuto il corpo martoriato di un bimbo cristiano : Simonino, due anni, figlio di un modesto conciapelli. La città è sotto choc. Unica consolazione, l’indagine procede spedita. Secondo gli inquirenti, hanno partecipato al rapimento e all’uccisione del «putto» gli uomini più in vista della comunità ebraica locale, coinvolgendo poi anche le donne in un macabro rituale di crocifissione e di oltraggio del cadavere. Perfino Mosé «il Vecchio», l’ebreo più rispettato di Trento, si è fatto beffe del corpo appeso di Simonino, come per deridere una rinnovata passione di Cristo. Incarcerati nel castello del Buonconsiglio e sottoposti a tortura, gli ebrei si confessano responsabili dell’orrendo delitto. Allora, rispettando il copione di analoghe punizioni esemplari, i colpevoli vengono condannati a morte e Il resto del siclo / 24 / Primavera de 2007 / 1 — 13 — giustiziati sulla pubblica piazza. Durante troppi secoli dell’era cristiana, dal Medioevo fino all’Ottocento, gli ebrei si sono sentiti accusare di infanticidio rituale, perché quelle accuse non abbiano finito con l’apparire alla coscienza moderna niente più che il parto di un antisemitismo ossessivo, virulento, feroce. Unicamente la tortura – si è pensato – poteva spingere tranquilli capifamiglia israeliti a confessare di avere ucciso bambini dei gentili : facendo seguire all’omicidio non soltanto la crocifissione delle vittime, ma addirittura pratiche di cannibalismo rituale, cioè il consumo del giovane sangue cristiano a scopi magici o terapeutici. Impossibile credere seriamente che la Pasqua ebraica, che commemora l’esodo degli ebrei dalla cattività d’Egitto celebrando la loro libertà e promettendo la loro redenzione, venisse innaffiata con il sangue di un goi katan, un «piccolo cristiano» ! Più che mai, dopo la tragedia della Shoah, è comprensibile che l’«accusa del sangue» sia divenuta un tabù. O piuttosto, che sia apparsa come la miglior prova non già della perfidia degli imputati, ma del razzismo dei giudici. Così, al giorno d’oggi, soltanto un gesto di inaudito coraggio intellettuale poteva consentire di riaprire l’intero dossier, sulla base di una domanda altrettanto precisa che delicata : quando si evoca tutto questo – le crocifissioni di infanti alla vigilia di Pesach, l’uso di sangue cristiano quale ingrediente del pane azzimo consumato nella festa – si parla di miti, cioè di antiche credenze e ideologie, oppure si parla di riti, cioè di eventi reali e addirittura prescritti dai rabbini ? Il gesto di coraggio è stato adesso compiuto. L’inquietante domanda è stata posta alle fonti dell’epoca, da uno storico perfettamente attrezzato per farlo : un esperto della cultura alimentare degli ebrei, tra precetti religiosi e abitudini gastronomiche, oltreché della vicenda intrecciata dell’immaginario ebraico e di quello antisemita. Italiano, ma da anni docente di storia medievale in Israele, Ariel Toaff manda in libreria per il Mulino un volume forte e grave sin dal titolo, Pasque di sangue. Magnifico libro di storia, questo è uno studio troppo serio e meritorio perché se ne strillino le qualità come a una bancarella del mercato. Tuttavia, va pur detto che Pasque di sangue propone una tesi originale e, in qualche modo, sconvolgente. Sostiene Toaff che dal 1100 al 1500 circa, nell’epoca compresa tra la prima crociata e l’autunno del Medioevo, alcune crocifissioni di «putti» cristiani – o forse molte – avvennero davvero, salvo dare luogo alla rappresaglia contro intere comunità ebraiche, al massacro punitivo di uomini, donne, bambini. Né a Trento nel 1475, né altrove nell’Europa tardomedievale, gli ebrei furono vittime sempre e comunque innocenti. In una vasta area geografica di lingua tedesca compresa fra il Reno, il Danubio e l’Adige, una minoranza di ashkenaziti fondamentalisti compì veramente, e più volte, sacrifici umani. Muovendosi con straordinaria perizia sui terreni della storia, della teologia, dell’ antropologia, Toaff illustra la centralità del sangue nella celebrazione della Pasqua ebraica: il sangue dell’agnello, che celebrava l’ affrancamento dalla schiavitù d’Egitto, ma anche il sangue del prepuzio, proveniente dalla circoncisione dei neonati maschi d’Israele. Era sangue che un passo biblico diceva versato per la prima volta proprio nell’Esodo, dal figlio di Mosè, e che certa tradizione ortodossa considerava tutt’ uno con il sangue di Isacco che Abramo era stato pronto a sacrificare. Perciò, nella cena rituale di Pesach, il pane delle azzime solenni andava impastato con sangue in polvere, mentre altro sangue secco andava sciolto nel vino prima di recitare le dieci maledizioni d’Egitto. Quale sangue poteva riuscire più adatto allo scopo che quello di un bambino cristiano ucciso per l’occasione, si chiesero i più fanatici tra gli ebrei studiati da Toaff ? Ecco il sangue di un nuovo Agnus Dei da consumare a scopo augurale, così da precipitare la rovina dei persecutori, maledetti seguaci di una fede falsa e bugiarda. Sangue novello, buono a vendicare i terribili gesti di disperazione – gli infanticidi, i suicidi collettivi – cui gli ebrei dell’area tedesca erano stati troppe volte costretti dall’odiosa pratica dei battesimi forzati, che la progenie d’Israele si vedeva imposti nel nome di Gesù Cristo. Oltreché questo valore sacrificale, il sangue in polvere (umano o animale) aveva per gli ebrei le più varie funzioni terapeutiche, al punto da indurli a sfidare, con il consenso dei rabbini, il divieto biblico di ingerirlo in qualsiasi forma. Secondo i dettami di una Cabbalah pratica tramandata per secoli, il sangue valeva a placare le crisi epilettiche, a stimolare il desiderio sessuale, ma principalmente serviva come potente emostatico. Conteneva le emorragie mestruali. Arrestava le epistassi nasali. Soprattutto rimarginava istantaneamente, nei neonati, la ferita della circoncisione. Da qui, nel Quattrocento, un mercato nero su entrambi i versanti delle Alpi, un andirivieni di ebrei venditori di sangue umano : con le loro borse di pelle dal fondo stagnato, e con tanto di certificazione rabbinica del prodotto, sangue kasher… Risale a vent’anni fa un libretto del compianto Piero Camporesi, Il sugo della vita (Garzanti), dedicato al simbolismo e alla magia del sangue nella civiltà materiale cristiana. Vi erano illustrati i modi in cui i cattolici italiani del Medioevo e dell’età moderna riciclarono sangue a scopi terapeutici o negromantici : come il sangue glorioso delle mistiche, da aggiungere alla polvere di crani degli impiccati, al distillato dai corpi dei suicidi, al grasso di carne umana, entro il calderone di portenti della medicina popolare. Con le loro «pasque di sangue», i fondamentalisti dell’ebraismo ashkenazita offrirono la propria Il resto del siclo / 24 / Primavera de 2007 / 1 — 14 — interpretazione – disperata e feroce – di un analogo genere di pratiche. Ma ne pagarono un prezzo enormemente più caro. * * * Il tema del libro Esce in libreria dopodomani, giovedì 8 febbraio, il libro di Ariel Toaff «Pasque di sangue. Ebrei d’ Europa e omicidi rituali» (pp. 364, 25), edito dal Mulino Il saggio affronta il tema dell’ accusa, rivolta per secoli agli ebrei, di rapire e uccidere bimbi cristiani per utilizzarne il sangue nei riti pasquali * * * Il caso di Trento Nel 1745 il piccolo Simone venne trovato morto a Trento Per il suo omicidio furono giustiziati 15 ebrei Fino al 1965 Simone fu venerato come beato * * * Uno storico del giudaismo Ariel Toaff, figlio dell’ex rabbino capo di Roma Elio Toaff, insegna Storia del Medioevo e del Rinascimento presso la Bar-Ilan University in Israele Tra le sue opere edite dal Mulino: «Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo» (1989), «Mostri giudei. L’ immaginario ebraico dal Medioevo alla prima età moderna» (1996), «Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal Rinascimento all’ età moderna» (2000)

Corriere della Sera, 6 febbraio, 2007

 

Fonte: https://emiliogiuliana.com/2-uncategorised/59-l-invenzione-dell-incolpevole.html

Tony Effe censurato? Parla la poetessa Flaminia Colella

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La poetessa Flaminia Colella: “È uno zero assoluto, emblema di una deriva culturale. Chiamino De Gregori o Renato Zero per i concerti di capodanno”. E sui testi e i giovani… 

https://mowmag.com/culture/tony-effe-censurato-la-poetessa-flaminia-colella-e-uno-zero-assoluto-emblema-di-una-deriva-culturale-chiamino-de-gregori-o-renato-zero-per-i-concerti-di-capodanno-e-sui-testi-e-i-giovani

di Benedetta MinolitiBenedetta Minoliti per www.nowmag.com 

Tony Effe censurato, ma il problema sono davvero i suoi testi? O c’è altro? Lo abbiamo chiesto alla poetessa (romana) Flaminia Colella: “Tony Effe è, al pari di molti altri improvvisati e grotteschi personaggi che affolano le radio italiane negli ultimi anni, uno zero assoluto…”. E sulla deriva culturale e i giovani…

La censura di Tony Effe, escluso dal concertone di Capodanno al Circo Massimo di Roma, sta facendo parecchio discutere. Il rapper è stato difeso, sui social (e non solo), da motlissimi artisti, tra cui Mahmood e Mara Sattei, che hanno rinunciato all’evento, lasciando così vuoto il palco del concerto per l’ultimo dell’anno. Ma è giusto parlare di censura? E c’è, più che per il rapper, un danno d’immagine per Roma? Lo abbiamo chiesto alla poetessa romana Flaminia Colella, che ci ha anche spiegato cosa ne pensa dei testi di Tony Effe e dei giovani, che probabilmente non lo avrebbero mai escluso dal concerto di capodanno a Roma.

Rispondo alla domanda dicendo che Tony Effe è, al pari di molti altri improvvisati e grotteschi personaggi che affollano le radio italiane negli ultimi anni, uno zero assoluto, l’emblema di una deriva culturale, impensabile anche poter parlare di musica, la musica è altro ed è altrove. E per fortuna esiste ancora. La nostra città continua ad avere i suoi grandi cantanti, da De Gregori a Renato Zero, e molti altri dopo di loro, che chiamino loro per i concerti di capodanno, e si torni ad ascoltare vera musica, fatta di ricerca di parole e suoni e ritmi. Non mi sento nostalgica nel dirlo. I testi di cui si parla prima che sessisti e intrisi di parole violente e oscene sono assolutamente tutto fuorchè testi d’arte, sembrano piuttosto il profluvio vomitevole di un allucinato in preda al delirio, un insensato sfogo tardo-adolescenziale rivolto al nulla e a nessuno. I giovani purtroppo sono schiavi e vittime del mercato, in questo caso musicale, che si nutre di queste forme orribili di esibizionismo. Il gusto e la sua educazione dovrebbero tornare ad essere importanti più dei social network e del mercato, che in una bolla virtuale avulsa da qualsiasi realtà finiscono per confezionare personaggi che interessano i giovani solo e unicamente per l’immagine che trasmettono.

Il Campidoglio ha escluso Tony Effe dal Concerto di Capodanno al Circo Massimo dopo critiche di associazioni femministe e politici per i suoi testi ritenuti sessisti. Il sindaco Gualtieri ha giustificato la decisione per rispettare la sensibilità pubblica, scatenando polemiche sul confine tra libertà artistica e responsabilità istituzionale. E l’attivista Clizia De Rossi ci spiega perché ha fatto bene…

Il Campidoglio ha chiesto a Tony Effe di fare un passo indietro e di rinunciare ad esibirsi nel concerto di Capodanno al Circo Massimo dopo le numerose proteste arrivate dal mondo della politica e da associazioni femministe varie nei giorni scorsi, a seguito dell’annuncio della presenza del trapper tra gli artisti ingaggiati. Tra le prime associazioni a criticare la scelta fatta dal Comune di Roma è stata “Differenza Donna”, impegnata nella difesa dei diritti delle donne e nella lotta contro la violenza di genere, con un comunicato rilasciato dalla presidentessa Elisa Ercoli: “Una scelta scellerata organizzare un concerto, dove il target saranno le ragazze e i ragazzi, nel quale sarà tra i protagonisti un cantante come Tony Effe, autore di testi sessisti, misogini e violenti. Non ci può essere posto su un palco di Roma Capitale per chi rappresenta con le parole la cultura nella prevaricazione e del disprezzo verso le donne, fenomeni che noi, ogni giorno, combattiamo nei Centri Antiviolenza e nelle Case Rifugio. La presenza di Tony Effe sarebbe una insopportabile offesa a tutte le donne che subiscono violenza e alle vittime di femminicidio: non possiamo accettarlo”. Sulla questione è intervenuto poi il sottosegretario di Stato alla Cultura con delega allo spettacolo dal vivo, Gianmarco Mazzi: “La vicenda innescata dalle polemiche sul concerto di Capodanno a Roma ci suggerisce che, d’ora in avanti, si dovrebbe prestare più attenzione a chi si offre un palco per cantare. Non c’entra nulla, in questi casi, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, che è sacro. C’entra invece il mostrare senso di responsabilità nel non diventare complici di spacciatori di violenza strapagati, nel non preparare loro ribalte per poterlo fare come se tutto fosse normale”.

Anche dalle forze politiche dell’amministrazione capitolina è arrivata la tempestiva condanna della scelta di ospitare Tony Effe al Concerto di Capodanno: “Siamo molto rammaricate del fatto che in occasione del 25 Novembre ci troviamo tutti insieme a condannare un linguaggio offensivo e mortificante, anche nella musica, che colpisce le donne nella propria dignità e invia messaggi negativi ai più giovani e poi vediamo che Roma Capitale per il concerto di Capodanno sceglie Tony Effe come artista di riferimento dell’ultima notte dell’anno”, hanno dichiarato in una nota congiunta consigliere di tutte le parti politiche, da Pd a Fdi. A loro ha fatto eco pure il senatore FI, Maurizio Gasparri che ha chiamato in causa addirittura la Rai e la partecipazione del trapper al Festival di Sanremo: “Invito pubblicamente la Rai a fare una riflessione su alcuni rapper improvvidamente coinvolti da Conti nel festival di Sanremo. Perfino il Comune di Roma, gestito dalla sinistra, di fronte alle giuste proteste per i toni molto violenti, sessisti e di offesa delle donne di canzoni di alcuni personaggi, come Tony Effe ed altri, ha deciso di cancellarne la presenza al concerto di fine anno che si terrà nella Capitale. Non si capisce perché invece il servizio pubblico dovrebbe trasformare l’importante palco di Sanremo in una tribuna per persone che, probabilmente anche a causa di una mancanza di cultura, divulgano, soprattutto tra i ragazzi, linguaggi e stili di vita assolutamente inaccettabili. La Rai è finanziata dai cittadini e non può essere trasformata nel megafono dell’Italia peggiore. Pertanto, invito pubblicamente i vertici dell’azienda a non fare il tappetino del Conti di turno e a cancellare dal Festival personaggi che non sono espressione della musica italiana, ma soltanto di una subcultura di scarto che offre cattivi esempi e usa un linguaggio deteriore.” A tutte queste legittime contestazioni è seguita infine la scelta del primo cittadino romano Gualtieri di ritirare l’invito al cantante, con una motivazione che io personalmente ho trovato assolutamente coerente e incontestabile. Il sindaco ha ricordato infatti che il concerto è un evento pubblico, finanziato con soldi pubblici e patrocinato da un comune il cui primo obiettivo e dovere deve essere sempre quello di tutelare la sensibilità di tutti i suoi cittadini: “Roma Capitale non censura nessuno. A Roma in questi tre anni hanno suonato tantissimi artisti, di ogni genere e provenienza. Roma è e resta una città aperta e libera, che ama l’arte e la musica in tutte le sue forme. Difenderemo sempre la pluralità delle idee e non imponiamo né controlliamo opinioni. Parlare di censura è quindi del tutto fuori luogo. Tuttavia, è evidente che si sono urtate alcune sensibilità su valori fondamentali come la libertà delle donne e la lotta contro ogni forma di violenza nei loro confronti. Il Concerto di Capodanno ha senso solo se è una festa che unisce e non divide la città”.

Tony Effe
A lato: Tony Effe ostenta la sua cultura anche sul corpo

A tutte queste legittime contestazioni è seguita infine la scelta del primo cittadino romano Roberto Gualtieri di ritirare l’invito al cantante, con una motivazione che io personalmente ho trovato assolutamente coerente e incontestabile. Il sindaco ha ricordato infatti che il concerto è un evento pubblico, finanziato con soldi pubblici e patrocinato da un comune il cui primo obiettivo e dovere deve essere sempre quello di tutelare la sensibilità di tutti i suoi cittadini: “Roma Capitale non censura nessuno. A Roma in questi tre anni hanno suonato tantissimi artisti, di ogni genere e provenienza. Roma è e resta una città aperta e libera, che ama l’arte e la musica in tutte le sue forme. Difenderemo sempre la pluralità delle idee e non imponiamo né controlliamo opinioni. Parlare di censura è quindi del tutto fuori luogo. Tuttavia, è evidente che si sono urtate alcune sensibilità su valori fondamentali come la libertà delle donne e la lotta contro ogni forma di violenza nei loro confronti. Il Concerto di Capodanno ha senso solo se è una festa che unisce e non divide la città”. Apriti cielo! Orde di “vip” e cosiddette “influencer”, a partire dalla stessa Giulia De Lellis, attuale fidanzata di Tony Effe, hanno iniziato a gridare allo scandalo e alla censura! A me duole immensamente dover stare anche solo per una volta dalla parte di gente come Gasparri, ma dove erano Mahmood, Sattei, De Lellis e tutti gli altri, quando a febbraio scorso c’è stato un vero caso di censura di stato nei confronti di Ghali e di Dargen D’Amico a cui la Rai ha impedito con vergognosi comunicati e rimproveri in diretta televisiva di parlare del genocidio in Palestina e di immigrazione? Forse le guerre e la disperazione umana non sono argomenti abbastanza comodi per prendere una posizione? Viene quasi da pensare che dietro questa alzata di scudi, con assurdo boicottaggio incluso, non ci sia tanto la singola volontà di difendere la libertà di un “artista”, quanto piuttosto un ordine alla comune sommossa gestito da case discografiche e agenzie correlate. A questi pseudo paladini ipocriti del politicamente scorretto che fino a ieri protestavano contro il patriarcato violento e maschilista del nostro Paese, pubblicando post e storie strappalacrime per le terribili vicende di Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano, e che oggi invece difendono la “licenza artistica” di chi racconta le donne come “pu**ane” a cui “sputare in faccia” e “far su**hiare”, da usare come “un joystick”, “bambole” da “fott*re” dopo avergli “tappato la bocca”, vorrei ricordare che stanno applicando lo stesso identico amichettismo e doppiopesismo tanto contestato ai nemici politici, e che avrebbe avuto senso parlare di censura nel caso in cui fosse stato emesso un divieto statale di vendere i dischi, trasmettere le canzoni o invitare Tony Effe in un qualsivoglia concorso nazionale, non certamente per un episodio come questo di pura e semplice libertà di scelta, in cui un comune ha preferito ritirare un banale invito (come già accaduto, per altro, innumerevoli volte in svariati ambiti) per coerenza e rispetto nei confronti dei propri cittadin* che neanche un mese fa, in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, hanno riempito le strade della capitale per onorare la memoria delle cento e rotte vittime di femminicidio nel solo anno corrente, al grido di “disarmiamo il patriarcato”, lo stesso che trasuda pericolosamente dalle canzoni di Tony Effe e di tanti altri suoi colleghi sempre più inspiegabilmente in voga tra i giovani di questo Paese…era ora che la politica se ne accorgesse!

 

Fonte: https://mowmag.com/culture/tony-effe-censurato-la-poetessa-flaminia-colella-e-uno-zero-assoluto-emblema-di-una-deriva-culturale-chiamino-de-gregori-o-renato-zero-per-i-concerti-di-capodanno-e-sui-testi-e-i-giovani

LA SOVRANITA’ E’ LA SOLUZIONE, NON UNA PAROLACCIA

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di Matteo Castagna per www.2dipicche.news

Il Prof. Dieter Grimm è uno dei più autorevoli costituzionalisti europei. Docente emerito di Diritto pubblico della Humboldt-Universitat di Berlino, è stato giudice della Corte costituzionale della Repubblica federale tedesca. Ha insegnato a Yale, negli Stati Uniti, ed è stato visiting professor in molte università, in tutto il mondo. Ha pubblicato numerosi volumi di storia, teoria, diritto costituzionale ed europeo.

Leggere le sue pubblicazioni è estremamente utile, per comprendere in maniera esaustiva il concetto di “Sovranità”, che viene, spesso ed erroneamente, quanto maliziosamente, confuso con una forma di populismo, tanto che non c’è mai data una definizione unanime e chiara.

Da un lato fa comodo ai globalisti derubricare una dottrina politica a semplice e disprezzato sentimento popolare di protesta, dall’altro non vi è una approfondita preparazione culturale per fornire risposte concrete adeguate, che non siano uno spauracchio nel gioco delle parti, ma una precisa categoria ideale, sociale, monetaria,  economica, etica e religiosa.

Quello di “sovranità” è un concetto politico-giuridico che indica il potere di comando di una società, distinguendosi da altre associazioni umane ove tale potere non è presente. La sovranità vuole trasformare la forza di un potere legittimo, in un potere di diritto. L’idea di sovranità era già presente all’interno dell’Impero Romano nel Corpus iurisi civilis di Giustiniano con espressioni quali: maiestas, summa potestas, superiorem non recognoscens, rex est imperator in regno suo.

Il riferimento principale, cui rimanda spesso il Prof. Grimm, è al pensiero di Jean Bodin (1530-1596), che fu docente di diritto romano e poi avvocato al Parlamento di Parigi. “La politica è il nucleo essenziale della storia – scriveva Bodin – in quanto il più utile a conservare le società umane” e individua l’oggetto della civilis disciplina nell’imperium dello Stato, ovvero nella summa ratio del comandare e del proibire, che sola può armonizzare tutte le attività e le arti umane, indirizzandole alla pubblica utilità, ovvero al bene comune. In quest’ottica, Bodin definisce la sovranità come il potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato. Lo Stato sovrano non riconosce dipendenza da altri, siano essi Stati, élite, unioni di potere e ben si adatterebbe ad un mondo multipolare.

La sovranità consiste nel poter dare, annullare, interpretare, abolire le leggi; dichiarare guerra e concludere la pace; imporre le tasse ed esentare dal farlo; istituire e destituire i magistrati; concedere grazie e dispense alla legge; battere moneta propria; adottare un fisco equo. La sovranità e l’autonomia, se vogliamo, si possono accompagnare, in nome del principio di sussidiarietà. Ed anche il premierato potrebbe sostituire quello che Bodin chiamava il principe. 

Per Bodin, la sovranità non può essere illimitata: tutti i governanti della terra devono essere soggetti alla Legge di Dio e della natura. La summa potestas trova il suo equilibrio entro i limiti divini, quali la trasmissione del potere sovrano, il diritto alla proprietà da parte delle famiglie, intese come cellule fondamentali e fondanti di ogni comunità. Lo Stato organico, organizzato in corporazioni garantiscono stabilità ed equità sociale. Lo stato giusto – spiega Bodin – è quello in cui chi comanda e giudica lo faccia in funzione primaria delle superiori leggi e comandamenti di Dio.

Lo Stato sovrano decide la sua forma di governo. Bodin preferiva la monarchia ereditaria, ma non escludeva né l’aristocrazia, né la democrazia.

In quest’ultimo caso, non si riconosce né relativismo né liberalismo, perché i delegati dal popolo a governare devono farlo, in prima istanza, come soggetti all’Ordine stabilito da Dio. Trono e altare devono andare in armonia per gestire al meglio, ciascuno nei propri ambiti, la giustizia e la carità, l’amor patrio e la tutela della Famiglia. Il controllo delle migrazioni è un dovere di sovranità. L’eventuale Costituzione dello Stato sovrano non può contrastare coi principi indissolubili ed assoluti del cattolicesimo romano.

Se proviamo ad applicare al presente quanto insegnava Jean Bodin e, oggi, quanto scrive il Prof. Grimm, l’Italia sovrana è un obiettivo che sembra difficile da raggiungere, nell’attuale contingenza internazionale, ma la totale autonomia dello Stato sovrano deve venire prima di ogni trattato europeo.

L’interesse della Nazione e dei lavoratori è il valore primario. Le alleanze sono consentite e, anzi, promosse in nome del bene comune, ma nessun trattato può violare la sovranità dello Stato e mettere in difficoltà cittadini, soggetti fragili e mondo economico.

Lo storico di sinistra Luciano Canfora ha ammesso, con onestà intellettuale, che “ad esempio, la difesa della sovranità nazionale di fronte al capitale finanziario non è sbagliata”.

Per realizzare quello che si era capito già più di 600 anni fa, sarebbe indispensabile, nel tempo, raddrizzare l’Unione Europea, cacciando i mercanti dal Tempio e rimettendo in ordine le cose nella Chiesa.

BERGOGLIO, ZANOTELLI E QUELLA STRANA PACE

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di Raffaele Amato, Coordinatore del Circolo Christus Rex-Traditio

per https://www.2dipicche.news/bergoglio-zanotelli-e-quella-strana-pace/

La visita di Bergoglio a Verona ha visto riunire circa 12 mila persone nell’Arena per l’incontro “Arena di pace. Giustizia e pace si baceranno”, che cita il salmo 85. Il tema affrontato, nel dramma dell’attualità, quindi, è stato quello della pace.

Sul palco, oltre a Bergoglio, il sempre più presente don Ciotti e Alex Zanotelli, comboniano e orgoglioso indossatore di foulards arcobaleno. Questa volta il missionario non si è limitato a sfoggiare quello che costantemente porta al collo ma ha voluto sventolare una bandiera di analoghi colori e la scritta “Pace” davanti al pontefice.

Sarebbe il caso di ricordare sempre che la bandiera della pace, quella vera, è un’altra, a maggior ragione per un cristiano. È la Croce.

Quella arcobaleno, che ormai si è diffusa anche in troppi ambienti cattolici, con l’acquiescenza delle gerarchie ecclesiastiche, ha ben altra origine e significato.

Helena Petrovna Blavatsky
Helena Petrovna Blavatsky

Fu ideata da Helena Petrovna Blavatsky – Dnipro 12 agosto 1831, Londra 8 maggio 1891- , occultista, nemica giurata del cristianesimo, fondatrice della Società Teosofica – basata su una dottrina sincretica costituita da elementi esoterici, neoclassici e provenienti da diverse religioni orientali – oltre che della rivista intitolata “Lucifer”.

Così come Lucifero rappresenta l’opposto di Dio e il capovolgimento di tutti i Suoi principi – non a caso uno dei simboli satanici è la Croce capovolta – la bandiera inventata da Madame Blavatsky contiene i colori dell’arcobaleno in ordine capovolto.

Nella Bibbia l’arcobaleno rappresenta la ritrovata pace tra Dio e gli uomini dopo il diluvio universale: “Avverrà che quando avrò raccolto delle nuvole al di sopra della terra, l’arco apparirà nelle nuvole, e io mi ricorderò del mio patto fra me e voi e ogni essere vivente di ogni carne, e le acque non diventeranno più un diluvio per distruggere ogni carne…” (Gen 9:12-17)

Proporre l’arcobaleno in modo capovolto, pertanto, vuol dire esattamente rinnegare questo patto e muovere guerra a Dio.

Questi erano gli intendimenti di Madame Balvatsky, che non a caso affermò:” “Il nostro obiettivo non è restaurare l’induismo, ma spazzare via il cristianesimo dalla faccia della terra”. Oggi l’arcobaleno capovolto si è purtroppo affermato pressoché universalmente, come simbolo di pace.

Sicuramento la grande maggioranza di coloro che lo ostentano ignora le sue origini e il suo significato autentico, ma è un simbolo falso.

Questa è la bandiera che Alex Zanotelli ha sventolato, questi sono i colori che porta costantemente addosso. Siamo sicuri che lui sia animato da buone intenzioni e che sia tra i tanti a cui sfugge il reale senso dell’arcobaleno rovesciato.

Ma, allora, don Alex, butti via quello straccio teosofico e, magari, indossi la talare.

“Salvi tutti”: la strana teologia di suor Faustina Kowalska

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di Don Curzio Nitoglia

 

Prologo

Monsignor Patrick Perez, il 16 settembre 2021, ha postato un interessante articolo in lingua inglese – sulla dottrina soggiacente alla devozione di Suor Faustina Kowalska alla “Divina Misericordia” – intitolato Church Reasons to Condemn the Divine Mercy Devotion (reperibile alla pagina web

 https://www.traditioninaction.org/HotTopics/f072_DivMercy.htm), che è stato tradotto, il 20 settembre, in italiano dal sito

www.centrosangiorgio.com.

Nel presente articolo mi baso sostanzialmente su questo studio di Monsignor Perez.

Come fonte di riferimento monsignor Perez ha usato principalmente un articolo scritto da don Peter Scott sulla rivista The Angelus (giugno 2010).

Monsignor Perez ha analizzato le preghiere della devozione alla “Divina Misericordia” (per esempio, la “Coroncina”) e afferma di non aver trovato nulla di contrario alla fede e alla morale in esse. Invece, ha scorto alcuni errori nella dottrina che soggiace a questa nuova devozione e nel contenuto delle rivelazioni che avrebbe ricevuto Suor Faustina.

Inoltre, per quanto riguarda i singoli fedeli, egli ritiene che ci possano essere delle persone le quali abbiano ricevuto alcune grazie praticando la devozione alla “Divina Misericordia”. Tuttavia, ciò non significa che la devozione in se stessa provenga necessariamente dal Cielo. Infatti, Dio risponde sempre alle nostre preghiere e noi riceveremo sempre qualche grazia, se preghiamo. Quindi, se qualcuno ha ricevuto una grazia praticando questa particolare devozione di Suor Faustina, di per sé non significa che questa devozione provenga dal Cielo. Certamente le grazie vengono sempre dal Cielo. Ma la devozione da noi praticata potrebbe non essere di origine celeste.

 

Le condanne di Pio XII e di Giovanni XXIII

Cosa c’è di dottrinalmente erroneo nella devozione alla “Divina Misericordia”? Innanzitutto, quando Pio XII studiò questa devozione non si preoccupò tanto delle preghiere legate a essa, quanto piuttosto di ciò che Nostro Signore avrebbe detto a questa religiosa e di ciò che le avrebbe detto di rendere pubblico; ossia del contenuto dottrinale delle apparizioni di Gesù a Suor Faustina.

In séguito Pio XII collocò questa devozione – comprese le apparizioni e gli scritti di Suor Faustina – all’Indice dei libri proibiti.

Successivamente seguirono altre due condanne sotto Giovanni XXIII (1881-1963). Per due volte, durante il suo pontificato, il Sant’Uffizio condannò gli scritti di Suor Faustina relativi alla Divina Misericordia.

La prima condanna avvenne nel corso di in un’assemblea plenaria il 19 novembre 1958. Nella dichiarazione del Sant’Uffizio emergono tre punti-chiave su questa devozione: 1°) Non ci sono prove dell’origine soprannaturale di queste rivelazioni. 2°) Non si deve istituire alcuna festa della Divina Misericordia perché essa si basa su apparizioni che non provengono chiaramente da Dio. 3°) È vietato diffondere scritti che promuovano questa devozione sotto la forma ricevuta da Suor Faustina, nonché l’immagine tipica della presunta apparizione (Acta Apostolicae Sedis, vol. 51, anno 1959, p. 271).

Si tenga a mente che Pio XII è morto il 9 ottobre 1958 e la prima condanna fu emessa il 19 novembre 1958, solo quaranta giorni dopo la sua morte e appena un mese dopo l’elezione di Giovanni XXIII (28 ottobre 1958), il che indica che essa fu preparata sotto il pontificato di papa Pacelli. Perciò solo la seconda (e terza) condanna può essere attribuita esclusivamente a Giovanni XXIII, essendo stata emessa nel 1959. In quelle tre condanne, dunque, furono coinvolti due Papi e non esclusivamente Giovanni XXIII, come alcuni vorrebbero sottintendere.

Il 6 marzo 1959, il Sant’Uffizio emanò un secondo decreto su ordine di Giovanni XXIII. In esso, si proibiva, ancora una volta, di diffondere le immagini della “Divina Misericordia” e gli scritti di Suor Faustina che propagavano questa devozione. Il Sant’Uffizio ha inoltre ordinato di rimuovere i quadri del Cristo della “Divina Misericordia”, ma che spettava ai Vescovi decidere come rimuovere le immagini che erano già state esposte per essere venerate pubblicamente.

 

La necessità delle buone opere

Le vere devozioni (conformi alla fede e alla morale cattolica) presuppongono sempre la nostra buona volontà, ossia la cooperazione alla grazia di Dio mediante il pentimento e la riparazione per i nostri peccati. Nonostante le promesse di Nostro Signore e il fatto che Egli ha pagato un prezzo infinito per la nostra Redenzione, dobbiamo riparare. Dobbiamo sempre fare penitenza per i nostri peccati e offrire vari tipi di riparazione.

 

Suor Faustina e il Panteismo di Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II, già nel 1978, primo anno del suo pontificato, avviò il processo di canonizzazione di Suor Faustina e l’istituzione della festa della Domenica della “Divina Misericordia”. Tuttavia, sia gli scritti di Suor Faustina che l’idea stessa di celebrare una festa della “Divina Misericordia” erano stati proibiti e condannati da due suoi predecessori, appena venti anni prima.

Ora, è chiaro e acclarato che Giovanni Paolo II afferma già nella sua prima Enciclica (del 1979) Redemptor hominis n. 9: «Dio in Lui [Cristo] si avvicina ad ogni uomo dandogli il tre volte Santo Spirito di Verità» ed ancora Redemptor hominis n. 11: «La dignità che ogni uomo ha raggiunto in Cristo: è questa la dignità dell’adozione divina». Sempre in Redemptor hominis n. 13: «non si tratta dell’uomo astratto, ma reale concreto storico, si tratta di ciascun uomo, perché […] con ognuno Cristo si è unito per sempre […]. l’uomo – senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché, con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando l’uomo non è di ciò consapevole […] mistero [della Redenzione] del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianetadal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre». Perciò è evidente che, secondo Giovanni Paolo II, la grazia di Dio opera tutto senza la nostra corrispondenza a essa: ogni uomo avrebbe la grazia santificante per il fatto stesso d’esistere, indipendentemente dalla fede e dalle buone opere. Purtroppo pure la devozione alla “Divina Misericordia” di Suor Faustina tende a diffondere il medesimo errore.

Nella sua terza Enciclica (del 1986) Giovanni Paolo II – Dominum et vivificantem n. 50 – scrive: «Et Verbum caro factum est. Il Verbo si è unito ad ogni carne [creatura], specialmente all’uomo, questa è la portata cosmica della Redenzione. Dio è immanente al mondo e lo vivifica dal di dentro. […] l’Incarnazione del Figlio di Dio significa l’assunzione all’unità con Dio, non solo della natura umana ma in essa, in un certo senso, di tutto ciò che è carne: di… tutto il mondo visibile e materiale […]. Il Generato prima di ogni creatura, incarnandosi… si unisce, in qualche modo con l’intera realtà dell’uomo […] ed in essa con ogni carne, con tutta la creazione». Questa è una vera e propria professione di panteismo e di salvezza universale, senza la necessità della cooperazione da parte dell’uomo alla grazia divina tramite le buone opere, influenzata dalla teologia ereticale di padre Teilhard de Chardin.

Insomma, la dottrina panteista di Karol Wojtyla e la teoria soggiacente alla devozione alla “Divina Misericordia” di Suor Faustina sono parallele. Si sa che Karol Wojtyla ha attinto molto dalla teoria di Suor Faustina e poi l’ha esplicitata ed elaborata non solo da sacerdote, ma persino da Pontefice in tre Encicliche (1979/1986), spingendo avanti il processo di riabilitazione degli scritti della Suora polacca.

Un padre carmelitano Theodore Roriz, di origine polacca, ci spiega in un interessante articolo

(https://www.traditioninaction.org/polemics/F_07_DM_06.htm 7), sul quale mi soffermerò verso la fine di questo mio scritto, che il Cardinale Alfredo Ottaviani, nel 1965, permise all’allora Arcivescovo monsignor Karol Wojtyla, alla fine del Concilio Vaticano II, di dirigere un’indagine su richiesta dello stesso Wojtyla. L’Arcivescovo Wojtyla, come molti polacchi, aveva

già sviluppato una profonda ammirazione per Suor Faustina e per la sua devozione ben prima delle condanne del 1958 e del 1959. Così, nel 1965, Wojtyla chiese ed ottenne il permesso di raccogliere testimonianze e aprire un altro processo informativo sulla vita della religiosa, appena 6/7 anni dopo le condanne.

In secondo luogo, con questo permesso, monsignor Wojtyla e i suoi assistenti si misero all’opera per tentare di giustificare la devozione e ottenere la revoca delle condanne. Per molti versi, la devozione della “Divina Misericordia” rifletteva una visione teologica che seguiva da vicino la linea delle teorie teilhardiane, riprese poi da quelle panteiste e quietiste dell’Arcivescovo di Cracovia. Fu quello stesso team che lavorava con monsignor Wojtyla a sollevare la questione delle traduzioni errate come causa della condanna da parte del Sant’Uffizio.

In terzo luogo, nonostante la relazione estremamente favorevole alla dottrina della “Divina Misericordia” presentata nel 1965 da monsignor Wojtyla, la condanna rimase in vigore per altri tredici anni, ossia dal 1965 fino all’aprile del 1978, qualche mese prima che morisse Paolo VI (6 agosto 1978) e che venisse eletto Papa proprio monsignor Wojtyla (16 ottobre 1978), il paladino di Suor Faustina.

Fu solo nell’aprile 1978 – negli ultimi mesi del pontificato di Paolo VI – che la Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò nulla la triplice censura del Sant’Uffizio, adducendo come ragione «l’opinione di molti Vescovi polacchi», nonché la vaga asserzione del «cambiamento delle circostanze» (il Concilio Vaticano II…).

Una volta divenuto Giovanni Paolo II (16 ottobre 1978), monsignor Wojtyla, stabilì la Domenica della “Divina Misericordia” come festa ufficiale nel calendario della liturgia riformata, beatificò Suor Faustina e, in seguito, la dichiarò santa.

Insomma questa diversità di pronunciamenti sulla devozione di Suor Faustina alla “Divina Misericordia” può essere spiegata solo dal cambiamento di dottrina apportato all’interno dell’ambiente ecclesiale dal Concilio Vaticano II. Infatti, c’è opposizione di contraddizione tra la dottrina della Chiesa prima di quelle condanne (1958/59) e quella dopo di esse. Sino al 1959 la dottrina cattolica era la stessa che la Chiesa aveva sempre professato. Poi, il Vaticano II cambiò le cose introducendo una dottrina completamente diversa. Fu proprio perché Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno seguito la nuova dottrina conciliare che cambiarono posizione sulla devozione di Suor Faustina alla “Divina Misericordia” e l’approvarono.

 

Suor Faustina anticipa il Vaticano II

In breve, ciò che fece revocare a Paolo VI le precedenti condanne della devozione di Suor Faustina alla “Divina Misericordia” e indusse Giovanni Paolo II a promuoverla non fu un errore o un malinteso del Sant’Uffizio, che si sarebbe basato su traduzioni false del messaggio riportato nelle opere di Suor Kowalska, ma fu un cambiamento nell’orientamento della dottrina. Ciò che prima del 1962 era giusto, dopo il Concilio (1965) è divenuto sbagliato e viceversa. Pertanto, si può dire che gli scritti di Suor Faustina sono stati approvati da Giovanni Paolo II perché la devozione di Suor Faustina alla “Divina Misericordia” favorisce una spiritualità influenzata dalla teologia di padre Teilhard de Chardin, tendenzialmente panteista e quietista, che è stata fatta propria dal progressismo neo/modernista che ha impregnato i Decreti del Concilio Vaticano II.

 

Alcuni esempi degli errori di Suor Faustina

Monsignor Perez fa qualche esempio molto chiaro e significativo, prendendo alcune citazioni dagli scritti della Suora polacca. Per esempio, il 2 ottobre 1936, la Kowalska afferma che il «Signore Gesù» le apparve e le disse: «Ora so che non è per le grazie o i doni che mi ami, ma perché la mia Volontà ti è più cara della vita. Per questo mi unisco a te così intimamente come a nessun’altra creatura» (Cfr. Divine Mercy in My Soul, The Diary of Sr. Faustina, Marian Press, Stockbridge, 1987, pag. 288).

Monsignor Perez giustamente obietta: Come possiamo credere che Nostro Signore si sia unito più intimamente a Suor Faustina che alla Beata Vergine Maria, “Madre di Dio” e “Immacolata Concezione”?

Poi porge un altro esempio: Suor Faustina ha affermato che Nostro Signore le avrebbe detto che ella sarebbe stata esente dal giudizio, da qualsiasi giudizio, per cui si può anche intendere sia dal giudizio particolare (che avviene dopo la morte di ogni individuo) sia dal giudizio universale (che avverrà per tutti gli esseri umani alla fine del mondo). Già il 4 febbraio 1935 la religiosa affermò di aver sentito questa voce nella sua anima: «Da oggi in poi non temere il giudizio di Dio, perché non sarai giudicata» (Cfr. Divine Mercy in My Soul, The Diary of Sr. Faustina, Marian Press, Stockbridge, 1987, p. 400) Invece in San Paolo è rivelato che «è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio» (Eb., IX, 27).

Inoltre la Chiesa ha definito la ineluttabilità del giudizio particolare al Concilio di Lione, nella “Professione di fede di Michele Paleologo”, nella Costituzione “Benedictus Deus”, al Concilio di Firenze.

Ora, nessuno uomo (tranne l’Immacolata Concezione), è stato esente dal giudizio particolare né lo sarà da quello universale.

Infine, mons. Perez aggiunge a questi esempi l’affermazione secondo cui l’Ostia consacrata sarebbe saltata fuori dal tabernacolo per tre volte posandosi sulle mani di Suor Faustina, cosicché lei avrebbe dovuto aprire il tabernacolo e rimettere la sacra Particola al suo posto: «E l’Ostia uscì dal tabernacolo e venne a posarsi nelle mie mani e io, con gioia, la riposi nel Tabernacolo. Questo fatto si è ripetuto una seconda volta, e io ho fatto la stessa cosa. Nonostante questo, è successo una terza volta» (Cfr. Divine Mercy in My Soul, The Diary of Sr. Faustina, Marian Press, Stockbridge, 1987, p. 168).

Molte volte la Chiesa ha dichiarato che solo le mani consacrate di un sacerdote possono toccare le Sacre Specie e che, dopo averle toccate, egli deve purificarle per non far cadere a terra i frammenti dell’Ostia consacrata che contengono realmente il Corpo di Gesù. Che tipo di lezione si darebbe al mondo con questo esempio di un’Ostia consacrata che salta in mano a una suora affinché la deponga nel Tabernacolo, senza purificarsi nemmeno le mani? Nostro Signore non contraddice la Sua Chiesa con parole o gesti assurdi, ma con quel gesto sarebbe Nostro Signore stesso a svilire la Presenza Reale e tutto ciò che essa rappresenta.

 

Un’aggiunta di padre Teodoro Roriz

Inoltre, un padre carmelitano, Theodore Roriz, ha scritto un articolo (che è stato tradotto anch’esso dall’originale inglese) in difesa di quello di monsignor Perez, in cui sostiene che, riguardo alla dottrina della devozione alla “Divina Misericordia”, occorre asserire chiaramente che questa devozione potrebbe indurre le persone a credere di non dover lottare contro le conseguenze del peccato originale, né contro le cattive influenze del mondo, né contro le tentazioni del diavolo, ma solo a confidare nella Divina Misericordia. Questa fiducia sarebbe sufficiente per sradicare ogni cattiva azione, tendenza o influenza, e condurre l’uomo alla salvezza eterna. (Cfr. Divine Mercy in My Soul, The Diary of Sr. Faustina, Marian Press, Stockbridge, 1987, p. 23).

Si tratta di una riedizione dell’eresia del Quietismo di Miguel de Molinos (1628-1696), che fu condannata con la Costituzione Coelestis Pastor da papa Innocenzo XI nel 1687 (DS, 2201-2269), secondo la quale l’uomo non avrebbe bisogno di fare nulla per essere salvato, ma dovrebbe semplicemente affidarsi interamente a Dio per lasciare che la grazia agisca in lui.

Molinos ha tratto questa sua erronea conclusione acetica dall’eresia luterana del “pecca fortiter sed fortius crede” e della “fede fiduciale” condannata da papa Leone X con la Bolla dogmatica Exurge Domine nel 1520 (DS, 1451-1492).

Padre Roriz afferma, pastoralmente, che, sebbene lo spirito soggiacente alle rivelazioni di Suor Faustina contenga un orientamento teologico sbagliato, si può, nonostante ciò, ammettere che molti individui i quali praticano in buona fede la devozione alla “Divina Misericordia” lo facciano mossi da un’intenzione onesta e possano, quindi, ricevere alcune grazie dalla loro preghiera, nonostante le ambiguità della dottrina soggiacente a queste rivelazioni private.

Padre Roriz, infine, risponde all’obiezione secondo cui il significato dei testi delle rivelazioni di Suor Faustina è stato male interpretato solo a causa di errori nella traduzione e non è erroneo in sé.

Egli scrive di avere sotto mano sia un elenco delle più importanti traduzioni errate del Diario originale di Suor Faustina, sia anche una copia del suo Diario che è stata tradotta correttamente; infine specifica che a) le citazioni fatte da lui degli errori contenuti negli scritti di Suor Faustina sono state riprese dalla versione aggiornata, correttamente tradotta e approvata dai moderni sostenitori della “Divina Misericordia” e che b) le condanne emesse dalla Santa Sede nel 1958/59 riportano errori contenuti realmente negli scritti della Kowalska e non attribuiti a lei falsamente tramite traduzioni erronee.

 

Conclusione

Riassumendo brevemente il contenuto dei lavori di Monsignor Perez e di padre Roriz si può dire che:

1°) Le preghiere della devozione alla “Divina Misericordia” non contengono nulla di contrario alla fede e alla morale; tuttavia, vi sono alcuni errori luterani e quietisti nella dottrina che soggiace a questa nuova devozione: a) la fede senza le opere; b) la speranza fiduciale di salvarsi senza merito; c) la totale passività nella vita spirituale senza la necessità di cooperare alla grazia divina.

2°) I singoli fedeli possono ricevere alcune grazie pregando e praticando in buona fede la devozione alla “Divina Misericordia”, senza però aderire alla dottrina che essa presuppone, la quale non è stata esplicitata in quelle preghiere, che non contengono errori.

3°) Le vere devozioni (conformi alla fede e alla morale cattolica) presuppongono sempre la cooperazione alla grazia di Dio mediante il pentimento e la riparazione per i nostri peccati; al contrario di quanto insegna il Luteranesimo e il Quietismo, dei quali è impregnata la dottrina di Suor Faustina.

4°) La dottrina di Suor Faustina è stata condannata (1958/59) dalla Chiesa prima della Rivoluzione conciliare ed è stata sdoganata solo nel 1978 specialmente da Giovanni Paolo II, che era impregnato degli errori contenuti nella dottrina professata da Suor Faustina e che ha diffuso nelle sue prime tre Encicliche (Redemptor hominis, 1979; Dives in Misericordia, 1980; Dominum et vivificantem, 1986).

5°) La dottrina panteista di Karol Wojtyla e la teoria soggiacente alla devozione alla “Divina Misericordia” di Suor Faustina sono oggettivamente parallele.

6°) La perniciosità di questa devozione di sapore luterano e quietista potrebbe indurre le persone a credere di non dover lottare contro le conseguenze del peccato originale, né contro le cattive influenze del mondo, né contro le tentazioni del diavolo, ma solo a confidare nella Divina Misericordia. Questa fiducia sarebbe sufficiente per sradicare ogni cattiva azione, tendenza o influenza, e condurre l’uomo alla salvezza eterna. Tuttavia questa è la “presunzione di salvarsi senza merito”, che è un “peccato contro lo Spirito Santo”, il quale ci porta all’impenitenza finale, ossia a non chiedere perdono dei nostri errori sino alla fine, e quindi alla perdizione eterna.

7°) Infine, il significato dei testi delle rivelazioni di Suor Faustina è stato condannato giustamente poiché è erroneo in sé e non solo a causa degli errori della loro traduzione.

A partire da quanto ci hanno spiegato monsignor Perez e padre Roriz è bene stare alla larga dalla dottrina di Suor Faustina e di Karol Wojtyla, praticando le devozioni tradizionali della Chiesa.

Curzio Nitoglia

Articolo completo: “Salvi tutti”: la strana teologia di suor Faustina Kowalska | don Curzio Nitoglia (wordpress.com)

Foibe: i titini hanno perso il pelo ma non il vizio

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Foibe, l’odio rosso continua: minacciata troupe Rai in Slovenia
Grave atto intimidatorio nei confronti del giornalista Rai Andrea Romoli e della sua troupe, che si erano recati all’interno di una grotta per un servizio sulle foibe. “Il messaggio era chiaro: non vi vogliamo”
“In quella caverna abbiamo trovato resti umani e anche un rosario. Una cosa che ci ha commossi”. Andrea Romoli racconta con trasporto l’esperienza avuta durante la realizzazione di un servizio per il Tg2 sulle foibe terminato però con un’amara sorpresa. Nei pressi del villaggio di Podpec, a pochi chilometri dal confine italiano, l’inviato del notiziario Rai, si era calato all’interno della caverna dove nel 1945 le milizie comuniste di Tito hanno trucidato centinaia di persone. Poi riemerso in superficie assieme agli speleologi Franc Maleckar e Maurizio Tavagnutti, che lo avevano accompagnato, ecco l’inquietante dettaglio: le auto della troupe, parcheggiate a circa 150 metri di distanza, pesantemente danneggiate.
“Il messaggio era chiaro: levatevi al più presto, qua non vi vogliamo”, commenta Romoli a ilGiornale.it, aggiungendo dettagli su quell’intimidazione che affonda le proprie radici nei crimini della storia. Il parabrezza della vettura Rai di servizio – ha testimoniato il giornalista – era sfondato, la fiancata divelta. Gli specchietti delle auto dello stesso inviato Rai e degli speleologi erano altesì danneggiati. Diversamente, le macchine di targa slovena presenti sul posto non sono state sfiorate. Così, davanti agli occhi della troupe Rai, si sono palesati i segnali inequivocabili di un antico odio purtroppo mai sopito. Peraltro, Romoli ha raccontato anche un altro emblematico dettaglio emerso durante la sua spedizione nella grotta slovena.
“All’ingresso erano state poste due grandi croci di legno ma qualcuno le aveva sradicate e buttate giù: un atto pesante, che testimonia l’odio oltre la morte. Noi siamo riusciti a recuperarne una e l’abbiamo posizionata di nuovo”, ha ricostruito il cronista Rai. Quell’oltraggio – ha aggiunto – “mi ha colpito ancor di più delle auto danneggiate”. L’episodio intimidatorio è stato subito denunciato e stigmatizzato con forza da sindacato Unirai. “Dalle Foibe in Istria alle fosse comuni di Bucha è teso un unico filo rosso di sangue, che bisogna ricordare e denunciare perché quegli orrori non si ripetano. Farlo senza paure e reticenze è la maniera migliore per onorare lo straordinario lavoro di ricucitura delle ferite del passato realizzato dalle comunità italiana e slovena al di qua e al di là del confine, per costruire un comune futuro di pace e convivenza. Dalla storica stretta di mano tra il presidente Mattarella e il suo omologo sloveno Pahor davanti alla foiba di Basovizza non si torna indietro”, ha scritto il sindacato in una nota.
Quanto accaduto ha anche ottenuto una significativa riprovazione da parte di Livio Semolič, segretario regionale dell’Unione economico culturale slovena (Skgz). “Quello che è successo in Slovenia alla equipe dei giornalisti Rai è assolutamente vergognoso . È un atto di vandalismo inaccettabile da parte di estremisti, che a quanto pare sono ancora presenti ovunque. Allo stesso tempo rappresenta una palese dimostrazione di quanto sia necessario moltiplicare gli sforzi e lavorare per la convivenza e la collaborazione , al fine di superare tutte le nefaste conseguenze che le tragedie della prima metà del secolo scorso hanno lasciato soprattutto in questo territorio di confine e non solo”, ha espresso il rappresentante della comunità slovena, esprimendo solidarietà al giornalista e alla truope Rai. (…)

Mettere l’anno nuovo nelle mani di Maria Ausiliatrice

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Seguendo l’esempio di san Giovanni Bosco, che metteva sempre le più importanti  intenzioni nelle mani di Maria Ausiliatrice, affidiamo alla Madonna l’anno nuovo per i bisogni nostri, per quelli della Chiesa e per quelli della società civile. Auxilium Christianorum, ora pro nobis.
 
160 anni fa don Bosco a Oropa
Don Bosco salì ad Oropa nel momento di una decisione importantissima e fu veramente colpito dalla bellezza del luogo e dalla devozione dei pellegrini e della gente del posto, come scriverà nella lettera inviata ai suoi ragazzi a Valdocco.
Il santuario di Oropa si trova tra le Alpi Biellesi a 1176 m ed è luogo di fortissima devozione alla Vergine, con testimonianze che risalirebbero addirittura a sant’Eusebio, primo vescovo di Vercelli (secolo iii). Mèta di continui pellegrinaggi, è uno dei più grandi Santuari mariani d’Italia. Don Bosco vi salì come devoto pellegrino nell’estate del 1863, per chiedere una grazia speciale a Maria.
Qualche mese prima aveva espresso ai suoi più diretti collaboratori il progetto di questo pellegrinaggio, dopo i suoi esercizi spirituali a Sant’Ignazio, sopra Lanzo Torinese: voleva “fare la scelta delle persone da mandarsi nel collegio di Mirabello” (Ms vol. VII, p. 482). L’apertura di questa nuova opera, la prima fuori Torino, era molto importante: si trattava veramente di capire come se la sarebbero cavata i suoi figli lontani da lui; ci voleva proprio una protezione speciale di Maria, allora don Bosco scelse il santuario di Oropa, molto vicino alla città di Biella, dove era vescovo monsignor Losana, suo carissimo sostenitore e amico. Vi si recò quindi ai primi di agosto e fu veramente colpito dalla bellezza del luogo e dalla devozione dei pellegrini e della gente del posto, come scriverà nella lettera inviata ai suoi ragazzi a Valdocco. Furono giornate di paradiso, così come descrivono i suoi cronisti e il suo biografo don Lemoyne: “Ivi, dinnanzi a quell’effigie taumaturga, celebrava la Santa Messa e pregava lungamente” (MB vol. VII p. 497). Poi il pensiero corse ai suoi ragazzi e ai giovanissimi primi salesiani di Valdocco: li avrebbe voluti tutti con sé per vivere le sue stesse emozioni e il suo amore alla Vergine. E scrisse una delle sue più belle lettere:
Se voi, o miei cari figliuoli, vi trovaste sopra questo monte ne sareste certamente commossi. Un grande edifizio, nel cui centro havvi una divota chiesa, forma quello che comunemente si appella Santuario d’Oropa. Qui havvi un continuo andirivieni di gente. Chi ringrazia la Santa Vergine per grazie da lei ottenute, chi dimanda di essere liberato da un male spirituale o temporale, chi prega la Santa Vergine che l’aiuti a perseverare nel bene, chi a fare una santa morte. Giovani e vecchi, ricchi e poveri, contadini e signori, cavalieri, conti, marchesi, artigiani, mercanti, uomini, donne, vaccari, studenti d’ogni condizione si vedono continuamente in gran numero accostarsi ai Santi Sacramenti della confessione e comunione e andare di poi ai pie’ d’una stupenda sta-tua di Maria SS. per implorare il celeste di lei aiuto. Ma in mezzo a tanta gente il mia cuore provava un vivo rincrescimento. Perché? Non vedeva i miei cari giovani studenti. Ah! Perché non posso avere i miei figli qui, condurli tutti ai pie’ di Maria, offerirli a Lei, metterli tutti sotto alla potente di Lei protezione, farli tutti come Savio Domenico o altrettanti San Luigi? Per trovare un conforto al mio cuore sono andato dinanzi al prodigioso altare di Lei e le ho promesso che, giunto a Torino, avrei fatto quanto avrei potuto per insinuare nei vostri cuori la divozione a Maria. E raccomandandomi a Lei ho dimandato queste grazie speciali per voi. ‘Maria, le dissi, benedite tutta la nostra casa, allontanate dal cuore dei nostri giovani fin l’ombra del peccato; siate la guida degli studenti, siate per loro la sede della vera Sapienza. Siano tutti vostri, sempre vostri, e abbiateli sempre per vostri figliuoli e conservateli sempre fra i vostri divoti’. Credo che la Santa Vergine mi aver esaudito e spero che voi mi darete mano, affinché possiamo corrispondere alla voce di Maria, alla grazia del Signore. La Santa Vergine Maria benedica me, benedica tutti i sacerdoti e chierici e tutti quelli che impiegano le loro fatiche per la nostra casa; benedica tutti voi, Ella dal cielo ci aiuti, e noi faremo ogni sforzo per meritarci la sua santa protezione in vita ed in morte. Così sia”.
Dal Santuario d’Oropa, 6 Agosto 1863 
La Madonna gli ispirò criteri e nomi per la scelta dei salesiani da mandare a Mirabello; a capo di questa missione, la prima in ordine assoluto per Salesiani, fu posto il giovanissimo direttore don Michele Rua. Non poteva fare scelta migliore. Trentacinque anni dopo, il 9 novembre del 1898, don Rua mandava a Biella il primo salesiano, don Luigi Billieni, per fondare l’oratorio di San Cassia-no nel popolare quartiere di Riva. Cento anni dopo il pellegrinaggio di don Bosco, ne11963 l’allora Rettor Maggiore, don Renato Ziggiotti, saliva anche lui come pellegrino al Santuario per ricordare don Bosco e la fondazione della prima opera fuori Torino. Questo evento è testimoniato dal bellissimo quadro del Crida che si trova nella chiesa di San Cassiano e che rappresenta don Bosco a Oropa (unico nel suo genere) con una giovane famiglia della parrocchia di quel 1963.
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