I BRICS vogliono un nuovo ordine multipolare

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L’EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/08/28/i-brics-vogliono-un-nuovo-ordine-multipolare/

tradotto in spagnolo dall’O.d.G. dell’America Latina per la rivista “Voces del Periodista”: https://vocesdelperiodista.mx/voces-del-periodista/internacional/los-brics-quieren-un-nuevo-orden-mundial/

I BRICS DENUNCIANO LA POLITICA UNILATERALE ED OPPRESSIVA STATUNITENSE

Dal 22 al 24 Agosto 2023 si è tenuto, a Johannesburg, il XV vertice dei Paesi emergenti: i BRICS+, acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica + una settantina di altri Paesi ospiti, tra cui tutti quelli africani. Assente Vladimir Putin, sul quale pende, da parte della Corte penale internazionale, un mandato di arresto internazionale per presunti crimini di guerra in Ucraina. La Russia è stata rappresentata dal suo fedelissimo Ministro degli Esteri Serghei Lavrov. Putin ha comunque rilasciato la dichiarazione ufficiale che avrebbe fatto in presenza, da remoto, prima del meeting.

I BRICS+ si sono ritrovati dopo 5 anni di stop, dovuto all’emergenza Covid. I media occidentali hanno snobbato o trattato con sufficienza questo evento, ritenendo che i BRICS dovrebbero sciogliersi perché alquanto divisi tra loro, senza, però, specificare quali sarebbero questi motivi di divisione. Anche il Presidente della Commissione Esteri alla Camera e del think thank Aspen Institute Italia On. Giulio Tremonti ha sostenuto che i BRICS non possono vincere la sfida con l’Occidente. L’ha motivata perché sono Paesi privi di libertà, Oltre alla presenza di una netta divergenza tra India e Cina, che potrebbe compromettere l’unità e la coesione del gruppo.

Diversi economisti occidentali tendono a scoraggiare l’assemblea dei BRICS+ perché il dominio del dollaro e il suo effetto distorsivo sui processi di sviluppo sono un dato di fatto con cui i paesi in via di sviluppo dovrebbero rassegnarsi a convivere. In poche parole, non gli può riuscire il paventato cambio di valuta per i commerci, che, effettivamente è loro espressa volontà, ma che in Sudafrica non si è concretizzato, per quanto discusso ampiamente, su larga scala. Il 90% del commercio globale continua ad essere condotto in dollari statunitensi, sebbene il progresso dei rapporti e delle alleanze tra Stati molto ricchi non faccia di questo un dogma perpetuo.

Come spesso ripete Putin, la teoria del multipolarismo si basa sul fatto che gli attori internazionali hanno influenza e potere in diverse materie e regioni del mondo, però nessuno di loro può imporre unilateralmente la propria volontà sugli altri. Su questo i BRICS+ sono tutti compatti, denunciando la politica unilaterale ed oppressiva statunitense. Ci sono tutti i motivi per pensare che il futuro veda il mondo riunito in un unico blocco, con gli Stati Uniti e l’UE nell’angolo. Putin, dalla guerra in Ucraina ha scatenato una reazione di avvicinamento globale di tutti i Paesi stanchi di subire l’unipolarismo americano. Obiettivo comune è e resta sfidare il radicato dominio geopolitico dell’Occidente. Lo zar, sfruttando politicamente la guerra in Ucraina, è riuscito a mettere assieme il mondo arabo con le civiltà orientali, con l’Africa e buona parte dell’America Latina.

Il cambio di paradigma finanziario, contrariamente a quanto si dice in Occidente, diverrebbe una ovvia conseguenza al fatto che i BRICS+ i nuovi 4 arrivi rappresentano l’85% della popolazione del pianeta, (3,7 milioni di abitanti) ed il 36% del Pil del pianeta, con tre Paesi che risultano, già oggi, tra le prime cinque economie globali, secondo i dati forniti dalla banca mondiale. Resta imprescindibile e da non sottovalutare, che la seconda economia mondiale dopo la Cina è rappresentata dagli Stati Uniti. La Russia è la quinta economia del mondo. L’Occidente dovrebbe lasciar da parte ogni spocchia e senso si supremazia economica e culturale, perché gli altri “mondi” si stanno organizzando in fretta, sono disponibili al dialogo ed alla collaborazione, ma l’atteggiamento deve cambiare se non si vuole il suicidio politico-finanziario, che sembrerebbe già pronto nell’agenda 2030 dei BRICS+.

Il summit ha ottenuto risultati importanti nel medio e lungo termine, che potrebbero favorire l’abbandono del dollaro: “Abbiamo raggiunto un accordo, per poter invitare Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, a diventare membri a pieno titolo dei BRICS..Il loro ingresso avverrà il primo gennaio 2024” – ha dichiarato il Presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa. Le riserve di petrolio e gas degli Stati Uniti, insieme all’influenza geopolitica, forniscono agli americani una certa indipendenza, ma l’Europa sembra debole e con una strategia inadeguata, perché semplicemente sottomessa ai diktat di USA e NATO. La UE non ha una strategia propria e non l’avrà perché i padroni non lasciano le colonie agire da sole. Nonostante si parli di allontanamento dall’influenza della Cina, la dipendenza dell’Europa dalla produzione e dai mercati asiatici cresce. Le strategie europee si basano sui minerali africani, sui metalli, sugli idrocarburi e sulle fonti di energia rinnovabile, tutti sempre più alla mercé di alleanze mutevoli, presto convergenti nei BRICS+ assieme ai giganti dell’energia della galassia islamica.

La convergenza di Arabia Saudita, Egitto, Algeria, Brasile e Russia conferisce ai BRICS+ il controllo di oltre il 60% delle riserve e della produzione energetica globale. I leader africani hanno sottolineato che sta aprendosi un’era completamente nuova per il mondo intero. Questo è l’inizio della formazione di un nuovo ordine mondiale, senza la pressione selvaggia dell’Occidente. Si parla di un nuovo NOM “alternativo” fatto dai BRICS+, ove indipendenza e cooperazione, rispetto delle tradizioni e valuta unica, sinergia energetica e collaborazione politica, interscambio delle materie prime sarebbero i principi fondamentali. Queste premesse appaiono l’opposto di quanto pianificato dagli “illuminati” anglo-americani, da Mackinder e Brzezinsky, fino a Bill Gates e ai Rothschild. Se andasse in porto un’alleanza simile composta da: BRICS + i 4 ingressi previsti tra quattro mesi e il graduale ingresso dei quaranta altri Paesi che hanno fatto richiesta, senza intoppi e svincolata dal dollaro, il deep state sarebbe ampiamente ridimensionato e la politica della UE subirebbe la più grande crisi della sua storia.

L’intervento di Putin ai Brics: “La guerra è colpa dell’Occidente”

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In collegamento video, per evitare il possibile arresto dopo il mandato spiccato dalla Corte dell’Aja per crimini di guerra, il leader del Cremlino ha utilizzato il suo discorso per difendere l’invasione della Russia in Ucraina

AGI – A un anno e mezzo dall’inizio della guerra in Ucraina, Vladimir Putin ha assicurato, durante il vertice del gruppo Brics a Johannesburg, che la Russia vuole porre fine a un conflitto che, secondo lui è stato “scatenato” dall’Occidente “per mantenere la propria egemonia nel mondo”.

Intervenuto in collegamento video, per evitare il possibile arresto dopo il mandato spiccato dalla Corte dell’Aja per crimini di guerra, il leader del Cremlino ha utilizzato il suo discorso per difendere la guerra della Russia in Ucraina e lodare Cina, Brasile, India e Sudafrica, che nel blocco con Mosca si presentano sempre più’ come contrappeso al dominio globale degli Stati Uniti.

Putin ha ripetuto, ancora una volta, la narrativa ufficiale russa, secondo cui l’invasione dell’Ucraina, condannata da Kiev e dall’Occidente come una mossa imperialista, è stata la risposta obbligata della Russia alle azioni ostili di Kiev e Washington e allo “sterminio” che da otto anni era in corso nelle regioni orientali del Donbass.

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© ALET PRETORIUS / POOL / AFP

Putin, intervento ai Brics

“Prima, con l’aiuto degli occidentali, in questo Paese è stato effettuato un colpo di Stato incostituzionale, e poi è stata scatenata una guerra contro quelle persone che non erano d’accordo col golpe”, ha detto riferendosi alla caduta del governo filo-russo di Viktor Yanukovich dopo la rivoluzione di Maidan del 2014. “Una guerra crudele, una guerra di sterminio da otto anni“.

Putin ha parlato ai leader di Paesi che si sono astenuti dal condannare le azioni della Russia in Ucraina. Dopo la rottura con l’Occidente sull’Ucraina, i Brics hanno assunto maggiore importanza per Mosca, interessata ad attenuare le sanzioni con l’aumento dell’interscambio aumentando con Asia, Africa e America Latina.

 

 

 

 

 

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GLI AMICI DELLA RUSSIA SI RIUNISCONO CONTRO LA RUSSOFOBIA LIBERALE

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Si è tenuto a Mosca il congresso di fondazione del Movimento Internazionale Russofilo (IRM). Si è trattato del primo congresso di questo tipo, al quale hanno partecipato circa 90 rappresentanti di 42 Paesi, tra cui gli Stati della CSI, gli Stati Uniti, l’UE, l’Asia e l’Africa, ecc.

Lo scopo del congresso, nel contesto dell’operazione militare speciale in corso e della pressione delle sanzioni, è stato quello di dimostrare che l’interesse per la cultura, le tradizioni e la visione del mondo russi non fa che crescere nonostante i tentativi di isolamento internazionale e culturale a vari livelli. Nell’ambito del forum, le persone che condividono l’amore e l’interesse per la Russia hanno avuto l’opportunità di scambiare opinioni e contatti. È importante, anche a livello simbolico, che i MDR abbiano scelto il Museo Statale Pushkin come luogo di incontro. Museo Statale Pushkin, in segno di protesta contro l’abolizione della cultura russa in diversi Paesi del mondo.

Ai massimi livelli

L’evento è stato sostenuto ai massimi livelli in Russia. Alla vigilia della cerimonia di apertura, il Presidente russo Vladimir Putin ha inviato un telegramma di saluto ai partecipanti al congresso: secondo lui, “in molti Paesi si fomenta deliberatamente l’isteria antirussa, si perseguitano i nostri connazionali e coloro che simpatizzano con loro, si impongono divieti e restrizioni persino sulle opere dei grandi classici russi che appartengono al tesoro della cultura mondiale”.

Il messaggio di Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutte le Russie è stato letto da Konstantin Malofeev, vice capo del Consiglio Mondiale del Popolo Russo. Il Primate della Chiesa ortodossa russa ha benedetto i partecipanti al congresso, esortandoli a “stare insieme per la verità che consiste nel diritto di una persona di rimanere se stessa e di preservare la fede e le tradizioni dei suoi antenati”.

Il Ministero degli Esteri russo ha sostenuto la creazione del nuovo movimento internazionale. Il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov è intervenuto alla cerimonia di apertura del congresso, aggiungendo la geopolitica al tema della cultura. Secondo il ministro, la Russia e i suoi amici non sono mai “amici contro qualcuno” e non costringono gli altri ad adottare la loro posizione. Il ministro degli Esteri russo ha sottolineato che nell’attuale confronto con l’Occidente, la Russia non impone nulla a nessuno e tratta gli altri poli dell’emergente mondo multipolare come pari.

“I Paesi del Sud globale, la maggioranza del mondo, sono in grado di trarre conclusioni da soli”, ha detto il diplomatico, “Siamo tutti adulti, non trattiamoci con un atteggiamento arrogante – come fanno i nostri partner occidentali”.

Il ministro degli Esteri ha osservato che la civiltà occidentale sta degenerando perché è “ossessionata dalla sua grandezza” e dal suo “eccezionalismo”. Secondo il ministro, l’Occidente sta combattendo fino alla morte per mantenere la sua sfuggente egemonia sulla scena mondiale.

Il ministro degli Esteri ha inoltre definito la visita degli ospiti stranieri “un atto di coraggio” in un momento così difficile.

Il senatore Konstantin Kosachev e Leonid Slutsky, capo della fazione del Partito liberaldemocratico della Russia, hanno parlato a nome del Consiglio della Federazione e della Duma di Stato.

L’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico (ambasciatore del Vaticano) negli Stati Uniti, si è rivolto al Congresso dei russofili con un messaggio di benvenuto.

Tra coloro che si sono riuniti a Mosca il 14 marzo c’erano rappresentanti di famiglie aristocratiche, ex capi di governo, ex e attuali parlamentari, diplomatici e filosofi, giornalisti e rappresentanti di movimenti sociali.  Uno degli ospiti più brillanti del congresso è stato Steven Seagal, attore americano e inviato speciale del Ministero degli Esteri russo per le relazioni umanitarie con gli Stati Uniti e il Giappone.

Superare ostilità e disinformazione

Uno dei principali promotori dell’evento e autori del manifesto è stato Nikolai Malinov, leader del movimento nazionale russofilo bulgaro. Per le sue posizioni russofile, Malinov è stato inserito nelle liste di sanzioni degli Stati Uniti e del Regno Unito ed è stato anche accusato di “spionaggio” nel suo Paese. Il 14 marzo è stato eletto dai delegati del congresso come leader del Movimento russofilo internazionale.

Intervenendo al congresso del MDR, ha sottolineato che in Europa gli atteggiamenti russofili dominano gli atteggiamenti delle élite e sono diffusi attraverso i media, e lo scopo dell’evento è quello di ricordare l’amore per il popolo russo a livello internazionale. Secondo il manifesto, i partecipanti mostreranno come “l’ostilità, la disinformazione e la sfiducia possono essere superate nell’attuale mondo di conflitti”.

“Vedo il nostro movimento come un fronte separato che mostra che ci sono forze nel mondo che combatteranno, attraverso la diplomazia popolare, la russofobia che vieta ai gatti russi di partecipare alle competizioni, che cancella Pushkin, che vieta il discorso russo”, ha detto Malinov. Secondo lui, il compito della comunità russofila è quello di dimostrare che esistono forze capaci di resistere nonostante “gli strumenti finanziari e l’aggressione”.

Necessità di movimento

Come hanno notato i media, Nikolai Malinov parla da tempo del progetto di creare un movimento russofilo internazionale. L’operazione militare speciale della Russia iniziata il 24 febbraio 2022 è diventata un catalizzatore dei processi di divisione nel mondo. La divisione tra sostenitori dell’egemonia occidentale e i suoi oppositori. I sostenitori di un mondo libero multipolare, della diversità delle civiltà e delle culture, per il quale il pensiero russo, a partire da N.Y. Danilevskij, ha sempre sostenuto, e i sostenitori di un mondo unipolare liberale totalitario, in cui l’unica forma di libertà è la libertà di seguire lo standard liberale occidentale, sempre più limitato e ristretto.

La Russia negli ultimi anni per molti in Europa, Asia e Africa, America Latina e anche negli stessi Stati Uniti è diventata un simbolo della Tradizione, un’”arca di salvezza”, il centro del movimento internazionale per un giusto ordine mondiale basato sul multipolarismo e sul rispetto dei valori tradizionali dei Paesi e dei popoli.

Oltre a queste persone, ci sono anche molti nel mondo che semplicemente amano la cultura e l’arte russa, hanno legami familiari con la Russia e i russi. Tuttavia, anche queste persone esteriormente apolitiche sono ora vittime della “cultura della cancellazione”. Il 14 marzo, il giorno in cui si è svolto il primo congresso del Movimento Internazionale dei Russofili, la Russia ha portato la questione della russofobia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La Procura generale russa aveva proposto in precedenza di equiparare la russofobia all’estremismo.

Un anno fa, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha ammesso che la russofobia era diventata mainstream nel suo Paese e ha invitato altri Paesi europei a unirsi all’odio per la Russia in Polonia. Nell’ultimo anno, rappresentanti dell’Ucraina e dei Paesi occidentali hanno apertamente chiesto la “decolonizzazione” e la disintegrazione della Russia. In Ucraina, la lingua russa è stata vietata e non può essere insegnata nelle scuole, nemmeno come lingua straniera. I russi sono perseguitati negli Stati baltici. In Polonia, tutti i laureati del MGIMO sono stati licenziati dal Ministero degli Esteri. Nel Regno Unito, il numero di “incidenti di aggressione contro i russi e gli abitanti di lingua russa” è raddoppiato nell’ultimo anno, come ha rilevato l’ambasciata russa in quel Paese. Anche i media europei mainstream sono costretti a riportare i numerosi casi di aggressione contro i russi di lingua russa nei Paesi della NATO.

“Noi russi e i russofili vinceremo sicuramente”

Il presidente della Società di Tsargrad Konstantin Malofeev ha sottolineato che “i russofili sono coloro che amano prima di tutto il loro Paese, coloro che amano la Russia e i russi come riflesso del loro sogno di libertà e indipendenza. Con queste persone costruiremo un mondo molto migliore di quello con cui siamo entrati nel XXI secolo. Un mondo multipolare di popoli liberi e di valori tradizionali, piuttosto che la dittatura di un solo Paese che impone abomini anticristiani, antiumani e satanici. Sono sicuro che noi russi e russofili vinceremo sicuramente. Perché Dio è con noi!

Gli ospiti del congresso provenienti dall’estero sono persone coraggiose, ha sottolineato il filosofo Alexander Dugin. “Le persone che vengono qui dai Paesi dell’UE o dall’America e dicono: sì, amiamo comunque la Russia, la amiamo come cultura, come civiltà, come identità, la amiamo come religione, come tradizione, come arte – dimostrano davvero un atto di eroismo”.

Anche Pierre de Gaulle, presidente e fondatore della Fondazione per la Pace, l’Armonia e la Prosperità dei Popoli della Svizzera e nipote del leggendario fondatore della Quinta Repubblica, Charles de Gaulle, è intervenuto al congresso. Ha sottolineato l’importanza del fattore ideologico nel conflitto tra Russia e Stati Uniti: “Il conflitto attuale è un conflitto ideologico in difesa dei nostri valori tradizionali, della famiglia, della religione. Il nostro compito, il mio dovere è quello di difendere i valori, di difendere il benessere del mondo e dell’Europa”.

“Così come l’Occidente ha creato un’icona nella persona della Principessa Diana, noi dobbiamo creare i nostri ideali”.

Da parte sua, la Principessa Vittoria Alliatta di Villafranca, nota ricercatrice italiana dell’Oriente, traduttrice e figura culturale, ha sottolineato che l’Occidente non si sottrae ai metodi terroristici, ricordando l’omicidio della filosofa e giornalista Daria Dugina.

“Uno dei principali strumenti che vengono sempre utilizzati in questa battaglia sono le donne. Eppure quando Daria Dugina, una filosofa, una scrittrice che rappresentava il meglio che l’Europa aveva da offrire, dalla filosofia greca antica al pensiero imperiale russo, è stata uccisa, nessuno ha detto una parola. Ma quando una povera ragazza iraniana ha avuto un infarto in una stazione di polizia, allora tutti sono scesi in strada e hanno cercato di rovesciare il regime al potere in Iran”, ha detto l’italiano fornendo un esempio dell’ipocrisia occidentale.

Ha suggerito che un metodo per combattere l’ideologia occidentale è quello di sottolineare l’importanza dei nostri eroi e delle nostre eroine, soprattutto delle donne. “Penso che dovremmo concentrarci sui nostri eroi. Così come l’Occidente ha creato un’icona nella persona della Principessa Diana, noi dovremmo creare i nostri ideali. Le donne sono il nostro patrimonio, dobbiamo dare loro la forza di difendersi. Non ogni donna è un’eroina, ma ogni donna può dare un pezzo del suo amore per rendere il mondo un posto migliore”, ha concluso la principessa.

Manifesto del MDR

Il congresso ha adottato un manifesto per il nuovo movimento, in cui i partecipanti promettono di promuovere la cultura russa, aiutare gli amici russi, sostenere la diffusione di informazioni accurate sulla Russia, contrastare la russofobia e rafforzare la “diplomazia del popolo”. Come primo passo, Malinov ha proposto di raccogliere un milione di firme per revocare le sanzioni alla Russia, di creare un’istituzione per combattere la russofobia, di rilanciare l’idea del “russofobo dell’anno”, di creare un’alternativa all’Eurovision e così via.

Una parte importante del nuovo movimento sarà la lotta alla russofobia nei media. Pepe Escobar, noto giornalista internazionale, ha definito ciò che sta accadendo nel mondo “una guerra di soft power, una guerra culturale e di informazione contro la Federazione Russa”.  “Le persone che gestiscono tutto non sono Sunak, Nuland o Soros”, ha spiegato l’esperto, “Tutto viene deciso non a Bruxelles, ma in riunioni private. Si tratta di alcune famiglie che possiedono molto denaro e non si mostrano in pubblico. Qualche anno fa è stato deciso che la Russia deve essere presa in mano, per appropriarsi delle sue risorse, che la Russia presumibilmente non merita. Ora è il momento di reagire”. Inoltre, gli organizzatori hanno dichiarato che il movimento si impegnerà anche su questioni legali, difendendo i diritti dei russi e degli amici della Russia all’estero.

Una scelta escatologica

Il Movimento Internazionale dei Russofili ha un grande futuro. Il NWO e le precondizioni per la transizione del conflitto tra Russia e Occidente a una guerra inter-civile su larga scala rendono la divisione tra i sostenitori della Russia e dell’Occidente moderno una scelta escatologica. È una lotta tra due versioni antagoniste del futuro. È in questa lotta che tutto il potere, le forze e i significati della cultura russa assumono un significato veramente storico-mondiale. L’aggressore in questo conflitto è l’Occidente; la Russia può dimostrare la giustezza del suo modo di procedere, in una competizione e in un dialogo pacifici con il mondo occidentale, se è pronta al dialogo e rinuncia alle sue pretese di esclusività totalitaria e alla sua giustezza a priori. Per definizione, i russofili sono i sostenitori del dialogo, coloro che cercano di creare un ponte tra le loro culture e le loro politiche e la Russia. Coloro che vi si oppongono non sono interessati a tali ponti e al dialogo. Pertanto, i russofili sono anche combattenti per la pace, per un mondo giusto in cui l’identità dei popoli e delle culture sia rispettata, e i tentativi di “abolire” la Russia non provocherebbero altro che una condanna universale.

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/gli-amici-della-russia-si-riuniscono-contro-la-russofobia-liberale

Geopolitica e immigrazione di massa

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di Andrea Zock

Come ampiamente previsto il tema della pressione migratoria si sta ripresentando con forza. Naturalmente in questa rinnovata salienza gioca un ruolo anche l’opportunità di mettere le promesse del governo Meloni alla prova dei fatti, ma questo rientra nel legittimo gioco politico delle opposizioni (e dell’esteso apparato mediatico che ne rispecchia le posizioni).
Tuttavia il punto di fondo è che ogni crisi degli equilibri internazionali si ripercuote più severamente sugli anelli più deboli, e il doppio colpo Covid + Guerra Russo-Ucraina rappresenta la più pesante crisi dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora arriva semplicemente il conto relativo.
In Italia gli anni esplosivi dell’immigrazione sono stati quelli tra il 2011 e il 2017, e seguono la combinazione tra effetti mondiali della crisi subprime (dal 2008) e avvio delle cosiddette “primavere arabe” (dal 2010).
Il tema migratorio è il primo tema che ha esplicitato l’inadeguatezza dell’Unione Europea al ruolo di cui era stata accreditata.
Si tratta infatti di uno dei pochi temi in cui l’appello ad un’azione europea coordinata sembrerebbe la strada maestra per una soluzione, ed è parimenti un tema in cui si è manifestato nel modo più chiaro il carattere meramente predatorio e opportunista dell’UE, che si è presentata non come una potenza geopolitica, ma come un club dello scaricabarile (“beggar-thy-neighbour” policies).
In ogni singolo momento della gestione migratoria (come per ogni altro tema di rilevanza economica) abbiamo assistito ad un penoso balletto di singoli paesi o alleanze ad hoc, per sfruttare a proprio favore alcune condizioni contingenti, e lasciare gli altri “partner europei” con il cerino in mano. (Il sistema degli accordi di Dublino è esemplare a questo proposito, in quanto mirava a utilizzare i paesi di primo sbarco come “barriera naturale” per quelli interni, impedendo che si spostassero dai paesi d’arrivo a quelli più ambiti del Nord Europa.)
Il fallimento europeo peraltro è tutto tranne che inaspettato. I rapporti europei rispetto all’Africa seguono precisamente il medesimo indirizzo che informa i rapporti interni e in generale tutti i rapporti internazionali nella visione dei trattati europei: si tratta di un modello neoliberale di sfruttamento, massimizzazione del profitto e acquisizione di vantaggi competitivi a breve e medio termine. Non c’è qui nessuna visione politica, salvo la responsività alle lobby economiche interne, che in un’ottica neoliberale sono i più legittimi rappresentanti dell’interesse pubblico.
Così, i rapporti con l’Africa sono sempre stati improntati ad una politica di aiuti ad hoc, che permettevano di tenere le elité africane a catena corta, e ad una politica di trattati di scambio ineguale, che permettevano a questo o quel paese europeo di ritagliarsi un accesso favorevole ad una qualche area di risorse naturali.
E’ però importante capire qual è stata la natura specifica del fallimento europeo nella politica verso l’Africa (e più in generale verso i paesi in via di sviluppo).
Ciò che l’UE ha mancato di fare è stato di subentrare al sistema degli equilibri della Guerra Fredda, cercando di costruire nuovi rapporti di alleanza di lungo periodo.
Alla faccia degli storici della domenica che ti spiegano come “le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno”, bisogna osservare come l’epoca delle migrazioni di massa in Europa dall’area del mediterraneo inizia con la caduta dell’URSS e quindi con il trionfo nella Guerra Fredda dell’Occidente a guida americana.
Per l’Italia la data simbolica dell’inizio del “problema migratorio” è il 1991, con il grande sbarco degli albanesi nel porto di Bari.
Questo non è un caso. La Guerra Fredda, forma rudimentale di multipolarismo, cercava di contendersi i paesi in via di sviluppo, e lo faceva in vari modi, talora in forma cruenta (Corea, Vietnam), più spesso in forma di collaborazione. Questa situazione, per quanto precaria, coltivava l’interesse per una conservazione degli equilibri regionali. Nessuna “primavera araba” sarebbe potuta venire alla luce in quel contesto, perché tutti sapevano che eventuali sommovimenti interni ad un paese sarebbero stati nient’altro che mosse di uno dei due blocchi per finalità proprie. Questo equilbrio, cinico e ostile fin che si vuole, stimolava comunque l’interesse di entrambi i blocchi alla conservazione tendenziale degli equilibri nelle aree in via di sviluppo.
Con il venir meno di questo fattore equilibrante, cioè con il venir meno dell’URSS, il mondo in via di sviluppo (e anche buona parte di quello sviluppato) divenne libero terreno di caccia dei paesi in cima alla catena alimentare capitalistica (USA in testa).
A questo punto l’equilibrio regionale era molto meno importante per i decisori politici delle occasioni di profitto create dagli squilibri.
Ecco, questa prospettiva ci consente di vedere da che punto di vista potrebbe arrivare, nel medio periodo, una soluzione alla colossale questione dei processi migratori (per l’Europa).
A fronte della pelosa impotenza dell’UE, i cui colonnelli sono tutti indaffarati ad accaparrarsi piccoli vantaggi per questa o quella multinazionale di riferimento, subentrerà (sta già subentrando) una forma di competizione geopolitica simile alla Guerra Fredda.
Russia e Cina stanno già operando in questo modo verso molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in area africana. Naturalmente non lo fanno per “umanitarismo” (diffidate sempre quando uno stato afferma di muoversi per “ragioni umanitarie”). Lo fanno perché hanno una visione strategica di lungo periodo, in cui associazioni stabili con stati che siano davvero “in via di sviluppo” – e non semplicemente “condannati ad una sfrutttabile arretratezza” – è nel loro interesse.
Russia e Cina si muovono oggi come attori sovrani su uno scenario geopolitico di lungo periodo, e questo è sufficiente a rovesciare il tavolo alla cultura da “robber barons” del neoliberalismo occidentale e a instaurare un nuovo equilibrio (per quanto intrinsecamente precario).
Dunque alla fine, se qualcosa ci salverà dall’essere travolti da una migrazione incontrollata, questo sarà probabilmente proprio l’insediarsi di un nuovo equilibrio multipolare, la cui alba abbiamo davanti agli occhi.

Migrazioni e confini nazionali: non solo ONG

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

L’emergenza migranti fra doveri di solidarietà umana, diritto del mare e diritto degli Stati al controllo dei propri confini: un sistema multilivello da chiarire e migliorare.

1.​ Per effetto di una serie di provvedimenti delle scorse settimane, il Ministero dell’Interno, di concerto con i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, e anche a seguito di alcuni interventi formali della Farnesina, ha stabilito disposizioni in forza delle quali non sarà consentito alle navi delle ONG – Organizzazioni Non Governative umanitarie- ( che soccorrono e raccolgono i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane a mezzo dei ‘barconi’ salpanti dall’Africa ), di sbarcare i migranti nei porti italiani, eccezione fatta per i ‘fragili’, ossia coloro che presentino riconosciute condizioni di salute e/o personali tali da necessitare immediata assistenza. A seguito di ciò, sembra essersi riaperto il vaso di pandora mediatico delle polemiche, invero allargatesi ben oltre il perimetro nazionale, relative all’ingresso in Italia -e, quindi, in Europa- degli stranieri che utilizzano il liquido confine del Mediterraneo per accedere al territorio della UE – Unione Europea. Al di là della polemica politica, e non restringendo la complessa questione alle sole ONG, appare opportuno provare a ricostruire l’articolato quadro normativo in materia, anche allo scopo di capire chi deve fare cosa.

2.​ Il contesto giuridico attorno al quale la questione ruota è tutt’altro che univoco e chiaro, specie perché le fonti sono multilivello, cioè appartengono a differenti – e a volte anche contrastanti – ambiti ordinamentali, a voler tacere della strutturale difficoltà delle norme di diritto internazionale ad essere efficaci ed effettive quando lo Stato cui si indirizzano si sottragga al principio generale del “pacta sunt servanda”. Occorre distinguere e coordinare, anzitutto, norme di diritto internazionale che disciplinano il salvataggio di naufraghi, spesso indicate come “diritto del mare”, e norme di diritto europeo, in materia di diritto d’asilo. Su tale composito compendio di principi e norme, si innestano poi le prerogative del diritto nazionale.

In materia di diritto d’asilo, le fonti normative di riferimento sono le convenzioni internazionali generali, quali in particolare la Convenzione di Ginevra approvata nel 1951 sotto l’egida dell’ONU, e, per i Paesi europei, le cosiddette Convenzioni di Dublino. L’accordo di Dublino, in particolare, ha ad oggetto l’individuazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità Europea (oggi Unione Europea). È un trattato internazionale multilaterale in tema di diritto di asilo, stipulato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997, poi sostituito con il regolamento di Dublino II (regolamento 2003/343/CE) adottato nel 2003 ed entrato in vigore per tutti i Paesi della Ue (oltre alla Svizzera, Islanda, Liechtenstein ed alla Norvegia), oggi codificato dal  regolamento di Dublino III (2013/604/CE), approvato nel giugno 2013, in aggiornamento del regolamento di Dublino II, e vigente in tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione della Danimarca.

Entrato in vigore il 19 luglio 2013 ed in scadenza decennale il prossimo anno, il regolamento di Dublino III si basa sullo stesso principio dei due precedenti regolamenti: di là dai casi di esigenze connesse al ricongiungimento familiare del richiedente (artt. 8-11) o di preesistenza di un titolo di soggiorno o di un visto (art. 12), quando “ilrichiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale” (art. 13).

Tale regola appariva razionale quando fu introdotta nel 1990, allorché i flussi migratori erano limitati ed erano ancora presenti le frontiere fra i paesi Europei (poi apertesi con gli accordi di Schengen) e, a ben vedere, non implica affatto l’interpretazione che ne danno alcuni Paesi UE del Nord Europa, i quali vorrebbero trarne ostacolo giuridico alla ricollocazione degli stranieri comunque entrati nel territorio del primo Stato membro che se ne dovrebbe occupare in via esclusiva rispetto agli altri, con l’effetto che, se una persona che presenta istanza di asilo nel Paese di ingresso, attraversa le frontiere verso un altro Paese dell’UE, deve essere riconsegnata al primo Stato. Niente di tutto ciò appare postulato dalla norma in questione, che indica unicamente quale debba il primo Stato a occuparsi della gestione della domanda d’asilo.

Anche per effetto di tale interpretazione, la Convenzione di Dublino è ormai da più parti riconosciuta come inadeguata per affrontare le sfide poste dall’attuale atteggiarsi del fenomeno migratorio. A tacer d’altro, essa si pone in evidente contrasto con la capacità dei Paesi del fronte meridionale della UE di gestire da soli l’arrivo dall’Africa di decine di migliaia di migranti che di anno in anno cercano di fuggire dall’oppressione politica dei propri Stati di origine o, più semplicemente, dalla povertà e da altre forme di deprivazione economica. A tale riguardo, è di qualche rilievo considerare che la Conferenza sul futuro dell’Europa in materia di immigrazione, conclusasi il 9 maggio 2022, ha formulato, fra le altre, la seguente proposta: “rivedere il sistema di Dublino al fine di garantire la solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità, compresa la ridistribuzione dei migranti fra gli Stati membri, prevedendo eventualmente anche ulteriori forme di sostegno”. (cfr.: “Conferenza sulle sfide in materia di immigrazione”, Documentazione per le Commissioni, Riunioni Interparlamentari, Dossier, 12 maggio 2022, Senato della Repubblica – Camera dei Deputati).

I plurimi tentativi di ottenerne significativa modifica nel senso della redistribuzione sull’intero territorio dell’Unione degli stranieri inizialmente ospitati dagli Stati di approdo, a fronte della indisponibilità a prevedere quote permanenti ed obbligatorie di ricollocazione, ha, infine, avuto almeno parziale soddisfazione, con l’accordo del 22 giugno 2022 che ha previsto sì la relocation, ma su base meramente volontaria, in formale accoglimento dell’invito rivolto dal Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel ‘Discorso della Presidente sullo stato dell’Unione 2020’: “Salvare vite in mare non è un’opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione europea (…). Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità”, in ossequio all’art. 80 del TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, per il quale le politiche relative ai controlli delle frontiere all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati, in più specifica disciplina della previsione di cui all’art. 3 par. 2 del TUE – Trattato sull’Unione Europea, che prevede che la UE garantisce “misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione”, ed agli artt. 67 TFUE, che dispone che l’Unione sviluppi “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi“, e 77 TFUE, con il quale viene precisato che l’Unione sviluppa una politica volta a “garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne” nonché a “instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne”.

Il Patto, nel quale è confluito il nuovoRegolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione proposto dalla Commissione, di cui la Francia ha annunciato la sospensione dopo il caso Ocean Viking, che coinvolge 23 Paesi, tra cui 19 Stati membri e quattro extra Schengen, essendo un accordo di redistribuzione su base volontaria, peraltro relativo non solo ai richiedenti asilo ma anche ai migranti economici, non impone alcun obbligo a chi l’ha sottoscritto e, dunque, appare, nonostante la professata intenzione di dare finalmente corso alla solidarietà fra gli Stati membri, ancora affetto da un approccio meramente casistico con il rischio di dare luogo ad un sistema, ancora una volta, basato su una solidarietà interstatale easimmetrica (cfr. S. De Stefani, “Cosa resta di Dublino”, in Altalex, 26.3.2021).

Così, a titolo esemplificativo, la Germania ha dichiarato disponibilità all’accoglienza per 3.000 migranti, la Francia 3.500, ma, di fatto, i numeri di effettiva ricollocazione sono, allo stato, rimasti pressoché irrisori (secondo i dati divulgati dal Viminale, non smentiti, al 13 novembre 2022, 8 in Francia, 74 in Germania, 5 in Lussemburgo), specie se confrontati con le statistiche di ingresso nei Paesi rivieraschi: in base al ‘cruscotto’ dei migranti, aggiornato quotidianamente dal Ministero dell’Interno, e pubblicamente fruibile sulla pagina web del Ministero stesso, in Italia sono arrivati dal 1 gennaio 2022 al 14 novembre 2022 91.711 migranti, nel 2021 59.069, nel 2020 (anno della pandemia) 32.032, di cui i minori stranieri non accompagnati sbarcati sono stati per l’anno 2020 4.687, per il 2021 10.053, e finora nel 2022, 11.172. Statistiche all’interno delle quali si devono poi ricercare i minori numeri dei richiedenti asilo ed i numeri, ancor più ristretti, di quelli che vedono accolte le proprie istanze in quanto non semplici migranti economici.

Al riguardo, è appena il caso di precisare che nella larga maggioranza dei casi le operazioni di soccorso ai naufraghi nella zona SAR (Search And Rescue) del Mediterraneo centrale sono condotte dalla Guardia Costiera italiana o da altri mezzi della Marina militare e mercantile, che naturalmente li conducono nei più vicini porti (solitamente siciliani, prevalentemente Lampedusa). La percentuale di ingressi marittimi attribuibili alle navi di soccorso delle ONG riguarda circa il 12% del totale.

Già solo la considerazione di ciò impedirebbe di contestare all’Italia di venire meno al diritto del mare ovvero alle più generali norme umanitarie che impongono di dare soccorso al naufrago, in base al principio PoS – Place of Safety, pur esso codificato dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che più dettagliatamente si esamineranno infra, in virtù del quale occorre garantire al naufrago, appunto, un luogo sicuro dove approdare.

Altro è, poi, il destino dei migranti soccorsi, una volta giunti sul territorio nazionale, poiché, in base alla legislazione domestica vigente (costituita dalla l. 189/2002, cd. Bossi-Fini dal nome dei suoi ispiratori, e dalla legge n. 132/2018) lo straniero clandestinamente introdottosi in Italia non ha diritto di restarvi e deve essere rimpatriato nel Paese d’origine, a meno che non dimostri, dopo averne fatto rituale istanza, di essere qualificabile come rifugiato, cioè di provenire da luogo donde è fuggito per sottrarsi a qualsivoglia forma di persecuzione.

È bene precisare al riguardo che non v’è alcuna norma di diritto internazionale che imponga ad alcuno Stato nazionale di dover dare indiscriminato accesso all’interno dei propri confini a chi non ne ha cittadinanza. Soltanto il diritto d’asilo è previsto in materia ma, come noto, esso si basa su presupposti ben specifici, che non sempre ricorrono.

3.​Ciò detto sul piano del diritto d’asilo, occorre svolgere alcune considerazioni ulteriori circa il ruolo e lo statuto giuridico delle ONG e, in particolare, circa l’applicabilità nei confronti delle operazioni da esse compiute dei principi di cui all’art. 98, comma 2 della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare – cosiddetta UNCLOS.

Occorre considerare, al riguardo, che la convenzione UNCLOS recepisce all’art. 98, comma 1 un diritto internazionale consuetudinario di lunga data sul salvataggio delle persone in mare, mentre al comma 2 dello stesso articolo, al fine di istituire meccanismi di prevenzione delle sciagure marittime, istituisce per la prima volta delle zone di alto mare sulle quali gli Stati hanno compito di organizzare le operazioni di salvataggio (cd. zone SAR). Ne consegue il dovere dello Stato nella cui zona SAR l’evento si verifica di coordinare il soccorso tramite il proprio MRCC (Maritime Rescue Coordination Center, in Italia la Guardia Costiera) e mettere a disposizione un porto sicuro (secondo quanto previsto dalla Convenzione SAR di Amburgo, come modificata nel 2006, come specificato dal manuale IAMSAR, vol. 2, redatto dalla IMO – International Maritime Organization) (in Italia, la competenza all’individuazione del porto sicuro è affidata al Ministero dell’Interno).

Per effetto di ciò, nel caso in cui le operazioni di carico dei migranti non siano avvenute nella zona SAR di uno Stato (es., l’Italia), e questo non abbia coordinato i soccorsi o comunque non abbia accettato di assistere la nave, il comma 2 dell’art. 98 della convenzione UNLCOS non dovrebbe ritenersi applicabile e, conseguentemente, lo Stato non dovrebbe ritenersi avere obblighi di offrire un porto sicuro per lo sbarco. In questo senso si è espressa la dottrina più accorta: “L’Italia non pare avere obblighi di fornire POS se non nei casi previsti dalla Convenzione SAR, e cioè quando il soccorso avviene in zona SAR italiana, sia coordinato dal nostro MRCC, ovvero l’Italia abbia comunque accettato di assistere la nave” o stipulato accordi ad hoc con altri Stati coinvolti (F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, in Dir. Marittimo, 2020, 351; cfr. altresì ibid., 354 e 357).

Tale profilo di regolamentazione, derivante dalla convenzione di Amburgo e relativo manuale attuativo, deve essere ovviamente coordinato con le norme e i principi generali in materia di tutela dei diritti umani: la soluzione in alcuni casi adottata dall’Italia, di far sbarcare unicamente i passeggeri a rischio, è stata ritenuta ragionevole dalla CEDU nel caso Rackete c. Italia, 25 giugno 2019, n. 32969/19 (ma, come noto, non dalla Cassazione nel medesimo caso Sea Watch – Rackete; cfr. Cass. pen., sez. III, n. 6626/2020; per un commento critico a tale pronuncia, cfr. M. Ronco, “L’esercizio dei poteri discrezionali in materia di libertà, sicurezza e giustizia e l’obbligo di lealtà nel rapporto tra gli organi dello Stato”, in Archivio Penale, 2020, 35-54).

Da quanto risulta, ad esempio, nei casi Geo Barents e Humanity le operazioni di carico dei migranti da parte delle navi ONG non sono avvenute nella zona SAR di pertinenza italiana; per questo motivo è stato ritenuto possibile dalle autorità italiane escludere, almeno inizialmente, la concessione di un porto per lo sbarco di tutto il personale, circoscrivendolo soltanto alle persone in stato di effettivo bisogno.

Anche nel caso in cui la convenzione risulti applicabile sul piano della zona nella quale l’operazione di carico dei migranti è avvenuta, peraltro, la dottrina ha sollevato dubbi in merito all’effettiva applicabilità delle convenzioni SAR e UNCLOS.

Invero, come accennato, tali norme convenzionali si pongono in linea con un diritto internazionale di lunga data che si basa su presupposti applicativi diversi da quelli precostituiti dalle ONG. E infatti, come evidenziato dalla più autorevole dottrina (cfr. F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342), nel caso delle operazioni delle ONG:

– manca il presupposto della occasionalità del salvataggio da nave a nave (poiché le navi ONG effettuano tale attività professionalmente);

– manca il fine di applicazione della norma sul salvataggio da nave a nave (poiché il fine non è il rientro dei salvati alle proprie case, tipico del diritto internazionale marittimo, ma la permanenza nello stato di attracco);

– pur non volendo né criminalizzare né generalizzare, è stato revocato in dubbio che il fine del salvataggio sia esclusivamente e unicamente di tipo umanitario (si è, cioè, prospettato che le ONG siano mosse anche da finalità di ritorno d’immagine, con conseguenze in termini di crowdfunding e donazioni, spesso probabilmente provenienti anche da vettori commerciali che incoraggiano il ruolo delle ONG per evitare di doversi trovare davvero in prima persona a effettuare salvataggi)[1].

L’istituto del porto sicuro di cui alla convenzione UNCLOS, in altre parole, deriva da un diritto internazionale consuetudinario ed è concepito in tal senso perché le navi che effettuano soccorso occasionale si presumono non pronte a sostentare per lungo tempo persone a bordo supplementari, mentre le navi ONG si pongono invece proprio il fine di soccorrere e quindi sono organizzate in tal senso. In questa prospettiva, come evidenziato dalla dottrina (F. Munari, op. cit., 344), sussiste un obbligo di controllo di congruità dei mezzi ai fini da parte dello Stato di bandiera[2].

L’invocazione della Convenzione di Amburgo in fattispecie come quelle connesse all’attività delle ONG sembra dar luogo, in altre parole, a una forma di “abuso del diritto” da parte loro. E la circostanza, emersa in alcuni casi, che talune delle navi utilizzate per queste tipologie di operazioni siano formalmente registrate come destinate a funzioni diverse da salvataggio e soccorso sembra confermarlo. Come noto, l’abuso del diritto consiste essenzialmente nell’invocazione strumentale di norme per applicarle a fattispecie diverse dalla ratio delle stesse e dai presupposti tipici di applicazione delle medesime. Il concetto è tipico del diritto europeo (cfr. art. 54 della Carta di Nizza), ma non è estraneo neppure al diritto internazionale propriamente inteso, fermo che naturalmente quest’ultimo investe direttamente i rapporti tra Stati e non tra Stati e operatori.

4. Ciò detto con riferimento al caso in cui le operazioni siano avvenute in zona SAR italiana, diversi sono, invece, i principi applicabili nel caso in cui le operazioni di imbarco dei migranti avvengano al di fuori di tale zona. In tal caso, le responsabilità di assistenza competono allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto (es. la Libia) e, nel caso in cui sia ritenuto un porto non sicuro (in base al decreto interministeriale Esteri-Interni-Giustizia del 4.10.2019, la Libia non è considerato Paese sicuro, mentre lo sono, tra gli altri, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco), competono ragionevolmente allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato l’operazione (in tal senso sembra propendere la ricostruzione del Tribunale dei Ministri di Roma, nel caso Alan Kurdi: sul tema cfr. F. Munari, op. cit., 353, 359, 360).

Tali Stati hanno facoltà di chiedere assistenza allo Stato costiero, ma in mancanza di accordi specifici non risultano obblighi di concedere il proprio assenso (ferma l’incertezza della locuzione utilizzata dalla Convenzione “quando le circostanze lo richiedono”). Nel caso in cui la nave contatti strumentalmente uno Stato diverso da quello competente, esso (cd. First RCC) dovrà smistare la pratica allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto o, infine (ad es. laddove esso non disponga di porti sicuri), allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso: essi sono tenuti ad accettare la competenza, ma non viene chiarito che cosa avvenga nel caso in cui di fatto non la accetti e, soprattutto, se lo Stato che ha ricevuto la richiesta -pur essendo incompetente- sia legittimato a spogliarsi della vicenda dopo aver effettuato la comunicazione alle autorità competenti (cfr. Manuale IAMSAR, su cui cfr. F. Munari, op. cit., 337). Secondo la dottrina più autorevole, “La circostanza che MRCC Italia riceva una richiesta di soccorso fuori dalla propria zona SAR non integra altro obbligo per il nostro Paese se non quello, al massimo, di operare come First RCC, non potendosi quindi pretendere dalle persone concretamente coinvolte nella richiesta di soccorso alcun comportamento diverso da quello previsto dalle norme internazionali in capo a chi opera quale First RCC” (F. Munari, op. cit., 352).

Sotto altro profilo, allo Stato di bandiera competono verifiche sulla idoneità delle proprie imbarcazioni a effettuare il servizio alle quali sono preposte e che, pertanto, l’insufficienza dei mezzi che esse approntano rispetto al fine che si propongono rientra nella responsabilità del comandante ma indirettamente anche dello Stato di bandiera.

5. Vi è di più, in quanto lo Stato di bandiera non dovrebbe ritenersi estraneo neppure agli obblighi connessi alla ricezione della domanda d’asilo, secondo la convenzione di Dublino. Infatti, è principio tradizionale di diritto internazionale quello per cui le navi costituiscono una sorta di appendice del territorio di uno Stato, talché non appare peregrino sostenere che la frontiera europea, cui si collega l’obbligo degli Stati di ricevere le domande d’asilo da parte degli interessati, sia stata varcata nel momento in cui il migrante sale a bordo di un mezzo battente bandiera europea e che tale ingresso interrompa il nesso di provenienza da un Paese terzo.

In tali ipotesi, è dunque lecito utilizzare il sistema della ufficiale chiamata in causa dello Stato di bandiera, per la presa in carico della pratica, entro i termini di cui all’art. 21 del regolamento 604/UE/2013. In caso di declinatoria di competenza da parte dello Stato richiesto (una sorta di conflitto negativo di competenza), il regolamento si limita a prevedere una fase di conciliazione di fronte al Comitato ad hoc dell’art. 37, contiguo alla Commissione, che rende un parere non vincolante. Non si forniscono indicazioni sulla tutela giurisdizionale, ma si può ritenere che sia possibile adire la Corte di Giustizia, quanto meno ai sensi dell’art. 259 TFUE.

Occorre tener conto, peraltro, che la fictio iuris della nave come isola flottante o appendice distaccata dello Stato di bandiera non trova appigli testuali univoci nelle convenzioni internazionali. Le norme che più da vicino la richiamano sono gli artt. 91 e 92 della convenzione sul diritto del mare di Montego Bay (UNCLOS), ove si afferma che “Le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. Fra lo Stato e la nave deve esistere un legame effettivo … Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”.

Sulla base di tali principi, la giurisprudenza internazionale ha avuto modo di affermare quanto segue:

A corollary of the principle of the freedom of the seas is that a ship on the high seas is assimilated to the territory of the State the flag of which it flies, for, just as in its own territory, that State exercises its authority upon it, and no other State may do so. … [B]y virtue of the principle of the freedom of the seas, a ship is placed in the same position as national territory; but there is nothing to support the claim according to which the rights of the State under whose flag the vessel sails may go farther than the rights which it exercises within the territory properly so called.  It follows that what occurs on board a vessel on the high seas must be regarded as if it occurred on the territory of the State whose flag the ship flies …” (trattasi dello storico Lotus Case, Corte Internazionale di Giustizia, 1927).

The ship, everything on it, and every person involved or interested in its operations are treated as an entity linked to the flag State” (caso Saiga 2, Tribunale Internazionale del Mare, 1999).

Numerose sono le deroghe a questa fictio per cui la nave sarebbe una propaggine del territorio dello Stato, ma può darsi atto come lo Stato Italiano abbia recepito pienamente il principio tradizionale, mediante l’art. 4 comma 2 del codice penale, il quale – in ossequio al generale principio della territorialità della giurisdizione penale – stabilisce, tra l’altro, che “le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera”).

Merita di essere ricordato, in proposito, un caso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in materia di migranti, in cui è stata riconosciuta la giurisdizione dello Stato di bandiera della nave che imbarca i migranti in acque internazionali (cfr. CEDU, Grande Chambre, Hirsi Jamaa et al. c. Italia, 2012, parr. 77-82).

In quel caso, si trattava di imbarcazioni italiane che recuperavano migranti in acque internazionali, nel contesto degli accordi con la Libia, e li riportavano in Libia. Fu affermato l’obbligo dello Stato italiano di farsene carico perché imbarcati su navi italiane.  Se il diritto ha un senso, però, dovrebbe valere esattamente il reciproco quando le imbarcazioni battano bandiera di altro Stato e sia l’Italia a far valere il principio stesso.

6.​Se ne ricava conclusivamente un quadro giuridico d’insieme tutt’altro che univoco e concordante ma che, al di là di strumentalizzazioni di parte, non permette di qualificare come radicalmente infondata la pretesa di proteggere i propri confini dall’indiscriminato accesso degli stranieri, in un contesto di assai scarsa considerazione europea del problema che si preferisce nascondere sotto il tappeto degli Stati rivieraschi del Sud, laddove la disciplina dell’ineludibile fenomeno dell’emigrazione dovrebbe essere piuttosto preoccupazione generale dell’intera Europa.

Resta, infine, da considerare una prospettiva radicalmente alternativa di affrontare tale imponente fenomeno migratorio, consistente nella gestione intergovernativa dello stesso. Si tratta, in buona sostanza, di approfondire seriamente la strada della interlocuzione sistematica con i principali Paesi di provenienza dei migranti, al fine di consentirne un maggior sviluppo e permettere ai loro cittadini di realizzare compiutamente la propria esistenza nei propri luoghi natii senza necessità di emigrare per garantirsi una vita dignitosa e, in ogni caso, di regolare i flussi dei migranti e controllarli, in un’ottica finalmente di condivisione europea, che sia improntata alla solidarietà, non solo intraeuropea, ma anche con le Nazioni che patiscono tali emorragie di risorse umane.

È una grande occasione per l’Europa, ancora una volta al bivio fra pulsioni ideologiche suicidarie e soluzioni coraggiose rispettose della dignità di chi migra e di chi accoglie.


[1] “Pur non essendo in discussione gli obiettivi umanitari delle ONG, in molti casi, ai medesimi si aggiungono altre motivazioni, le quali, necessariamente, producono effetti anche giuridici sull’azione delle ONG stesse nel Mediterraneo: alcune di tali motivazioni sono ovvie, e riguardano … l’enorme visibilità mediatica per le ONG scaturenti da operazioni SAR di migranti, e le ricadute sul crowdfunding che tale visibilità determina … Per le ONG di cui trattasi possiamo assumere l’esistenza anche di motivazioni volte a generare ricadute positive in termini di immagine, e di incremento del sostegno a loro favore, che le pongono quindi in una sorta di vantaggio competitivo rispetto ad altre ONG impegnate nell’aiuto ai più deboli: quindi, in senso lato, motivazioni di termini di business in un “mercato” la cui offerta è generata dalle donazioni per scopi caritatevoli (V. J. PARENT, No duty to save lives, no reward for rescue: Is that truly the current state of international salvage law?, in Annual Survey of International & Comparative Law, 2006, 87-91; R.L. KILPATRICK JR. – A. SMITH, The international legal obligation to rescue during mass migration at sea: Navigating the sovereign and commercial dimensions of a Mediterranean crisis, in University of San Francisco Maritime Law Journal, 2015-2016, 141 ss.). Altre motivazioni sono meno ovvie, ma più che plausibili: in particolare, in ambito International Chamber of Shipping si ritiene che le missioni delle ONG nel Mediterraneo svolgano (anche) la funzione di ridurre il rischio per le navi mercantili (e soprattutto per le grandi navi di linea che hanno schedule e costi gestionali molto alti) di subire il coordinamento di un MRCC, con richiesta e obbligo di deviare la rotta per salvare un’unità carica di migranti. Donde l’ipotesi che tra i donors di queste ONG possano anche esservi compagnie di navigazione che “si servono” delle prime per garantirsi la regolarità dei traffici da esse serviti”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342-343.

[2] “La disciplina giuridica della navigazione pretende una relazione precisa tra modalità costruttive, gestionali e organizzative di una spedizione marittima e lo scopo per la quale essa è destinata a muovere. Tutto ciò impone quindi obblighi dallo Stato di bandiera al comandante della nave, siccome previsti a livello internazionale e necessariamente imposti al primo dal diritto nazionale”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 344.

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=ca13a5709a&e=d50c1e7a20

Come il dollaro forte accresce la fame in Africa

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di Samuel Obedgiu

Al culmine della caduta del sistema monetario di Bretton Woods, ormai defunto, l’ex segretario al Tesoro del presidente americano Richard Nixon, John Connally, disse: “Il dollaro è la nostra moneta, ma è un vostro problema”. L’attuale rafforzamento del dollaro ha reso questa affermazione di nuovo attuale, manifestandosi con l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari.

In soli sei mesi, il dollaro americano si è rafforzato rispetto a molte delle principali valute. Ma proprio mentre il dollaro mostra quanto può diventare forte, l’inflazione è in aumento e sta devastando il continente. L’indice dei prezzi al consumo (CPI) dell’Uganda per settembre 2022 indica che abbiamo finalmente raggiunto un’inflazione a due cifre.

In Kenya, l’Associazione dei produttori ha dichiarato a giugno di quest’anno che gli importatori in Kenya e in tutta l’Africa orientale stanno lottando per importare materie prime perché non possono accedere ai dollari al tasso ufficiale (116 scellini) per elaborare le importazioni. Se ben ricordate, in Uganda un sacco di cemento ha raggiunto i 40.000 scellini da 25.000 scellini. Il motivo? Le materie prime per la lavorazione del cemento sono diventate costose.

Molti hanno attribuito l’aumento dei prezzi delle materie prime all’imperversare della guerra tra Russia e Ucraina. Non sono del tutto d’accordo. Abbiamo iniziato a sentire l’impatto dell’aumento dei prezzi già nel novembre 2021, molto prima della guerra. Semmai, la guerra tra Russia e Ucraina ha solo peggiorato il dolore, ma non l’ha certamente causato.

A causa del dollaro forte, il consiglio di amministrazione dell’Autorità di regolamentazione per l’energia elettrica ha presentato una proposta che consente di trasferire ai consumatori finali i crescenti costi di produzione derivanti dalle fluttuazioni del tasso di cambio, dall’inflazione e dai prezzi del carburante. Il tasso di cambio del dollaro è il fattore più importante nel calcolo della tariffa elettrica in Uganda. Perché? Gli investimenti nel settore elettrico e le operazioni sono valutati in dollari.

Nel 2010, un rapporto delle Nazioni Unite ha chiesto di abbandonare il dollaro come principale valuta di riserva e di scambio globale. “Il dollaro ha dimostrato di non essere una riserva di valore stabile, requisito necessario per una valuta di riserva stabile”, si legge nel World Economic and Social Survey 2010 delle Nazioni Unite. Questo rapporto è stato pubblicato all’apice della crisi finanziaria globale del 2008, quando la banca centrale statunitense stava intraprendendo la sua politica economica non convenzionale di quantitative easing.

In parole povere, il Quantitative Easing aumenta l’offerta di moneta dal nulla per risolvere un problema.  È bene ricordare che durante il Quantitative Easing (QE2) del 2010, i prezzi dei generi alimentari a livello mondiale sono aumentati del 60%, creando un disastro umanitario per i 2 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno a causa del rafforzamento del dollaro (fonte “Dollar crisis” Richard Duncan, ex consulente dell’FMI e della Banca Mondiale). Con il senno di poi, non dovrebbe sorprendere che la causa principale della primavera araba del 2011 sia stata l’aumento dei prezzi del grano che ha creato instabilità politica in Nord Africa.

Il motivo per cui un dollaro forte può creare scompiglio in Uganda è che l’80% del commercio globale è denominato in dollari. Il rafforzamento del dollaro rispetto allo scellino è problematico perché l’Uganda è un importatore netto di beni fondamentali. Quando le materie prime globali sono prezzate in dollari e questi dollari diventano più costosi per gli importatori rispetto al passato, ci vorranno più scellini per acquistare la stessa quantità di merci, con conseguente inflazione da esportazione.

In tempi di incertezza, la gente vede il dollaro come un porto sicuro, perché molti lo richiedono, il che ne aumenta il valore. Questo, a sua volta, fa aumentare il valore del debito in dollari africani. Il denaro che i governi avrebbero speso per la produzione alimentare viene sempre più destinato al rimborso del debito.

La soluzione a lungo termine a questa crisi è che i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale dovrebbero avere un ruolo maggiore nella finanza globale come valuta neutrale di riserva e di scambio. È difficile per la Banca Centrale Americana bilanciare le proprie esigenze di politica interna con quelle dell’economia globale. Non c’è da stupirsi che un recente rapporto delle Nazioni Unite abbia chiesto alla banca centrale americana di smettere di aumentare i tassi di interesse.

Già nel 1944, durante le conferenze di Bretton Woods, l’economista John M. Keynes aveva sostenuto la necessità di un “bancor” come valuta di riserva neutrale. Ma gli americani rifiutarono questa idea. Il sistema monetario globale malato deve essere riformato.

Traduzione a cura di Costantino Ceoldo

Foto: Idee&Azione Fonte: https://www.ideeazione.com/come-il-dollaro-forte-accresce-la-fame-in-africa/ 25 ottobre 2022

La globalizzazione targata Usa è un ricordo

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di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risé

Non è più a Washington, con succursale Bruxelles, il centro decisionale planetario: il nuovo mondo è multipolare in cui avanzano l’Oriente e gran parte dell’Africa, dove si concentra il grosso della popolazione. L’Occidente e i suoi propagandisti ne prendano atto.

Più che atlantismo, quello dei supereditoriali dei superquotidiani è testardo attaccamento a un passato remoto scambiato per presente-futuro. E più che ideali democratici ciò che si intravede dietro i peraltro vaghissimi programmi sono sogni imperialisti neppure troppo nascosti. Anche qui (come nell’imperialismo vero) esposti con un gusto avventuroso/fiabesco, che fa sorridere trovare nelle prosa dei numerosi editorialisti/professori. I quali sono quasi tutti emeriti per via dell’anagrafe (che come ricordava Arbasino non perdona), e quindi si fatica a vedere così eccitati e appassionati per questo sfoderare di (costosissime) armi e vaticini di vittorie. A me che sono ancora più vecchio di molti di loro fanno venire in mente l’indimenticabile manifesto: “Ascoltatemi! Votate Italia e non Fronte popolare” gridato da uno scapigliato signore in giacca e camicia, naturalmente stazzonate, che correva fuori da un paesaggio in fiamme, in fondo al quale si intravedeva… cosa? Il Cremlino, naturalmente (e certo con più ragioni di oggi). Del resto anch’io che avevo 10 anni, non avrei voluto che vincesse il Fronte Popolare. Però mia sorella (che ne aveva 8 più di me) e lanciava i volantini dalla finestra mi dava già fastidio: a esagerare si sporca in terra e non serve a niente.
Adesso poi non c’è più nemmeno il Fronte popolare, e Stalin è morto da tempo. Putin no, forse anche perché i vaticini della sua morte imminente, sfoderati in continuazione dagli esperti americani e dell’UE allungano la vita, come è noto a tutti tranne che ai menagramo prezzolati, che vivono confezionandoli. Comunque Putin è in tutt’altre faccende affaccendato; ha ben altro cui pensare che appassionarsi all’oziosa fantasia di sloggiare Mattarella, il nonno inamovibile.
Soprattutto, però, non esiste più nulla di ciò di cui i pensosi opinion makers della carta e altri media parlano, alla ricerca di brividi. L’universo culturale   della crème atlantica è in ritardo sulla realtà di oltre 70 anni: del mondo delle loro fantasie non c’è più nulla, tranne loro stessi, con i loro sogni un po’ infantili. Lo stesso Draghi non ha mai vissuto il mondo dei Fronti popolari: nel 1948, l’anno che li mise fuori gioco, aveva solo un anno. Per i saggi amici della guerra russo-ucraino-americana il mondo è una favola bella che finirà bene, e si vede da come ne parlano: i buoni contro i cattivi sicuramente vinceranno, come appunto nelle favole; come se le cose rimanessero quelle del racconto che li ha impressionati da piccoli, e non fossero in continuo cambiamento. Se però non ti tieni ai fatti di oggi, e rimani agli stereotipi del secolo precedente, rischi di prendere cantonate letteralmente micidiali, nel senso che portano più morti che vita.
Nell’orrore del quadro complessivo, viene anche un po’ da ridere a vedere tanto accanimento e pagine investite nel calcolare dove si annidi il tumore che ucciderà presto lo “Zar”, come viene fantasiosamente definito Putin, uno degli uomini più incolori, lontano in tutto da quei pittoreschi Imperatori. Oppure a seguire le previsioni della Presidente d’Europa Ursula von Leyden sull’altrettanto imminente crollo del rublo, e fallimento della Russia. Dichiarazioni finora seguite  da rafforzamenti del rublo, e brillante bilancia dei  pagamenti. Mentre poi i professori russofobi insistono con descrizioni della medioevale Russia, maschilista e arretrata, la banchiera russa Elvina Nabiullina, pur non sempre in accordo con Putin, è l’unico banchiere centrale che in piena guerra e sanzioni sia riuscita a rallentare l’inflazione, battendo sia l’europea Lagarde che l’americano Jerome Powell, capo delle Federal Reserve.
Il fatto è che i nostri insigni commentatori, nel solco del forse già insigne ma oggi in evidenti difficoltà Mario Draghi, non si sono accorti che il mondo, da tempo, non è più solo quello dei due continenti Europa e Stati Uniti e loro appendici meridionali, divisi dall’oceano Atlantico. Il mondo “globalizzato” a trazione americana, con la Cina in rincorsa, ma il cui centro decisionale è stabilmente negli Stati Uniti con succursale a Bruxelles, è ormai un fatto soprattutto burocratico. Quella globalizzazione è finita da tempo. Al suo posto c’è un mondo multipolare (di cui i nostri saggi commentatori non parlano mai) dove al polo occidentale più o meno atlantico si è stabilmente affiancato quello orientale con al suo interno subcontinenti decisivi come la Russia, la Cina, l’India, il sud est asiatico, buona parte dell’Africa tutti con le loro culture, modi di vita, valori, risorse e povertà.
La gran parte della popolazione mondiale abita in questo Oriente, che non ha votato all’ONU le sanzioni alla Russia. È qui che nasce buona parte delle idee e intuizioni più produttive del mondo di oggi, legate a tradizioni mai morte e nutrite da culture, anche religiose, che l’Oriente ha continuato a rispettare, a differenza dell’Occidente razionalista e iconoclasta. I nostri professori, più o meno tardivi figli di un Illuminismo avido e oggi estenuato sanno poco di questo polo e della trasformazione in atto nel mondo; per questo si permettono di trattare la Russia come un paese di incivili attardati e il suo capo come un esotico criminale. Il capo russo però, amato e odiato che sia, è uno dei protagonisti di questo mondo. Mentre la loro visione è tristemente provinciale, irrespirabile: anche per questo Macron ha perso la sua maggioranza, malgrado l’Ecole d’Administration in cui si è formato. La società non è solo amministrazione: è anche cultura e fede.

Il tremendo virus della Cristianofobia

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La cristianofobia dilaga ormai ad ogni latitudine e le cronache confermano un dato in progressivo peggioramento (Usa, Spagna, Nigeria, India, ecc.)
di Mauro Faverzani

Non solo Covid-19… Dall’anno scorso c’è un altro virus, che serpeggia nel mondo intero, non meno temibile: è quello della persecuzione contro i cristiani. Dilaga ormai ad ogni latitudine e le cronache confermano un dato in progressivo peggioramento. Dal maggio 2020, la Conferenza episcopale statunitense ha contato 95 nuovi attacchi a chiese o fedeli in tutto il Paese: incendi, statue di santi decapitate, intimidazioni con armi da fuoco, è capitato di tutto. Gesti assurdi, sferrati con odio e furia incontrollata. Tanto da spingere l’episcopato americano a diffondere una lettera lo scorso primo giugno, per chiedere una rivalutazione del bilancio della Fema,l’Agenzia federale per la gestione delle emergenze, rivalutazione che tenga conto di un sostegno anche economico, per mettere in sicurezza i luoghi di culto da quest’esplosione di violenza contro la fede: «In questo momento di crescente estremismo e di opposizione a vari gruppi religiosi ed alla religione in quanto tale, incoraggiamo il Congresso ad aumentare il budget totale per il programma di sicurezza a 360 milioni di dollari per il 2022» contro i 180 del 2021, rivelatisi assolutamente insufficienti per far fronte alle 3 mila richieste pervenute.

LA SITUAZIONE IN OCCIDENTE
Qualche esempio? Nel luglio dell’anno scorso, poco prima della S. Messa feriale, un uomo ha diretto il suo minivan contro il santuario intitolato alla Regina della Pace, in Florida. Dopo lo schianto ha cercato di dar fuoco al mezzo, poi si è dato alla fuga, ma è stato individuato ed arrestato. Nel marzo scorso, invece, in Missouri, la Madre badessa del monastero benedettino intitolato a Maria Regina degli Apostoli ha trovato due proiettili conficcati nel muro della sua cella. Nel periodo precedente altri colpi erano già stati sparati contro l’edificio. Il Cancelliere della Diocesi di Brooklyn, Padre Anthony Hernandez, ha espresso chiaramente la sua preoccupazione a fronte di tali eventi: «Siamo davvero preoccupati – ha detto – di questa tendenza emergente ai crimini d’odio contro i cattolici».
L’anticlericalismo però dilaga anche in Europa ed, in particolare, in quella che fu la cattolicissima Spagna, dove ancora una volta il governo socialcomunista si dedica ad un nuovo attacco contro la Chiesa. In un proprio comunicato, la lista di estrema sinistra Unidos Podemos ha chiesto all’esecutivo di annullare tutti gli accordi in essere tra lo Stato e la Santa Sede e di abolire i relativi benefici fiscali concessi, considerati come un’«anomalia democratica», di eliminare l’insegnamento della religione dalla Scuola, di recuperare il patrimonio immatricolato dalla Chiesa e di promuovere indagini suppletive circa gli abusi sessuali commessi dal clero. Il tutto, per assicurare così laicismo ed aconfessionalità alle istituzioni, ritenendo che il Concordato di Franco, firmato nel 1953, in realtà non sia mai stato abrogato, dimenticando però come, in ogni caso, nel gennaio 1979 Spagna e Santa Sede abbiano firmato i nuovi accordi, abrogando quelli precedenti. Richieste, dunque, quelle avanzate, totalmente infondate e folli, come si evince anche dalle parole espresse in proposito dai deputati di Podemos Javier Sánchez Serna e Martina Velarde: «La Chiesa cattolica – hanno detto – continua a godere di scandalosi privilegi, che violano la Costituzione spagnola. La gerarchia cattolica riceve ogni anno 11 miliardi di euro dalle casse pubbliche, tuttavia è esente dal pagamento di tasse come l’Ibi. Il paradiso dei vescovi non è in cielo, è un paradiso fiscale ed è in Spagna».
L’aggressione della Sinistra alla Chiesa qui è talmente grave da spingere Sofía Ruiz del Cueto, vicepresidente della programmazione e della produzione della sezione spagnola del network televisivo cattolico EWTN, a dedicare all’«evangelizzazione della Spagna» la veglia di adorazione, trasmessa in diretta domenica scorsa e rilanciata da EWTN Usa News, realizzando quanto chiesto dalla Madonna ovvero pregare: «L’evangelizzazione della Spagna – ha dichiarato Ruiz del Cueto – ovvero della nazione che ha evangelizzato il mondo è un evento con ripercussioni mondiali». C’è da sperarlo, poiché il bisogno e l’urgenza sono evidenti.

LA SITUAZIONE IN AFRICA
Intanto, però, le cronache riservano nuove sofferenze e nuovi dolori, anche guardando all’Africa, in Nigeria nello specifico, dove lo scorso 11 ottobre un gruppo di uomini armati ha assaltato il seminario di Cristo Re a Fayat, nella diocesi di Kafanchan, aprendo il fuoco ed invadendo i locali. I 130 studenti in quel momento erano riuniti per la S. Messa del mattino: sei di loro sono rimasti feriti, tre del quarto anno di Teologia sono stati sequestrati ma rilasciati due giorni dopo.
La situazione qui è davvero pesante: la Chiesa ha pubblicamente denunciato come i cattolici, in Nigeria, siano vittime non di banali “scontri” per questioni terriere, bensì di un vero e proprio processo di pulizia etnica e religiosa ad opera degli islamici Fulani con la complicità dello Stato. Il vescovo di Makurdi, mons. Wilfred Anagbe, è stato chiarissimo: «Questa è una guerra religiosa – ha detto -. Hanno un’agenda, che è l’islamizzazione del Paese. E lo stanno facendo, eliminando accuratamente tutti i cristiani ed occupando i loro territori», ammazzando e bruciando case. Le cifre ufficiali parlano di 3 mila morti finora, ma chi è sul campo stima le vittime in almeno 36 mila, oltre a molti sfollati ed indigenti. Molte ong hanno già abbandonato le zone a rischio, a restare è solo la Chiesa, segno di speranza e strumento operativo per far arrivare gli aiuti a quanti si trovino in difficoltà. Come è stato rilevato da Johan Viljoen, direttore del Denis Hurley Peace Institute in Sudafrica, quella in corso è un’«occupazione concertata e ben pianificata. Non credo che l’esercito stia cercando di risolvere qualcosa. Semmai cerca d’incoraggiare» tale triste fenomeno, dato che, dopo anni di violenza, «non un solo Fulani è stato processato». Del resto, la riluttanza delle forze armate ad intervenire discende direttamente dal coinvolgimento diretto dello Stato ad alti livelli in questa sconcertante epurazione di massa. Mons. Anagbe osserva come «tutti i capi militari della marina, dell’aviazione e della polizia siano musulmani». Padre Joseph Fidelis della diocesi di Maiduguri ribadisce: «Non è uno scontro, è un lento genocidio. Costringere le persone a lasciare le loro terre, privarle dei mezzi di sussistenza e massacrarle, ebbene questa è una forma di genocidio». Da qui l’appello all’Occidente, chiedendo preghiere ed aiuti. Ma l’Occidente, troppo preda di un suicidio collettivo chiamato aborto, eutanasia, suicidio assistito e dintorni, è purtroppo sordo ai richiami che giungono da fratelli nella fede, che dall’altra parte del globo chiedono soccorso.
Anche l’India piange gli attacchi dei fondamentalisti indù contro i cristiani: solo nello scorso 3 ottobre si sono registrati almeno 13 episodi di violenza e minacce contro le comunità di Uttarakhand, Haryana, Uttar Pradesh, Chhattisgarh, Madhya Pradesh e Nuova Delhi, la capitale. Urlando slogan inneggianti al dio indù Ram, gli estremisti del Sangh Parivar hanno aggredito i fedeli riuniti in preghiera e distrutto i luoghi di culto, oltre ad aver lanciato false accuse di conversioni forzate a danno dei sacerdoti. Secondo Padre Cedric Prakash, gesuita, «la violenza è in aumento».
America, Europa, Africa ed Asia: in pochi minuti abbiamo fatto il giro del mondo. Ma è un mondo in preda alla follia, alla violenza, all’integralismo, un mondo che pare aver deciso che per i cristiani non v’è posto…

Titolo originale: Usa, Spagna, Nigeria, India, qui scorre sangue cattolico
Fonte: Corrispondenza Romana, 20 ottobre 2021

Travaglio fulminato da Gratteri. Così il procuratore boccia il Gino Strada del suo Conte

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È restato di ghiaccio, impietrito perché non se lo aspettava il povero Marco Travaglio ascoltando a Otto e Mezzo il procuratore Nicola Gratteri disintegrare la candidatura di Gino Strada a commissario della sanità in Calabria. Il direttore del Fatto quotidiano aveva appena finito di incensare l’ideona del premier Giuseppe Conte a lui così caro e sentire dire proprio da un magistrato da lui così incensato come Gratteri che “Strada non serve, ci vuole un manager“, lo ha fatto quasi svenire in diretta di fronte a Lilli Gruber.

Il procuratore ha spiegato di essere stato in Africa e avere visto con i suoi occhi il lavoro meritorio fatto da Emergency, ma la Calabria non è l’Africa. E proprio le prime parole dette da Strada, annunciando 4 o 5 ospedali da campo da portare in Calabria, sono secondo Gratteri una sciocchezza perché “ci sono semmai 18 ospedali chiusi che possono essere riaperti e molto più utili. Basta sanificarli e in pochi giorni tornano operativi”. Travaglio che aveva perso la favella ha provato a difendere gli ospedali da campo “li hanno fatti anche al Nord”, ma Gratteri lo ha definitivamente zittito: “lì non avevano altri ospedali da riaprire”.

Fonte: https://www.iltempo.it/politica/2020/11/17/news/calabria-nicola-gratteri-marco-travaglio-gino-strada-sanita-commissario-otto-e-mezzo-fatto-quotidiano-giuseppe-conte-25266213/

Quei finanziamenti del PD ad un certo mondo “cattolico”

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                                                                                                                                         Mezzetti – Zuppi -Mazza – Bonaccini

 

di Matteo Castagna (pubblicato su Informazione Cattolica di oggi)

“Tres organizaciones caritativas de la Compañía de Jesús (jesuitas) han recibido en los últimos años más de un millón y medio de Open Society Foundations, la fundación del magnate pro aborto George Soros”.

La notizia viene data dalla Aci Press di ETWN, che è il maggior circuito internazionale di informazione del mondo cattolico ufficiale.

Pertanto appare difficile poterla annoverare come fake new oppure come la sparata dei soliti complottisti. Ulteriore notizia è che il circuito in italiano non ha ripreso la cosa, che, evidentemente risulta almeno imbarazzante.
AciPrensa riassume: «Tre organizzazioni caritative della Compagnia di Gesù negli ultimi anni hanno ricevuto oltre un milione e mezzo (di dollari) dalla Open Society Foundations, la fondazione del magnate abortista George Soros».
Inoltre, nel sito web della Jesuit Worldwide Learning Higher Education at the Margins «riconosce la Open Society come uno dei suoi soci».
L’agenzia di stampa si dilunga poi sui finanziamenti di Soros alle organizzazioni abortiste e genderiste nel mondo (ad es. i 12 milioni di dollari donati alla International Planned Parenthood), aspetti che per i cattolici italiani sono abbastanza noti grazie al lavoro di agenzie di stampa cattoliche e indipendenti. Quel che ACI – e molti altri – ignora è che persone di Soros sono entrate nei gangli del sistema di potere italiano, quali le giunte regionali a guida Partito Democratico.
Una per tutte, Elly Schlein (vedi qui), attuale vice presidente della “Regione rossa” e collegata alla Open Society di Soros quando era eurodeputata (vedi qui).

Sono altresì poco noti i finanziamenti dati dal Partito Democratico ad alcune componenti del mondo cattolico ufficiale.

Basti, come esempio, il milione e mezzo di Euro donati ai dossettiani, portati alla luce dal coraggioso consigliere regionale Daniele Marchetti della Lega (vedi qui). Continua a leggere

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