Segnalazione del Centro Studi Livatino
di Renato Veneruso
L’emergenza migranti fra doveri di solidarietà umana, diritto del mare e diritto degli Stati al controllo dei propri confini: un sistema multilivello da chiarire e migliorare.
1. Per effetto di una serie di provvedimenti delle scorse settimane, il Ministero dell’Interno, di concerto con i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, e anche a seguito di alcuni interventi formali della Farnesina, ha stabilito disposizioni in forza delle quali non sarà consentito alle navi delle ONG – Organizzazioni Non Governative umanitarie- ( che soccorrono e raccolgono i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane a mezzo dei ‘barconi’ salpanti dall’Africa ), di sbarcare i migranti nei porti italiani, eccezione fatta per i ‘fragili’, ossia coloro che presentino riconosciute condizioni di salute e/o personali tali da necessitare immediata assistenza. A seguito di ciò, sembra essersi riaperto il vaso di pandora mediatico delle polemiche, invero allargatesi ben oltre il perimetro nazionale, relative all’ingresso in Italia -e, quindi, in Europa- degli stranieri che utilizzano il liquido confine del Mediterraneo per accedere al territorio della UE – Unione Europea. Al di là della polemica politica, e non restringendo la complessa questione alle sole ONG, appare opportuno provare a ricostruire l’articolato quadro normativo in materia, anche allo scopo di capire chi deve fare cosa.
2. Il contesto giuridico attorno al quale la questione ruota è tutt’altro che univoco e chiaro, specie perché le fonti sono multilivello, cioè appartengono a differenti – e a volte anche contrastanti – ambiti ordinamentali, a voler tacere della strutturale difficoltà delle norme di diritto internazionale ad essere efficaci ed effettive quando lo Stato cui si indirizzano si sottragga al principio generale del “pacta sunt servanda”. Occorre distinguere e coordinare, anzitutto, norme di diritto internazionale che disciplinano il salvataggio di naufraghi, spesso indicate come “diritto del mare”, e norme di diritto europeo, in materia di diritto d’asilo. Su tale composito compendio di principi e norme, si innestano poi le prerogative del diritto nazionale.
In materia di diritto d’asilo, le fonti normative di riferimento sono le convenzioni internazionali generali, quali in particolare la Convenzione di Ginevra approvata nel 1951 sotto l’egida dell’ONU, e, per i Paesi europei, le cosiddette Convenzioni di Dublino. L’accordo di Dublino, in particolare, ha ad oggetto l’individuazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità Europea (oggi Unione Europea). È un trattato internazionale multilaterale in tema di diritto di asilo, stipulato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997, poi sostituito con il regolamento di Dublino II (regolamento 2003/343/CE) adottato nel 2003 ed entrato in vigore per tutti i Paesi della Ue (oltre alla Svizzera, Islanda, Liechtenstein ed alla Norvegia), oggi codificato dal regolamento di Dublino III (2013/604/CE), approvato nel giugno 2013, in aggiornamento del regolamento di Dublino II, e vigente in tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione della Danimarca.
Entrato in vigore il 19 luglio 2013 ed in scadenza decennale il prossimo anno, il regolamento di Dublino III si basa sullo stesso principio dei due precedenti regolamenti: di là dai casi di esigenze connesse al ricongiungimento familiare del richiedente (artt. 8-11) o di preesistenza di un titolo di soggiorno o di un visto (art. 12), quando “ilrichiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale” (art. 13).
Tale regola appariva razionale quando fu introdotta nel 1990, allorché i flussi migratori erano limitati ed erano ancora presenti le frontiere fra i paesi Europei (poi apertesi con gli accordi di Schengen) e, a ben vedere, non implica affatto l’interpretazione che ne danno alcuni Paesi UE del Nord Europa, i quali vorrebbero trarne ostacolo giuridico alla ricollocazione degli stranieri comunque entrati nel territorio del primo Stato membro che se ne dovrebbe occupare in via esclusiva rispetto agli altri, con l’effetto che, se una persona che presenta istanza di asilo nel Paese di ingresso, attraversa le frontiere verso un altro Paese dell’UE, deve essere riconsegnata al primo Stato. Niente di tutto ciò appare postulato dalla norma in questione, che indica unicamente quale debba il primo Stato a occuparsi della gestione della domanda d’asilo.
Anche per effetto di tale interpretazione, la Convenzione di Dublino è ormai da più parti riconosciuta come inadeguata per affrontare le sfide poste dall’attuale atteggiarsi del fenomeno migratorio. A tacer d’altro, essa si pone in evidente contrasto con la capacità dei Paesi del fronte meridionale della UE di gestire da soli l’arrivo dall’Africa di decine di migliaia di migranti che di anno in anno cercano di fuggire dall’oppressione politica dei propri Stati di origine o, più semplicemente, dalla povertà e da altre forme di deprivazione economica. A tale riguardo, è di qualche rilievo considerare che la Conferenza sul futuro dell’Europa in materia di immigrazione, conclusasi il 9 maggio 2022, ha formulato, fra le altre, la seguente proposta: “rivedere il sistema di Dublino al fine di garantire la solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità, compresa la ridistribuzione dei migranti fra gli Stati membri, prevedendo eventualmente anche ulteriori forme di sostegno”. (cfr.: “Conferenza sulle sfide in materia di immigrazione”, Documentazione per le Commissioni, Riunioni Interparlamentari, Dossier, 12 maggio 2022, Senato della Repubblica – Camera dei Deputati).
I plurimi tentativi di ottenerne significativa modifica nel senso della redistribuzione sull’intero territorio dell’Unione degli stranieri inizialmente ospitati dagli Stati di approdo, a fronte della indisponibilità a prevedere quote permanenti ed obbligatorie di ricollocazione, ha, infine, avuto almeno parziale soddisfazione, con l’accordo del 22 giugno 2022 che ha previsto sì la relocation, ma su base meramente volontaria, in formale accoglimento dell’invito rivolto dal Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel ‘Discorso della Presidente sullo stato dell’Unione 2020’: “Salvare vite in mare non è un’opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione europea (…). Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità”, in ossequio all’art. 80 del TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, per il quale le politiche relative ai controlli delle frontiere all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati, in più specifica disciplina della previsione di cui all’art. 3 par. 2 del TUE – Trattato sull’Unione Europea, che prevede che la UE garantisce “misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione”, ed agli artt. 67 TFUE, che dispone che l’Unione sviluppi “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi“, e 77 TFUE, con il quale viene precisato che l’Unione sviluppa una politica volta a “garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne” nonché a “instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne”.
Il Patto, nel quale è confluito il nuovoRegolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione proposto dalla Commissione, di cui la Francia ha annunciato la sospensione dopo il caso Ocean Viking, che coinvolge 23 Paesi, tra cui 19 Stati membri e quattro extra Schengen, essendo un accordo di redistribuzione su base volontaria, peraltro relativo non solo ai richiedenti asilo ma anche ai migranti economici, non impone alcun obbligo a chi l’ha sottoscritto e, dunque, appare, nonostante la professata intenzione di dare finalmente corso alla solidarietà fra gli Stati membri, ancora affetto da un approccio meramente casistico con il rischio di dare luogo ad un sistema, ancora una volta, basato su una solidarietà interstatale easimmetrica (cfr. S. De Stefani, “Cosa resta di Dublino”, in Altalex, 26.3.2021).
Così, a titolo esemplificativo, la Germania ha dichiarato disponibilità all’accoglienza per 3.000 migranti, la Francia 3.500, ma, di fatto, i numeri di effettiva ricollocazione sono, allo stato, rimasti pressoché irrisori (secondo i dati divulgati dal Viminale, non smentiti, al 13 novembre 2022, 8 in Francia, 74 in Germania, 5 in Lussemburgo), specie se confrontati con le statistiche di ingresso nei Paesi rivieraschi: in base al ‘cruscotto’ dei migranti, aggiornato quotidianamente dal Ministero dell’Interno, e pubblicamente fruibile sulla pagina web del Ministero stesso, in Italia sono arrivati dal 1 gennaio 2022 al 14 novembre 2022 91.711 migranti, nel 2021 59.069, nel 2020 (anno della pandemia) 32.032, di cui i minori stranieri non accompagnati sbarcati sono stati per l’anno 2020 4.687, per il 2021 10.053, e finora nel 2022, 11.172. Statistiche all’interno delle quali si devono poi ricercare i minori numeri dei richiedenti asilo ed i numeri, ancor più ristretti, di quelli che vedono accolte le proprie istanze in quanto non semplici migranti economici.
Al riguardo, è appena il caso di precisare che nella larga maggioranza dei casi le operazioni di soccorso ai naufraghi nella zona SAR (Search And Rescue) del Mediterraneo centrale sono condotte dalla Guardia Costiera italiana o da altri mezzi della Marina militare e mercantile, che naturalmente li conducono nei più vicini porti (solitamente siciliani, prevalentemente Lampedusa). La percentuale di ingressi marittimi attribuibili alle navi di soccorso delle ONG riguarda circa il 12% del totale.
Già solo la considerazione di ciò impedirebbe di contestare all’Italia di venire meno al diritto del mare ovvero alle più generali norme umanitarie che impongono di dare soccorso al naufrago, in base al principio PoS – Place of Safety, pur esso codificato dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che più dettagliatamente si esamineranno infra, in virtù del quale occorre garantire al naufrago, appunto, un luogo sicuro dove approdare.
Altro è, poi, il destino dei migranti soccorsi, una volta giunti sul territorio nazionale, poiché, in base alla legislazione domestica vigente (costituita dalla l. 189/2002, cd. Bossi-Fini dal nome dei suoi ispiratori, e dalla legge n. 132/2018) lo straniero clandestinamente introdottosi in Italia non ha diritto di restarvi e deve essere rimpatriato nel Paese d’origine, a meno che non dimostri, dopo averne fatto rituale istanza, di essere qualificabile come rifugiato, cioè di provenire da luogo donde è fuggito per sottrarsi a qualsivoglia forma di persecuzione.
È bene precisare al riguardo che non v’è alcuna norma di diritto internazionale che imponga ad alcuno Stato nazionale di dover dare indiscriminato accesso all’interno dei propri confini a chi non ne ha cittadinanza. Soltanto il diritto d’asilo è previsto in materia ma, come noto, esso si basa su presupposti ben specifici, che non sempre ricorrono.
3.Ciò detto sul piano del diritto d’asilo, occorre svolgere alcune considerazioni ulteriori circa il ruolo e lo statuto giuridico delle ONG e, in particolare, circa l’applicabilità nei confronti delle operazioni da esse compiute dei principi di cui all’art. 98, comma 2 della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare – cosiddetta UNCLOS.
Occorre considerare, al riguardo, che la convenzione UNCLOS recepisce all’art. 98, comma 1 un diritto internazionale consuetudinario di lunga data sul salvataggio delle persone in mare, mentre al comma 2 dello stesso articolo, al fine di istituire meccanismi di prevenzione delle sciagure marittime, istituisce per la prima volta delle zone di alto mare sulle quali gli Stati hanno compito di organizzare le operazioni di salvataggio (cd. zone SAR). Ne consegue il dovere dello Stato nella cui zona SAR l’evento si verifica di coordinare il soccorso tramite il proprio MRCC (Maritime Rescue Coordination Center, in Italia la Guardia Costiera) e mettere a disposizione un porto sicuro (secondo quanto previsto dalla Convenzione SAR di Amburgo, come modificata nel 2006, come specificato dal manuale IAMSAR, vol. 2, redatto dalla IMO – International Maritime Organization) (in Italia, la competenza all’individuazione del porto sicuro è affidata al Ministero dell’Interno).
Per effetto di ciò, nel caso in cui le operazioni di carico dei migranti non siano avvenute nella zona SAR di uno Stato (es., l’Italia), e questo non abbia coordinato i soccorsi o comunque non abbia accettato di assistere la nave, il comma 2 dell’art. 98 della convenzione UNLCOS non dovrebbe ritenersi applicabile e, conseguentemente, lo Stato non dovrebbe ritenersi avere obblighi di offrire un porto sicuro per lo sbarco. In questo senso si è espressa la dottrina più accorta: “L’Italia non pare avere obblighi di fornire POS se non nei casi previsti dalla Convenzione SAR, e cioè quando il soccorso avviene in zona SAR italiana, sia coordinato dal nostro MRCC, ovvero l’Italia abbia comunque accettato di assistere la nave” o stipulato accordi ad hoc con altri Stati coinvolti (F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, in Dir. Marittimo, 2020, 351; cfr. altresì ibid., 354 e 357).
Tale profilo di regolamentazione, derivante dalla convenzione di Amburgo e relativo manuale attuativo, deve essere ovviamente coordinato con le norme e i principi generali in materia di tutela dei diritti umani: la soluzione in alcuni casi adottata dall’Italia, di far sbarcare unicamente i passeggeri a rischio, è stata ritenuta ragionevole dalla CEDU nel caso Rackete c. Italia, 25 giugno 2019, n. 32969/19 (ma, come noto, non dalla Cassazione nel medesimo caso Sea Watch – Rackete; cfr. Cass. pen., sez. III, n. 6626/2020; per un commento critico a tale pronuncia, cfr. M. Ronco, “L’esercizio dei poteri discrezionali in materia di libertà, sicurezza e giustizia e l’obbligo di lealtà nel rapporto tra gli organi dello Stato”, in Archivio Penale, 2020, 35-54).
Da quanto risulta, ad esempio, nei casi Geo Barents e Humanity le operazioni di carico dei migranti da parte delle navi ONG non sono avvenute nella zona SAR di pertinenza italiana; per questo motivo è stato ritenuto possibile dalle autorità italiane escludere, almeno inizialmente, la concessione di un porto per lo sbarco di tutto il personale, circoscrivendolo soltanto alle persone in stato di effettivo bisogno.
Anche nel caso in cui la convenzione risulti applicabile sul piano della zona nella quale l’operazione di carico dei migranti è avvenuta, peraltro, la dottrina ha sollevato dubbi in merito all’effettiva applicabilità delle convenzioni SAR e UNCLOS.
Invero, come accennato, tali norme convenzionali si pongono in linea con un diritto internazionale di lunga data che si basa su presupposti applicativi diversi da quelli precostituiti dalle ONG. E infatti, come evidenziato dalla più autorevole dottrina (cfr. F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342), nel caso delle operazioni delle ONG:
– manca il presupposto della occasionalità del salvataggio da nave a nave (poiché le navi ONG effettuano tale attività professionalmente);
– manca il fine di applicazione della norma sul salvataggio da nave a nave (poiché il fine non è il rientro dei salvati alle proprie case, tipico del diritto internazionale marittimo, ma la permanenza nello stato di attracco);
– pur non volendo né criminalizzare né generalizzare, è stato revocato in dubbio che il fine del salvataggio sia esclusivamente e unicamente di tipo umanitario (si è, cioè, prospettato che le ONG siano mosse anche da finalità di ritorno d’immagine, con conseguenze in termini di crowdfunding e donazioni, spesso probabilmente provenienti anche da vettori commerciali che incoraggiano il ruolo delle ONG per evitare di doversi trovare davvero in prima persona a effettuare salvataggi)[1].
L’istituto del porto sicuro di cui alla convenzione UNCLOS, in altre parole, deriva da un diritto internazionale consuetudinario ed è concepito in tal senso perché le navi che effettuano soccorso occasionale si presumono non pronte a sostentare per lungo tempo persone a bordo supplementari, mentre le navi ONG si pongono invece proprio il fine di soccorrere e quindi sono organizzate in tal senso. In questa prospettiva, come evidenziato dalla dottrina (F. Munari, op. cit., 344), sussiste un obbligo di controllo di congruità dei mezzi ai fini da parte dello Stato di bandiera[2].
L’invocazione della Convenzione di Amburgo in fattispecie come quelle connesse all’attività delle ONG sembra dar luogo, in altre parole, a una forma di “abuso del diritto” da parte loro. E la circostanza, emersa in alcuni casi, che talune delle navi utilizzate per queste tipologie di operazioni siano formalmente registrate come destinate a funzioni diverse da salvataggio e soccorso sembra confermarlo. Come noto, l’abuso del diritto consiste essenzialmente nell’invocazione strumentale di norme per applicarle a fattispecie diverse dalla ratio delle stesse e dai presupposti tipici di applicazione delle medesime. Il concetto è tipico del diritto europeo (cfr. art. 54 della Carta di Nizza), ma non è estraneo neppure al diritto internazionale propriamente inteso, fermo che naturalmente quest’ultimo investe direttamente i rapporti tra Stati e non tra Stati e operatori.
4. Ciò detto con riferimento al caso in cui le operazioni siano avvenute in zona SAR italiana, diversi sono, invece, i principi applicabili nel caso in cui le operazioni di imbarco dei migranti avvengano al di fuori di tale zona. In tal caso, le responsabilità di assistenza competono allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto (es. la Libia) e, nel caso in cui sia ritenuto un porto non sicuro (in base al decreto interministeriale Esteri-Interni-Giustizia del 4.10.2019, la Libia non è considerato Paese sicuro, mentre lo sono, tra gli altri, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco), competono ragionevolmente allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato l’operazione (in tal senso sembra propendere la ricostruzione del Tribunale dei Ministri di Roma, nel caso Alan Kurdi: sul tema cfr. F. Munari, op. cit., 353, 359, 360).
Tali Stati hanno facoltà di chiedere assistenza allo Stato costiero, ma in mancanza di accordi specifici non risultano obblighi di concedere il proprio assenso (ferma l’incertezza della locuzione utilizzata dalla Convenzione “quando le circostanze lo richiedono”). Nel caso in cui la nave contatti strumentalmente uno Stato diverso da quello competente, esso (cd. First RCC) dovrà smistare la pratica allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto o, infine (ad es. laddove esso non disponga di porti sicuri), allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso: essi sono tenuti ad accettare la competenza, ma non viene chiarito che cosa avvenga nel caso in cui di fatto non la accetti e, soprattutto, se lo Stato che ha ricevuto la richiesta -pur essendo incompetente- sia legittimato a spogliarsi della vicenda dopo aver effettuato la comunicazione alle autorità competenti (cfr. Manuale IAMSAR, su cui cfr. F. Munari, op. cit., 337). Secondo la dottrina più autorevole, “La circostanza che MRCC Italia riceva una richiesta di soccorso fuori dalla propria zona SAR non integra altro obbligo per il nostro Paese se non quello, al massimo, di operare come First RCC, non potendosi quindi pretendere dalle persone concretamente coinvolte nella richiesta di soccorso alcun comportamento diverso da quello previsto dalle norme internazionali in capo a chi opera quale First RCC” (F. Munari, op. cit., 352).
Sotto altro profilo, allo Stato di bandiera competono verifiche sulla idoneità delle proprie imbarcazioni a effettuare il servizio alle quali sono preposte e che, pertanto, l’insufficienza dei mezzi che esse approntano rispetto al fine che si propongono rientra nella responsabilità del comandante ma indirettamente anche dello Stato di bandiera.
5. Vi è di più, in quanto lo Stato di bandiera non dovrebbe ritenersi estraneo neppure agli obblighi connessi alla ricezione della domanda d’asilo, secondo la convenzione di Dublino. Infatti, è principio tradizionale di diritto internazionale quello per cui le navi costituiscono una sorta di appendice del territorio di uno Stato, talché non appare peregrino sostenere che la frontiera europea, cui si collega l’obbligo degli Stati di ricevere le domande d’asilo da parte degli interessati, sia stata varcata nel momento in cui il migrante sale a bordo di un mezzo battente bandiera europea e che tale ingresso interrompa il nesso di provenienza da un Paese terzo.
In tali ipotesi, è dunque lecito utilizzare il sistema della ufficiale chiamata in causa dello Stato di bandiera, per la presa in carico della pratica, entro i termini di cui all’art. 21 del regolamento 604/UE/2013. In caso di declinatoria di competenza da parte dello Stato richiesto (una sorta di conflitto negativo di competenza), il regolamento si limita a prevedere una fase di conciliazione di fronte al Comitato ad hoc dell’art. 37, contiguo alla Commissione, che rende un parere non vincolante. Non si forniscono indicazioni sulla tutela giurisdizionale, ma si può ritenere che sia possibile adire la Corte di Giustizia, quanto meno ai sensi dell’art. 259 TFUE.
Occorre tener conto, peraltro, che la fictio iuris della nave come isola flottante o appendice distaccata dello Stato di bandiera non trova appigli testuali univoci nelle convenzioni internazionali. Le norme che più da vicino la richiamano sono gli artt. 91 e 92 della convenzione sul diritto del mare di Montego Bay (UNCLOS), ove si afferma che “Le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. Fra lo Stato e la nave deve esistere un legame effettivo … Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”.
Sulla base di tali principi, la giurisprudenza internazionale ha avuto modo di affermare quanto segue:
“A corollary of the principle of the freedom of the seas is that a ship on the high seas is assimilated to the territory of the State the flag of which it flies, for, just as in its own territory, that State exercises its authority upon it, and no other State may do so. … [B]y virtue of the principle of the freedom of the seas, a ship is placed in the same position as national territory; but there is nothing to support the claim according to which the rights of the State under whose flag the vessel sails may go farther than the rights which it exercises within the territory properly so called. It follows that what occurs on board a vessel on the high seas must be regarded as if it occurred on the territory of the State whose flag the ship flies …” (trattasi dello storico Lotus Case, Corte Internazionale di Giustizia, 1927).
“The ship, everything on it, and every person involved or interested in its operations are treated as an entity linked to the flag State” (caso Saiga 2, Tribunale Internazionale del Mare, 1999).
Numerose sono le deroghe a questa fictio per cui la nave sarebbe una propaggine del territorio dello Stato, ma può darsi atto come lo Stato Italiano abbia recepito pienamente il principio tradizionale, mediante l’art. 4 comma 2 del codice penale, il quale – in ossequio al generale principio della territorialità della giurisdizione penale – stabilisce, tra l’altro, che “le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera”).
Merita di essere ricordato, in proposito, un caso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in materia di migranti, in cui è stata riconosciuta la giurisdizione dello Stato di bandiera della nave che imbarca i migranti in acque internazionali (cfr. CEDU, Grande Chambre, Hirsi Jamaa et al. c. Italia, 2012, parr. 77-82).
In quel caso, si trattava di imbarcazioni italiane che recuperavano migranti in acque internazionali, nel contesto degli accordi con la Libia, e li riportavano in Libia. Fu affermato l’obbligo dello Stato italiano di farsene carico perché imbarcati su navi italiane. Se il diritto ha un senso, però, dovrebbe valere esattamente il reciproco quando le imbarcazioni battano bandiera di altro Stato e sia l’Italia a far valere il principio stesso.
6.Se ne ricava conclusivamente un quadro giuridico d’insieme tutt’altro che univoco e concordante ma che, al di là di strumentalizzazioni di parte, non permette di qualificare come radicalmente infondata la pretesa di proteggere i propri confini dall’indiscriminato accesso degli stranieri, in un contesto di assai scarsa considerazione europea del problema che si preferisce nascondere sotto il tappeto degli Stati rivieraschi del Sud, laddove la disciplina dell’ineludibile fenomeno dell’emigrazione dovrebbe essere piuttosto preoccupazione generale dell’intera Europa.
Resta, infine, da considerare una prospettiva radicalmente alternativa di affrontare tale imponente fenomeno migratorio, consistente nella gestione intergovernativa dello stesso. Si tratta, in buona sostanza, di approfondire seriamente la strada della interlocuzione sistematica con i principali Paesi di provenienza dei migranti, al fine di consentirne un maggior sviluppo e permettere ai loro cittadini di realizzare compiutamente la propria esistenza nei propri luoghi natii senza necessità di emigrare per garantirsi una vita dignitosa e, in ogni caso, di regolare i flussi dei migranti e controllarli, in un’ottica finalmente di condivisione europea, che sia improntata alla solidarietà, non solo intraeuropea, ma anche con le Nazioni che patiscono tali emorragie di risorse umane.
È una grande occasione per l’Europa, ancora una volta al bivio fra pulsioni ideologiche suicidarie e soluzioni coraggiose rispettose della dignità di chi migra e di chi accoglie.
[1] “Pur non essendo in discussione gli obiettivi umanitari delle ONG, in molti casi, ai medesimi si aggiungono altre motivazioni, le quali, necessariamente, producono effetti anche giuridici sull’azione delle ONG stesse nel Mediterraneo: alcune di tali motivazioni sono ovvie, e riguardano … l’enorme visibilità mediatica per le ONG scaturenti da operazioni SAR di migranti, e le ricadute sul crowdfunding che tale visibilità determina … Per le ONG di cui trattasi possiamo assumere l’esistenza anche di motivazioni volte a generare ricadute positive in termini di immagine, e di incremento del sostegno a loro favore, che le pongono quindi in una sorta di vantaggio competitivo rispetto ad altre ONG impegnate nell’aiuto ai più deboli: quindi, in senso lato, motivazioni di termini di business in un “mercato” la cui offerta è generata dalle donazioni per scopi caritatevoli (V. J. PARENT, No duty to save lives, no reward for rescue: Is that truly the current state of international salvage law?, in Annual Survey of International & Comparative Law, 2006, 87-91; R.L. KILPATRICK JR. – A. SMITH, The international legal obligation to rescue during mass migration at sea: Navigating the sovereign and commercial dimensions of a Mediterranean crisis, in University of San Francisco Maritime Law Journal, 2015-2016, 141 ss.). Altre motivazioni sono meno ovvie, ma più che plausibili: in particolare, in ambito International Chamber of Shipping si ritiene che le missioni delle ONG nel Mediterraneo svolgano (anche) la funzione di ridurre il rischio per le navi mercantili (e soprattutto per le grandi navi di linea che hanno schedule e costi gestionali molto alti) di subire il coordinamento di un MRCC, con richiesta e obbligo di deviare la rotta per salvare un’unità carica di migranti. Donde l’ipotesi che tra i donors di queste ONG possano anche esservi compagnie di navigazione che “si servono” delle prime per garantirsi la regolarità dei traffici da esse serviti”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342-343.
[2] “La disciplina giuridica della navigazione pretende una relazione precisa tra modalità costruttive, gestionali e organizzative di una spedizione marittima e lo scopo per la quale essa è destinata a muovere. Tutto ciò impone quindi obblighi dallo Stato di bandiera al comandante della nave, siccome previsti a livello internazionale e necessariamente imposti al primo dal diritto nazionale”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 344.
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