Il progressismo permissivo e intollerante

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Ci voleva la copertina dell’Economist sul pericolo della “sinistra illiberale” per svegliare la sinistra italiana dal suo sonno dogmatico e presuntuoso. Per anni abbiamo sottolineato la svolta liberal della sinistra venuta dal comunismo e dal socialismo, che coincideva con la deriva neoborghese e neocapitalistica. Ma da qualche tempo qualcosa sta avvenendo ai confini di questa sinistra liberal: per dirla nello stesso linguaggio anglo-americano, si sta accentuando l’aspetto radical e stanno riprendendo corpo obblighi e divieti, censure e rimozioni, gravi restrizioni degli spazi di libertà. La sinistra appare sempre più una casa d’intolleranza, tra totem e tabù, interdetti e intoccabili.
Da un verso la sinistra marcia al fianco della società neoborghese e neocapitalistica, elogia la globalizzazione, si colloca nella Ztl e nell’establishment, è guardia rossa del potere economico, burocratico, giudiziario, mediatico e intellettuale. E ingaggia in questo ambito le campagne per una società permissiva, sempre più individualista e globale. Ma dall’altra parte risale l’anima radical e alle battaglie di liberismo e liberazione si affiancano battaglie correttive e punitive per far rientrare la società nei canoni rigidi del politically correct, della cancel culture, del pensiero uniforme. Lo spettacolo di questa schizofrenia e di questa conversione a U della sinistra, liberal nella sfera privata e radical nella sfera pubblica, permissiva e intollerante, è sotto gli occhi di tutti e non riguarda solo la sinistra italiana e la leadership di Letta.
È un processo diffuso che oggi suscita al suo interno alcune crisi di rigetto. Da una parte il dissenso di alcuni intellettuali e filosofi “di sinistra” nei confronti del regime di restrizioni sanitarie imposto per la pandemia, con i casi più vistosi di Agamben, Cacciari, Barbero; e dall’altra il disagio di intellettuali e osservatori di sinistra nei confronti di quel filone demenziale, intollerante e puritano della cancel culture, dilagato dagli Stati Uniti in Europa – da Noam Chomsky a Federico Rampini – su quell’onda giacobina di censure e distruzioni, omertà e isterismi gender, che si è abbattuta sulla storia, la tradizione e la cultura dell’occidente e nei rapporti sociali e sessuali. Ci sono due modi per stuprare la cultura e la storia: attualizzarla con la forza o cancellarla, negarla. Entrambi i modi oggi sono oggi frequenti, pervasivi, se non dominanti.
Al tema della libertà è stato dedicato il Festival di Filosofia a Modena ed è inutile ed anche noioso notare che la passerella è stata riservata alla stessa compagnia di giro, senza voci dissonanti se non sono dentro quell’alveo di pensiero; e in più con l’autocompiacimento che il Festival ha onorato le quote rosa. Due criteri che già rendono grottesco e incoerente il tema a cui era dedicato: libertà ma solo fino a un certo punto, libertà sotto vigilanza, senza dissenso e con l’ossequio alla retorica gender.
Ma qual è il rapporto tra la cultura progressista e la libertà? Gli studiosi della libertà degli anni passati, da Isaiah Berlin a Ralf Dahrendorf a Norberto Bobbio distinguevano tra libertà da e libertà di, ovvero tra libertà negativa, come non impedimento, che è propria del liberalismo, e libertà positiva che è invece correlata all’emancipazione, alla giustizia sociale e all’uguaglianza. Grandeggia solitaria la posizione discesa da Nietzsche che si poneva un tema ulteriore: libertà per cosa? Ovvero la libertà, la sua qualità, la sua dignità, si misura dall’uso che se ne fa e dal modo in cui si vive. Il sottinteso è che la libertà non sia la stessa per tutti, ma si debbano riconoscere gradi diversi, differenze e non possa concludersi nell’uguaglianza e nell’omologazione.
Storicamente, l’idea di libertà a sinistra, nel mondo progressista, antifascista e marxista, ha coinciso con l’idea di liberazione. Liberazione di popoli e individui dal giogo della tradizione, dalle gerarchie sociali e di classe, dai regimi autoritari, repressivi o anche borghesi, o come un tempo si diceva “di democrazia formale”. Nella sinistra classica, la libertà individuale era subordinata alla liberazione delle masse, il collettivo prevaleva sul personale, la classe sul singolo.
E oggi? Oggi vige quella schizofrenia che notavamo prima: ovvero la liberazione individuale rispetto alla natura, al sesso, alla tradizione, alla sfera privata, fa il paio con la coazione sociale sui giudizi storici, politici, ideologici, sanitari. Qui vige la camicia di Nesso, il letto di Procuste, insomma un regime di restrizione e d’intolleranza.
Le politiche economiche a sinistra riflettono l’oscillazione tra quei due poli: da un verso c’è infatti la conversione della sinistra al libero mercato, al privato, al capitale ma dall’altra permane l’idea punitiva di colpire, tassare le fonti di ricchezza, le attività imprenditoriali, la libera iniziativa, i patrimoni, le case. Un capitalismo ibrido e contraddittorio, con pericolose intermittenze. Non si conoscono allo stato attuale esperimenti politici significativi ben riusciti sotto questo punto di vista. E non si conoscono regimi progressisti di coazione & liberazione che abbiano vero e largo consenso popolare.
A tutto questo si aggiunge l’uso intollerante dell’antifascismo per censurare ogni avversario, tenerlo sotto schiaffo, in cui si manifesta il paradosso della deriva illibertaria nel nome della stessa libertà: un abuso che riporta artificialmente in vita esperienze storicamente defunte da svariati decenni, allo scopo di squalificare gli avversari; serve a colpire la libertà d’opinione e la diversità di giudizio storico e a sottomettere la verità e la realtà al moralismo e al bigottismo ideologico. Insomma, la sinistra oggi dimostra che si può essere permissivi e intolleranti, marciare per la liberazione e poi essere nemici della libertà. È il bipensiero orwelliano o la doppia verità, anticamera dei nuovi totalitarismi.

Orwell dietro l’angolo?

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di Franco Cardini

Fonte: Franco Cardini

A proposito di Green Pass e dintorni, le riserve e le preoccupazioni espresse da Giorgio Agamben e da Massimo Cacciari il 26 luglio scorso, chiarite e corroborate dal bell’articolo dello stesso Cacciari su “La Stampa” del 2 scorso, sono senza dubbio condivisibili e non possono essere sottovalutate. Anche perché esse toccano – al di là della “contingenza” e dell’“emergenza” rappresentate dal Covid – un problema centrale della vita e della società civile in tutto l’Occidente, e nel nostro paese in particolare. Quello della preparazione, della credibilità e dell’adeguatezza dei nostri ceti dirigenti e al tempo stesso dell’incertezza e del disorientamento delle nostre società civili.
In linea di principio, ogni cittadino dovrebbe poter scegliere tra il pieno godimento della libertà individuale nei limiti stabiliti dalle istituzioni e la rinunzia sia pur temporanea ed eccezionale ad alcune di esse in vista di un “pubblico bene” avvertito come superiore: ad esempio la sicurezza. Il punto è che il problema che ci sta dinanzi non si pone affatto in tali termini: dal momento che da una parte il vaccino è ben lungi – allo stato attuale delle cose – dal costituire una difesa assolutamente sicura contro il contagio (che sarebbe unica condizione per legittimamente prescriverne l’obbligatorietà), mentre dall’altra è evidente che una discriminazione ufficiale tra detentori e non detentori del green pass, con relativa limitazione delle libertà dei secondi, è costituzionalmente parlando improponibile. Non si può, in particolare, tollerare che nel nome di una discriminazione de facto, della quale il governo non si assuma responsabilità, siano sospesi ai non titolari di green pass il godimento di pubblici servizi e l’esercizio sia pur temporaneo della propria professione.
Così stando le cose, credo si debba comunque insistere sulla probabile utilità del vaccino (al quale personalmente mi sono sottoposto) ed allargare la quantità numerica dei vaccinati, ma al tempo stesso accettare il rischio perdurante di contagio continuando ad assumere tutte quelle misure (dalla mascherina al tampone) in grado di consentire il controllo e il contenimento di esso. Ma in questo caso è necessario adottare immediate e rigorose misure atte a render possibile il “testare” e il “tracciare” in tempi rapidi aree ed ambienti sempre più ampi: accrescere il numero e la frequenza dei trasporti pubblici a partire da quelli destinati al servizio scolastico, intensificare i mezzi e le disponibilità di cura dei servizi ospedalieri, ridurre drasticamente ogni forma di assembramento.
Il punto è che per ritenere che sia possibile il conseguire risultati ottimali da misure di questo tipo, in attesa che la scienza ci provveda di risposte sicure, sarebbe necessaria una maggior fiducia nelle istituzioni, nelle qualità etiche e culturali dei ceti dirigenti e nell’attendibilità dei media: che è appunto quanto ci manca e quanto non sarà disponibile senza un’adeguata riforma sia della prassi elettorale, sia della pubblica amministrazione. Le prove al riguardo fornite ohimè da troppo tempo, sia da parte del parlamento, sia da parte del personale degli enti pubblici, rendono improponibile l’ipotesi del superamento di future situazioni critiche nelle attuali condizioni. Dal momento che, dice bene Cacciari, “già viviamo all’interno di questa deriva: dal terrorismo alla immigrazione, oggi la pandemia, domani probabilmente sarà la difesa dell’ambiente’. Tutte emergenze realissime, nulla di inventato. Il problema è come le si affronta, occasionalmente, senza memoria storica, incapaci di dar forma di legge agli interventi magari necessari, privi di qualsiasi strategia di riforma del sistema democratico”.
È pertanto evidente il pericolo denunziato in forma interrogativa appunto da Cacciari in chiusura del suo articolo: “Stiamo preparandoci a un regime, a una ‘intesa mondiale per la sicurezza’(diceva un grande filosofo, Deleuze, anni fa), per la gestione di una ‘pace’ fondata sulle paure, le angosce, le frustrazioni di tutti noi, individui ansiosi di soffocare ogni dubbio, ogni interrogazione, ogni pensiero critico?”.
Temevamo da tempo il profilarsi effettivo di un “panorama orwelliano” di questo genere, per quanto troppi di noi se lo figurassero secondo schemi desueti, da “totalitarismo classico”: ebbene, ci siamo. Solo che ci siamo arrivati sulle ali di un “totalitarismo” di tipo nuovo, consumistico e liberal-liberista. E a colpi di politically correct.
A proposito di ciò, diffondiamo volentieri il “Manifesto” di due illustri studiosi “fuori dal coro”, proponendolo a chi se la sente di valutarlo serenamente. Ecco:

FRANCESCO BENOZZO – LUCA MARINI PER UN APPELLO ALLA COMUNITÀ ACCADEMICA
Caro Franco,
ci rivolgiamo a te come collega accademico, perché a nostro parere sono ore e giorni cruciali per il destino dell’Università e della scuola in Italia, e sentiamo il bisogno di esprimere alcune considerazioni, magari in vista di un Manifesto da firmare con i colleghi che vorranno parteciparvi.
Nel silenzio assordante e imbarazzante di rettori, organi accademici, sindacati e associazioni, come sai da giovedì scorso la scuola e l’università sono state colpite da un provvedimento (il Decreto Legge 6 agosto 2021, n. 111) che concretizza, sul piano giuridico, la più grave violazione dei diritti umani perpetrata dal 1945 ad oggi.
Per il nostro modo di sentire e di pensare, ci sentiamo, da questo momento, in quanto cittadini italiani e in quanto docenti universitari, dei perseguitati politici dal governo e come tali ci comporteremo in futuro.
Per il momento, le nostre forme di risposta sono legate alle possibilità che concretamente possiamo mettere in atto: possibilità cioè di tipo narratologico-analitico-pubblicistico-espositivo.
Ci sembra tuttavia utile, visto che altri sembrano non farlo, e anche in vista di ulteriori azioni, magari collettive, ricordare che:
• I vaccini anti-Covid sono stati autorizzati “in via condizionata” dall’Unione europea, per un anno, ai sensi della disciplina introdotta dal regolamento n. 507/2006, che giustifica l’introduzione in commercio di farmaci anche in assenza di dati clinici completi in merito all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci medesimi;
• Almeno sei mesi prima della scadenza delle autorizzazioni così concesse, i titolari delle autorizzazioni avrebbero dovuto presentare domanda di rinnovo delle autorizzazioni medesime, fornendo i dati clinici richiesti dalla disciplina europea, domanda che non sembra essere stata presentata;
• Dal prossimo autunno dovrebbero essere disponibili terapie che, fornendo una risposta terapeutica al Covid, faranno venire meno uno dei presupposti richiesti dalla stessa Unione europea per il rilascio delle autorizzazioni condizionate;
• L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale distinta e separata dall’Unione europea) ha raccomandato, fin dall’aprile scorso, che il vaccino non fosse reso obbligatorio;
• Anche la stessa Unione europea si è affrettata ad adottare, nel giugno scorso, un regolamento (il n. 953/2021, relativo all’EU Digital Covid Certificate), il cui preambolo afferma la necessità di evitare la discriminazione diretta o indiretta dei soggetti che “hanno scelto di non vaccinarsi”;
• A tutt’oggi, in Italia, nessun cittadino può essere obbligato a vaccinarsi, in ragione del fatto che la condizione a tal fine stabilita dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) non è stata soddisfatta, eccezion fatta per gli esercenti le professioni sanitarie, obbligati a vaccinarsi – in deroga al principio generale del consenso informato sancito fin dal 1947 dal Codice di Norimberga – in forza del Decreto Legge 1° aprile 2021, n. 44, adottato dal governo e convertito dal Parlamento nella legge 28 maggio 2021, n. 76.
Proprio il metodo cosiddetto emergenziale che ha portato alla adozione e alla successiva conversione del Decreto Legge n. 44/2021 andrebbe posto all’attenzione della Corte costituzionale, perché l’art. 32, secondo comma, della Costituzione chiama evidentemente in causa l’operato di un Parlamento che adotti una legge ordinaria dello Stato al termine di un dibattito pubblico realmente informato, obiettivo e consapevole; e perché, in ogni caso, gli atti normativi (quali sono le leggi ordinarie) devono avere portata generale e astratta, e cioè devono rivolgersi a destinatari non individuati né individuabili: condizione che difficilmente può ritenersi soddisfatta nel caso delle professioni sanitarie, i cui appartenenti costituiscono comunque un numero finito.
Analoghe perplessità suscitano le disposizioni sul Green Pass adottate giovedì scorso dal Governo, ancora sulla scorta di un provvedimento emergenziale, nella misura in cui surrettiziamente spingono larghe porzioni di cittadini, nonché ulteriori, specifiche categorie professionali (i docenti delle scuole e delle università) verso la vaccinazione di massa, considerato che anch’esse costituiscono una possibile violazione del diritto alla salute, come inteso dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione, e di altri diritti e libertà fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale.
Va infine ricordato che tanto la disciplina sull’obbligo vaccinale degli esercenti le professioni sanitarie quanto quella sul Green Pass si pongono idealmente in contrasto con i contenuti della raccomandazione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa dell’aprile scorso, che esclude l’obbligatorietà della vaccinazione: è vero che la raccomandazione non dispiega efficacia giuridica vincolante, ma sarebbe interessante conoscere l’eventuale pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla compatibilità tra la disciplina nazionale in parola e le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, su cui si fonda la raccomandazione parlamentare.
Tutto ciò ricordato, restiamo attoniti una volta di più di fronte a quanto sta accadendo.
In questo anno e mezzo l’Università non ha avviato alcun dibattito su queste delicatissime questioni, limitandosi anzi a censurare e additare come complottiste, negazioniste o antiscientiste, caso per caso, alcune posizioni espresse da ricercatori, docenti e colleghi del personale tecnico-amministrativo.
Le speranze che questa situazione cambi non sono molte, ma non possiamo rinunciare a credere che, proprio dal mondo universitario, si levino figure istituzionali e voci autorevoli in grado di discutere criticamente metodi e provvedimenti che un qualsiasi studente di educazione civica sarebbe in grado, se non manipolato, di riconoscere come sproporzionati e illogici.
Ti ringraziamo in anticipo se vorrai ospitare questa lettera sul tuo blog settimanale. Sarebbe per noi un primo segno importante e soprattutto un modo efficace per spronare chi la pensa come noi (per adesso segnaliamo volentieri il gruppo di ricerca “We Tell – Storytelling e consapevolezza civica” dell’Università di Bologna, coordinato da Elena Lamberti, che ieri si è dichiarato disponibile, in un’ottica di dialogo e inclusività, a pensare a strategie diverse da quella che viene imposta come scelta forzata e rigida) a manifestarsi pubblicamente e dire la propria – prima che sia troppo tardi – su una problematica destinata ad incidere profondamente sulla sfera dei diritti e delle libertà individuali.
Con un caro saluto,
Francesco Benozzo (Alma Mater Studiorum / Università di Bologna)
Luca Marini (Università di Roma “La Sapienza”)

Senza volto

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di Gianfranco Amato

Durante una passeggiata pomeridiana sotto i portici del centro un amico mi ha salutato ma io non l’ho riconosciuto. La mascherina che indossava mi aveva impedito di identificarne i connotati. Solo dopo aver contravvenuto le rigide disposizioni anti-Covid, ovvero dopo essersi abbassata la “museruola”, sono riuscito a capire chi fosse e a ricambiare il saluto. Un episodio banale, che sarà accaduto a chi sa quanti italiani in questi tempi di pandemia. Eppure, quel piccolo incidente mi ha fatto riflettere sull’importanza del volto umano. È impossibile una relazione senza il riconoscimento del volto dell’altro. Mi sono ricordato di aver letto da qualche parte che ogni essere umano appena apre gli occhi alla vita cerca un volto: quello della madre. Una ricerca che continua per tutta l’esistenza e che rappresenta l’anima della stessa comunicazione e relazione con gli altri. Noi scopriamo di essere uomini quando riusciamo a fissare un volto e dire “tu”.  Il neonato cerca, infatti, il volto della madre, come il bambino cerca il volto dei genitori, l’amante cerca il volto dell’amato, il discepolo cerca il volto del maestro, l’uomo cerca il volto di Dio.

Il dramma dell’attuale società liquida e postmoderna sta nel fatto che l’uomo di oggi non sa dire coscientemente «tu» a nessuno. Proprio in questa drammaticità risiede e si nasconde l’ossessiva e violenta ricerca di potere che caratterizza largamente i rapporti usuali tra le persone, basati perlopiù sulla sistematica riduzione dell’altro a un disegno di possesso e di uso. Si tratta di un modello culturale da tempo imposto dal potere e alimentato attraverso la sua micidiale macchina di propaganda. Basta guardare una qualsiasi fiction televisiva in prima serata, o leggere i rotocalchi d’intrattenimento. Il potere ha bisogno di distruggere le relazioni sociali, di creare individui soli, isolati, possibilmente single, senza radici, senza identità, fragili, indifesi ed impauriti, ovvero dei soggetti perfettamente manipolabili. La pandemia Covid-19, da questo punto di vista, è stata un’insperata (o voluta?) manna caduta dal cielo. Ha persino legittimato il fatto di dover celare il volto con una maschera. Ma come si fa ad avere una relazione con l’altro senza vederlo in faccia? Proprio il volto umano è la parte del corpo che deve essere sempre denudata e che non deve essere nascosta. Non è un caso se nell’antica Grecia, lo schiavo veniva definito come πρσωπος (apròsopos), ossia senza (a-) volto (pròsopos), quindi senza dignità, senza libertà, una mera “res”, un oggetto nelle mani del padrone. Il volto scoperto è segno di libertà. Pure i lebbrosi allontanati dalla comunità erano senza volto. Il volto è anche ciò che contraddistingue l’uomo dall’animale, come ci ha insegnato il grande Cicerone nella sua opera De Legibus (I, 27): «(…) is qui appellatur vultus, qui nullo in animante esse praeter hominem potest, indicat mores» (quello che si chiama volto, che non può esistere in nessun essere vivente se non nell’uomo, indica il carattere di una persona). Il volto è un elemento essenziale della relazione umana. Persino Dio per farsi conoscere dagli uomini ha dovuto far intravedere il Suo volto diventando uomo, cioè entrando come persona nella storia. Si è rivelato attraverso il volto di Gesù Cristo, che è diventato il volto del destino umano, la natura del significato del nostro essere, proprio perché Gesù Cristo è il volto del Padre. Così la definizione totale del significato dell’uomo nel mondo è passata attraverso un volto. Mi sono anche ricordato che il filosofo lituano Emmanuel Levinas ha dedicato gran parte della sua ricerca filosofica proprio al significato del volto. Per il pensatore lituano, l’epifania, e dunque la manifestazione dell’altro, avviene nel dialogo, nel “faccia a faccia”. L’altro diventa quindi una rivelazione concessa in particolare dal volto, che è il mezzo di comunicazione primo e lo strumento attraverso il quale l’umanità di ciascuno si palesa, al punto da far intravvedere una traccia dell’Infinito. Il volto è il luogo in cui, più che altrove, si giocano le dinamiche dell’uomo, e quindi anche il suo rapporto col Potere. Per questo – come ha lucidamente scritto Giorgio Agamben, un altro filosofo che stimo – il volto è anche «il luogo della politica».

Lo stato d’eccezione in cui è piombata l’umanità a seguito della pandemia Covid-19 è arrivato al punto da far considerare normale il nascondimento del volto, persino doverosa la necessità di impedire l’epifania dell’altro. Sempre Agamben avverte, però, che «un Paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un Paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica», e «in questo spazio vuoto, sottoposto in ogni istante a un controllo senza limiti, si muovono ora individui isolati gli uni dagli altri, che hanno perduto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità e possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto». Mai come in questi tempi in cui il diritto appare condizionato dall’emergenza sanitaria, in cui l’Ausnahmezustand (stato d’eccezione) di Carl Schmitt rischia di diventare un paradigma normale di governo, il volto è davvero il luogo della politica. È la sfida alla tirannia che pretende un popolo di “apròsopos”, fatto di individui senza volto, senza dignità, senza identità, senza libertà. Ancora una volta Agamben sul punto è chiarissimo: «Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto». È proprio così.