Il Centrodestra si organizzi come partito dei conservatori senza ambiguità

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L’EDIORIALE DEL 15 AGOSTO 2022

di Matteo Castagna per www.informazionecattolica.it 

LA FORTUNA DEL PD È IL NON VOTO

ll paradosso del Pd è nel nome. Il Partito Democratico riesce a vincere le elezioni quando la democrazia è a bassa intensità. Il suo più grande alleato non è il “campo largo”, con lo sguardo che abbraccia i grillini in frantumi, o con le scorribande verso un centro radical chic con Calenda e Di Maio in cerca d’autore. La fortuna del Pd è il non voto. È la fuga di chi non sa più a che santo votarsi, la disillusione, lo scetticismo, la sfiducia.

Oggi il Pd è erede del Partito Comunista Italiano, senza che nessuno chieda mai pubbliche scuse per i finanziamenti dalla Russia di Stalin, per l’appoggio all’invasione sovietica di Praga, per i 90 milioni di morti prodotti nel mondo, per la strage delle foibe. Al contrario, FdI è sempre sotto processo e deve, come un mantra, chieder perdono per il Fascismo, morto da 80 anni, ed esistente solo nella mente di Paolo Berizzi. Il bello è che Meloni lo fa, Letta no. I padri costituenti, riunitisi a Regime terminato da poco, furono di gran lunga più onesti intellettualmente nel porre la questione fascista come “disposizione transitoria”.

L’arroganza della plutocrazia l’ha trasformata, di fatto, in definitiva, ma nel 1946 si pensava che bastasse una clausola a tempo determinato, probabilmente a reduci deceduti. Lo spauracchio serve, invece, alla sinistra per sbandierare la paura del fantasma, ad ogni campagna elettorale.

Sarebbe sacrosanto non abbassare mai, nonostante le pressioni, il proprio livello alla sudditanza politica e culturale nei confronti di una sinistra, che soprattutto in passato, non fu certamente esempio di tolleranza e democrazia, e che, ad oggi non ha mai sentito la necessità di scusarsi per il torbido passato delle collusioni, anche economiche, col Maresciallo Tito e con i sovietici di Stalin.

Che fine ha fatto il dossier Mitrokin? Di chi furono le responsabilità? Chi ha pagato di fronte alla giustizia per quei fondi illeciti? E’ un po’ come Tangentopoli. Nessuno si è mai scusato per le ruberie di quegli anni; l’unico sostanzialmente illeso fu il PCI, poi PDS, che il pool di Di Pietro non toccò, come fosse la verginella del Parlamento.

Oggi il Pd è più atlantista di Biden, laddove l’atlantismo pare una professione di fede verso un dogma religioso. Servirebbe un po’ di coraggio per saper criticare gli USA e la loro creatura, soprattutto quando inventano guerre in giro per il mondo a spese dei Paesi dell’alleanza. L’unico sussulto di sovranità nazionale l’ebbe Bettino Craxi, a Sigonella, nel 1985. Nella NATO si può stare con un ruolo determinato oppure subordinato o da servi. Perché l’Italia deve sempre professare il suo asservimento alle decisioni di altri?

Se il sovranismo diventa servilismo a stelle e strisce, l’elettore non capisce che differenza passi tra Letta e il centrodestra. Un’altra importante questione riguarda l’orizzonte valoriale del centrodestra, che se assomiglia a quello di Sinistra italiana o di +Europa, confonde e dunque diventa difficile rispondere alla domanda dove sia la differenza tra Berlusconi e Emma Bonino.

Su aborto, eutanasia, utero in affitto, “matrimoni” omosex, insegnamento gender nelle scuole, la coalizione dei conservatori si vorrebbe solida e compatta sull’adesione all’identità cristiana e, per conseguenza alla Dottrina Sociale della Chiesa. Ecco che allora, un serio centrodestra di governo non può essere cristiano e liberale allo stesso tempo. L’hanno capito (meglio tardi che mai) i vari Brunetta, Carfagna, Gelmini, Elio Vito ed altri, che, infatti, si sono trasferiti a sinistra, dove l’area liberal è a casa. Con una vera e marcata differenziazione, che già in parte c’è sul piano economico, sebbene la marginalizzazione di Giulio Tremonti non faccia il bene del centrodestra né del Paese, si andrebbe al voto dando la chiarezza a tutti quegli elettori di centrodestra delusi, che pensano di optare per i cosiddetti partiti “antisistema”.

In questa Italia in perenne crisi, la coalizione dei conservatori che non professa principi fondamentali comuni, tenute conto le regole della legge elettorale, e osservando il “mucchio selvaggio” che stanno costruendo i progressisti, può permettersi di lasciare almeno un 3% dei voti di protesta ai nuovi grillini improvvisati, privi di idee, uomini esperti e programmi?

Se vuole governare, il centrodestra deve liberarsi dell’ansia da legittimazione

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Per avere la certezza di governare deve stravincere, ma cullarsi sui sondaggi e “auto-moderarsi” in cerca di patenti (che non avrà) non aiuta la mobilitazione

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Ha parlato con grande chiarezza venerdì sera Matteo Renzi a Controcorrente, su Rete4, delineando correttamente la posta in gioco il prossimo 25 settembre e non nascondendo, anzi rivendicando il suo obiettivo.

La partita

“Se vince nettamente la destra, al governo va la Meloni. Se la destra non ha la maggioranza, ci sono le condizioni per riportare Draghi a Palazzo Chigi“. Questa è “la partita” ed “è bene che gli italiani lo sappiano”.

E le cose, inutile negarlo, stanno sostanzialmente in questi termini. Bisogna solo capire se Draghi fa parte o no di questa partita, se cioè sarebbe disponibile a guidare un nuovo governo di larghissime intese. Per ora, ci limitiamo a constatare che l’ex premier sta lasciando che il suo nome venga menzionato e speso in questo senso da alcune forze politiche.

Il presidente Mattarella, che pure aveva lasciato intendere più volte di non essere disponibile per un secondo mandato, vedendo che i voti in suo favore aumentavano chiama dopo chiama lasciò fare, non rinnovando la sua indisponibilità, fino a risultare rieletto.

Ma nello scenario ipotizzato, e auspicato da Renzi, tutto sommato Draghi non è indispensabile. Anche se non fosse disponibile, lo schema potrebbe comporsi ugualmente attorno ad un’altra figura. Sarebbe solo un po’ più faticoso trovare il nome per Palazzo Chigi.

Vincere “nettamente”

Quello che però qui ci interessa sottolineare della frase di Renzi è l’avvertimento implicito al centrodestra che contiene. Da una parola in particolare è stata catturata la nostra attenzione: nettamente. Perché ci sia un governo di centrodestra con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, dice Renzi, non basta che il centrodestra vinca. Deve vincere “nettamente”. Difficile quantificare questo nettamente, essendoci diverse variabili in gioco.

Il criterio del primo partito

Di sicuro, non basterebbe conquistare una maggioranza relativa. Come hanno dimostrato le elezioni del 2018 – quando il centrodestra si fermò al 37 per cento nelle urne e a poco più come seggi parlamentari – in tal caso il presidente Mattarella procederebbe nel tentativo di formare un governo seguendo il criterio del primo partito, non della prima coalizione.

Nel 2018, infatti, anziché partire dalla coalizione di centrodestra, la più vicina alla maggioranza assoluta, ed esplorare le possibilità che un’altra delle forze presenti in Parlamento fosse disponibile a formare un governo con essa, il presidente Mattarella ha compiuto questo percorso con il Movimento 5 Stelle, considerando il partito di maggioranza relativa, e non la coalizione, il soggetto da cui non si poteva prescindere.

Nel primo caso, infatti, avrebbe rischiato di scomporre il centrosinistra. Nel secondo caso, come poi avvenuto, è risultato scomposto il centrodestra.

Tutto lascia intendere, dunque, che nel caso in cui il centrodestra conquistasse anche questa volta soltanto la maggioranza relativa dei seggi, e il Pd risultasse primo partito, il Quirinale seguirebbe lo stesso schema, considerando il partito di maggioranza relativa (il Pd), e non la coalizione, il soggetto imprescindibile da cui partire per costruire una maggioranza di governo.

E questo spiega perché la sfida nella sfida fondamentale di queste elezioni è quella tra Fratelli d’Italia e Partito democratico. Solo in quanto partito di maggioranza relativa in Parlamento, FdI avrà sufficienti garanzie di non essere scavalcato dalle manovre del Colle e del Pd nella delicata fase delle consultazioni.

Ma la parola “nettamente” usata da Renzi potrebbe indicare che al centrodestra non basterebbe nemmeno la maggioranza assoluta per essere certo di governare. Se infatti questa maggioranza fosse risicata, e il Pd risultasse comunque primo partito, la coalizione potrebbe evaporare.

Bisogna considerare che per effetto del taglio del numero dei parlamentari, una maggioranza di seggi del 55 per cento, in apparenza molto solida, dipenderebbe in realtà da 20 deputati e da soli 10 senatori.

L’unica garanzia

Dunque, non sapendo quanto “nettamente” il centrodestra dovrebbe vincere per scongiurare il disegno di Renzi e dell’area Draghi, e avere quindi la certezza di governare, l’unica garanzia della tenuta della coalizione, risicata o ampia che sia la vittoria, sembra essere che FdI risulti primo partito in Parlamento.

In tal caso, infatti, considerando il criterio seguito dal Colle nel 2018 – a meno di ulteriori e sempre possibili forzature che oggi non sappiamo immaginare – sarebbe il partito di Giorgia Meloni a non poter essere estromesso dal governo, come accaduto al Movimento 5 Stelle nella legislatura appena conclusa.

Il rischio astensionismo

Se questi scenari hanno fondamento, appare del tutto fuori luogo il clima da vittoria in tasca che si respira dalle parti del centrodestra.

Innanzitutto, perché il vantaggio registrato oggi dai sondaggi si basa sugli elettori che hanno risposto e il numero degli indecisi è ancora molto alto.

E inoltre, perché, come abbiamo visto, per essere certo di governare il centrodestra dovrà non solo vincere, ma stravincere e, in particolare, uno dei suoi partiti risultare il partito di maggioranza relativa in Parlamento.

Almeno la metà degli italiani è ancora da convincere (1) ad andare a votare e (2) su chi votare. E il problema del centrodestra, come abbiamo visto nelle ultime tornate amministrative, è convincere il proprio elettorato potenziale a recarsi alle urne.

Un elettorato sfiduciato da anni in cui si è rafforzata la percezione che votare è inutile, dal momento che gli indirizzi degli elettori vengono o sovvertiti da dinamiche di sistema, endogene ed esogene, o traditi dagli stessi partiti che ne avevano raccolto il consenso.

Ansia da legittimazione

In questa fase ci sembra di vedere una Giorgia Meloni (ma non solo lei) in piena ansia da legittimazione. Un’ansia comprensibile ma eccessiva, perché i passi necessari sono già stati compiuti. Chi doveva intendere, ha inteso, mentre chi non ha ancora inteso, non intenderà mai.

Non ci sono abiure né rassicurazioni di cui la sinistra o Bruxelles possono accontentarsi, perché le richieste di prendere le distanze dal fascismo, o dal sovranismo, sono puramente strumentali, come spiega benissimo Andrea Venanzoni nel suo articolo di oggi.

Anzi, dandogli corda distoglie energie dalla campagna e regala ai suoi avversari un argomento: se ancora è costretta a raccomandarsi a destra e a manca con video e dichiarazioni, è perché le ombre del fascismo non sono ancora svanite e un problema di “rispettabilità” resta.

Il senso di una rottura

La principale preoccupazione di tutti i partiti di centrodestra, in una campagna molto ristretta nei tempi, dovrebbe essere invece quella di trasmettere ai propri elettori il senso di un voto utile, la percezione che votando centrodestra c’è l’occasione di una svolta, di una “rottura” con il passato, non una versione solo leggermente ammorbidita e “moderata” di ciò che abbiamo avuto nell’ultimo decennio.

È questa percezione che manca e che rischia di allontanare dalle urne gli elettori vicini al centrodestra.

In questo senso, l’uscita di Silvio Berlusconi sul presidenzialismo, o le proposte di flat tax della Lega, vanno nella direzione giusta – due temi su cui paradossalmente l’atteggiamento degli esponenti di Fratelli d’Italia è stato troppo cauto e conservativo, prevalendo in loro la preoccupazione di evitare passi falsi che potrebbero mettere a rischio sia il tesoretto di consensi che i sondaggi gli attribuiscono, sia i faticosi passi di accreditamento.

Ma il rischio di una campagna troppo conservativa, come abbiamo cercato di spiegare, è che giocare in difesa possa non bastare. Perché per governare il centrodestra deve stravincere e, in particolare, FdI deve arrivare primo – esiti nient’affatto scontati, nemmeno secondo i sondaggi più che favorevoli di queste settimane.

Un programma timido

Nell’accordo di programma tra i partiti di centrodestra questo senso di “rottura” non si respira. Su almeno cinque temi ci sono ancora troppe ambiguità.

Non c’è una parola chiara e definitiva sull’abbandono di Green Pass e mascherine, ma ci si limita ad un generico “senza compressione delle libertà”.

Non c’è una parola chiara e definitiva sul reddito di cittadinanza, che andrebbe abolito sic et simpliciter e non “sostituito” con altre mostruosità assistenzialiste e burocratiche.

Non c’è una parola netta e definitiva sull’uscita dalle follie gretine e dalla transizione green imposta a livello europeo e statale.

Non c’è una parola chiara e definitiva sulla flat tax, nel timore che promettere una rivoluzione fiscale possa far arrabbiare Bruxelles.

E in generale, c’è troppa timidezza nei confronti dell’Ue: un conto è escludere di voler uscire dall’euro, tutt’altra cosa è una vera e propria professione di europeismo, mentre il centrodestra dovrebbe a nostro avviso farsi interprete di un euroscetticismo thatcheriano, ovvero rigoroso e non spendaccione ma fermamente contrario a più integrazione, cioè a più Europa.

Il Centrodestra si organizzi come partito dei conservatori senza ambiguità

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/08/15/il-centrodestra-si-organizzi-come-partito-dei-conservatori-senza-ambiguita/

LA FORTUNA DEL PD È IL NON VOTO

ll paradosso del Pd è nel nome. Il Partito Democratico riesce a vincere le elezioni quando la democrazia è a bassa intensità. Il suo più grande alleato non è il “campo largo”, con lo sguardo che abbraccia i grillini in frantumi, o con le scorribande verso un centro radical chic con Calenda e Di Maio in cerca d’autore. La fortuna del Pd è il non voto. È la fuga di chi non sa più a che santo votarsi, la disillusione, lo scetticismo, la sfiducia.

Oggi il Pd è erede del Partito Comunista Italiano, senza che nessuno chieda mai pubbliche scuse per i finanziamenti dalla Russia di Stalin, per l’appoggio all’invasione sovietica di Praga, per i 90 milioni di morti prodotti nel mondo in nome del comunismo, per la strage delle foibe. Al contrario, FdI è sempre sotto processo e deve, come un mantra, chieder perdono per il Fascismo, morto da 80 anni, ed esistente solo nella mente di Paolo Berizzi. Il bello è che Meloni lo fa, Letta no. I padri costituenti, riunitisi a Regime terminato da poco, furono di gran lunga più onesti intellettualmente nel porre la questione fascista come “disposizione transitoria”.

L’arroganza della plutocrazia l’ha trasformata, di fatto, in definitiva, ma nel 1946 si pensava che bastasse una clausola a tempo determinato, probabilmente a reduci deceduti. Lo spauracchio serve, invece, alla sinistra per sbandierare la paura del fantasma, ad ogni campagna elettorale.

Sarebbe sacrosanto non abbassare mai, nonostante le pressioni, il proprio livello alla sudditanza politica e culturale nei confronti di una sinistra, che soprattutto in passato, non fu certamente esempio di tolleranza e democrazia, e che, ad oggi non ha mai sentito la necessità di scusarsi per il torbido passato delle collusioni, anche economiche, col Maresciallo Tito e con i sovietici di Stalin.

Che fine ha fatto il dossier Mitrokin? Di chi furono le responsabilità? Chi ha pagato di fronte alla giustizia per quei fondi illeciti? E’ un po’ come Tangentopoli. Nessuno si è mai scusato per le ruberie di quegli anni; l’unico sostanzialmente illeso fu il PCI, poi PDS, che il pool di Di Pietro non toccò, come fosse la verginella del Parlamento.

Oggi il Pd è più atlantista di Biden, laddove l’atlantismo pare una professione di fede verso un dogma religioso. Servirebbe un po’ di coraggio per saper criticare gli USA e la loro creatura, soprattutto quando inventano guerre in giro per il mondo a spese dei Paesi dell’alleanza. L’unico sussulto di sovranità nazionale l’ebbe Bettino Craxi, a Sigonella, nel 1985. Nella NATO si può stare con un ruolo determinato oppure subordinato o da servi. Perché l’Italia deve sempre professare il suo asservimento alle decisioni di altri?

Se il sovranismo diventa servilismo a stelle e strisce, l’elettore non capisce che differenza passi tra Letta e il centrodestra. Un’altra importante questione riguarda l’orizzonte valoriale del centrodestra, che se assomiglia a quello di Sinistra italiana o di +Europa, confonde e dunque diventa difficile rispondere alla domanda dove sia la differenza tra Berlusconi e Emma Bonino.

Su aborto, eutanasia, utero in affitto, “matrimoni” omosex, insegnamento gender nelle scuole, la coalizione dei conservatori si vorrebbe solida e compatta sull’adesione all’identità cristiana e, per conseguenza alla Dottrina Sociale della Chiesa. Ecco che allora, un serio centrodestra di governo non può essere cristiano e liberale allo stesso tempo. L’hanno capito (meglio tardi che mai) i vari Brunetta, Carfagna, Gelmini, Elio Vito ed altri, che, infatti, si sono trasferiti a sinistra, dove l’area liberal è a casa. Con una vera e marcata differenziazione, che già in parte c’è sul piano economico, sebbene la marginalizzazione di Giulio Tremonti non faccia il bene del centrodestra né del Paese, si andrebbe al voto dando la chiarezza a tutti quegli elettori di centrodestra delusi, che pensano di optare per i cosiddetti partiti “antisistema”. (operazione politica delle Sinistra, che, infatti, ha piazzato in ogni lista dei capibastone di area progressista, così da recuperare in Parlamento il cosiddetto voto no vax, no green pass ecc.)

In questa Italia in perenne crisi, la coalizione dei conservatori che non professa principi fondamentali comuni, tenute conto le regole della legge elettorale, e osservando il “mucchio selvaggio” che stanno costruendo i progressisti, può permettersi di lasciare almeno un 3% dei voti di protesta ai nuovi grillini improvvisati, privi di idee, uomini esperti e programmi?

Cop26 di Glasgow: sulla crisi climatica passi avanti, ma restano molte ambiguità

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di Ferdinando Bergamaschi

Cop26: fermare entro il 2030 la deforestazione. È il primo obiettivo concreto e immediato raggiunto alla conferenza Onu sul clima che si è appena conclusa a Glasgow. Il principale successo delle due giornate scozzesi dedicate al vertice da capi di Stato e di Governo.

Soprattutto per questo risultato il premier britannico Boris Johnson ha potuto parlare di “cauto ottimismo”. E un altro (mezzo) passo avanti lo rappresenta anche il piano sponsorizzato da Usa e Ue, a cui hanno aderito un centinaio di Paesi, per ridurre del 30% le emissioni di metano in dieci anni. A questo piano peraltro hanno voluto dare il loro contributo economico anche privati quali Jeff Bezos e l’Ikea.

Il vertice tuttavia ha prodotto per ora risultati soltanto parziali sulla questione chiave del contenimento delle emissioni nocive che alimentano la minaccia dei cambiamenti climatici. Vi è ancora un certo tasso di ambiguità riguardo all’impegno a mantenere l’innalzamento delle temperature del globo entro il tetto di 1,5 gradi in più rispetto all’era pre-industriale. Un’ambiguità dettata soprattutto dai tempi non certi per passare dalle parole ai fatti.  

Deforestazione: sì da 110 Stati

“Abbiamo fatto molto, ma molto resta ancora da fare”, ha sintetizzato il presidente Usa Joe Biden, in particolare riguardo alla deforestazione. Boris Johnson gli ha fatto eco, dicendo che è arrivata l’ora di mettere fine già in questo decennio alla sistematica “devastazione” di alberi per milioni di ettari. “Cattedrali della natura che permettono il respiro della Terra”, per usare l’espressione del premier britannico.

Il piano contro la deforestazione è stato condiviso dalle 110 Stati che hanno preso parte alla Cop26. Ed è legato alla promessa di finanziamenti da 14 miliardi di sterline (19,2 miliardi di dollari): 8,7 coperti da fondi pubblici, 5,3 da investimenti privati. Impegni destinati ad andare anche a beneficio di “popolazioni indigene e comunità locali” che di quelle foreste sono “custodi”.

Anche le nazioni più recalcitranti hanno dato il loro assenso. Tra queste la sterminata Russia di Vladimir Putin, l’Indonesia, il Congo, la Colombia e il Brasile di Jair Bolsonaro. Proprio quest’ultimo che si è guadagnato negli anni del suo mandato l’ostilità della gente india e di molti altri, avendo accresciuto, non certo attenuato, il disboscamento senza tregua della colossale selva pluviale amazzonica.

Metano da tagliare 

Un altro punto che può essere considerato positivo, e che alimenta il cauto ottimismo del premier britannico, riguarda il taglio delle emissioni di metano. Usa e Ue annunciano d’aver portato a 100 il numero di Paesi (pari al 70% del Pil mondiale) incoraggiati ad aderire all’obiettivo di un taglio di queste emissioni del 30% entro il 2030 rispetto a quelle del 2020.

Un passo però da cui restano fuori al momento diversi grandi produttori di gas, dal mondo arabo alla Russia, a Cina e India, tenuto conto che è comunque l’allevamento zootecnico e non l’oil&gas il settore produttivo che produce più metano (il 30% contro il 25% del totale). Gli autoesclusi sono sostanzialmente gli stessi Paesi orientati a considerare una scadenza più lunga della metà del secolo per raggiungere l’obiettivo di emissioni zero. Pechino e Mosca parlano del 2060, New Delhi addirittura del 2070.

Troppe ambiguità

E proprio quest’ultima considerazione rende problematico definire tout court un successo la Cop26. Sono stati fatti, è vero, senz’altro dei passi in avanti; e vi è motivo per nutrire “cauto ottimismo”, se non altro per l’importantissimo asse Ue-Usa che si è andato consolidando nell’affrontare con spirito costruttivo l’emergenza climatica. Ma d’altra parte non si può non vedere come Cina e India e in parte anche Russia remino ad una velocità ben più lenta rispetto all’asse occidentale.

Il peso di Pechino

A questo proposito sono emblematiche le parole molto severe pronunciate da Biden nei confronti del colosso cinese: Xi Jinping ha fatto un grande errore a non venire né al G20 né alla Cop26 e mi aspetto che la Cina segua le regole come tutti”. Aggiungendo: “La Cina non può pretendere di avere un ruolo globale se non si impegna con la comunità internazionale per il cambiamento climatico”.

Non si tratta di un dettaglio che Pechino sia così tiepida rispetto alla questione climatico-ambientale. Infatti la Cina è responsabile di oltre un quarto delle emissioni globali (l’equivalente di 14,1 miliardi di tonnellate di CO2) e inoltre dipende dal carbone per il 60% del suo mix energetico (si arriva all’87% assieme agli altri combustibili fossili).

Quel che è certo è che la transizione ecologica, come ha ammonito anche Papa Francesco, è fondamentale e urgente; ed è la condizione basilare perché l’umanità – e non solo l’economia – abbia un futuro.  

Fonte: https://www.ilmiogiornale.net/cop26-glasgow-sulla-crisi-climatica-passi-avanti-ma-restano-molte-ambiguita/