L’asso di Zelensky? Non gli Usa, ma Israele

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di Luigi Bisignani

Moro, Fanfani, Andreotti e Cossiga: tutti i big della vecchia politica d’accordo su come risolvere la crisi ucraina…

In Paradiso è appena terminata la messa celebrata da San Kuncewycz, patrono dell’Ucraina e San Wojtyla. Togliendosi la mitria e la casula, con aria sconsolata Giovanni Paolo II, davanti ai fedeli, tra i quali Kohl, Andreotti e Cossiga, commenta: “I comunisti, a differenza di quello che pensa il mio caro successore Bergoglio, restano sempre comunisti e lo dico io che li ho visti da vicino, come direbbe lei, presidente Andreotti”.

Andreotti: “Però una cosa buona il regime sovietico, pur non volendo, la fece. Con le deportazioni staliniane, i cattolici apparvero dove prima quasi non esistevano creando dei luoghi di resistenza. Quella resistenza allargata ad altre religioni che alla fine ridicolizzerà Mosca”.

“Caro Giulio” – irrompe Cossiga – “la carta segreta del giovane Zelensky non sono gli USA, come pensate tutti, ma Israele, che vuol dire anche il Mossad e tutto l’apparato finanziario in giro per il mondo. Esperti di media e tecnici tlc che gli permettono di essere costantemente on line”.

Andreotti: “Putin invece è chiuso nei suoi palazzi dorati, dove si è messo a scrivere il suo folle ‘De bello putiniano’”.

Interviene l’ex cancelliere Kohl: “Sta di fatto che a parte pochi ultra-ortodossi sono molti gli ebrei che sostengono apertamente Zelensky. E lo stesso Putin, che fino a ieri tubava con quel mondo, ora si sente tradito”.

Cossiga: “L’oligarca ebreo Mikhail Fridman ha comprato intere pagine di giornali contro la guerra in Ucraina, Abramovich è invocato come paciere dagli ucraini e il presidente del Forum europeo degli ebrei di lingua russa, che si è messo a protestare contro il Cremlino, è persino finito agli arresti”.

Andreotti: “Israele, pur con qualche cautela, sta sostenendo fortemente Zelensky, che aveva inizialmente chiesto a Gerusalemme di ospitare i negoziati con la Russia. D’altra parte, il nucleo più intimo del Deep State israeliano conta oggi moltissimi ebrei ashkenaziti ucraini”.

Col solito triciclo irrompe Fanfani che, da professore di Storia Economica, ricorda le origini ucraine di alcuni grandi nomi del pantheon israeliano, come la mitica Golda Meir, nata a Kiev e la cui famiglia scappò negli USA per sfuggire ai pogrom zaristi.

Wojtyla: “Per un Paese come Israele che si fonda sulla memoria e che è nato prima della Russia, è impensabile abbandonare l’Ucraina. Peccato che la mia amata Italia arrivi sempre dopo gli altri”.

Cossiga: “Il nostro Super Mario ha problemi di connessione”.

Andreotti: “E cos’altro ti aspettavi con Vittorio Colao in quel ministero?”

Cossiga: “Non mi provocare, mi fa ridere Mariuccio, come lo chiama Il mio amico Tremonti, che non riesce a collegarsi con Macron, per non parlare di quel malinteso telefonico con Zelensky che ha fatto ridere il mondo”.

Andreotti: “Magari perché Tim è in difficoltà, con la Cdp di Scannapieco che gioca con la Rete come il gatto col topo.”

Cossiga: “Scusa Giulio, ma di tecnologia non capisci nulla. Avevi ancora il telefonino a portafoglio. Sarebbe bastato che a Chigi avessero dotato il presidente del Consiglio di uno Starlink”.

Andreotti: “Una tua nuova diavoleria…”

Cossiga: “È una costellazione di satelliti attualmente in costruzione da SpaceX di Elon Musk, senza cavi né infrastrutture che sta usando Zelensky“.

Andreotti: “Se fosse per questo, visto l’aria che tirava, Draghi avrebbe dovuto recarsi a Mosca e così sarebbe stato l’ultimo premier occidentale ad aver parlato con Putin”.

Cossiga: “Invece ha mandato il povero Di Maio in avanscoperta come fosse un piccione viaggiatore…”

Andreotti: “Ai tempi miei si mandava il capo del cerimoniale, Draghi dimentica che un premier è solo primus inter pares”.

Sopraggiunge Aldo Moro, serafico come sempre, con il suo vestito blu troppo largo e un bicchierino in mano, chiosando: “Mi pare che il nostro premier abbia perso ruolo, arriva sempre ultimo, sullo Swift come sulle armi, limitandosi solo a consultare Macron che si sta giocando la sua partita elettorale. Del resto, troppe aspettative per un banchiere…”

Andreotti: “Almeno ricordasse, di stare attento ai francesi quando ci sono di mezzo sanzioni”.

Wojtyla: “In che senso?”

Andreotti: “Quando facemmo l’embargo alla Libia, Parigi fu la prima ad eluderlo. Ora, a sentire l’Aise, non vorrei che qualche armamento francese avesse preso la strada per Mosca. A pensar male si fa peccato, ma…”

Tutti in coro all’unisono: “Spesso ci si indovina”.

Moro: “Un’Europa che è proprio incapace di pensare: questa idea della Nato a fisarmonica è una barbarie”.

Andreotti: “Piuttosto, se si fosse fatta entrare prima l’Ucraina nella Ue e poi, semmai, nella Nato. Le idee bizzarre della Cia e dei democratici USA”.

Cossiga: “Per Putin, cresciuto a pane e guerra fredda, la Nato è come il drappo rosso per il toro.

Fanfani: “Come quelli che ancora credono che il Vaticano di Francesco abbia influenza nella politica italiana come ai tempi di Benelli e Ruini… ”.

Andreotti: “Mi vien da dire una cattiveria poi però dovrò confessarmi”.

Fanfani: “Dilla, dai, troppe confessioni avresti dovuto fare, ma San Pietro ti ha dato subito il fast track”.

Andreotti: “Alla fine, a risolvere il problema e ad eliminare dalla scena lo zar potrebbe essere una miscela esplosiva tra mafia russa e oligarchi, che sono rimasti senza nemmeno un autista filippino”.

Fanfani: “Assieme anche al cittadino medio russo, abituato seppur da poco a qualche comfort”.

Cossiga: “A proposito di cattiverie e guerre fredde, in questo momento le abbiamo pure noi in Italia, tra Palazzo Chigi e il Quirinale, tra Draghi e il segretario generale del Colle Zampetti”.

Andreotti: “E con le prossime nomine da SNAM a Fincantieri, con Mattarella pronto a difendere gli attuali vertici che hanno fatto bene ne vedremo delle belle. E con quel Giavazzi sempre in mezzo ‘senza titulo’ come direbbe il mio allenatore Mourinho….

“È tempo di tornare a pregare”, la tonante voce di San Pietro richiama tutti all’ordine. Andreotti, che vuole sempre l’ultima battuta, sogghigna: “Tranquilli, tanto qui Putin non arriva neppure se lo raccomanda Bergoglio”.

Luigi Bisignani, Il Tempo 6 marzo 2022

Gheddafi, la parabola di un dittatore durato 42 anni

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di Ferdinando Bergamaschi

Gheddafi: esattamente dieci anni fa il raìs libico veniva catturato e ucciso dai ribelli del Consiglio nazionale di transizione. In un canale di scolo presso Sirte si chiudeva così la prima fase di un attacco da parte della Nato, della Gran Bretagna e soprattutto della Francia, che è difficile non definire subdolo e ipocrita. Beninteso, il Colonnello fa parte di quella schiera di dittatori che non vanno presi troppo sul serio. Sbruffone, despota, ridicolo nello sfoggiare ovunque la sua divisa ridondante, cultore di un maschilismo che sarebbe stato fuori tempo anche 100 anni fa.

Detto questo, l’impresa che i vertici occidentali sono riusciti a confezionare in Libia, rovesciando il regime del Colonnello se non fa rimpiangere Gheddafi, come minimo ci fa pensare che qualcosa di brutto è stato sostituito con qualcosa di peggio. E che in questi anni tutti noi abbiamo imparato a conoscere: la destabilizzazione totale di uno Stato sovrano in pieno Mediterraneo.

Un po’ di storia 

Con il colpo di Stato militare del settembre 1969, Gheddafi rovescia la monarchia di re Idris I e instaura una dittatura militare con forti tratti populistici. Egli sostanzialmente aderisce al baathismo, la corrente politica del socialismo nazionale arabo. Questo movimento è al contempo nazionalista e panarabo. È un movimento di sinistra, ma anti-marxista in quanto anti-materialista. È stato il leader egiziano Nasser il principale esponente nel mondo arabo di questa corrente, che lui stesso teorizzerà e che prenderà anche il nome di Terza Via Universale (nel novero dei suoi principali fautori vi sono, oltre a Nasser, Saddam in Iraq, Ben Bella in Algeria, Assad in Siria). 

Gheddafi, Reagan e Mandela

Negli anni ’80 si intensificano da parte del regime di Gheddafi le scelte anti americane e anti israeliane in politica estera. Il Colonnello non solo sostiene e finanzia l’Olp di Arafat ma anche l’Ira irlandese. Il suo Governo diventa il nemico numero uno degli Stati Uniti d’America e della Nato, tanto che nell’aprile 1986 il presidente statunitense Reagan decide di bombardare il suo bunker, dal quale comunque Gheddafi esce illeso. Ma tra tanti nemici in occidente il Colonnello può contare su un’amicizia di grande prestigio, quella di Nelson Mandela che sempre gli sarà grato per gli aiuti che gli aveva fornito all’Anc e ai movimenti per la lotta all’apartheid. 

Venendo a tempi più recenti, Gheddafi, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, assume una posizione fermamente nemica del fondamentalismo islamico (ciò d’altra parte è coerente con la dottrina baath, sostanzialmente moderata in campo religioso), mostrando anche aperture verso Washington. Tanto che George W. Bush toglie la Libia dalla lista degli stati canaglia. Più tardi, il Colonnello elogerà Obama, considerando un grande evento storico il fatto che egli fosse diventato presidente degli Stati Uniti, un Paese nel quale fino a pochi decenni prima neri e bianchi non potevano neppure prendere un caffè insieme.

Il trattato di Bengasi

Non si può non ricordare infine il capitolo delle relazioni bilaterali. Nel 2008 l’allora premier Berlusconi decide saggiamente – sulla linea filoaraba e mediterranea che era stata di AndreottiFanfaniMoro e Craxi –  di stipulare degli accordi commerciali e politici con la Libia del Colonnello. Così verrà firmato tra Italia e Libia il Trattato di Bengasi. Questi accordi erano particolarmente vantaggiosi sia in materia di immigrazione, sia, soprattutto, per quel che riguardava la questione energetica, seguendo la via ancora attuale degli accordi bilaterali che aveva indicato più di sessant’anni fa in questo campo Enrico Mattei.

Il Trattato di Bengasi oggi più che mai sarebbe stato utile per l’Italia che si trova a pagare rincari energetici enormi. Ma purtroppo poi lo stesso Berlusconi si accoderà agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e alla Francia in una lotta alla Libia di Gheddafi, che si rivelerà dannosa anche per il nostro Paese. E che da allora vede la Libia ancora divisa dalla guerra civile. 

Italia, potenza scomoda: dovevamo morire, ecco come

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Andreotti

Italia, potenza scomoda: dovevamo morire, ecco come

“Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè” … di Nino Galloni, 2 maggio 2013   Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, …

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Si insedia il “governo del cambiamento” alla prova dei fatti

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di Matteo Castagna

Si insedia il governo Lega-Movimento 5 Stelle. Molti non ci speravano più. Anzi, dopo la remissione del mandato da parte di Giuseppe Conte e la salita al Colle di Cottarelli, i più vedevano all’orizzonte l’ennesimo governo tecnico. Forse alcuni avevano già iniziato a consigliare ai due leader l’assai più comodo e meno responsabilizzante ruolo di tribuni della plebe.

Invece qualcosa è cambiato, proprio in quella fase. A dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, che nella politica della cosiddetta “Terza Repubblica” sono saltati tutti gli schemi, oltre ai consolidati rapporti e prassi istituzionali. Ieri il Prof. Avv. Giuseppe Conte è tornato al Quirinale con la squadra dei Ministri e c’è stato il giuramento. La prossima settimana ci sarà l’ultimo passaggio della fiducia parlamentare, che non riserva particolari preoccupazioni e sarà maggiore alla Camera e più ristretta al Senato.

Cos’è cambiato nell’arco di una settimana? C’è stato un compromesso con l’Europa per poter governare. Abbiamo toccato con mano che chi prova a formare un esecutivo, con tanto di premier, programma e maggioranza riceve il “niet” dell’ Ue tramite le figure istituzionali di garanzia, se non rassicura i mercati, ovvero l’asse Parigi-Berlino che comanda a Bruxelles attraverso le sue banche, le sue lobby e le sue agenzie di rating. Salvini, ma non solo, ha, quindi,  concluso che siamo un Paese “a sovranità limitata”. E’ oggettivo. Se non trovi almeno un metodo di convivenza, anche da divorziati in casa, con loro, vai a casa. Tutto il resto è sterile propaganda da rosiconi. Quanto accaduto ne è la prova evidente, anche per coloro che, eventualmente, avessero voluto non vedere. Il nuovo governo ha rassicurato in merito alla permanenza nell’Eurozona, in cambio di una politica sovranista in tema di immigrazione e fisco. Già ieri, però, autorevoli esponenti del governo hanno detto che l’Italia farà anche quelle cose che qualcuno nell’ Ue potrebbe non gradire. Sarà vero? Parleranno i fatti e su quelli giudicheremo, perché un conto è la diplomazia, un conto è la realtà. Un conto sono le frasi di circostanza, un conto sono le politiche effettive. Continua a leggere

Luigi Bisignani a Il Tempo: I Casini dell’ex Dc

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Risultati immagini per AndreottiUno spassosissimo articolo di Luigi Bisignani su Il Tempo dell’altroieri

di Luigi Bisignani

Pierferdi fa Casini pure con Talleyrand. Paragona Andreotti al grande «camaleonte» francese

E allora al Divo Giulio non resta che visitarlo in sogno per mettere i puntini sulle i…

Caro direttore, concitato risveglio pasquale per Pier Ferdinando Casini, uno degli “enfant prodige” della Dc, da oltre 35 anni in Parlamento tra tradimenti politici e storielle da copertina. In un incubo notturno, ha sognato Andreotti che gli rimproverava un’improvvida intervista al Corriere della Sera, nella quale Casini lo paragonava a Charles – Maurice de Talleyrand -Pèrigord, nobile francese che aveva iniziato la sua carriera come vescovo, poi aveva gettato la tonaca alle ortiche ed era diventato uno degli uomini politici più cinici, corrotti e abili del suo tempo, capace di tutto pur di sopravvivere. Talleyrand, vissuto a cavallo tra la fine del 1700 e l’inizio dell’800, e considerato da sempre il simbolo del camaleontismo politico – non a caso i contemporanei lo chiamavano «girouette», banderuola – verrà interpretato nei prossimi giorni a teatro proprio dallo stesso Pierferdi.

Stropicciandosi ancora gli occhi, Casini tenta di ricordare la rampogna di Andreotti, che indossando il suo solito pullover blu a doppiopetto, aveva appena finito una partita di burraco con Cossiga, il quale del resto ha sempre cercato qualcuno per giocare a poker. Continua a leggere

I Cinque Stelle come la Dc di Andreotti. Il precedente del 1976 che fa sperare i grillini

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ImageSegnalazione Linkiesta

Decisiva fu l’astensione di Pci e socialisti, passerà alla storia come “il governo della non sfiducia”. I protagonisti dell’epoca ricordano che la situazione era molto simile a quella attuale. Cinque stelle e Lega ci sperano. Scotti: «Se non si vuole tornare al voto non ci sono molte alternative»

Il calendario torna indietro di quarant’anni. I ricordi vanno alla Prima Repubblica, rievocano la Democrazia Cristiana e la figura di Giulio Andreotti. Se c’è un precedente a cui in queste ore molti guardano con interesse è proprio il “governo della non sfiducia”. Il monocolore Dc nato nell’estate del 1976 grazie all’astensione del partito comunista e dei socialisti. Un esecutivo frutto di un lungo confronto e una difficile mediazione, nonostante l’assenza di una vera maggioranza parlamentare. Matteo Salvini aveva tre anni, Luigi Di Maio non era ancora nato. Eppure, con tutte le debite differenze, la situazione ricorda da vicino quella attuale. Ecco perché al Quirinale – e sicuramente anche tra i vertici di Cinque Stelle e Lega – c’è chi sta ripassando quella pagina di storia. Un precedente a cui ispirarsi per sbloccare il probabile stallo delle prossime settimane.

Anche allora le urne avevano premiato due vincitori. I democristiani di Benigno Zaccagnini avevano conquistato il 38,7 per cento, mentre il partito di Enrico Berlinguer si era fermato al 34,4 per cento. Situazione complessa, dato che nessuno dei due partiti aveva i numeri sufficienti per governare. Una impasse resa ancora più complicata dalla scelta dei socialisti, decisi a non entrare al governo senza la contemporanea presenza dei comunisti. Dopo una lunga mediazione – gestita al Quirinale dal presidente Giovanni Leone – si individuò la soluzione in un governo monocolore Dc. Un tentativo reso possibile dall’astensione di Pci, Psi, Psdi, e Pri. «L’alternativa era tornare immediatamente al voto» ricorda oggi Vincenzo Scotti, più volte ministro e sottosegretario al Bilancio di quell’esecutivo. «Ma nella storia repubblicana non era mai successo. E così, alla fine, si decise per quella strada». A Palazzo Madama il governo Andreotti III ottenne la fiducia con 136 sì, 17 contrari e 69 astensioni. A Montecitorio con 258 voti favorevoli, 44 contrari e 303 astenuti.

Senza fare paragoni impietosi, da allora molto è cambiato. A partire dai leader. Luigi Di Maio e Matteo Salvini non sono Andreotti. «Ma non sono nemmeno De Gasperi, Togliatti e Nenni» ride Vincenzo Scotti, che di quel governo era sottosegretario al Bilancio. «E lo dico con il massimo rispetto per tutti»

Lo scenario è replicabile? Come quarant’anni fa, nessuno dei due vincitori oggi ha i numeri per governare da solo. La coalizione di centrodestra ha conquistato alle urne il 37 per cento, i Cinque Stelle il 33 per cento. Immaginare alleanze parlamentari con il Partito democratico è poco realista. Al netto delle indiscrezioni di questi giorni, è quasi impossibile che i dem sostengano apertamente un esecutivo grillino o leghista. E così l’illustre precedente torna d’attualità. Per governare, il centrodestra a trazione leghista dovrebbe sperare nella benevola astensione del Pd. La strada è più impervia per i grillini, che possono contare su un gruppo parlamentare meno numeroso. Un esecutivo guidato da Luigi Di Maio potrebbe ottenere la fiducia solo con la contemporanea uscita dall’Aula del centrosinistra e di una parte del centrodestra. Complicato, certo. Ma non impossibile. «Oggi la realtà è completamente diversa dal 1976» racconta Scotti. «Ma se non si vuole tornare a elezioni non ci sono molte alternative. Il centrodestra e i Cinque Stelle possono governare insieme, la vedo molto difficile. Oppure possono dare vita a un governo di minoranza, grazie all’astensione degli avversari, con l’obiettivo di realizzare un programma limitato e di breve periodo».

Il limite temporale è evidente. Il governo Andreotti III non ha avuto lunga vita, rimanendo in carica per meno di due anni. E limitato era anche il programma di quell’esecutivo: ogni provvedimento rilevante doveva essere preventivamente concordato con il Partito comunista. Ma le coincidenze con quell’esperienza non sono finite. Nel 1976 la grande mediazione fu anticipata da un importante passaggio istituzionale: l’elezione del presidente della Camera. La prima grande prova di intesa tra Dc e Pci si consumò attorno a Pietro Ingrao, scelto come successore di Sandro Pertini sulla poltrona più importante di Montecitorio. Oggi sono in molti a immaginare uno scenario simile. L’elezione di un esponente del Partito democratico al posto di Laura Boldrini potrebbe rappresentare un primo passo verso la nascita di un governo di minoranza. «Quello di Ingrao fu un segnale molto importante – insiste Scotti – Anche stavolta capiremo molto proprio dall’elezione dei presidenti di Camera e Senato».

Il calendario torna indietro di quarant’anni. I ricordi vanno alla Prima Repubblica, rievocano la Democrazia Cristiana e la figura di Giulio Andreotti. Se c’è un precedente a cui in queste ore molti guardano con interesse è proprio il “governo della non sfiducia”. Il monocolore Dc nato nell’estate del 1976 grazie all’astensione del partito comunista e dei socialisti

Allora la difficile mediazione riuscì. Pochi giorni dopo, era la fine di luglio, Giulio Andreotti battezzò ufficialmente il 33esimo governo della storia repubblicana. Un esecutivo particolarissimo fin dall’annuncio in Aula. «Ho proposto al Capo dello Stato – così il presidente del Consiglio a Montecitorio – la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia, o almeno la non sfiducia, del Senato e della Camera dei deputati». Oggi nessuno scommette sull’esito dell’operazione. «Quella fu un’esperienza interessantissima, che arrivava dopo anni di contrapposizione frontale tra Democrazia Cristiana e Partito comunista» ricorda Giuseppe Zamberletti, che di quel governo era sottosegretario all’Interno. «Ma in quel momento c’era un disegno politico chiaro, non la confusione di questi giorni». Nel 1976 la strada della mediazione era stata individuata, seppure tra mille difficoltà. «Il Pci cominciava ad evidenziare una sua mutazione – insiste il democristiano – Ricordo che quell’anno ci fu il terremoto in Friuli. La collaborazione con i comunisti iniziò proprio sul territorio, durante le operazioni che seguirono il sisma. Ma allora, soprattutto, nei partiti c’era un dibattito interno molto intenso. Ricordo il tormento, le discussioni…». Senza fare paragoni impietosi, da allora molto è cambiato. A partire dai leader. Luigi Di Maio e Matteo Salvini non sono Andreotti. «Ma non sono nemmeno De Gasperi, Togliatti e Nenni» ride Scotti. «E lo dico con il massimo rispetto per tutti».

Intanto la disprezzata Prima Repubblica torna d’attualità. Alla faccia del presunto rinnovamento. «Ma quello era tutto un altro mondo – insiste Scotti – Allora i partiti avevano chiari gli obiettivi da perseguire». Zamberletti è d’accordo. «È un periodo che guardo con nostalgia, molto diverso da oggi. Ormai non esiste più dibattito all’interno delle forze politiche, manca il coinvolgimento della comunità nazionale e delle periferie. Le scelte erano prese dopo lunghi dibattiti, a volte aspri. Oggi le decisioni sono prese solo dai vertici».

Fonte: http://linkiestait.musvc1.net/e/t?q=5%3d7ZAY9%26J%3d3%26F%3d3cB%26G%3d1e5X4%26S%3djLtN_tsSx_53_ryUr_2D_tsSx_48wUy.DiLmAeQv3.iR_tsSx_48iR_tsSx_48aPvAcJg_JQ1R_TfZBS8_PSuP_Zhb3_PSuP_Zhb8_PSuP_ZhA-cGpIuC-uLeJn7-cMo7-l9-f5-dG-cFdPgGtRk-Al-Nt7cCf7nRg-6eJ-3a7d-e0e-Dc-_JQ1R_Tfa9U73a9ch_tsSx_48%26d%3dKwKvA3.FeR%26kK%3d1eBV0

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