MODALITA’ SETTARIE IN UNA SCUOLA VERONESE: INDOTTRINAMENTO E COERCIZIONE

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Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo questa lettera di protesta ricevuta a seguito di quanto accaduto al bambino di 13 anni costretto a salire le scale arcobaleno per seguire la logica LGBT

di Anna Baldassari

La divulgazione della notizia relativa alla punizione scolastica e all’ etichettamento subiti da un minorenne all’Educandato Statale “Agli Angeli” di Verona ha scoperchiato il “vaso di Pandora”, facendo emergere aspetti ben più inquietanti della serpeggiante propaganda LGBT. Sono seguite varie testimonianze di varie categorie scolastiche, le quali hanno esposto le esperienze negative e traumatiche, durante il periodo lavorativo alla guida del Preside M. Bonini.

Il dirigente era già stato segnalato da un sindacato scolastico per maltrattamento del personale scolastico, ma non risulta alcun provvedimento a suo carico da parte dell’USR Veneto. Dalle segnalazioni giunte dal personale scolastico traspare un atteggiamento dispotico e modalità coercitive che escludono l’ascolto e il diritto di contraddittorio. Imposizioni anche assurde, in una scuola frequentata da
bambini, come quelle dell’assoluto silenzio nei luoghi comuni e l’obbligo ai docenti di non personalizzare assolutamente il proprio armadietto. Inoltre, rigide sanzioni e un clima del controllo e del sospetto che stridono con l’immagine millantata di una scuola accogliente e inclusiva. Sorvolando su questioni, comunque abbastanza gravi, quali la rischiosa propaganda ideologica filo ucraina in pieno periodo bellico con la bandiera della nazione estera esposta dalla balconata della scuola, appare interessante focalizzarsi sul clima e le modalità oppressive introdotte dal dirigente fin dall’inizio del suo incarico.

Innanzitutto, sull’atteggiamento compulsivo a imporre l’ideologia gender a scuola tramite un sito istituzionale con lo sfondo arcobaleno, la bandiera arcobaleno esposta in facciata, anche stavolta, camuffata con la scritta “pace”, le circolari e addirittura attività formative irriverenti proposte ai rappresentanti di classe del Liceo come la proiezione durante l’a.s. 2022/2023 del film “Pride”, sul movimento di liberazione gay, in un convento di Valeggio. Infine, l’allestimento nei piani di percorsi iniziatici ed esoterici alla Harry Potter, accompagnati dai manifesti su carta intestata con la rappresentazione della Maga
Magò. Come se ciò non bastasse, il preside ha iniziato a fare propaganda politica anche nei corridoi, affiggendo bandiere dell’Ucraina con l’iscrizione “I stand with Ucraina” e commissionando la realizzazione di felpe per studenti con un logo similare a quello del battaglione Azov. Verrebbe da chiedersi chi autorizzi un dirigente a parlare in nome di tutta la comunità scolastica de “agli Angeli” con siffatte direttive dottrinali e come sia possibile che in una scuola pubblica vengano introdotte modalità coercitive e di indottrinamento analoghi a quelle dei gruppi settari. Continua a leggere

Sondaggi, la sorpresa su Schlein (e il dato che va visto davvero) e le uscite di Zaia…

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La rilevazione nei sondaggi Ipsos: cresce il Pd della Schlein, cala il centrodestra di Meloni. Ma c’è un grosso “però” da considerare

sondaggi vanno sempre presi con beneficio di inventario, soprattutto quando sono così lontani da una tornata elettorale. E poi casa sondaggistica che vai, risultato che trovi: variazioni percentuali, saliscendi, gradimenti che si muovono anche in base ai temi del momento. Eppure l’ultima rilevazione realizzata da Ipsos per il Corriere della Sera qualche indicazione la dà.  La prima l’avevamo esternata anche nella Zuppa di Porro di ieriElly Schlein alla fine della fiera, nonostante fosse sfavorita alle primarie, non solo ha vinto la sfida delle urne ma sta pure convincendo gli elettori di centrosinistra. Piace a quel circolo di giovani, meno giovani e anziani che vedono nella cancel culture, nel progressismo ambientalista e nel movimentismo emo-lesbo-trans-femminista il futuro della sinistra. Beati loro, vien da dire. Ma la democrazia funziona così. Funziona che fino a l’altro ieri Giuseppe Conte sembrava il sol dell’avvenire della sinistra (“un punto di riferimento fortissimo per i progressisti”, ebbe a dire Nicola Zingaretti) e adesso annaspa dietro Elly. Una Schlein che oltre al vantaggio di essere “nuova” è pure donna. E nella sfida con Meloni la cosa certo di male non fa.

I sondaggi su Elly Schlein

Lo si capisce dai sondaggi sul partito della Schlein. Il Pd è salito di due punti rispetto alla settimana del 23 febbraio 2023: rispetto al 17% cui era crollato, è risalito al 19%. Direte: “Fico”. Ed è vero. Però va anche notato un altro dettaglio: si tratta di una rincorsa affannata se si considera che alle politiche del 2022 il Partito Democratico di Enrico Letta, uscito bastonato dalle urne, raccolse il 19,1%. Cioè più di quanto valgono oggi i dem con Elly. Certo aver recuperato in così poco tempo il terreno perso non è cosa da poco, ma va anche detto che al momento il computo finale dei potenziali elettori dem non è “cresciuto” rispetto all’ultima tornata politica. Staremo a vedere nelle prossime settimane se la crescita di Schlein nei sondaggi continuerà con questi ritmi o se sarà solo la fiammata iniziale. L’obiettivo – alle prossime europee – sarà fare meglio di quel 22,7% raccolto nel 2019 dai suoi predecessori. Al momento mancano ancora 3,7 punti percentuali. Tanti.

Cala il centrodestra, ma…

E arriviamo agli altri partiti. Mentre il Pd cresce, il M5S scende: dal 17,5 di due settimane fa siamo arrivati al 16,8% con un saldo negativo di -0,7%. In negativo anche tutti i partiti di centrodestra: -0,7% per Meloni, -0,6 per Salvini, -0,2 per Berlusconi e -0,2 per Noi Moderati. Occhio anche qui, però: il dato riguarda la differenza rispetto all’ultimo sondaggio del 23 febbraio. Ma se osserviamo la differenza col risultato elettorale alle Politiche del settembre 2022, scopriamo che Meloni sta al 30,3% rispetto al 26% di cinque mesi fa mentre gli alleati annaspano (Lega: 8%, Forza Italia: 7,2%).

Per approfondire:

Le coalizioni: chi vince?

Interessanti anche i numeri sulle coalizioni, che poi a ben vedere è la partita dove si gioca il governo del Paese. Al momento Ipsos assegna al centrodestra il 46,5% dei voti e al centrosinistra il 24,5%. La distanza è netta, anche aggiungendo al centrosinistra la probabile alleanza col M5S (totale giallorossi: 41,3%). Guardiamo il dato rispetto alle elezioni del 2022: quando Meloni scoprì di essere la prima donna premier d’Italia, il contatore delle coalizioni diceva centrodestra al 43,8% (oggi il dato è maggiore del +2,7%), il centrosinistra al 26,1% (oggi il dato è inferiore del -1,6%) e l’eventuale alleanza giallorossa al 41,5% (esattamente come oggi). Cosa significa? Significa che al momento, al netto delle oscillazioni mensili e del calo nelle ultime settimane, la distanza tra centrodestra e centrosinistra non è cambiata. Per ora vince ancora Meloni. Domani, chissà.

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NOTA DI “CHRISTUS REX”: E’ innegabile, in questo contesto, che le dichiarazioni del Governatore leghista del Veneto Luca Zaia, favorevole al centro per il cambio di sesso all’ospedale di Padova, così come quelle del deputato Centinaio che apre alle unioni di fatto tra persone dello stesso sesso, sono assist di grande aiuto alla politica della Shlein che il segretario Matteo Salvini non può permettersi di liquidare con un semplice “non è una priorità”, riferito al concetto fluido di civiltà di Zaia. L’orizzonte valoriale dei conservatori deve essere differente da quello dei progressisti, altrimenti si alimentano l’astensionismo e la confusione. Restando, comunque, ciascuno libero di cambiare strada, percorso e…partito.

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La polizia del Boss mi ha afferrato in stile gringo – Corrido, “Cananea”, 1917

Il Cile caldo

La caduta del Muro di Berlino ha lasciato numerosi orfani, tra cui, in primo luogo, i quadri dei partiti comunisti in tutto l’Occidente. Le scosse di assestamento arrivarono ovunque, in particolare alla periferia dell’Occidente: l’America Latina. Tradizionalmente riformisti, parlamentari e piccolo-borghesi, molti burocrati comunisti del continente – una volta scartati dall’improvviso ritiro sovietico – si riciclarono in ONG finanziate da Washington, sostenendo i diritti umani, la democrazia e il femminismo. Era il momento in cui Mosca, sprofondata nella sua crisi di legittimità, aveva abbandonato l’arena internazionale apparentemente per sempre. Ma il vuoto professionale doveva essere colmato in un modo o nell’altro: così un giorno, per necessità, il marxismo scolastico ha lasciato il posto al postmodernismo scialbo nei salotti ufficiali e nel mondo accademico. Il periodo in questione coincide grosso modo con la fine delle dittature neoliberali in Sudamerica, in particolare in Cile, il cui ritorno alla democrazia è stato segnato da ondate di protesta sociale simili a maratone nella seconda metà degli anni Ottanta.

Ora si va avanti di trent’anni

Generazioni dopo la scomparsa di Pinochet, il Cile ha riproposto un ciclo simile di insurrezione popolare proprio alla vigilia dell’esplosione del COVID-19: città invase da quasi due milioni di manifestanti, alcuni dei quali muniti di molotov e fervore luddista. Fino a quel momento, le sedie musicali elettorali erano state divise tra socialdemocratici dalla parlantina pulita e neoliberali draconiani, anche se l’economia trickle-down rimaneva sempre la stessa. Era un gioco di conchiglie giocato in successione da volpi e leoni di Pareto, “sinistra” e “destra” sul modello americano. Tutto questo mentre l’economia cilena, che mescola il PIL della Finlandia e il GINI del Lesotho, trascinava un arretrato di disperazione tra il precariato. Alla fine, la Rivoluzione colorata cilena del 2019 portò a un duplice processo. Da un lato, ha facilitato la futura vittoria presidenziale di un’alleanza di sinistra a metà, formata sia da progressisti di professione che da comunisti di pura razza.

Dall’altro lato, la mobilitazione di strada ha dato vita a un’Assemblea costituzionale, originariamente prevista dall’establishment come valvola di sicurezza per mitigare la volatilità dei cittadini. Tuttavia, come si è visto, l’Assemblea ha acquisito una logica propria e ha fatto avanzare la bozza di una nuova Costituzione che assomiglia a un mosaico multiculturalista – anche se, bisogna ammetterlo, i diritti dei lavoratori hanno ottenuto un residuo riconoscimento nelle sue ultime deliberazioni. Attualmente, l’Assemblea Costituzionale e la nuova amministrazione rappresentata da Boric, anch’egli ex leader studentesco, sembrano poco sincronizzate, in parte perché quest’ultima, scrollandosi di dosso le promesse della campagna elettorale, ha abbracciato l’austerità di bilancio e le misure deflazionistiche. In effetti, a un mese dall’investitura del Presidente Boric, la consueta luna di miele tra elettorato e nuovo gabinetto lascia presagire un divorzio burrascoso.

La causa è semplice. Il Cile detiene virtualmente il monopolio dell’estrazione del rame a livello mondiale, anche se lo Stato non riesce – a causa di accordi geopolitici che risalgono alla Dittatura – a catturare la rendita generata dal proprio sottosuolo. Per questo motivo, l’imposizione fiscale si riversa sulle masse lavoratrici, i cui risparmi per la pensione finiscono anch’essi sequestrati da portafogli Ponzi imposti dalla legge che finiscono nel labirinto dei broker finanziari americani – i famigerati Amministratori di Fondi Pensione (PFA).

Durante le recenti quarantene, i sussidi pubblici per i disoccupati sono stati così esigui che la gente ha chiesto di incassare i registri delle pensioni, da cui è scaturito un braccio di ferro tra i PFA e la loro clientela anziana e prigioniera. Presumibilmente, gli investimenti sono così illiquidi e opachi da rasentare la letterale inesistenza. Tuttavia, l’attuale amministrazione progressista-comunista, “rosa-rossa”, si è schierata fortemente con la lobby finanziaria locale, legata a doppio filo con Wall Street. Così, l’elettorato di sinistra di Boric oscilla tra lo stupore e la rabbia, rispondendo al tradimento percepito con la minaccia di una defenestrazione politica. Il buon senso suggerisce che, ancora una volta, la ribellione popolare cova sotto di sé. Ma questa volta sarà peggiore, poiché il governo non ha nessuno a sinistra, nessun antagonista formale con cui confrontarsi, appellarsi o negoziare, se non una folla amorfa, marea, per lo più giovanile, che affolla le barricate e i picchetti onnipresenti. Naturalmente, un nemico istituzionale può diventare un alleato fedele, e quindi una fonte di legittimazione. Purtroppo, questa non è più un’opzione. Invece, l’agenda multiculturale del signor Boric pretende di placare la penuria materiale e il rancore sociale invocando e propagandando il mantra dei diritti sessuali, dell’ambientalismo da boutique e della riabilitazione delle minoranze. Ma forse l’impresa è piuttosto stucchevole e la sua attualità abbastanza passata. Perché? Perché l’Assemblea Costituzionale, che corre in parallelo con obliqua complicità, si è già appropriata di tutti questi temi. Tutto sommato, il Cile è una barzelletta politica per ora senza finale.

Antinomie andine

L’anno scorso, dopo essere arrivato in testa al ballottaggio presidenziale, il maestro di scuola rurale con il cappello da cowboy Pedro Castillo, alias El Profesor, ha dovuto improvvisare un patto con la rappresentante della sinistra accademica, l’antropologa Verónika Toledo, per affrontare l’imminente ballottaggio elettorale. Alla fine Castillo ha vinto, ma non prima di aver subito un calvario giudiziario volto a inficiare il numero dei suoi voti, suffragi concentrati soprattutto nel retroterra indigeno.

Benché sostenuto dal partito leninista Perú Libre, Castillo è rimasto un classico populista della varietà latina, orientato verso i contadini e con un radicato ethos cattolico. Inutile dire che questo profilo metteva in imbarazzo i suoi alleati progressisti a Lima. La sinistra urbana istruita disapprovava la maggior parte del programma di Castillo e guardava con sospetto anche al suo stesso personaggio politico, rustico e moralista. Peggio ancora, l’iperbolica fraseologia da “ritorno alla terra” di El Profesor non si sposava, tra l’altro, con lo slancio pro-aborto della cricca accademica di Toledo. Il socialismo-familismo strideva con le orecchie del conformismo di sinistra. Ma dovrebbero saperlo bene.

Le famiglie contadine sono state duramente decimate dall’eugenetica neoliberale durante il regime autoritario di Fujimori (1990-2000), che ha perpetrato sterilizzazioni disinformate e non consensuali su decine di migliaia di donne indigene. La crociata di depopolamento, sponsorizzata e finanziata sia dalla NED che da enti di beneficenza ufficiali giapponesi (lo stesso Fujimori è nato in Giappone), ha traumatizzato profondamente le giovani donne, il cui ambiente nativo apprezza molto la gravidanza e il parto.

Paradossalmente, questa politica punitiva di pianificazione familiare è stata attuata in un Paese a bassissima densità demografica, il che solleva sospetti sul reale scopo di una simile iniziativa.

Tuttavia, la riduzione dei tassi di natalità è attualmente perseguita dalla lista della lavanderia abortista, a partire dall’epurazione postmoderna del cosiddetto patriarcato e della mascolinità operaia: prima il bastone, poi la carota… In realtà, fino a poco tempo fa, il blocco di governo peruviano ha avuto una traiettoria accidentata ed erratica, e sembra improbabile che la chimerica coabitazione tra populisti di campagna e mezza tacca universitaria possa funzionare comunque. Per cominciare, il ministro delle Finanze appartiene all’entourage liberale di Verónica Toledo, da cui deriva la continuità del capitalismo delle materie prime.

Tango e contanti

Dopo una tortuosa incubazione, il dissenso proletario in America Latina ha raggiunto l’apice intorno al primo decennio del XX secolo, una congiuntura che ha inaugurato la moderna politica di classe a sud del Rio Grande. Il famoso Sciopero di Cananea in Messico e lo Sciopero Generale in Argentina, entrambi avvenuti all’inizio degli anni Novanta, segnano l’ascesa politica della fabbrica sottoproletaria, protagonista di ardue lotte sociali culminate rispettivamente negli esperimenti redistributivi di Cárdenas e Perón. Per quanto riguarda quest’ultimo processo, l’Argentina stessa, nonostante l’ingente immigrazione transatlantica riversatasi sulle sue coste, non ha mai sviluppato partiti di massa marxisti di stampo europeo, come invece è avvenuto nel vicino Cile. Al contrario, il fascismo paternalistico e plebeo dell’Argentina sotto il generale Perón (1945-1955) servì da surrogato e da catalizzatore per la contestazione della classe operaia negli anni a venire. Fino ad oggi, l’epoca di Perón ha rappresentato in modo vivido l’età dell’oro dell’industrializzazione sostitutiva delle importazioni e del sindacalismo verticale.

Una volta sconfitto da una giunta militare di destra, il peronismo confluì presto nel guevarismo, formando una sottocultura di carisma macho rivoluzionario, che in seguito si evolse verso la guerriglia urbana. Questo contesto emergente indusse i partiti marxisti convenzionali all’introversione riformista. Il tropismo era così intenso che il Partito Comunista locale si alleò con i conservatori terrieri e sostenne persino brevemente la dittatura del generale Videla durante gli anni Settanta. Nel frattempo, il peronismo rivoluzionario degenerò in una serie di gruppuscoli putschisti, i cui militanti furono a loro volta massacrati dagli scagnozzi della Giunta. Durante questo periodo di effervescenza, la sinistra rivoluzionaria coltivò una prassi nativista e sacrificale. Pertanto, solo con il ritorno dei governi civili i movimenti anticapitalisti hanno acquisito un senso di vittimismo e passività. Certo, questo è stato possibile solo grazie all’installazione dell’ideologia-discorso sui diritti umani, il cui epicentro è stato l’amministrazione Carter. Da qui la tragica ironia: i repressori militari argentini hanno ricevuto istruzioni da Fort Benning e dal Pentagono, mentre le loro vittime sono state assistite e sermoneggiate dai missionari laici delle ONG americane.

Contemporaneamente, la crisi di default messicana del 1982 – originariamente causata dal colpo di mano di Volcker sui tassi di interesse – ha innescato il cortocircuito finale del paradigma keynesiano-fordista in America Latina. Decisamente, questa inflessione ha aperto la cupa bonanza dei programmi di aggiustamento strutturale (SAP) del FMI, che hanno intaccato il vigore economico della maggior parte dei Paesi dell’emisfero. A questo proposito, il debito estero dell’Argentina costituisce una lezione trasparente. La Repubblica del Sud ha mostrato una relativa solvibilità fino al 1976, anno in cui la Dittatura ha sestuplicato il livello di debito precedente. Da allora, i numeri rossi sono saliti alle stelle, sottoponendo i contribuenti argentini a un cronico peonaggio del debito di fronte ai creditori internazionali. Col senno di poi, ci si potrebbe chiedere se l’ideologia dei diritti umani – e in seguito il multiculturalismo e i suoi tropi concomitanti – sia stata solo una consolazione machiavellica, un trucco per addomesticare, neutralizzare e depoliticizzare la società civile, in particolare le organizzazioni dei lavoratori.

Se vogliamo chiarire le cose, è necessaria una vignetta giornalistica. A metà del 2002, l’obbligazionista avvoltoio Paul Singer ha fatto causa a Buenos Aires per inadempienza del debito sovrano, riuscendo così a sequestrare legalmente la nave scuola argentina attraccata al largo del Ghana, con un equipaggio di 22 giovani marinai. Si è trattato di un riscatto virtuale imposto da lontano, in seguito all’ordine di disarmo di un tribunale del New Jersey, il cui effetto extraterritoriale appare oggi discutibile. Ma il ricatto ha avuto successo e l’investitore attivista Singer ha finalmente spremuto 2,4 miliardi di dollari dal Tesoro argentino, quattro volte il suo investimento iniziale. Nel frattempo, i dibattiti parlamentari a Buenos Aires sono stati dominati dalle guerre culturali, dai presunti diritti degli omosessuali o da altre controversie del momento, per cui solo voci marginali hanno discusso il nodo dell’odioso debito.

Curiosamente, lo stesso Singer è un gigantesco finanziatore dei diritti degli omosessuali su scala globale, un’impresa caritatevole che potrebbe non essere così disinteressata come si dice.

Riflettendoci, si nota gradualmente uno schema. Come già osservato, la retorica dei diritti umani e del multiculturalismo rafforza l’inerzia della disciplina del debito e dell’estrattivismo economico, una volta che gli attori politici dell’America Latina sono diventati vittime istituzionalizzate che chiedono ospitalità. Non si può cambiare questo corso delle cose se non si sfida l’egemonia liberale nella cultura e non la si riduce alla banalità che comporta. La nuova sinistra postmoderna in America Latina, innestata artificialmente su una ricca tradizione populista, di cui la prima parassita astutamente la memoria, può solo portare disillusione e anomia. Gli esempi in tal senso abbondano.

Cavalli di Troia

Ad oggi, appare chiaro che il capitalismo atlantico ha scelto la sinistra progressista come percorso agevole per controllare il suo tradizionale cortile geostrategico di materie prime. In effetti, la sinistra socio-liberale, priva di qualsiasi allusione proletaria, si presenta come un perfetto cavallo di Troia per portare avanti l’agenda globalista nella sua nuova incarnazione estrattivista. I recenti sviluppi confermano questi sospetti. Petro, ex guerrigliero convertito in sicofante clintoniano, ha riaffermato il ruolo della Colombia all’interno della NATO e ha esteso la virtuale occupazione militare americana del Paese caraibico, con decine di basi finanziate dal Pentagono. Nel frattempo, Boric in Cile ha accelerato l’approvazione del Partenariato Trans-Pacifico (TPP11), un’iniziativa precedentemente scaricata da Trump ma ora guidata dalla diplomazia di Biden. È interessante notare che una sinistra più tradizionale, nata da veri e propri processi rivoluzionari in Messico (1910), Cuba (1959) e Nicaragua (1979), mantiene ancora uno slancio antiglobalista. Il Brasile di Lula è un esempio per il futuro del populismo di sinistra nel continente. Il Partito dei Lavoratori (PT) brasiliano deriva dal sindacalismo cristiano e dalle cooperative contadine. Per questo motivo, la sua ideologia tendeva a esprimersi in termini nazionalistici, comunitari e sviluppisti. Tuttavia, finora il primo governo di Lula è stato ancora un esperimento neoliberale con una patina di ridistribuzione inflazionistica. Non c’è da stupirsi che i ministri delle finanze e i controllori delle banche centrali di Lula provengano sempre dalla porta girevole del FMI-GoldmanSachs.

Tuttavia, grazie al suo peso demografico, il Brasile vanta un mercato interno che consente una borghesia nazionale minimalista, che aspira a consolidare il proprio posto all’interno del blocco BRIC. Da qui la posizione neutralista di Bolsonaro nei confronti della Russia, da cui il Brasile ottiene la maggior parte dei fertilizzanti per la soia che alimenta la Cina. Attualmente, Lula può abbracciare o meno il progetto BRIC. Il bivio è tra l’economia reale e quella finanziaria: il motore della crescita del Brasile dipende dalla domanda cinese di colture, mentre i meccanismi anglo-atlantici del debito in dollari incatenano ancora il Brasile alla subordinazione emisferica.

Inutile dire che la politica internazionale è più di un semplice riflesso degli affari interni, quindi la prevista extraterritorializzazione e denazionalizzazione del bacino di Amazonas, con il pretesto della gestione ambientale globale, sarà un momento decisivo per il nuovo governo di Lula. Un altro punto in discussione è il futuro ruolo di Petrobras, l’impresa pubblica petrolifera continuamente penalizzata da vicende di clientelismo e corruzione. L’autosufficienza energetica è cruciale per lo sviluppo nazionale, dato che il Brasile è un esportatore netto di petrolio greggio, anche se i prezzi locali per i consumatori nazionali sono molto alti. In questo momento, si spera solo che Lula possa avvicinarsi a una sorta di nazionalismo delle risorse economiche, rafforzando la diplomazia neutralista dei BRIC.

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/il-riflusso-rosa-o-di-come-lamerica-latina-ha-perso-la-sua-sinistra

Traduzione di Costantino Ceoldo

Ddl Zan, a volte ritornano (purtroppo)

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L’epopea del famigerato disegno di legge Zan contro l’omotransfobia è ancora lontana dal dirsi conclusa. È stato lo stesso deputato piddino Alessandro Zan, in una pomposa intervista a Repubblicaad annunciare quello che per gli addetti ai lavori non è stato esattamente un colpo di scena. Mercoledì prossimo, infatti, saranno passati esattamente sei mesi esatti dal voto segreto che cestinò il ddl con l’ormai noto “tagliola” chiesta da Fdi e Lega e accordata dal Presidente Elisabetta Casellati (si tratta del meccanismo previsto dall’articolo 96 del Regolamento del Senato, che a certe precise condizioni consente di «proporre che non si passi all’esame di un disegno di legge»).

Uno stop a tempo, dunque, arrivato dopo che il Paese è rimasto ostaggio per mesi di un dibattito estenuante e tossico. Senza soluzione di continuità, Alessandro Zan riparte proprio da lì, in quinta, con un personalissimo amarcord che regala il mood che sarà: «L’ultima immagine è quella dell’applauso sgangherato e violento delle destre, da ultrà dello stadio, che ha fatto il giro del mondo, facendoci quasi vergognare di essere italiani. Ma il 27 aprile, mercoledì prossimo, scade l’embargo di sei mesi».

PIANTARE BANDIERINE ANCHE SOTTO LE BOMBE

Alla domanda su cosa dovrebbe esserci di diverso oggi rispetto allo stallo politico di sei mesi fa, dalle parole di Zan viene fuori una discreta e nemmeno troppo dissimulata dose di cinismo: «La Lega è molto in difficoltà, e i trascorsi legami con Putin stanno logorando Salvini e le sue posizioni sovraniste. Siamo nel pieno di una guerra in Europa, dunque – togliendo i “benaltristi” che ci saranno sempre – la questione dei diritti è urgente e centrale». Difficile non scorgere in questa risposta la cifra di una sinistra che, scagliando contro chiunque sia in disaccordo la facile accusa di benaltrismo, ha come unico obiettivo quello di piantare le sue bandierine. Perfino sotto le bombe, e con alle porte una paurosa crisi economica.

Chi certamente non abbocca ai lamenti dell’onorevole lettiano è Filippo Savarese, direttore delle campagne di ProVita& Famiglia, che così twitta: «Attenzione, se dal 27 aprile non sentirete più parlare di guerra, Russia, Ucraina sarà solo perché riparte l’iter del ddl Zan, e quindi si imporrà la narrativa sull’(inesistente) “emergenza omofobia in Italia” opportun(istic)amente silenziata negli ultimi mesi».

TORNA IL DDL ZAN? TORNA ANCHE LA RESISTENZA

Nell’enorme macchina propagandistica che si sta rimettendo in moto (partiti, giornali, tv) un particolare può guastare di nuovo la festa. Proprio come il ddl Zan sarà ostinatamente ripresentato nella sua integrità (senza considerare nessuna delle obiezioni da più parti sollevate), con la stessa determinazione tornerà a far sentire la propria voce la maggioranza silenziosa, contraria a provvedimenti liberticidi(delle posizioni di laici come Luca Ricolfi, di costituzionalisti come Michele Ainis e Giovanni Maria Flick, di leader sessantottini come Mario Capanna, di sportivi come Sara Simeoni, scrivemmo già qui).

 LE FEMMINISTE TIRANO LA VOLATA

A raccontare la varietà di posizioni su un tema così caldo, va detto che nelle prime ore dall’annuncio del ritorno del ddl Zan, le prime a organizzare una controffensiva sono state le femministe di Rad Fem Italia, allertando intorno alle macerie umane che la codificazione legislativa dell’identità di genere («vera architrave delle legge») porterebbe con sé. «Il mondo occidentale arretra dopo avere constatato i danni causati dall’autoidentificazione di genere e dal self-id», scrivono le femministe gender critical, «a cominciare dall’enorme aumento dei casi di disforia tra le-i minori, trattati precocemente con farmaci dagli effetti irreversibili». Trattamenti che dopo «avere danneggiato seriamente la salute di molte bambine e bambini», sono stati sospesi in molti Paesi «pionieri di queste crudeli terapie di conversione»: dall’Inghilterra alla Svezia, dalla Finlandia all’Australia, fino a vari stati americani.

Per Rad Fem – che nel loro post, quasi un avamposto di resistenza, ricordano i problemi legati ai corpi maschili negli sport femminili (vedi caso Lia Thomas), nonché l’aumento degli stupri nelle carceri comuni a donne e transgender – tutto racconta della «colonizzazione del simbolico femminile», della crescente «impossibilità di dirsi donna» e della cecità di quei politici («soprattutto le senatrici») che «si dispongono a combattere per importare in Italia un prodotto nocivo, già scaduto altrove».

LO SCOPO SONO I BABY TRANS

Del resto, che il ddl sull’omotransfobia non sia nient’altro che il cavallo di Troia per introdurre l’autodeterminazione di genere, è qualcosa che lo stesso Alessandro Zan, forse in un momento di “distrazione” dalla sua tattica rassicurante, ha sciorinato in diretta, ospite di Fedez, con queste precise parole: «Bisogna aiutare i bambini in un percorso di transizione». Uno degli scopi della legge di (in)civiltà, per bocca del suo estensore (trattasi dunque di interpretazione autentica), è quello di agevolare il cambiamento di sesso nei bambini. Avevamo bisogno di una guerra nella guerra?

Fonte: https://www.iltimone.org/news-timone/ddl-zan-a-volte-ritornano-purtroppo/

“Uccidere un fascista non è reato”. In piazza l’odio dei fan del ddl Zan

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“L’ipocrisia è il denominatore comune di tutte le battaglie sinistre degli ultimi decenni – dice il nostro Responsabile Nazionale Matteo Castagna – soprattutto quelle per ciò che loro chiamano “diritti”. E’ incredibile vedere e sentire invasati sputare solo veleno e incitare alla violenza contro coloro che vengono accusati di covare odio, solo perché la pensano in modo differente”.

IL DDL ZAN AFFOSSATO IN SENATO SCATENA LE PROTESTE. MA IN PIAZZA I SOSTENITORI DEL DECRETO INTONANO SLOGAN VIOLENTI

Il cortocircuito è servito: quelli che chiedono una legge contro l’odio, più precisamente il ddl Zan, scendono in piazza e seminano odio. Lo dimostrano le immagini esclusive mandate in onda ieri sera a Quarta Repubblica.

Il 28 ottobre a Roma un gruppetto di ragazzi a favore del disegno di legge sull’omofobia ha intonato canti tutt’altro che pacifici: “La nonna partigiana ce l’ha insegnato, uccidere un fascista non è reato“. E ancora: “Lo aspetti sotto cosa e poi lo lasci lì, l’autodifesa si fa così”. Infine: “Fascio stai attento, ancora fischia il vento”. Dal corteo democratico si sono innalzati pure “educatissimi” (si fa per dire) slogan rivolti agli avversari politici: “Pillon, Pillon, vaffanc…”, “Renzi, Renzi, vaffanc…” e “lega Salvini e lascialo legato”. Non proprio quello che si dice “amore” e “rifiuto della violenza”.

da Quarta Repubblica del 1 novembre 2021

VEDI IL VIDEO IN: https://www.nicolaporro.it/uccidere-un-fascista-non-e-reato-in-piazza-lodio-dei-fan-del-ddl-zan/

Il ddl Zan serve per contrastare l’omotransfobia? Ecco la verità sui report dell’Arcigay

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di Redazione

L’Arcigay dà i numeri del 2020 e 2021. Emergenza? Priorità? Le leggi che puniscono le aggressioni esistono già e anche l’aggravante dei futili motivi. L’Italia, soprattutto in questo momento, ha delle priorità, che sono legate all’emergenza sanitaria ed al lavoro. Il ddl Zan era solamente una legge ideologica per entrare nelle scuole a indottrinare i bambini con la teoria gender, per accedere a finanziamenti e per poter imbavagliare i cattolici e tutti coloro che pensano che i minori abbiano bisogno di una mamma e un papà. Perché, inoltre, fare degli omosessuali una categoria a parte, come fossero una specie protetta? Un omosessuale ci ha recentemente espresso la sua contrarietà al ddl Zan, sostenendo che sarebbe ingiusto trasformare le persone con questo orientamento sessuale nei nuovi “panda” da tutelare con leggi speciali. Osserviamo, infine, che il Senato ha affossato il ddl Zan sì grazie alla cosiddetta “tagliola”, studiata e proposta da Roberto Calderoli (Lega) che fa parte dei regolamenti della democrazia parlamentare cui si aggrappano sempre tutti i sinistri, ma soprattutto a causa delle defezioni di Pd e M5S, che sono state determinanti. 

di Francesca Totolo

Roma, 7 lug – Secondo i sostenitori del Ddl Zan, il disegno di legge va approvato immediatamente perché la comunità Lgbt è vittima di aggressioni ogni giorno. Per verificarlo, abbiamo analizzato i report dell’Arcigay che elencano le aggressioni subite da gay, lesbiche e trans. Prima di analizzarli dettagliatamente, è necessario ricordare che l’Arcigay non sopravvive grazie ai fondi ricavati dalle quote associative (nel 2020, 8.090 euro, l’1,8% dei ricavi totali), ma attraverso i finanziamenti pubblici (nel 2020, 228.467 euro dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e 52.000 euro dalla presidenza del Consiglio dei ministri) e le erogazioni private (per diversi anni, è stata finanziata dalla Open Society Foundations di George Soros).

Il report dell’Arcigay del 2020

Nel 2020, sono stati denunciate dall’Arcigay 137 aggressioni nei confronti della comunità Lgbt. Di queste, 48 riguardano violenze, adescamento, ricatto, rapine e omicidio, 34 discriminazioni, minacce e insulti, 8 intolleranza in famiglia, 3 intolleranza al lavoro, 13 messaggi politici dal contenuto omofobo, 17 scritte omofobe, 12 casi di omofobia sui social network, e 2 esternazioni omofobe divulgati da cantanti.

Su 48 reali violenze, 10 sono state commesse da stranieri, ovvero il 21 per cento. Gli stranieri in Italia rappresentano l’8,8 per cento della popolazione residente. Un caso di adescamento e ricatto, che ha visto come vittima un uomo di 80 anni, riguarda un ventenne cittadino italiano, ma di origini marocchine. A Udine, sono stati invece due pakistani, di cui uno richiedente asilo, ad aggredire e rapinare un travestito. Un ragazzo gay, che passeggiava mano nella mano con il compagno, è stato ferito a colpi di bottiglia da una banda di nordafricani a Milano, nella centralissima zona di Porta Ticinese, mentre una ragazza nigeriana è stata aggredita da un connazionale perché aveva rifiutato le sue avances. L’uomo le ha anche urlato “Sei lesbica, ti ucciderò”, ricordandole che “nel nostro Paese queste cose non sono ammesse”.

Delle 48 violenze pubblicate dall’Arcigay, 4 sono fake news, mentre 7 sono state riportate con diverse imprecisioniTra le bufale più conosciute, troviamo quella l’aggressione denunciata dall’influencer Marco Ferrero, meglio noto come Iconize. Poco dopo, sarà lui stesso a confessare di essersi provocato i lividi da solo con una confezione di surgelati. Arcigay ha anche pubblicato, come se fosse avvenuto in Italia, il caso della ventenne inglese Charlie Graham, malmenata nella città di Sunderland. L’unico omicidio riportato dall’Arcigay, è quello Elisa Pomarelli, morta per mano di Massimo Sebastiani. Come poi evidenziato nelle indagini, il movente non aveva nulla a che fare con l’omofobia. Sebastiani ha ucciso perché era ossessionato dalla vittima, che frequentava come amica da tre anni e di cui sapeva l’orientamento sessuale. La Pomarelli non è stata uccisa perché lesbica.

Per quanto riguarda le imprecisioni, l’Arcigay ha definito “omofobia interiorizzata” l’accoltellamento commesso da un diciassettenne gay ai danni del suo partner, perché quest’ultimo si rifiutava di cancellare delle foto scattate durante i rapporti intimi. Non sarebbe stata l’omofobia, invece, a far scattare una rissa a Barletta tra due colleghi, di cui uno omosessuale, ma semplici divergenze lavorative. Tra le “aggressioni”, l’Arcigay ha inserito anche un diverbio al ristorante finito con insulti omofobi e un caso di abusi sessuali avvenuto nel 2011.

Delle 8 intolleranze in famiglia, 4 riguardano famiglie straniere, per la precisione due tunisine, una egiziana e una bulgara. Quest’ultima, dopo aver scoperto che il figlio era gay, lo hanno rapito e riportato nel Paese di origine. A Padova, invece, si era scatenata la faida tra due famiglie tunisine che avevano scoperto la relazione tra due ragazzi trentenni, finita poi con l’accoltellamento di uno dei due. Il ventenne egiziano Mohammed, che voleva diventare Lara, è stato disconosciuto dalla famiglia, dopo non aver accettato di tornare in Egitto per “guarire”, mentre Aisha è stata abbandonato dalla famiglia perché lesbica, nonostante fosse malata e sottoposta alla chemioterapia.

Nel report, viene riportato il caso del lancio di uova contro l’auto di Giulia Bodo, presidente dell’Arcigay di Vercelli, senza però motivare cosa era successo in precedenza. In occasione del Capodanno 2019, la Bodo aveva augurato su Facebook “Buonanno” a tutti i leghisti, allegando una fotografia del deputato Gianluca Buonanno scomparso tragicamente nel 2016.

Nel report delle aggressioni del 2020, l’Arcigay ha inserito pure Cristina D’Avena. La sua colpa è una frase pronunciata durante un concerto: “Luxuria è invidiosa di Lady Oscar perché ha la spada più lunga della sua”.

Il report del 2021

Sono 119 aggressioni denunciate nel rapporto 2021 dell’Arcigay, 4 sono state riportate due volte e una era già stata pubblicata nel report 2020. Di queste, 27 riguardano violenze, 59 discriminazioni, minacce e insulti, 7 intolleranza in famiglia, 2 intolleranza al lavoro, 6 messaggi politici dal contenuto omofobo, 4 scritte omofobe e 14 casi di omofobia sui social network.

Delle 27 violenze, 5 sono state commesse da stranieri, il 19 per cento. La coppia gay bolognese, assalita a Vernazza, in Liguria, ha testimoniata che la baby gang era formata da ragazzini di nazionalità diverse. Dopo qualche giorno, è stato arrestato un moldavo di 19 anni. A Cattolica, un senegalese voleva estorcere 1.600 euro ad un trentenne pesarese, dopo un rapporto sessuale. A Roma, quartiere Casilino, un uomo di 31 anni è stato aggredito e derubato da una banda di giovani, tra di loro anche ragazzi di colore. Ad Ancona, una baby gang, con diversi ragazzi rom, ha terrorizzato e rapinato almeno otto ragazzi, due addirittura affetti da una minorazione psichica. A Torino, una banda, probabilmente di stranieri, ha picchiato un ragazzo cileno, dopo averlo definito “maricon”.

Su 27 violenze denunciate dall’Arcigay, 3 sono fake newsIl caso più clamoroso è quello di Padova: una coppia gay aveva pubblicato un video, diventato subito virale, dove raccontava di essere stati picchiati perché gay. Le telecamere di videosorveglianza e le testimonianze avevano però svelato una realtà diversa: quella successa era una comune rissa, senza alcun intento omofobo. A Trieste, l’attivista LGBT Antonio Parisi aveva raccontato di essere stato aggredito da un gruppo di ragazzi. Le indagini delle Forze dell’ordine hanno poi accertato che era da escludere la connotazione omofoba dell’aggressione. Infatti, il fattore scatenante del pestaggio sarebbe stato l’eccesso di bevande alcoliche consumate dagli aggressori nel corso del pomeriggio. Una transgender aveva dichiarato sui social network di essere stata malmenata da un gruppo di giovani a Torre del Greco. La stessa non si era fatta refertare i segni della violenza subita e non aveva denunciato l’accaduto. Convocata dalle Forze dell’ordine, aveva riferito che era stata soltanto una “bravata”. La ventiseienne trans, quattro anni prima, era stata arrestata per furto, ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale. Il tribunale del riesame le aveva però concesso gli arresti domiciliari. La transgender era poi evasa qualche giorno dopo facendosi notare dai carabinieri per essere arrestata per evasione e venire ricondotta nel carcere di Poggioreale perché si sentiva sola.

Delle 59 denunce dell’Arcigay su discriminazioni, insulti e minacce, 3 sono fake news e 12 sono state riportate con imprecisioni. L’associazione ha riportato il caso di un gruppo di turisti, accompagnati da una guida, che sarebbero stati insultati in un ristorante di Marzamemi perché omosessuali. Il proprietario del locale riporterà poi un’altra versione della storia: “La guida che accompagnava quel gruppo mi aveva suggerito di offrire la cena che i tre non avevano gradito, per evitare recensioni negative sul web. Mi sono rifiutato, il cibo era di qualità. Ho invitato a pagare e togliere il disturbo”. La vicenda ricorda quella successa a Fasano. Una coppia gay in viaggio di nozze, dopo l’unione celebrata da Alessandro Zan, aveva sostenuto che lo chef del resort Canne Bianche aveva disegnato, con la salsa, la forma di un pene su un loro piatto. Non si è fatta attendere la replica del resort: “Il caso raccontato è completamente falso. Nessuna foto di quanto affermato è stata fornita dai nostri due ospiti in questione, mentre hanno impiegato pochi minuti per farci giungere una richiesta di soggiorno gratuito. Dopo la nostra risposta, che declinava la loro richiesta di risarcimento, hanno puntato all’attenzione mediatica. Dopo aver capito di aver sollevato accuse molto forti nei nostri confronti senza ragione diversa da quella di conseguire un soggiorno gratis, poi hanno aggiornato la recensione adducendo delle scuse da noi mai formulate”. L’Arcigay ha riportato come “aggressione” anche il post di Fabio Barsanti, consigliere comunale di Lucca, su Laurel Hubbard, quarantatreenne atleta transgender neozelandese, qualificatasi per le Olimpiadi. Barsanti aveva fatto solo notare che la competizione sportiva tra donne e transgender, nate uomo e con una muscolatura maschile, è sleale.

Francesca Totolo

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/verita-report-arcigay-omotransfobia-200156/

Canata: scuole “conciliar-arcobaleno”

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Per esemplificare, affinché tutti i lettori comprendano, quando si parla di scuole cattoliche e vescovi si sottintende “ufficiali” ovvero conciliari. Sottintendiamo che la Chiesa Cattolica non ha nulla a che fare col Concilio vaticano II e con le sue gerarchie che non sono cattoliche ma apostate, ipso facto, et sine ulla declaratione, perché professano principi contrari a ciò che Cristo e la Chiesa hanno sempre insegnato e da tutti sempre è stato creduto nel mondo (n.d.r.) 

L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di LEONARDO MOTTA

I cattolici canadesi si augurano che venga tolto dalle diocesi coinvolte il nome “cattolico” alle scuole ribelli.

L’Ottawa Catholic School Board (Canada) ha decretato che le sue 83 scuole cattoliche alzeranno per la prima volta la bandiera del Gay Pride a giugno. È esattamente l’opposto di quanto ha chiesto loro l’arcivescovo di Ottawa-Cornovaglia, Monsignor Marcel Damphousse, che ha raccolto il disagio di molti genitori.
L’arcivescovo, infatti, ha ricevuto numerose e-mail da genitori e insegnanti preoccupati, che hanno sottolineato come la bandiera non significhi semplicemente inclusione e tolleranza, ma piuttosto una “dichiarazione politica che incoraggia comportamenti e stili di vita che contraddicono l’insegnamento cattolico”.
“Mettiamo a repentaglio i nostri valori e la speciale identità del sistema scolastico cattolico quando sosteniamo ideologie incompatibili con l’insegnamento cattolico”, ha avvertito l’Arcivescovo che ha sottolineato come la bandiera arcobaleno promuova la divisione, mentre è la croce, segno dell’amore di Dio per ognuno di noi, il simbolo più forte di inclusione.
Tutto questo è stato ignorato dalla direzione delle scuole cattoliche di  Ottawa, che ha giustificato il proprio atteggiamento in una dichiarazione  assicurando che la bandiera arcobaleno -utilizzata dalla lobby gay occidentale, che include settori eretico-scismatici dei cosiddetti cristiani – “mostra alla comunità scolastica che le nostre scuole siano luoghi sicuri e accoglienti per gli studenti “2SLGBTQ +”(sic!).
John Curry, che è stato uno di coloro che hanno votato a favore del provvedimento, ha affermato che la mozione è un passo per offrire equità e inclusione a tutti gli studenti e al personale. “Questa azione, a mio avviso, non ha nulla a che fare con gli insegnamenti della Chiesa cattolica; piuttosto, ha tutto a che fare con la mia responsabilità di amministratore di un sistema educativo finanziato con fondi pubblici”, ha avuto la faccia tosta di dire.
Anche i consigli di amministrazione cattolici di Toronto e Waterloo hanno votato per sventolare la bandiera del Pride. Il consiglio scolastico cattolico del distretto di Halton, invece, ha respinto una mozione simile. Adesso i cattolici canadesi si augurano che venga tolto dalle diocesi coinvolte il nome “cattolico” alle scuole ribelli.

Agli occhi di certuni per governare è indispensabile il passaporto arcobaleno!

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di Matteo Castagna (pubblicato su Informazione Cattolica di oggi)

È IL TEMPO DELL’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ, NON QUELLO D’IMPROBABILI ED IMPROPRIE POLEMICHE PER L’AGENDA DI UN ESECUTIVO CHE NON PARE GUIDATO DA UN IMPULSO IDEOLOGICO, DI FRONTE AD UN PAESE IN GINOCCHIO…

Una delle tante tipicità che caratterizzano gran parte del variegato mondo italico è quello della critica preventiva. Avviene nel calcio con gli allenatori e in politica con i ministri.

Marta Cartabia (nella foto), autorevole esponente del neonato governo Draghi, vicina a Comunione e Liberazione, nel 2014 ha espresso posizioni contrarie all’equiparazione tra nozze tradizionali e unioni civili. All’epoca del caso Englaro criticò il suicidio assistito.

Pur non avendo deleghe direttamente attinenti ai temi etici, il senatore Tommaso Cerno ha chiesto che il premier faccia chiarezza per quanto affermato da Cartabia ed il segretario generale dell’Arcigay Gabriele Piazzoni riconosce come segnale positivo il fatto che ella, da ben sette anni, non proferisca parola in merito alle rivendicazioni Lgbt.

All’epoca, Cartabia replicò alla alle parole d’odio della galassia arcobaleno con un lapidario: “la Corte (costituzionale, n.d.r.) difende i diritti di tutti perché nella laicità positiva dello Stato”. Il capo del Popolo della Famiglia, cioè la microsfera del macro-opinonista Mario Adinolfi ha rinfocolato la polemica sul ddl Zan, in un momento quantomeno inopportuno, dando l’impressione di voler trovare un pretesto per far litigare l’eterogenea maggioranza, più che riattivare un concreto argomento di lotta politica in favore della libertà della famiglia tradizionale.

Ciò che si evidenzia, nell’ambito di questa dialettica, è l’anomalia secondo la quale al governo di un Paese vi debba essere, per forza, gente “gay-friendly”. Continua a leggere