Una delegazione dell’Azov va in gita a Masada
Segnalazione del Centro Studi Federici
Segnalazione del Centro Studi Federici
La propaganda non ci piace. Apprezziamo molto di più l’approfondimento della realtà, laddove possibile (n.d.r.)
di Daniele Perra
Già nel 2016, in occasione del discorso annuale all’Assemblea Generale della Federazione russa, Vladimir Putin, pur ammettendo che il Paese avrebbe attraversato momenti particolarmente difficili, riaffermò che attraverso la sua innata “passionarnost” esso sarebbe comunque riuscito a rinforzare il proprio spirito ed a sconfiggere i tentativi di sfaldamento perpetrati dall’esterno.
Qui il messaggio putiniano, oltre alle categorie della teoria energetico-passionaria di Lev N. Gumilëv, incontrava un’altra particolare scuola di pensiero della Russia contemporanea: quella dei “tempi critici”, riconducibile alla figura dello storico Aleksandr Yanov. Tale corrente (che ha conosciuto una discreta fortuna a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso) si fonda sull’idea che l’autarchia russa verrà ricostruita grazie a spinte “neostaliniane” dopo, appunto, l’istante del “tempo critico”[1].
Questa breve introduzione potrà aiutare il lettore a comprendere che gli eventi di questi giorni vanno inseriti all’interno di un quadro di riforma e cambiamento che non riguardano la sola Russia, ma il mondo nella sua totalità. Questi aspetti esulano dal mero dato bellico del conflitto, oggetto di speculazioni (spesso fini a se stesse) che mai tengono in considerazione la sostanziale differenza tra le categorie polemologiche “occidentali” ed “orientali”: ovvero, tra chi ritiene che solo l’azione è sempre efficace e chi lascia accadere gli eventi. Questa seconda opzione, nello specifico, appartiene a coloro che scelgono di “agire senza agire” anche in condizione di “guerra calda”: dunque, di vincere non solo in virtù della disposizione degli eserciti sul campo, ma attraverso l’attenta valutazione del potenziale della situazione sotto molteplici punti di vista (Kutuzov contro Napoleone, ad esempio).
Di fatto, gli esperti in “giornalismo geopolitico” e gli stessi “analisti militari” (sempre attenti ed abili nel muovere pedine e bandiere sulle cartine geografiche) spesso e volentieri utilizzano con estrema facilità le espressioni “vittoria strategica”, “vittoria tattica”, “successo geopolitico” e così via. Questi, nella maggior parte dei casi ignari delle più basilari nozioni di teoria geopolitica e desiderosi di voler stabilire vincitori e perdenti (con la fretta che caratterizza più la ricerca di visualizzazioni che l’analisi reale), riducono la stessa geopolitica al mero dato bellico, ignorando completamente storia, geografia, così come eventuali prospettive e scenari di medio e lungo periodo.
Tale tendenza, tuttavia, non è di per sé una novità. Sul finire del 1942, Adolf Hitler dichiarava: “Non c’è rapporto dal fronte che non mi confermi che le riserve umane sono ormai insufficienti. I Russi sono indeboliti, hanno perso troppo sangue […] Ma poi come sono male addestrati gli ufficiali russi. Con ufficiali simili non si può organizzare un’offensiva […] Prima o poi il russo si fermerà. Con le gomme a terra”[2]. Meno di tre anni dopo, i Russi erano a Berlino.
Detto ciò, la valutazione dell’attuale situazione di conflitto in Ucraina, a fronte del nuovo ritiro russo da Kherson (ormai indifendibile), non può prescindere dal cercare di trovare risposta ad alcune domande. La prima: può Kiev vincere questa guerra? La risposta è no. Perché? I vertici di governo ucraini continuano a parlare di ritorno ai confini del 1991, ovvero ai confini di quella che Vladimir Putin ha definito “l’Ucraina di Vladimir Lenin” con l’aggiunta della Crimea (letteralmente regalata dall’ucraino Krusciov a Kiev nel 1954 in occasione del 300° anniversario dell’accordo tra lo Zar Alessio I e l’Atamano cosacco Bogdan il Nero). A questo proposito, Putin ha affermato: “L’Ucraina sovietica è frutto della politica dei bolscevichi e può essere a buona ragione definita l’Ucraina di Vladimir Lenin. Lui ne fu creatore e architetto. Ciò è confermato in modo completo ed esaustivo dai documenti d’archivio, comprese le dure istruzioni di Lenin riguardo al Donbass che venne aggregato a forza all’Ucraina. E ora, in Ucraina, la ‘riconoscente progenie’ abbatte i monumenti di Lenin. La chiamano decomunistizzazione”[3]. E ancora: “Se si discute del destino storico della Russia e dei suoi popoli, dunque, i principi di Lenin sullo sviluppo dello Stato non furono solo un errore: furono peggio di un errore”[4].
Questa critica putiniana all’operato bolscevico deriva dal fatto che gli stessi bolscevichi della prima ora (avendo un’idea piuttosto negativa della statualità), oltre ad utilizzare il popolo russo come materiale per i loro esperimenti sociali, sono stati assai generosi nel disegnare i confini delle repubbliche inserite all’interno dell’Unione. Di fatto la loro “politica di localizzazione” è stata accompagnata anche da una forma di “disomogeneizzazione” che prevedeva l’affiancamento di almeno un gruppo minoritario all’etnia dominante all’interno del disegno di ciascuna repubblica, in comunione fraterna con il territorio limitrofo di un’altra repubblica. Ciò, nei piani bolscevichi, avrebbe dovuto evitare l’assunzione da parte del gruppo etnico maggioritario di un potere e di una coesione regionale tali da avanzare eccessive richieste di autonomia. Allo stesso tempo, tale processo investiva il potere centrale del ruolo di protettore delle minoranze e di arbitro in qualsiasi tipo di controversia.
Con il crollo dell’URSS si sono verificati due tipi di problemi: a) le comunità russe oltreconfine hanno rappresentato una sorta di quinta colonna di Mosca per esercitare forme di potere morbido, ma sono anche state oggetto di forme più o meno aggressive di discriminazione (questo, oltre che in Ucraina, si rende sempre più evidente nelle Repubbliche baltiche); b) il processo di scomposizione dell’Unione ha seguito le vecchie linee di frontiera stabilite dai bolscevichi.
Ora, un eventuale ritorno ai confini ucraini del 1991 genera a sua volta altri due problemi: a) una potenziale crisi umanitaria che coinvolgerebbe milioni di russofoni del Donbass sottoposti ad oltre otto anni di incessante discriminazione (basti pensare alla celebre affermazione dell’ex Presidente Petro Poroshenko “i nostri figli andranno all’asilo nido, i loro vivranno nei rifugi”)[5]; b) l’annessione della Crimea alla Russia rimane non negoziabile per Mosca (ed a questo punto anche il collegamento terrestre fra la stessa Crimea ed il Donbass, che consente il totale controllo sul Mar d’Azov). La sovranità sulla Crimea e sul Mar d’Azov, infatti, consente a Mosca il pieno dominio del cosiddetto “sistema dei cinque mari”: una rete idroviaria ideata da Stalin che, attraverso fiumi (Don e Volga) e canali artificiali, connette le principali città interne della Russia occidentale con i mari del nord (Mar Baltico e Mar Bianco) e con quelli del sud (Mar Nero, Mar Caspio, Mare d’Azov). Non solo, il controllo sulla Crimea è fondamentale per la presenza della base navale di Sebastopoli, che riveste un’importanza cruciale per la proiezione di influenza russa nel Mar Nero (anche in termini di protezione delle infrastrutture per il trasporto del gas tra il territorio russo e quello turco).
Dunque, ogni tentativo ucraino di “riconquista” della Crimea potrebbe realmente incrementare in modo esponenziale la spirale bellica e spingere Mosca all’utilizzo di strumenti finora rimasti in disparte. Questo gli strateghi della NATO (che dirigono l’iniziativa ucraina) e del Pentagono lo sanno perfettamente. Non a caso, lo scopo della reiterata offensiva (nonostante un volume di perdite estremamente alto), più che il ritorno della regione sotto la diretta sovranità di Kiev, ha l’obiettivo di creare le condizioni per una destabilizzazione permanente della penisola e dell’area ad essa circostante. Ciò ad ulteriore dimostrazione del fatto che (soprattutto) a Washington sanno altrettanto perfettamente che una “vittoria totale” di Kiev rimane una prospettiva di assai difficile attuazione (nonostante l’ingente immissione di materiale bellico e mercenari sul suolo ucraino) in un momento in cui un fronte più corto e nuove forze consentono a Mosca di difendere meglio le proprie posizioni.
Inoltre, a prescindere dal computo dei chilometri quadrati di territorio abbandonato riconquistati da Kiev, l’Ucraina, a differenza di una Russia che continuerà a reggersi sulle proprie gambe, uscirà dal conflitto disastrata sul piano socio-economico e totalmente dipendente dai fondi europei per la sua ricostruzione. Come avvenuto nei Balcani, gli Stati Uniti, isolazionisti a seconda della convenienza del momento, dopo aver giocato un ruolo di primo piano nel favorire la distruzione del Paese, si tireranno indietro nell’istante in cui si dovrà investire per la ricostruzione.
Questo impone un altro quesito: quali prospettive per l’Europa? Se una “vittoria totale” dell’Ucraina è impossibile ed impensabile, la posizione dell’Europa continua a peggiorare. Nello specifico, l’efficace penetrazione nel Sahel (soprattutto a spese della Francia) consentirà alla Russia di poter utilizzare una nuova arma di ricatto (oltre a quella del gas) nei confronti dell’UE: quella del controllo dei flussi migratori come parte di un più articolato piano di “accerchiamento geopolitico” della NATO (ad evidente dimostrazione del carattere globale di un conflitto che non può assolutamente essere ridotto agli eventi bellici ucraini). Gli effetti congiunti della crisi energetica, del confronto bellico in Ucraina e della degermanizzazione dell’UE voluta da Washington, inoltre, pongono seri debbi sulla tenuta di un continente divenuto rapidamente ostaggio dell’ala oltranzista dell’atlantismo, ben rappresentata da una Polonia (iperarmata e religiosamente radicalizzata) che sogna di rivestire (nuovamente) il ruolo di antemurale contro la “barbarie russa”.
[1]Si veda A. Yanov, The Russian challenge and the year 2000, Blackwell Publisher 1987.
[2]Contenuto in A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Mondadori, Milano 2021, p. 374.
[3]Contenuto in P. Callegari, Contro “l’impero delle menzogne”. L’Operazione Militare Speciale in Ucraina e la fine della globalizzazione nei discorsi di Vladimir Putin, Edizioni di Ar, Padova 2022, p. 63.
[4]Ibidem, p. 62.
[5]Si veda il documentario del 2016 di Anne-Laure Bonnel Donbass (www.youtube.com).
Fonte: https://www.eurasia-rivista.com/la-ritirata-da-kherson/
QUINTA COLONNA
Una combattente di Azov asserragliata all’Azovstal. Il video ripreso da un cellulare. I “resistenti” all’assalto russo che intonano una canzone, l’odierna “Bella Ciao” come scrive qualcuno. È il video, pubblicato sui social e raccontato anche dai media italiani, su cui si sta discutendo in queste ore. Ovvero il canto dei soldati che difendono l’ultima postazione ucraina a Mariupol.
Perché se ne discute? Lo spiega Toni Capuozzo, molto critico sulla posizione che i media occidentali hanno preso rispetto al Battaglione (ormai un reggimento) accusato in passato di simpatie neonaziste. “Non so se sia vero che i “resistenti” dell’Azovstal abbiano chiesto una tonnellata di cibo per ogni quindici civili da rilasciare: la fonte è russa, e ovviamente non farebbe loro onore – scrive lo storico inviato di guerra sui suoi canali social – So quel che leggo sul Corriere della Sera di oggi, che li descrive come dei soldati Ryan da salvare, e paragona la loro canzone a Bella Ciao. Peccato che inneggi a Stepan Bandera, eroe del collaborazionismo con i nazisti. Non è l’unico equivoco: il Primo maggio dal concertone di Roma hanno spedito i saluti a Kiev, senza accorgersi che quella festività è abolita in Ucraina dal 2014″. La seconda strofa della canzone infatti dice: “L’Ucraina è la nostra madre e Stepan Bandera è nostro padre”.
Su Stepan Bandera molto si è detto e scritto. Ucciso a Monaco nel 1959, questo nazionalista ucraino divide la società: amato nella parte occidentale, viene considerato un fondamentalista nazista nelle zone ad Est. Quelle a maggioranza russofona. Nel 2018 vi furono non poche polemiche quando il Parlamento di Kiev decise di festeggiare come festa nazionale il compleanno del discusso combattente. Il leader dell’Oun, Organizzazione dei nazionalisti ucraini, è infatti accusato di aver collaborato con Hitler anche se oggi per il Corriere diventa “patriota dell’Ucraina libera, irredenta e democratica”.
Secondo quanto riporta ilGiornale, “a partire dal febbraio del 1943 i nazionalisti ucraini cominciarono ad attaccare la popolazione polacca dell’oblast di Volyn’. L’Upa e l’Oun attaccarono oltre cento villaggi polacchi sterminando oltre centomila persone, in maggioranza donne, bambini e anziani”. Per questo in Polonia viene considerato un criminale, così come le attività dei due movimenti nazionalisti. Non solo. Anche il Parlamento europeo, in una risoluzione approvata il 25 febbraio del 2010, scrisse di “deplorare profondamente la decisione del Presidente uscente dell’Ucraina, Viktor Yushchenko, di attribuire a Stepan Bandera, uno dei leader dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN), che ha collaborato con la Germania nazista, il titolo postumo di «Eroe nazionale dell’Ucraina»; auspica, a questo proposito, che la nuova dirigenza ucraina riveda tali decisioni e mantenga il suo impegno nei confronti dei valori europei”
di Luciano Lago
Mosca afferma che mercenari israeliani hanno combattuto a fianco delle truppe ucraine contro le forze russe negli ultimi mesi di conflitto. Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha detto mercoledì alla radio Sputnik in un’intervista che i militanti israeliani erano attivi sul campo insieme al reggimento di estrema destra Azov, che opera sotto il comando dell’esercito ucraino dal 2014. I mercenari israeliani sono praticamente spalla a spalla con i militanti Azov in Ucraina.
Azov è salito alla ribalta nel 2014, quando i suoi attivisti di estrema destra hanno preso le armi per combattere i separatisti filo-russi nella regione orientale del Donbass, in Ucraina. I suoi membri fanno ora parte delle forze ucraine nella città portuale di Mariupol, rintanata all’interno dell’acciaieria Azovstal, contro la quale martedì le forze russe hanno lanciato un grande attacco.
La Russia vede i membri dell’Azov come “fascisti” e “nazisti”. (Per l’Occidente i militanti di Azov sono “bravi ragazzi”). Il 1° maggio, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha affermato che Adolf Hitler aveva “sangue ebreo”. Questo ha alimentato il già ardente fuoco della guerra. Il principale diplomatico russo, parlando al canale Rete 4 di Mediaset, ha affermato che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky “avanza un argomento su che tipo di nazismo possono avere se lui stesso è ebreo”.
Martedì, il ministero degli Esteri russo ha affermato che “le origini ebraiche del presidente (Zelensky) non sono una garanzia di protezione contro il neonazismo dilagante nel Paese”. Il regime israeliano aveva convocato lunedì l’ambasciatore russo per “chiarimenti”. Il Cremlino ha criticato il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid per aver accusato Mosca di aver commesso crimini di guerra in Ucraina. Ad aprile, il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha accusato la Russia di aver commesso crimini di guerra in Ucraina. Mosca ha risposto, accusando Israele di usare l’Ucraina per “distogliere” l’attenzione globale dalla sua aggressione contro i palestinesi.
Il 24 febbraio il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato l’operazione in Ucraina. Il conflitto ha provocato una risposta unanime da parte dei paesi occidentali, che hanno imposto una lunga serie di sanzioni a Mosca. La Russia afferma che interromperà immediatamente l’operazione se Kiev soddisferà l’elenco di richieste di Mosca, inclusa la non domanda di adesione alla NATO.
Israele ha espresso solidarietà all’Ucraina ma, a differenza dei suoi alleati occidentali, si è astenuto dall’imporre sanzioni formali alla Russia.
Foto: Controinformazione.info
6 maggio 2022
Fonte: https://www.ideeazione.com/mercenari-israeliani-combattono-per-lucraina-contro-la-russia/
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