Ucraina: radici e conseguenze della crisi

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del Prof. Roberto De Mattei

Lo “show” mediatico tra Biden e Putin sfocerà in una guerra reale tra Russia e Ucraina, destinata a coinvolgere anche l’Europa? Tutto è possibile, nell’era dell’imprevedibile. In questo caso non si tratterebbe di una guerra civile interna all’Ucraina, ma di un conflitto internazionale che vedrebbe di fronte la Russia e l’Occidente. Però i due contendenti non hanno nessun interesse a uno scontro militare di questo tipo, a meno che nel clima di esasperazione di toni artificialmente creato, un evento inatteso non modifichi le strategie in campo.

Il nome Ucraina (Ukraïna) è etimologicamente legato al termine slavo «kraj» (limite, bordo), che indica una «terra di confine». L’Ucraina è infatti, una vasta pianura dagli incerti confini, densamente popolata, ricca di risorse agricole e minerarie. Le origini storiche di questa terra sono antiche: fu chiamata Scizia dai greci e Sarmatia dai romani. Dal medioevo fino alla caduta dell’Impero austro-ungarico fu conosciuta in Occidente come Rutenia, mentre in Russia, era chiamata “Piccola Russia”, per affermare la sua appartenenza all’Impero degli Zar.

L’Ucraina è infatti la culla della Russia, la cui nascita risale alla conversione al Cristianesimo del principe Vladimir I (980-105), detto il Santo. Il Regno di Kiev da lui fondato fu il più antico Stato slavo cristiano, che si estese dal Baltico al Mar Nero, fino ai Carpazi, costituendo una delle Confederazioni più importanti dell’Europa medioevale. Però nel 1240 questo vasto regno fu quasi completamente distrutto dai mongoli, la cui dominazione si protrasse per oltre 250 anni.

Il regno di Kiev, pur aderendo allo scisma di Oriente (1054), aveva fatto parte della Cristianità occidentale. Lo Stato moscovita che si affermò nel XVI secolo, dopo la liberazione dai mongoli, sviluppò l’eredità di Bisanzio in senso antieuropeo. Sebbene con Pietro il Grande la Russia fosse entrata a far parte del sistema degli Stati europei, l’impero zarista fu sempre percepito come una minaccia dagli altri Stati del vecchio continente per la sua connotazione asiatica e il suo carattere autocratico.

Nel corso dei secoli l’Ucraina fu più volte smembrata e sottoposta, di volta in volta, ai Granduchi lituani e ai re di Polonia, all’Impero russo e a quello austriaco, ma rimase culturalmente legata all’Occidente e i suoi abitanti rifiutarono sempre i termini di ‘piccola Russia’ o ‘nuova Russia’ (‘Novorossija’), usati dagli Zar e oggi riproposti da Putin.

Dopo il crollo dell’Impero zarista durante la Prima guerra mondiale, gli Imperi centrali, con il Trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, imposero ai bolscevichi il riconoscimento dell’Ucraina indipendente. L’Armata rossa, nel suo intento di esportare la Rivoluzione in Occidente, attaccò la Polonia, ma nell’agosto del 1920 fu sconfitta sulla Vistola dal generale Józef Piłsudski (1867-1935), che passò al contrattacco, tentando di riconquistare i territori dell’antica Confederazione polacco-lituana. Il Trattato di Riga, firmato il 18 marzo 1921 dalla Polonia da un lato e dalla Russia e dall’Ucraina dall’altro, segnò il fallimento del progetto di Piłsudski e, come scrive il conte Emmanuel Malinsky (1875-1938), può essere considerato il vero giorno di nascita dello Stato bolscevico (Les Problèmes de l’Est et la Petite-Entente, Librairie Cervantes, Paris 1931, p. 300).  Nel 1922 l’Ucraina entrò ufficialmente a far parte dell’URSS, con l’eccezione della Galizia e della Volinia, assegnate alla Polonia. Da allora, se si eccettua l’occupazione nazionalsocialista del 1941-1943, restò sovietica fino alla proclamazione della sua indipendenza, l’8 dicembre 1991.

L’Ucraina post-sovietica sta cercando di entrare nella Nato e nell’Unione Europea, per difendersi dall’egemonia Russa, mentre Mosca vuole preservare la propria influenza su una nazione con cui condivide oltre 1500 chilometri di confine. Il conflitto in corso è anche una “guerra del gas” in cui è in gioco il futuro energetico dell’Europa. Da una parte c’è la Russia, che è il principale fornitore del nostro continente; dall’altra gli Stati Uniti, che vogliono entrare nel mercato europeo con il loro Gnl (Gas naturale liquido) che viene trasportato sulle navi e costa più di quello della Russia che arriva con le pipeline.

Il problema però non è solo economico. Putin, si propone di restituire alla Russia una nuova coscienza imperiale ed è deciso a non tollerare ulteriori espansioni a Est della Nato dopo l’adesione delle Repubbliche baltiche e dei Paesi dell’ex-Patto di Varsavia. Come osserva il politologo Alexandre Del Valle, «tutta la politica estera di Vladimir Putin si inserisce in questa forte tendenza della geopolitica russa tradizionalmente orientata alla conquista territoriale delle aree che circondano il suo nucleo storico centroeuropeo. In questo sistema, l’Ucraina rappresenta ovviamente il fulcro che permette alla Russia di tornare ad essere una potenza eurasiatica perché, da questo Paese, la Russia può proiettarsi sia sul Mar Nero e sul Mediterraneo orientale che sull’Europa centrale e balcanica. Da qui la strategia americana volta a sostenere in Ucraina, come in Georgia e altrove, le forze politiche ostili a Mosca» (La mondialisation dangereuse, L’Artilleur, Paris 2021, p. 99).

Il prof. Massimo de Leonardis ricorda le parole di Zbigniew Brzesinski (1928-2017) che riassumono la sostanza del problema. «Senza l’Ucraina la Russia cessa di essere un Impero, ma se sottomette l’Ucraina diventa automaticamente un Impero» (Prefazione a Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina, Carocci, Roma 2021, p. 12). In questa prospettiva, la Russia, sposta le sue truppe ai confini con l’Ucraina, per non essere accerchiata dalla Nato, ma la Nato mette in allerta i suoi soldati per difendere l’Ucraina dall’accerchiamento della Russia.

Per chi vede le cose con gli occhi della fede, al di là degli interessi geopolitici contrapposti, di Biden e di Putin, la prima domanda da porsi riguarda il bene delle anime. Sotto quest’aspetto, che per noi è il più importante, non possiamo dimenticare che l’Ucraina è il centro della Chiesa greco-cattolica ucraina, di rito bizantino, con sede in Kiev, dove l’arcivescovo Svjatoslav Ševčuk, occupa oggi la cattedra arcivescovile che fu dell’intrepido cardinale Josyp Slipyj (1892-1984), deportato per 18 anni nei lager comunisti. Inoltre nella regione ucraina della Transcarpazia esiste anche la Chiesa greco cattolica rutena di rito bizantino, che conta tra i suoi martiri l’eparca Teodoro Romža, assassinato su ordine di Nikita Chruščëv, il 1º novembre 1947 e beatificato da papa Giovanni Paolo II, il 27 giugno 2001. Oggi costituisce l’eparchia di Mukačevo, immediatamente dipendente dalla Santa Sede.

L’espansionismo della Russia non corrisponde solo alle ambizioni geopolitiche di Putin, ma anche alla richiesta del Patriarcato di Mosca di esercitare la propria autorità religiosa in tutto lo spazio ex-sovietico, contro quelle che esso definisce le indebite ingerenze del Patriarcato di Costantinopoli e soprattutto del Vaticano. Putin, da parte sua, è consapevole del fatto che la Russia non può fare a meno dei suoi legami con la chiesa ortodossa, che conferisce al regime legittimità morale e supporto in termini di consenso.   L’annessione da parte di Putin dell’Ucraina, o di una parte di essa, rappresenterebbe una russificazione del paese che rafforzerebbe il ruolo della chiesa ortodossa russa a scapito di quella cattolica di rito bizantino. Gli interessi politici dei cattolici non coincidono né con quelli di Putin né con quelli di Biden, ma sul piano religioso, che è il più elevato, bisogna respingere ogni forma di espansione del Patriarcato di Mosca nelle terre slave e forse domani in Occidente. La Chiesa cattolica attraversa oggi una grave crisi interna, ma la soluzione a questa crisi può venire solo dalla parola di Verità della Chiesa di Roma, non certo dal «Drang nach Westen», la spinta verso Occidente dall’autocefalia ortodossa.

Russia, Ucraina e poi?

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di Patrick Armstrong

Fonte: Come Don Chisciotte

Per Mosca, l’Ucraina non è il problema, lo è Washington. O, come direbbe Putin: Tabaqui fa quello che Shere Khan gli dice e non ha senso trattare con lui, andate direttamente da Shere Khan. Questo è ciò che Mosca sta cercando di fare con le sue proposte di trattato.

Per la stessa ragione, Mosca non si preoccupa di ciò che dice l’UE o la NATO, ha capito che sono anch’essi dei Tabaqui.

A Washington l’attuale meme propagandistico è che la Russia sta per “invadere l’Ucraina” e assorbirla. Non lo farà: L’Ucraina è un Paese decadente, impoverito, deindustrializzato, diviso e corrotto; Mosca non vuole assumersene la responsabilità. Mosca è pienamente consapevole che, anche se le sue truppe sarebbero accolte a braccia aperte in molte regioni dell’Ucraina, in altre questo non succederebbe. Infatti, a Mosca sono del parere che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Stalin avrebbe fatto meglio a restituire la Galizia alla Polonia, piuttosto che annetterla alla Repubblica Socialista dell’Ucraina, in questo modo avrebbe scaricato il problema sulle spalle di Varsavia. Questo, comunque, non esclude come atto finale [per Mosca] l’eventuale assorbimento della maggior parte della Nuova Russia.

La seconda illusione di Washington è che se Mosca “invadesse l’Ucraina” inizierebbe l’attacco il più lontano possibile da Kiev, con i carri armati in fila indiana, in modo che le armi anticarro fornite dagli Stati Uniti possano far pagare ai Russi un costo pesante. Questo non è assolutamente ciò che farebbe Mosca, come spiega Scott Ritter. Mosca userebbe armi a distanza per obliterare le posizioni delle truppe ucraine, i centri di comando, controllo e intelligence, le aree di assemblaggio, le posizioni di artiglieria, i depositi di munizioni, i campi di aviazione, i porti ecc. A sua scelta. Finirebbe tutto così rapidamente che non ci sarebbe neanche il tempo di tirar fuori dagli imballi i missili Javelin. Ma questa è l’opzione estrema, come spiega Ritter.

Sfortunatamente i Blinken, i Sullivan, i Farkas, i Nuland e quelli che sembrano guidare la politica USA non capiscono nulla di tutto ciò. Continuano ad essere convinti che gli Stati Uniti siano una vera potenza, che la Russia sia debole e in declino, che la posizione di Putin sia traballante, che le sanzioni servano a qualcosa, che l’economia russa sia fragile e così via. E pensano di capire cosa sia una guerra moderna. Tutto negli ultimi vent’anni contraddice il loro punto di vista, ma loro continuano a crederci.

Prendete, ad esempio, Wendy Sherman, la principale negoziatrice americana a Ginevra questo mese. Guardate la sua biografia su Wikipedia. Assistente sociale, responsabile dei finanziamenti per i candidati del Partito Democratico, manager di campagne politiche, Fanny Mae [Federal National Mortgage Association], nominata da Clinton al Dipartimento di Stato, negoziatrice con l’Iran e la Corea del Nord. C’è qualcosa in questo curriculum che indichi una qualsiasi conoscenza o comprensione della Russia o della guerra moderna? (O magari della capacità di condurre negoziati?) Eppure, è lei quella che si occupa del problema. Jake Sullivan: avvocato, curatore di dibattiti, consigliere politico, idem.

Probabilmente ci sarà qualche generale americano che vede la realtà – certamente c’è chi ha parlato della formidabile difesa aerea della Russia o delle sue capacità nelle contromisure elettroniche; altri si rendono conto di quanto sarebbe debole la NATO in una guerra alle porte della Russia. Ma, come sottolinea il colonnello Lang, forse no.

Il problema è l’eccessiva fiducia radicata nel nulla. Mosca ha fatto una proposta che si basa su una posizione innegabilmente vera, quella che la sicurezza è reciproca. Se una parte minaccia l’altra, allora quella minacciata prenderà provvedimenti per rafforzare la propria posizione e il livello di minaccia aumenterà sempre di più. Durante la Guerra Fredda entrambe le parti si erano rese conto che c’erano dei limiti, che le minacce erano pericolose e che negoziare avrebbe impedito che accadessero cose peggiori. Ma ora Washington è persa nel suo delirio di eterna superiorità.

La cosiddetta “trappola di Tucidide” è il nome dato ad una condizione in cui una potenza (Sparta allora, USA oggi) teme l’ascesa di un forte concorrente (Atene allora, Cina e Russia oggi) e inizia una guerra per la paura che la sua posizione possa solo indebolirsi. La brutale verità è che quel punto è già stato superato: Russia+Cina sono più potenti degli USA e dei suoi alleati in ogni campo – più acciaio, più cibo, più armi, più laureati STEM [science, technology, engineering and mathematics], più ponti, più soldi – più tutto. NATO/USA perderebbero una guerra convenzionale – i wargamers militari americani questo lo sanno benissimo.

In breve, come può Mosca costringere queste persone a vedere la realtà? Ecco, in una parola, il problema: se saranno in grado di vederla, allora sarà possibile sperare in qualcosa di meglio; se non potranno, allora bisognerà prepararsi al peggio. Per il bene di tutti – anche dell’America – Washington deve prestare attenzione alle preoccupazioni di Mosca sulla sicurezza e ridurre la sua aggressività. Mosca lo ha chiesto – in realtà lo ha preteso – e non è ancora chiaro se il tentativo sia fallito. La reazione negativa dei Tabaqui non ha importanza – Mosca ha parlato con loro solo per una questione di forma – è la risposta di Shere Khan che conta. E non l’abbiamo ancora avuta.

Forse la rivoluzione colorata appena andata a gambe all’aria in Kazakistan è stata la risposta di una parte dello stato profondo USA/Borg ma, se così fosse, è stata una rapida e potente dimostrazione da parte del Deep State USA di quanto scarsa sia la sua comprensione del vero rapporto di forze.

Aspettiamo la risposta finale di Washington, ma, al momento, le prospettive non sono molto incoraggianti: le minacce a buon mercato e gli editoriali autocompiacenti si sprecano.

Allora qual è il piano B di Mosca?

Ho elencato altrove alcune delle risposte che riesco ad immaginare e anche altri lo hanno fatto. Sono del parere che Mosca dovrebbe fare qualcosa di piuttosto drammatico per rompere la compiacenza. Vedo tre possibilità.

È dal 1814 che gli Stati Uniti non vengono minacciati con un attacco convenzionale sul loro territorio nazionale; la Russia ha diversi modi per farlo. Il problema sarà rivelare la minaccia in un modo che non possa essere negato o nascosto. Una dimostrazione delle capacità del Poseidon contro qualche isola remota seguita dall’annuncio che un numero significativo è già schierato vicino alle città costiere degli Stati Uniti?

Washington deve essere messa di fronte ad una dimostrazione dell’immenso potere militare distruttivo della Russia, in modo che non possa più far finta di niente. L’Ucraina è il terreno naturale per una dimostrazione del genere. (Vedi Ritter).

Una mossa diplomatica che cambia il mondo, come un’alleanza militare formale con la Cina, con la clausola che un attacco ad uno dei due sarà considerato un attacco ad entrambi. Questa sarebbe una dimostrazione di un correlazione di forze che impressionerebbe anche i più fanatici. L’Eurasia di Mackinder, più popolazione, più produzione, più STEM, più risorse, più potenza militare e navale unite in un patto militare.

Vedremo. I negoziati non sono finiti e potrebbe uscirne qualcosa di positivo. Doctorow, un osservatore capace, dà qualche speranza. Ma, per arrivare ad un risultato migliore ci vorrebbe un cambiamento piuttosto importante nell’atteggiamento di Washington.

Possiamo sperare. La posta in gioco è alta.

Fonte: www.turcopolier.com
Link: https://turcopolier.com/russia-ukraine-et-al-what-next/
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

UcrainaUcraina – Ebook

IL REGALO DI NATALE DI BIDEN: PIU’ ABORTI X TUTTI

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Segnalazione di Redazione BastaBugie

L’ONU nomina direttore esecutivo dell’Unicef un’assistente super abortista del presidente Biden, mentre il presidente Giammattei trasforma il Guatemala nel cuore pulsante dei pro life dell’America latina
di Luca Volontè

Biden ‘nomina’ superabortisti e liberalizza le kill pills. Avete letto bene. Proprio lo scorso 9 dicembre, il presidente degli Stati Uniti ha nominato Geeta Rao Gupta a capo dell’importante Ufficio per le questioni femminili globali presso il Dipartimento di Stato. La Gupta, come ha dichiarato la Presidente di Planned Parenthood, Alexis McGill Johnson, “giocherà un ruolo chiave” nel promuovere “la salute e i diritti sessuali e riproduttivi nelle politiche estere degli Stati Uniti”.
Il giorno seguente, il 10 dicembre, le Nazioni Unite hanno invece annunciato la nomina di Catherine Russell, un’assistente (super abortista) del Presidente americano Joe Biden, come prossimo direttore esecutivo dell’agenzia per l’infanzia Unicef. Un’abortista incallita all’Unicef per aiutare i bambini a non morire di fame o stenti?
La furia abortista della nuova amministrazione Usa non si è però placata ma anzi, la FDA (agenzia che autorizza la vendita di farmaci), ha recentemente deliberato l’autorizzazione della distribuzione su tutto il territorio federale delle pillole abortive (le kill pills), un tentativo nemmeno troppo mascherato di bypassare le nuove leggi che in alcuni stati stanno limitando l’aborto.
La F.D.A. permetterà dunque di vendere e ricevere le pillole abortive (RU-486 o Mifeprex) per posta. La decisione amplierà l’accesso all’aborto farmacologico, metodo sempre più comune autorizzato negli Stati Uniti per gravidanze fino a 10 settimane di gestazione, che diventerà quindi più disponibile per le donne. Con ciò si permette alle donne di avere un appuntamento di telemedicina con una delle tante multinazionali dell’aborto che potranno prescrivere le pillole e inviarle per posta. A queste decisioni incredibili hanno reagito con una serie di dure dichiarazioni moltissimi leader delle organizzazioni pro life americane e la stessa Conferenza Episcopale Cattolica degli USA.
Tra gli altri, Nicole Hudgens, della ‘Family Policy Alliance’, ha detto che è l’industria dell’aborto da miliardi di dollari che beneficia della nuova decisione, non le donne. Parlando con Fox News, Kristan Hawkins, presidente di ‘Students for Life’, ha definito l’amministrazione Biden “sconsiderata” e “folle” nel suo disinteresse per la sicurezza delle donne e dei bambini. Il regalo di ‘buon Natale’ di Biden è dunque un gran dono per le industrie abortiste e a pagarlo saranno i bambini e le donne americane.

Nota di BastaBugie: Luca Volontè nell’articolo seguente dal titolo “Guatemala, un presidente cattolico che protegge la vita” parla del presidente del Guatemala che ha dichiarato il suo Paese diventerà la capitale pro-vita dell’America Latina sin dall’inizio del prossimo anno 2022.
Ecco l’articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18 dicembre 2021:

Il presidente del Guatemala ha dichiarato il suo Paese diventerà la capitale pro-vita dell’America Latina sin dall’inizio del prossimo anno 2022, mentre Biden nomina abortisti in ruoli nevralgici della sua Amministrazione e nell’Unicef. C’è modo e modo di essere cattolici in politica.
La notizia ha fatto il giro del mondo, grazie alla stampa cattolica e delle diverse denominazioni cristiane, il Presidente Alejandro Giammattei ha annunciato la sua intenzione di fare del Guatemala la capitale della vita dell’America Latina durante un discorso tenuto al Willard Hotel di Washington, D.C., lo scorso 6 dicembre. Giammattei ha pronunciato il suo discorso come ospite d’onore in un evento ospitato dall’Institute for Women’s Health, un’organizzazione pro-vita fondata dall’un ex dirigente del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani dell’amministrazione Trump, Valerie Huber e dall’International Human Rights Group (altro istituto americano che promuove i diritti umani a partire dal quelli del bimbo concepito). Come notato in una dichiarazione dell’Institute for Women’s Health, Giammattei non è stato invitato al ‘Democracy Summit’ organizzato dal presidente Joe Biden, dove si sono riuniti diversi leader delle democrazie del mondo (alcune dei quali erano tiranni tagliagole).
Il Guatemala non è stato invitato a partecipare al vertice, forse le differenze sul diritto alla vita sono state la ragione fondamentale per l’omissione del paese. Nel suo discorso all’evento Giammattei aveva ampiamente presentato la sua passione e condivisione convinta per le iniziative e le sfide che i sostenitori della vita stanno affrontando e aveva annunciato che il Guatemala diventerà la capitale della vita dell’Ibero-America il 9 marzo 2022: “Ogni persona merita di avere la propria vita protetta, dal concepimento alla morte naturale. (…) È totalmente falso che l’aborto sia un diritto umano. Qualsiasi sforzo per cercare di imporre l’aborto in un Paese è un’interferenza indebita negli affari internazionali”. L’Associazione per la Famiglia’ del Guatemala (AFI) ha accolto con favore il recente annuncio del presidente Alejandro Giammattei e, in una dichiarazione, ribadito che “è il risultato di anni di lavoro, sia da parte della società civile e delle organizzazioni che lavorano attivamente per sostenere la vita, la famiglia e la libertà, così come di funzionari di diverse amministrazioni pubbliche”.
Gli ha fatto eco uno dei leader evangelici Aàron Lara che ha aggiunto come l’intenzione di Giammattei sia stata ufficialmente dichiarata dinnanzi al Congresso Intermericano per la Vita, all’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e davanti a funzionari del governo degli Stati Uniti, e che si inaugurerà “un monumento per la vita come di questo evento nella storia” del Paese. Non è la prima volta che il Presidente del Guatemala dimostra la il suo impegno sui temi della vita, come della famiglia naturale. Giammattei aveva firmato per il suo Paese, lo scorso 12 ottobre, la ‘Dichiarazione di Consenso di Ginevra’, promossa da Trump e rinnegata da Biden, in cui si dichiara che “non esiste un diritto internazionale all’aborto”. L’imminente riconoscimento del Guatemala come capitale pro-vita dell’America Latina è l’ennesimo esito di un buon governo attento alla vita, educazione infantile, tutela delle donne e della famiglie nel Paese, che durante l’estate, ha approvato un piano ventennale (2021-2032) di politica pubblica interministeriale per la protezione della vita e della famiglia.
Eletto l’11 agosto del 2019, come avevamo profeticamente descritto, sino al 2024 il Presidente Giammatei ha tutto il tempo necessario per fare del proprio Paese il vero cuore pulsante dei pro life dell’America latina. Il Paese è con lui ed anche le proteste della scorsa estate, tutt’altro che spontanee, sono di fatto svanite nel nulla, davanti alla ‘carovana’ popolare per la famiglia che si conclusa proprio nella piazza della capitale l’8 agosto. Le potentissime lobbies LGBTI e le multinazionali abortiste, messe fuorilegge in Guatemala, hanno mostrato la loro sete di vendetta ed il loro enorme potere, con l’eliminare il Guatemala dalle lista, come peraltro l’Ungheria, dalla lista dei ‘paesi democratici’ dell’Amministrazione Biden. Sì, proprio il ‘cattolico devoto’ che siede alla Casa Bianca, non solo ha evitato il confronto sulla democrazia con Giammattei, ma ha fatto di più e di peggio. Negli stessi giorni, il 9 dicembre, Biden ha nominato Geeta Rao Gupta a capo dell’importante Ufficio per le questioni femminili globali presso il Dipartimento di Stato. La Gupta, come ha dichiarato la Presidente di Planned Parenthood, Alexis McGill Johnson, “giocherà un ruolo chiave” nel promuovere “la salute e i diritti sessuali e riproduttivi nelle politiche estere degli Stati Uniti”.
Biden non si è fermato qui: il 10 dicembre le Nazioni Unite hanno annunciato la nomina di Catherine Russell, un’assistente (super abortista) del presidente americano Joe Biden, come prossimo direttore esecutivo dell’agenzia per l’infanzia Unicef. Ci pensate? Un’abortista incallita all’Unicef per aiutare i bambini. C’è cattolico e cattolico in politica, ma c’è anche una democrazia che preserva la vita e un’altra che colonizza il mondo con omicidi e ideologie tiranniche.

Titolo originale: Il regalo di Natale di Joe Biden. Più aborti per tutti
Fonte: Provita & Famiglia, 23 dicembre 2021

Usa: sdoganato l’aborto, “salta” l’obiezione di coscienza

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Mauro Faverzani

Quanto accaduto a fine ottobre in Vaticano ha lasciato il segno. E non poteva essere altrimenti. Il fatto che, dopo l’incontro avuto, papa Francesco si sia detto felice che il presidente americano Biden «sia un buon cattolico» ed abbia dichiarato ch’egli debba «continuare a ricevere la Comunione», secondo quanto dichiarato dall’interessato, pur in assenza di conferme dirette da parte del Vaticano, non può passare sotto silenzio. Il fatto che, come riferito dall’agenzia Associated Press, l’attuale inquilino della Casa Bianca con le sue idee filoabortiste abbia ricevuto nonostante tutto, come tutti gli altri fedeli, la Santa Comunione nel corso di una Messa, celebrata presso la chiesa di St. Patrick, a Roma, vuole essere – ed è! – un segno molto chiaro. Il cui primo, triste frutto è stato l’atteso testo generale sul Mistero dell’Eucaristia nella vita della Chiesa, approvato dai Vescovi statunitensi al termine della loro assemblea autunnale, svoltasi dal 15 al 18 novembre scorsi a Baltimora, con ben 222 voti favorevoli, solo 8 contrari e 3 astensioni. Nel documento, proposto un anno fa per ribadire quel che la Dottrina cattolica dice a chi, anche se presidente, pur dichiarandosi cattolico, si opponga agli insegnamenti della Chiesa promuovendo aborto e gender, è improvvisamente sparito qualsiasi riferimento al fatto di negare a lui o a chiunque altro la Santa Comunione, ricordando soltanto ai fedeli, che rivestano cariche pubbliche e che occupino posizioni d’autorità, come essi abbiano «una speciale responsabilità» nel dover rispettare la legge della Chiesa. Tutto qui. Nessuna condanna, nessun provvedimento, nessuna restrizione.

Del resto, era già tutto contenuto nella lettera inviata nel maggio scorso dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Louis Ladaria, al presidente della Conferenza episcopale americana, l’arcivescovo di Los Angeles José Gomez. In essa si invitava espressamente al dialogo, raccomandando di evitare che «la formulazione di una politica nazionale» su di una questione «potenzialmente controversa» (sic!)possa diventare «fonte di discordia piuttosto che di unità all’interno dell’episcopato e della più grande Chiesa negli Stati Uniti». Per poi concludere, specificando come ogni discussione in merito debba «essere contestualizzata nella più ampia cornice della dignità di ricevere la Comunione da parte di tutti i fedeli, anziché da parte di una sola categoria di cattolici», ritenendo il documento dei Vescovi Usa, allora in fase ancora embrionale, «fuorviante se desse l’impressione che l’aborto e l’eutanasia costituissero da soli le uniche questioni gravi dell’insegnamento morale e sociale cattolico, che richiedono l’intervento della Chiesa».

Dunque, «Roma locuta, causa soluta»? No, certo! Biden e le lobby abortiste, che lo hanno sostenuto durante la campagna elettorale, non considerano questo un punto di arrivo, bensì solo un punto di partenza. Intendono anzi “capitalizzare” il via libera vaticano, per rilanciare. Ed ecco l’Ufficio per i Diritti Civili ed il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani lanciati in una nuova sfida: cancellare i provvedimenti dell’amministrazione Trump, in particolare l’Rfra-Religious Freedom Restoration Act, e costringere così i medici e le cliniche cattolici a praticare aborti ed interventi di transizione di genere. Grazie ai documenti giudiziari ottenuti, la Catholic Benefits Association ha dimostrato una stretta relazione sussistente tra il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani americano e numerose organizzazioni attiviste di Sinistra, come la Leadership Conference on Civil and Human Rights.

L’eventuale prevalere della linea Biden ammazzerebbe il diritto a qualsiasi obiezione di coscienza, nonché l’autonomia della Sanità cattolica (e non solo). Se ad un posto in una clinica cattolica ambisse un medico abortista, questi dovrebbe essere comunque assunto, benché in chiaro contrasto coi principi etici della struttura.

Non solo. L’amministrazione Biden starebbe introducendo anche il “diritto” dei single socialmente infertili e delle coppie Lgbt a ricevere trattamenti di fertilità, per poter comunque “avere figli”. Una novità subito ben accolta dall’industria sanitaria, che vede in ciò l’occasione per nuovi, insperati business, per quanto disumani. La strategia è quella di giungervi grazie alle sentenze dei tribunali, bypassando così anche gli eventuali ostacoli resi possibili da un dibattito in sede di Congresso. È, questa, la democrazia “fai-da-te”, che si costruisce e si smonta a piacimento, a seconda di dove portino gli interessi di bottega e di lobby. Non va dimenticato come della squadra di Biden facciano parte anche numerose altre sigle di Sinistra quali l’Aclu, gli Atei americani, l’Anti-Defamation League, la Human Right Campaign, il Southern Poverty Law CenterPlanned Parenthood ed il Center for American Progress, da sempre ontologicamente ostili alla presenza cattolica.

Sarebbe buona cosa che chi ha posto le premesse della rivoluzione in atto riflettesse, almeno ora, sulle conseguenze…

I migranti al confine polacco e le scelte della Ue: due pesi e due misure?

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di Ferdinando Bergamaschi

Migranti al confine tra Bielorussia e Polonia: chi sono? Probabilmente iracheni e più in generale mediorientali. Ma soprattutto: è questa una migrazione spontanea o indotta? Tutto fa pensare che non vi sia nulla di naturale in questo fenomeno. Dai protagonisti che sono coinvolti in questa situazione, al tempismo degli eventi, alle implicazioni geopolitiche: tutto sembra rimandare a una lettura di una situazione forzata e forse pianificata. 

Partiamo dai fatti: martedì scorso la Polonia ha annunciato di aver arrestato oltre 50 migranti al confine con la Bielorussia, e precisamente vicino a Bialowieza. In  mattinata il ministro della Difesa polacco, Mariusz Baszczak, ha reso noto che erano stati fatti molti tentativi di violare il confine con la Bielorussia nella notte. E ha aggiunto di aver aumentato a 15.000 il numero dei soldati dell’esercito polacco alla frontiera. A pressare sul confine ci sono infatti centinaia di migranti. Uomini e donne che pagano dai 5.000 ai 15.000 dollari per giungere in Europa. E sono stati illusi dal governo di Minsk di poterlo fare.  

Il gioco della Bielorussia 

Secondo il Guardian, i migranti sarebbero stati attirati dalla Bielorussia, che avrebbe concesso il visto e offerto loro voli per raggiungere Minsk, la capitale del Paese, promettendo poi di portarli nell’Unione europea. Una volta raggiunto il confine, però, i migranti non sono riusciti a entrare in Polonia perché il Governo di Varsavia da giorni presidia con le sue truppe le frontiere con la Bielorussia. 

Per questo il presidente polacco Mateusz Morawiecki ha affermato che è necessario bloccare i voli dal Medio Oriente per la Bielorussia e concordare con la Ue nuove sanzioni contro il regime di Aleksandr Lukashenko. Il premier polacco, in conferenza stampa congiunta con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha parlato di “terrorismo di Stato” da parte di Minsk. 

Due pese e due misure

In questo contesto Michel ha aperto alla possibilità di finanziare muri a protezione dei confini polacchi: “È legalmente possibile nell’ambito del quadro legale attuale, finanziare infrastrutture per la protezione dei confini dell’Ue”. E poi ha insistito proprio sul concetto che difendere i confini polacchi, così come quelli lituani significhi proteggere i confini della Ue. Una posizione che ha spiazzato molti, anche in virtù della forte polemica che lo scorso anno l’Unione Europea aveva portato avanti contro la linea di Donald Trump che voleva proseguire la costruzione del muro al confine col Messico.

In più, la solerzia con cui Bruxelles si è mossa per salvaguardare i confini orientali dell’Unione europea è quantomeno sospetta, guardando all’inerzia con la quale affronta il fenomeno migratorio ai suoi confini meridionali. Come se ci fossero due pesi e due misure: quando la rotta punta alla Germania, l’atteggiamento dell’Europa è ben diverso rispetto a quando punta all’Italia. 

Nuove sanzioni

Intanto l’asse tra Ue e Usa si è mosso prontamente. Al termine dell’incontro a Washington con il presidente americano Joe Biden, la presidente della Commissione Ue  Ursula von der Leyen ha affermato: “Estenderemo le nostre sanzioni contro la Bielorussia all’inizio della prossima settimana; e gli Stati Uniti prepareranno sanzioni che saranno in vigore da inizio dicembre”. Aggiungendo che “con il presidente americano guarderemo alla possibilità di sanzionare quelle compagnie aeree che facilitano il traffico di esseri umani verso Minsk e il confine tra Bielorussia e Ue”. 

Sanzioni di per sé ineccepibili, ma anche in questo caso non si può non notare una grande incongruenza. Infatti quando era Erdogan a minacciare di far entrare in Europa due milioni di profughi siriani, Bruxelles aveva concesso sei miliardi di euro al Governo turco per la gestione della situazione migratoria. 

Il ruolo di Mosca 

Molti analisti sostengono che dietro alla “guerra ibrida” di Lukashenko vi sia la Russia. La Bielorussia infatti è una stretta alleata di Mosca. E non è difficile immaginare che Vladimir Putin abbia tutto l’interesse ad indebolire e dividere l’Unione europea, che tra l’altro ha visto al suo interno uno scontro recente proprio con la Polonia per l’applicazione dei suoi dettami costituzionali rispetto alle norme dell’Unione. La stessa Ue ha poi sanzionato la Russia e recentemente è arrivata ai ferri corti con il Cremlino per l’aumento dei prezzi del gas. 

Mosca comunque ha respinto le accuse di chi, come il premier Morawiecki, ritiene ci sia il Cremlino dietro la crisi migratoria al confine con la Bielorussia. Il portavoce del Governo, Dmitry Peskov, ha affermato di considerare “del tutto irresponsabili e inaccettabili le dichiarazioni del primo ministro polacco secondo cui la Russia è responsabile di questa situazione”. Dal canto suo il presidente Putin ha rincarato la dose puntando il dito su Bruxelles: “Le organizzazioni criminali impegnate nel traffico di esseri umani hanno sede in Europa”, ha detto. “È dunque compito della Ue gestire il problema”. 

Comunque stiano le cose, Angela Merkel ha voluto telefonare al presidente russo. Nel colloquio la cancelliera tedesca gli ha chiesto di intervenire ed esercitare la sua influenza su Lukashenko, definendo “disumana e del tutto inaccettabile” la strumentalizzazione dei migranti a cui stiamo assistendo.

Powell e l’infame guerra in Iraq

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Segnalazione del Centro Studi Federici

La morte di Colin Powell
 
E’ morto Colin Powell, deceduto di Covid-19 nonostante fosse vaccinato. Ma non interessa qui interpellarsi sull’efficacia dei vaccini, ma sull’uomo passato alla storia per aver trascinato il mondo nella guerra irachena con la bufala delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
 
Il mondo, non solo gli Stati Uniti, perché quella guerra infame (ci si perdoni il termine, ma è il meno duro che ci viene in mente) non solo ha devastato un Paese prospero – pur se ristretto nella morsa del rais –, ma ha anche fatto dilagare il terrorismo internazionale, come acclarato in maniera inequivocabile dalla Commissione Chilcot, la commissione d’inchiesta istituita in seno al Parlamento britannico.
 
Non è certo per caso che l’Isis è nato in Iraq in quel tormentato dopoguerra. Così quel conflitto ha prodotto la strage del Bataclan, quella di Manchester e tanto, tanto altro.
 
Per questo si resta perplessi, ma anche no, dalle parole di Biden, che ha ricordato il primo generale nero della storia americana come “caro amico” e “patriota”. Ma d’altronde anche Biden votò a favore di quella guerra e amici lo erano davvero.
 
Nel tracciarne un ricordo Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence del corpo dei marines, ricorda che Powell ebbe un ruolo di primo piano nella distensione internazionale che fiorì al tempo in cui Reagan intraprese un dialogo fecondo con Gorbacev, e che, nonostante fosse un soldato tutto d’un pezzo, Powell era un guerriero riluttante.
 
La guerra umanitaria 
 
È noto che il suo show alle Nazioni Unite, dove mostrò le “prove” delle armi di distruzioni di massa di Saddam, non era farina del suo sacco, ma basato su falsi rapporti della Cia.
 
Rapporti ai quali si sommavano le pressioni dei neocon, che avevano preso in mano tutte le leve del potere, e l’esplicita richiesta del suo presidente, che non ebbe il coraggio di contraddire, come scrive The Intercept, dimostrando di non avere la dote che più richiede l’esercito a un soldato, il coraggio (come quello dimostrato, ad esempio, dall’ufficiale israeliano Avner Wishnitzer, la cui storia è raccontata in nota alla quale rimandiamo).
 
Powell, come Biden, ebbe poi modo di dire di aver sbagliato, come accade spesso ai politici americani in questi casi. Sempre per restare sull’Iraq, clamoroso fu anche il dietrofront dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright, alla quale fu chiesto conto del fatto che le sanzioni emanate dagli Usa contro l’Iraq dopo la prima guerra del Golfo avevano ucciso 500mila bambini:  “ne valeva la pena“,  aveva risposto al suo basito interlocutore, accorgendosi solo dopo il profluvio di critiche dell’atrocità della risposta.
 
Così la morte di Powell, più che far tornare a galla l’orrore di quella guerra, fa emergere ancora una volta l’irresponsabilità di tanti politici dell’Impero, il quale è sempre pronto a perdonare gli errori dei suoi comandanti, politici e militari.
 
Ciò gli permette di non dover fare ammenda delle iniziative, ricomprendole nel suo seno e, di fatto, legittimando anche quelle più palesemente sbagliate, derubricate a semplici incidenti di percorso di una storia che vede gli Stati Uniti sempre e comunque dalla parte dei buoni.
 
Ciò permette all’Impero di evitare processi di riforma e di continuare a spandere nel mondo la sua immagine di faro di civiltà e libertà. Evitando anche che tali errori possano porre criticità a iniziative presenti, la cui dinamiche essenziali ricalcano quelle del passato.
 
L’occupazione umanitaria dell’Iraq
 
Il caso Iraq è eclatante in tal senso, dal momento che quell’errore non fu solo foriero di una guerra sanguinaria spacciata per umanitaria, ma ha legittimato la presenza dell’esercito americano in quel lontano Paese fino a oggi.
 
E come quella guerra fu umanitaria, anche il protrarsi dell’occupazione militare americana si è basato su ragioni umanitarie, dovendo quella presenza militare, a detta dei suoi propugnatori, evitare che il Paese sprofondasse nel caos e garantire la nascita di una democrazia irachena,
 
Il caos non è stato affatto evitato, anzi, per decenni ha infuriato una guerra tra sunniti e sciiti, con attentati terroristici quotidiani, terminata solo alcuni anni fa. Detto questo, proprio quella democrazia parlamentare che gli Usa dicono di aver fatto nascere, gli ha chiesto di andarsene con voto unanime del Parlamento, inutilmente.
 
Così l’errore sulle armi di distruzione di massa di Saddam non ha portato gli Usa a essere quantomeno più prudenti nel valutare le identiche accuse mosse contro Assad, che avrebbe usato armi chimiche contro i cosiddetti ribelli moderati, con accuse del tutto infondate.
 
Solo se e quando Assad sarà rimosso o il regime-change siriano archiviato (oggi è solo sospeso), si potrà, forse, vedere l’ammissione da parte degli Stati Uniti di incidenti di percorso analoghi a quelli iracheni.
 
Così in questa esaltazione di Colin Powell, il grande patriota che commise un “errore”, sta tutta la supponenza della nazione che si crede “indispensabile” al mondo, come ribadiva alcuni giorni fa l’ex diplomatico Usa  David Robinson (The Hill). E sta la sua incapacità di riformarsi.
 
Detto questo, almeno Powell e Biden, e altri con loro, hanno ammesso l’errore e quest’ultimo sta anche provando a porre un freno certe derive. I neocon e i liberal, che furono e sono il motore immobile di questa politica muscolare, continuano a rivendicare la legittimità di quelle iniziative, con la stolidità propria dei deliri di onnipotenza.
 
 

Dai missili ipersonici a Taiwan: alta tensione tra Stati Uniti e Cina

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LETTERE DEL LETTORE

Riceviamo e pubblichiamo questo interessante articolo, che si trova anche su: https://www.ilmiogiornale.net/dai-missili-ipersonici-a-taiwan-alta-tensione-tra-stati-uniti-e-cina/

di Ferdinando Bergamaschi

Missili ipersonici: sono la nuova frontiera militare delle grandi potenze. “Le armi ipersoniche uniscono al vantaggio della velocità quello della manovrabilità, che permette loro di eludere i sistemi di difesa antimissile di teatro e territoriale e di colpire obiettivi situati nel cuore dei territori nemici oppure in mare”, scrive Joseph Henrotin nella prefazione a uno studio dell’Ifri (Institut français des relations internationales) pubblicato lo scorso giugno.

I missili ipersonici, che viaggiano a oltre 6.000 Kmh e hanno una portata superiore ai 2.000 km, sarebbero manovrabili come i missili da crociera e potenti quanto i missili balistici, se non addirittura di più. Questo perché la tecnologia ipersonica consente, e consentirà, di superare delle barriere tecniche in maniera formidabile. 

Delusione a Washington

Dopo i successi dei test compiuti da Mosca e Pechino sui missili ipersonici nelle ultime settimane, era arrivato il turno degli Stati Uniti. Ma clamorosamente le cose per Washington sono andate male. Il Pentagono ha infatti ammesso il fallimento dell’ultimo test avvenuto in Alaska. Il lancio è stato compromesso dal malfunzionamento del razzo usato per portare il missile oltre la velocità del suono. Da qui la grande preoccupazione degli analisti americani. Gli Stati Uniti, infatti, così come per le armi al laser e per i robot-soldato, hanno investito molto su queste nuovissime tecnologie belliche anche in funzione anticinese. 

Biden versus Pechino

Addirittura il presidente americano Joe Biden, poche ore dopo la diffusione delle notizie relative al fallimento dei test dei missili ipersonici, ha rilasciato dichiarazioni molto pesanti contro Pechino. “In caso di attacco dalla Cina, difenderemo Taiwan. Abbiamo un impegno a farlo”, ha affermato l’inquilino della Casa Bianca alla Town hall di Baltimora. La replica cinese non si è fatta attendere. Ed è stata durissima, avvertendo gli Usa di essere prudenti e di non inviare segnali sbagliati all’isola. Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin, è arrivato ad utilizzare toni minacciosi. “Nessuno dovrebbe sottovalutare la forte risolutezza, determinazione e capacità del popolo cinese di salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”. La Cina, ha concluso Wang, “non ha margine per compromessi”.  

Il peso di Taiwan 

Non è un caso quindi che Biden sia intervenuto proprio ora, dopo il fallimento dei test sui missili ipersonici americani; e che lo abbia fatto utilizzando toni bellicistici sulla questione di Taiwan. L’isola a circa 150 km dalla costa cinese ha infatti un ruolo molto importante da un punto di vista delle nuovissime tecnologie. Oltre ad essere al centro di mari strategici che la rendono così contesa da un punto di vista geopolitico, per esempio è leader mondiale nella produzione di semiconduttori. Sono i minuscoli dispositivi elettronici basilari per gli smarthphone, i computer e le automobili. E sempre più l’Occidente, dagli States all’Unione europea, guarda a Taiwan come fonte di approvvigionamento di questi componenti, indispensabili per vincere la competizione tecnologica mondiale.

AGLI ALBORI DI UNA SVOLTA EUROPEA

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L’EDITORIALE

di Adriano Scianca per il numero di Ottobre 2021 de Il Primato Nazionale

Gli studiosi di futurologia da tempo agitano, con entusiasmo o con timore, lo spettro della singolarità tecnologica. Cosa si intende con tale espressione? In breve, il punto di sviluppo
di una civiltà in cui il progresso tecnologico accelera vertiginosamente e in modo non più controllabile. Uno degli scenari spesso proposti è per esempio quello di una intelligenza artificiale capace di progettare altre intelligenze artificiali ancora più potenti, che a loro volta creeranno super-computer a uno stadio ancora più avanzato e così via, con un movimento esponenziale non più prevedibile o manipolabile dall’uomo, neanche dai progressisti tecnofili che l’hanno avviato.
Ora, prendendo spunto da questa ipotesi futurologica, ci chiediamo: e se stessimo assistendo agli albori di una «singolarità europea»? È possibile che la dinamica di costituzione di un’Europa potenza sia stata avviata in modo ormai irreversibile e con esiti imprevedibili per i suoi stessi fautori?
Le previsioni così assertive rischiano sempre di diventare meri slogan, speranze tramutate in granitiche certezze, wishful thinking a portar via. Ma è indubbio che qualcosa sta accadendo a livello geopolitico, sotto ai nostri occhi, che lo si colga o meno. 
Un primo fattore è che quella che è tuttora l’unica superpotenza globale appare per la prima volta tentata di abdicare. Non avverrà facilmente o in modo indolore, ci saranno gruppi di potere che faranno il diavolo a quattro per non mollare la presa. Ma i segnali sono ormai troppi, tutti convergenti, e perduranti nel tempo.
La linea del disimpegno ha cominciato a farsi largo sotto Obama, è diventata una bandiera con Trump ed è stata confermata da Biden. Qualcosa vorrà pur dire.
Contemporaneamente, anche l’Europa ha cominciato a muoversi. È un movimento ancora impacciato, non pienamente consapevole. È il movimento di un sonnambulo: non pienamente addormentato, non ancora sveglio. Si muove, fa delle cose, risponde a degli stimoli, dà corpo a impulsi inconsci, ma non ancora giunto alla fase dell’autocoscienza. La fase dell’Europa dormiente è stata lunga ed estenuante.
La fase dell’Europa sonnambula è in corso da qualche anno: si accumulano progetti, partnership, velleità, infrastrutture, canali, idealismi. Si è costruito (malissimo) un mercato comune. Si stanno costruendo (bene) collaborazioni sostanziali. Si progetta (un po’ utopisticamente, ma non importa) un esercito continentale.
Cosa manca? L’autocoscienza, la volontà e la fierezza di essere ciò che si è, senza complessi. Ma, presto o tardi, ci si arriverà, probabilmente passando per sentieri imperscrutabili e tramite gli ultimi personaggi da cui ce lo saremmo potuti aspettare.
Sarà un movimento spurio, contraddittorio, oscuro, che non rispetterà i piani stabiliti, che molti faticheranno a riconoscere. Eppure, la singolarità dell’Europa potenza è innescata. Prima di quanto lo immaginiamo, saremo chiamati a scegliere da che parte stare rispetto a esso. 

La Florida manda la guardia nazionale al confine di Texas ed Arizona contro l’immigrazione. Intanto Biden dorme

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Il governatore della Florida Ron DeSantis ha annunciato mercoledì di aver autorizzato l’invio della polizia al confine tra Stati Uniti e Messico in Arizona e Texas, a seguito di una richiesta da parte di questi stati.

DeSantis, un repubblicano, ha affermato che la Florida è il primo stato a rispondere a una lettera dei governi. Greg Abbott e Doug Ducey, entrambi repubblicani, che hanno chiesto aiuto a tutti gli altri stati per controllare il confine. Una accusa indiretta verso il governo Federale, a cui spetterebbe la difesa  dei confini, ma che non sta facendo, oggettivamente, nulla.

“Siamo qui oggi perché abbiamo problemi in Florida che non sono interni  alla Florida,  che siamo stati costretti ad affrontare da molti anni, ma soprattutto negli ultimi sei mesi, a causa del fallimento dell’amministrazione Biden nel proteggere il nostro confine meridionale”, ha detto DeSantis durante un evento mercoledì. “E, in effetti, fare davvero qualcosa di costruttivo su ciò che sta accadendo al confine meridionale”.

Sebbene DeSantis non abbia approfondito la natura dello spiegamento della polizia, ha affermato che ci saranno “maggiori informazioni sui contorni dell’assistenza reciproca” in futuro. “Sono sicuro che in ognuno di questi dipartimenti dello sceriffo, ci sono vice che scalpitano per essere in grado di aiutare”, ha aggiunto.

“Penso che ci siano molte persone del tipo, ‘Amico, vorrei poter fare qualcosa per aiutare’. Beh, hanno l’opportunità di farlo. Penso che vedrai molte mani alzarsi dicendo: “Ehi, mandami, voglio essere utile”, ha aggiunto il governatore repubblicano.

DeSantis ha anche usato la conferenza stampa per criticare le politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Biden, affermando che il presidente Joe Biden ha annullato una serie di mandati di successo dell’era Trump progettati per frenare l’immigrazione illegale

Abbott e Ducey, nella loro lettera in cui chiedevano aiuto mettevano in luce come questa richiesta fosse finalizzata a risparmiare problemi e costi anche agli altri stati:

“Con il tuo aiuto, possiamo fermare meglio  questi autori di crimini statali e federali, prima che possano causare problemi nel tuo stato”, hanno scritto i due governatori.

I dati rilasciati questa settimana da Customs and Border Protection mostrano che gli agenti hanno arrestato circa 180.000 persone entrate illegalmente negli Stati Uniti a maggio, che è la cifra più alta registrata in circa due anni. Più di 112.000 di questi immigrati illegali sono stati espulsi ai sensi della disposizione sanitaria del Titolo 42, che è stata autorizzata tramite una dichiarazione di emergenza lo scorso anno a causa della pandemia di COVID-19. Però il flusso sembra inarrestabile, anche per l’effetto attrazione esercitato da Biden.

Fonte: https://scenarieconomici.it/la-florida-manda-la-guardia-nazionale-al-confine-di-texas-ed-arizona-contro-limmigrazione-intanto-biden-dorme/

Borghi: finalmente sveliamo un po’ di balle economiche…

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Claudio Borghi a Coffèe break, e, giustamente , dato che si parla di economia, eccovi il giornalista con minore conoscenza dell’economia di tutti i mass media, Davide Giacalone, noto essenzialmente per l’abilità nell’assegnare le frequenze TV.

Cosa ha rivelato l’ultimo, inutile, DEF: che il debito è non tollerabile solo nel limite in cui la Banca centrale vuole non supportalo, come dimostrano non solo il momento attuale in Euro Area, ma ancora di più quello che sta accadendo con i super piani di espansione di Biden negli USA, ben più ampi dei nostri. Borghi spiega bene la questione , del resto già nota, ma quando un giornalista è in mala fede, parla, disturbando in sottofondo e se ne infischia delle opinioni altrui. Un esempio di mala educazione e di superficialità sempre più frequente nella nostra TV.

Quindi si passa a parlare brevemente di ambiente per poi la vexata queastio del prossimo futuro: quando togliere il blocco dei licenziamenti. Perchè questa  dolorosa mossa prima o poi dovrà essere fatta.

Buon ascolto e ringraziamo Inriverente.

 

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