L’intervista che Facebook censura: ecco cosa ha detto Trump in tv

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L’intervista a Donald Trump condotta dalla nuora Lara, moglie di Eric, è stata rimossa da Facebook. Prosegue la guerra dei Colossi Big Tech contro l’ex Presidente Usa. Ira dei repubblicani

di Roberto Vivadelli

L’ex Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump non solo non può avere un account su Facebook e Instagram – oltre a YouTube – ma non può nemmeno essere intervistato.

Non è un lontano mondo dispotico ma è la realtà che stiamo vivendo, dove i colossi Big Tech stanno, sempre di più, decidendo chi può prendere parola o meno, cosa è verità e cosa non lo è, in maniera del tutto arbitraria e pericolosamente ideologica, ovviamente a danno dei conservatori di tutto il mondo. Lara Trump, moglie del figlio del tycoon, Eric, ha intervistato suo suocero sulla sua pagina in un videoclip subito rimosso da Facebook. Come riporta l’agenzia Adnkronos, si tratta di un’ulteriore mossa adottata da Facebook nei confronti di Trump, dopo che a gennaio aveva chiuso il suo profilo Twitter in seguito all’assalto al Congresso da parte dei suoi sostenitori. “In linea con il blocco che abbiamo posto agli account Facebook e Instagram di Donald Trump, ulteriori contenuti pubblicati con la voce ‘Donald Trump’ verranno rimossi e comporteranno ulteriori limitazioni sull’account“, si legge in un’e-mail. Una decisione che Lara Trump ha definito “orwelliana”. “Stiamo andando verso 1984 di George Orwell, è proprio così” ha commentato sui social media. Continua a leggere

Scontri in USA: avanza il “deep State”, ma chi lo combatte?

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L’EDITORIALE

di Matteo Castagna

Il 2021 si apre con il botto: stavolta non è il Covid a spadroneggiare ma la notizia, incontrovertibile, per cui il popolo americano si è, per la prima volta, reso conto di non essere nella democrazia perfetta in cui ha sempre creduto di vivere. Milioni di persone, nel giorno dell’Epifania, si sono riversate nelle strade di Washington, hanno sonoramente protestato contro quella che riconoscono come una palese violazione della loro libertà: la vittoria di un presidente con l’imbroglio.

Ebbene, anche negli USA, si può sedere alla Casa Bianca, grazie a dei brogli elettorali. E’ questo concetto che gli statunitensi hanno in testa e non riescono proprio a digerire. Trump è la vittima di un raggiro e di un’ingiustizia ordita e preordinata dal deep State, per farlo fuori. Quindi non è il fautore di un tentato golpe – come cialtronescamente hanno fatto intendere alcuni dei soliti allineati, leccaculo dei potenti di turno – ma colui che lo subisce. Intollerabile, inaccettabile, immorale per un repubblicano americano, innamorato della sua democrazia. Da ieri, non sarà più come prima, perché la vittoria con voto, considerato farlocco, non è minimamente nelle more della mentalità di almeno la metà degli americani. Ieri, il popolo USA ha sancito la morte del mainstream e gli ha dichiarato guerra. Quanto durerà non possiamo saperlo, ma sappiamo che la figura di Trump è uscita comunque vincitrice, perché ha dimostrato d’avere un seguito, che non ha precedenti e che i Dem non si aspettavano, fin dai tempi dei sondaggi. Cosa farà il miliardario tycon nelle prossime settimane non possiamo saperlo, ma possiamo immaginare che avrà tutto il tempo ed i mezzi per tirar fuori dal cilindro delle sorprese poco piacevoli per gli avversari. I quali non sono, però, né sprovveduti né privi di potere. 

In Italia, invece, ai brogli ed agli imbrogli siamo assuefatti da troppo tempo. I “plebisciti truffa” del periodo risorgimentale hanno annesso al Regno d’Italia Stati che volevano rimanere fedeli ai loro legittimi sovrani. Nel 1866 il Veneto è stato annesso con l’inganno. Ma anche il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontificio ebbero di che recriminare. Secondo buona parte della storiografia contemporanea anche il Re sarebbe stato deposto a seguito di un referendum taroccato. Il 2 giugno 1946 avrebbe vinto la monarchia di oltre due milioni di voti. Ma alcune manine avrebbero cambiato il risultato e, di conseguenza, la storia d’Italia. Ad ogni elezione si leggono cronache di scatoloni di schede elettorali trovate qua e là, di matite copiative che si cancellano, di schede bianche “che si possono colorare” – come direbbe Cetto Laqualunque. Sembra che per l’italiano medio non vi sia più nulla di cui scandalizzarsi e per cui protestare. Neanche se gli mettono le mani nel conto corrente, di notte, come fece nel 1992 l’esecutivo guidato dal socialista Giuliano Amato. In compenso sa ragliare bene sui social, nei bar (fino alle 18.00) e di nascosto da orecchie indiscrete. I governi, anche i peggiori, come quello attuale, possono dormire sonni tranquilli perché non ci sarà nessun impellicciato con elmo cornuto che gli guasterà la festa, né persone comuni che si riuniranno sotto il palazzo del potere a gridare “Libertà” issando la croce e pregando, a migliaia, il Padre nostro come avvenuto fuori dal Campidoglio di Washington.  Continua a leggere

Perché la crisi di governo si decide (anche) a Washington

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di Antonio Pilati

La crisi del governo e della sua maggioranza è rappresentata da media e analisti come una faccenda tutta italiana, anzi romana, con partiti, fazioni, leader, figuranti, primo ministro che si battono aspramente per spuntare con la rissa qualche porzione di potere in più. In realtà c’è anche un altro piano, probabilmente essenziale, che si sviluppa lontano da Roma, nelle capitali dei nostri principali alleati.

Fattore Biden

Come la nascita del secondo Governo Conte fu decisa in ambito europeo, così oggi è plausibile che, aiutando il caos sanitario e il prevedibile sperpero dei fondi comunitari fatti balenare a nostra disposizione, le opinioni che circolano oltralpe abbiano un peso determinante.

Tuttavia, rispetto all’estate 2019, è in gioco un fattore in più, il nuovo presidente americano. Biden deve ridisegnare, o almeno riassestare, la politica estera e, come segnalava qualche giorno fa questo sito, la sua azione parte con qualche handicap: in Estremo Oriente come in Europa, gli Stati alleati, forse memori della confusione e delle giravolte fatte dall’amministrazione Obama (Biden vicepresidente) in giro per il mondo, hanno tutelato i propri interessi commerciali chiudendo accordi con la Cina appena dopo l’annuncio della sconfitta di Trump.

Le due iniziative hanno un po’ l’aria di mosse negoziali: intanto mettiamo un punto fermo e poi vediamo che cosa di concreto gli Stati Uniti, in passato così volatili, portano al tavolo delle trattative. La Germania è per gli americani il primo interlocutore in Europa e un negoziato forse si è già avviata: l’Italia, che rappresenta pur sempre la terza economia della zona euro, potrebbe esserne parte.

Renzi mosso da Joe

Se si guardano i tempi della crisi, Renzi, che ambisce a essere il principale riferimento americano nell’attuale fase politica, ha cominciato a bombardare Conte appena si è saputo della vittoria di Biden, quasi mosso dall’intento (o dal suggerimento) di proclamare urbi et orbi l’inadeguatezza di Giuseppi: se l’ipotesi di un livello internazionale della crisi avesse qualche fondamento, è evidente che la soluzione Draghi ne sarebbe l’esito naturale.

Appare altrettanto evidente che molte fazioni e cricche farebbero di tutto per evitare un tale sbocco, Légion d’honneur e sinofili in prima fila. Il risultato dello scontro dipende in gran parte, ci sembra, dalla chiarezza di idee e dalle priorità della nuova leadership americana.

Fonte https://www.nicolaporro.it/perche-la-crisi-di-governo-si-decide-anche-a-washington/

Negli Usa anche i morti hanno votato per Biden. L’ombra dei brogli sulle elezioni presidenziali

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Roma, 5 nov – Negli Stati Uniti è ora guerra sui famigerati voti postali, la modalità di voto che ha determinato il sorpasso all’ultimo minuto del candidato democratico Biden alle elezioni presidenziali 2020. Un po’ perché gli elettori dem – che temono maggiormente il coronavirus rispetto ai conservatori – hanno optato in massa il voto per corrispondenza. Risultato? Quasi 102 milioni di americani hanno votato prima dell’election day del 3 novembre, proprio per evitare l’assembramento ai seggi. Un voto di massa, forse un po’ troppo in massa. Sì perché – come denunciano media indipendenti e non – ora si viene a sapere che tramite absentee ballot hanno votato persino i morti.

Come evidenziato dal commentatore indipendente Fleccas, nella contea di Mason, Michigan, votano attempate signore di 119 anni, o di 120 se si passa nella contea di Jackson, stesso Stato. Esempi di questo tipo pullulano ormai sui social e stanno diventando virali nelle ultime ore.

Compilare la scheda elettorale di una persona deceduta per influenzare il risultato elettorale è, ovviamente, una frode. Ma il Michigan non è l’unico Stato a ritrovarsi piagato dal ritorno del morti viventi. Per chi non volesse fidarsi dei media indipendenti, lo stesso New York Post denuncia che nelle schede elettorali inviate al consiglio elettorale di New York City figurano parecchi votanti deceduti.  I registri mostrano che il consiglio elettorale ha ricevuto un voto postale da Frances Reckhow di Staten Island, democratica. Frances Reckhow, ra nata il 6 luglio 1915 e oggi avrebbe 105 anni, è morta nel 2012, secondo un necrologio depositato presso lo Staten Island Advance. Un altro voto è stato spedito anche da Gertrude Nizzere, anch’ella democratica registrata, che era nata il 7 febbraio 1919. Avrebbe 101 anni oggi. Avrebbe, perché la cara Gertrude è passata a miglior vita.

«Credo che questa sia solo la punta dell’iceberg», ha dichiarato Landry, presidente del GOP di Staten Island Brendan Lantry.. «Chiediamo al NYPD e all’ufficio del procuratore distrettuale di Staten Island di indagare». Di quei milioni di voti andati improvvisamente a Biden, quanti sono irregolari?  Nel frattempo gli avvocati di Trump hanno dato il via alla guerra legale. In Pennsylvania chiedono di bloccare il conteggio «per mancanza di trasparenza». In Michigan domandano al tribunale statale di avere accesso a «diversi seggi per poter verificare le schede già aperte e catalogate». Al contempo Bill Stepien, responsabile della campagna elettorale del presidente, ha fatto sapere che verranno intraprese «azioni legali» anche in Wisconsin, «dove si sono registrate irregolarità in diverse contee».

Cristina Gauri

DA

https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/usa-morti-hanno-votato-biden-lombra-brogli-elezioni-presidenziali-173048/

La Card di Pietrangelo Buttafuoco Popolo sotto élite

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Certo, popolo contro élite. Questo è il senso del risultato americano ma alla fine, grazie al voto postale, la sfangherà Joe Biden. I democratici trovano sempre il modo di governare senza l’incomodo di vincerle le elezioni e se un paragone può essere utile, eccolo: sarà come in Italia nel 2006 quando Silvio Berlusconi arriva primo ma, oplà, il conteggio dei voti degli italiani all’estero – trasparentissimo, manco a dirlo – consegna il governo a Romano Prodi. Come sempre: popolo sotto élite.

 

DA

La Card di Pietrangelo Buttafuoco Popolo sotto élite

Elezioni Usa: i sondaggisti fanno la fine dei virologi

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Solo la faccia di Mentana valeva il prezzo del biglietto: pareva invecchiato di 600 anni, lui addirittura voleva Bernie Sanders, è un ragazzo che notoriamente ha sempre frequentato ambienti della sinistra proletaria e sul suo sito di informazioni è riuscito a scrivere che il Covid avanzava negli stati che votano Trump.

Con lui una pletora di analisti poco isti, gente che garantiva Sleepy Joe Biden al mille percento e adesso, come l’Oliver Hardy della divulgazione esotica, Alan Friedman, americano che l’America l’ha trovata solo qua, si arrampicano sui vetri con le dita ingrassate: “Ma… allora… possiamo dire che i sondaggi avevano sbagliato tutto?”. “Guooda in che guaio guaione ti sei cacciooto”, verrebbe da rispondergli.

Come 4 anni fa

Possiamo dire anche altre cose, ma risparmiamoci, non è elegante infierire sulla mediocrità consacrata. Come quattro anni fa, peggio di quattro anni fa. Chi ipotizzava Donaldone coperto di compatimento, disprezzo, irriso, ah, poveri scemi, ma non capite che siete fatti, che Biden ha già vinto senza elezioni, fosse stato per loro le elezioni si potevano anche eliminare, un fastidio, una perdita di tempo, il senso della storia aveva parlato. Vada come vada, ma è certo che, come ha scritto Marco Gervasoni, Trump ha già vinto: nella misura in cui i sondaggiari hanno perso. Ma che cosa è questa epoca che ha inventato strumenti perfetti, spaventosi, per anticipare il futuro ma che non aiutano nel presente, risultano fuorvianti come navigatori che invece del percorso più breve ti fanno finire in un fosso, in un baratro?

Non me azzeccano una

Sondaggisti, virologi: non ne azzeccano una e il cerchio si chiude mirabilmente quando le due categorie, o sette, o cosche, si fondono: grossi scienziati che imputano l’epidemia non alla Cina ma all’America, a Trump, discettano di faccende che non maneggiano, si coprono di ridicolo ma insistono. Sondaggisti, virologi, oroscopisti, aruspici. Non più attendibili di quelli che interrogavano le viscere, che gettavano i sassolini e poi decidevano le guerre. Macchine onnipotenti in mano a uomini mediocri: sì, l’ennesima disfatta di chi pretende di spiegare l’avvenire, piegandolo al proprio tornaconto, dischiude chiavi di lettura allarmanti, inquietanti.

Del Covid non si sa ancora niente, quel poco che è certo viene rimosso, viene stravolto: un virus cinese, creato in laboratori cinesi, che ha finito per dissestare l’Occidente e per rilanciare l’economia della dittatura cinese, la pandemia, non si è ancora capito quanto reale e quanto esasperata, che nel suo momento drammatico, con la chiusura degli stati nazione ormai diluiti nell’Europa inutile e complice, sembra scatenare attentati, stragi a macchia di leopardo a poche ore dalla verifica sul presidente americano: quanto è casuale, quanto è collegato da invisibili fili? E perché niente e nessuno riesce ad avanzare una previsione attendibile, ragionevole sul domani di un mondo contorto?

Governa la palude

Perché, di là dai complottismi e dalle dietrologie, il mondo non è retto da un Gran Vecchio onnipotente ma da una palude di potentati, di forze che convergono e si combattono, il gran casino della terra non lo domi e non lo domini, alla fine va dove vuole, il senso della storia è insondabile, la sua potenza matta e lunatica, capita sempre l’imprevisto, il cigno nero, il fremito del caos che rimette tutto in discussione.

Ma anche perché gli scienziati, siano sociali o medici, addetti ai numeri o ai microbi, sembrano piegati alle logiche della politica, del potere facile che li innalza sopra le masse degli uguali. Se c’è una cosa che il dannatissimo Covid ha dimostrato, è la pochezza degli addetti ai lavori, gente regolarmente coinvolta con la politica o che con tutta evidenza smania per farsene coinvolgere; così i sondaggisti, che sembrano sempre più usare i numeri non per capire ma per non far capire, in ragion di militanza, di tornaconto, il mondo, il futuro non per quello che è ma per come si vorrebbe che fosse.

Una mediocrità che non è più solo dell’Italia che non ha mai avuto una tradizione di grande amministrazione, per cui la burocrazia più è alta e più lavora poco e male ed è scelta non su basi meritocratiche ma partitiche: la degenerazione si è fatta globale, pandemica, scienziati di tutte le risme che agiscono su mandato di questo e quel centro di potere, pensando alla carriera. Da cui i ritardi, le défaillance colossali, i decreti presidenziali a raffica che non decidono niente, le task force sterili, i comitati tecnico scientifici deliranti, le mancanze di protocolli, di strategie, di decisioni che inghiottono le settimane e i mesi. Un processo che l’appartenenza all’Unione Europea che non c’è sembra avere conclamato, cronicizzato: ormai non si decide più niente, su nessun aspetto, perché “ci deve pensare l’Europa, ci penserà l’Europa”.

Ma l’Europa non ci pensa. Siano migrazioni bibliche di clandestini, profilassi contro le pandemie, sicurezza contro i terrorismi. Un ragazzino di vent’anni può decapitarne tre in una chiesa, farne fuori altri in un locale e, immancabile, il resoconto postumo: la polizia sapeva chi era, lo conosceva per elemento pericoloso, ma lo ha mandato libero, lo ha lasciato in condizione di sterminare, per ragioni misteriose che forse così misteriose non sono. L’Europa delle cattedrali essendo diventata quella dei gessetti, delle cantilene, impone a modo suo una agenda del non fare, del subire che infetta tutte le nazioni. Quello della strage di Vienna era un poco più che adolescente dedito allo spaccio di droga e alla militanza lgbt, un influencer del gender, ma il Saviano di turno non vede e insiste con ottusità catafratta: colpa della mancata integrazione, della povertà, delle periferie, e va già bene che non ci ha messo il riscaldamento globale, il solito armamentario delirante che ribalta i termini di ogni questione.

Qui resta da trattare un ultimo aspetto, forse ancora più preoccupante: quello dell’informazione che non informa, non vede o, anch’essa, vede quel che non c’è, che vorrebbe che ci fosse e perde di vista quello che effettivamente c’è. Come mai ogni pandemia, crisi sistemica, tracollo finanziario, insorgenza terroristica vengono spiegate sempre il giorno dopo e mai quello prima? Come mai non si fanno più inchieste sui grandi patrimoni, sulle colossali multinazionali, sui percorsi micidiali dello stragismo? Come mai dei laboratori cinesi, esattamente come per i giovani macellai islamisti, si viene a sapere tutto o almeno abbastanza, le loro falle, le loro mancanze di sicurezza, i loro esperimenti da Stranamore virali, quando il virus è sfuggito e incontrollabile?

Perché l’informazione è nelle mani della politica e della pubblicità e la pubblicità decide: soffoca e dilata, impone agende pazzesche, un paese europeo, occidentale, che si appresta al lockdown pandemico può essere sconvolto da 7 attentati contemporanei ma l’attenzione dura un attimo, torna a focalizzarsi sulle escandescenze di una disperata che gira con un vibratore tra le natiche e uno in fama di giornalista glielo aziona “da remoto”.

Stando così le cose, non è tanto un candidato americano ad avere vinto ma il mondo che ha perso. Perché si è perso. Con tutti i suoi strumenti di controllo, di spionaggio, di analisi, di profilazioni, di raccolta dati in tempo reale, di riconoscimenti facciali, di telecamere onnipresenti, di lettura del pensiero, di social che squadernano tutto ad uso dei regimi, di trasmissioni telematiche, di 5 o 50 G, di vita remota, non è in grado di prevedere niente, di capire niente. Perché non può e perché non vuole.

Max Del Papa, 4 novembre 2020

DA

Elezioni Usa: i sondaggisti fanno la fine dei virologi

E negli Usa c’è aria di guerra civile

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Mai come in questa battaglia elettorale per la Casa Bianca è stato agitato da entrambe le parti lo spettro della Guerra Civile americana. Due mondi si sono contrapposti, anche nella società e nella vita privata, come mai era successo. Nessuna elezione presidenziale, nemmeno quella di Richard Nixon, insanguinata dall’assassinio di Bob Kennedy, aveva richiamato alla memoria collettiva la spaccatura più drammatica nella storia degli Stati Uniti, tra unionisti e confederali. Quella che divise nord e sud e restò come una ferita sanguinante anche negli anni a seguire.

A 150 dalla sua morte, avvenuta nell’autunno del 1870, un libro ricorda l’eroe principale dalla parte dei vinti, il leggendario generale Lee.

Il libro è scritto da una sua discendente, seppur acquisita, Blanche Lee Childe, ed è stato tradotto e ampiamente introdotto da Gaetano Marabello (Il generale Lee, L’Arco e la Corte, Bari, pp.141, 17 euro) che paragona Lee a Leonida, re di Sparta ed eroe delle Termopili. È la storia vista dalla parte dei perdenti, a cui arride “il bianco sole dei vinti”, per dirla con Dominique Venner.

Robert Edward Lee, nativo della Virginia come il fondatore dell’indipendenza americana, George Washington, guidò l’esercito confederale del sud in una serie di epiche battaglie fino alla capitolazione finale, con l’onore delle armi da parte del generale Grant. E a guerra finita non espresse rancore verso i vincitori, fu “esempio di moderazione e carità cristiana” scrive l’autrice e “incoraggiò i suoi compatrioti a sopportare virilmente la sorte”. L’esercito del sud era più povero, meno equipaggiato, in forte inferiorità numerica.

Una grossolana semplificazione manichea vede i nordisti come i combattenti nel nome del progresso, della modernità, della democrazia e i sudisti come i razzisti, reazionari, schiavisti terrieri. Per l’immaginario collettivo solo un film di successo come Via col vento, riuscì a perforare quel rigido schematismo, antefatto del politically correct, dimostrando l’umanità di quel mondo del sud, il rispetto delle tradizioni, l’intima consonanza di vita e di destino che accomunava bianchi e neri, padroni e servi, nel profondo sud confederale. Lo schiavismo era un lascito anacronistico e inaccettabile. Ma il nord degli yankee aveva colpe, chiusure, intolleranze non certo minori del sud (a parte il genocidio dei nativi americani, più cruento a nord, che perdurò anche dopo la guerra di secessione).

Il quadro era molto più complesso, la società del sud aveva un suo equilibrio e la piaga della schiavitù sarebbe stata assorbita e superata con gli anni, si sarebbe raggiunto un accordo, sostiene l’autrice, senza arrivare alla guerra civile. Ma la matrice vera del conflitto non era lo schiavismo bensì la divergenza tra federalismo e centralismo; e sul fondo la divergenza profonda tra una società fondata sulla terra, la famiglia e i legami di sangue e una più individualista imperniata sul rampante capitalismo, anche finanziario, in cui le forme arcaiche di schiavitù cedevano il passo a forme di sfruttamento più moderne, meno brutali ma più alienanti. Fu un conflitto tra la borsa e la vita: “Per il gentiluomo dei climi caldi nulla valeva quanto una spensierata esistenza all’aria aperta… anche i meridionali più poveri preferivano una vita relativamente “oziosa” a quella del banchiere e del businessman rinserrati in quattro mura a far la guerra ai concorrenti”. Nell’immagine un po’ oleografica di quel mondo e di quella contrapposizione c’è però un nucleo di verità.

Sullo sfondo c’è una duplice epopea: quella dei vinti, i vinti di tutti i tempi, e quella del sud, di tutti i sud del mondo. Ma c’è un nesso vivente tra i sud dei due mondi, quello statunitense e quello nostrano. È un nesso di cui questo libro non parla, è noto solo a ristretti ambienti di nostalgici borbonici. È la storia di quei soldati borbonici che dopo aver perso la loro guerra in Italia contro i piemontesi, andarono a combattere con i confederali contro i nordisti, a fianco del generale Lee, e un italiano fu sepolto accanto a lui a Lexington (si trattava di un ligure dal cognome speciale, Giovan Battista Garibaldi). I soldati borbonici, circa 1800, partirono da Napoli con il consenso di Garibaldi che si voleva disfare di sbandati e prigionieri, e dettero vita al Battaglione Dragoni di Borbone. Nella battaglia di Appomatox dei Mille del generale Lee si salvarono solo in 18, tra cui il siciliano Salvatore Ferri. Fu un eroe dei due mondi a rovescio, partì dal sud d’Italia dove militava nel regio esercito borbonico per andare a combattere per un altro sud in Louisiana. Veniva da Licata e partecipò con i suoi “conterronei” alla vittoriosa battaglia di Winchester in Virginia, col mitico generale Jackson. Poi la confederazione sudista cedette all’unione nordista. E come lui tanti altri, i fratelli Russo per esempio, tanti altri militari borbonici.

Ah, se ci fosse un Via col vento terrone che raccontasse l’epica eroica e romantica di quei militi borbonici che sconfitti in Italia, per non subire la deportazione nei lager di Fenestrelle e altre umiliazioni, s’imbarcarono sulla nave Elisabeth o su altre navi, sbarcarono a New Orleans e si arruolarono nell’esercito sudista come VI reggimento; italian guards, combattendo valorosamente. Militi ignoti, eroi sconosciuti, scrivevo in Ritorno a sud, di quella duplice epopea sepolta due volte, negli States e nell’Italia sabauda. Furono tra i primi emigrati partiti dal sud a unità d’Italia appena realizzata che andarono a difendere un altro sud. Non cercarono fortuna ma onore. Passarono da una causa perdente a un’altra. Ma ai vincitori si addice il sorriso della storia, ai vinti la carezza degli dei. Sapremo chi dei due tra Trump e Biden sarà il generale Grant. Più difficile sarà ritrovare nel vinto qualcosa del generale Lee.

MV, La Verità 4 novembre 2020

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E negli Usa c’è aria di guerra civile

“Marionetta della sinistra radicale”, “Clown”. Trump-Biden, 90 minuti di insulti in tv

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Cleveland, 30 set – “Tutti sanno che sei un bugiardo e un clown. Sei il cagnolino di Putin. Sei stato il peggiore presidente della storia”. “Sei una marionetta in mano alla sinistra radicale. Non c’è niente di intelligente in te, Joe”. Ieri il presidente Usa Donald Trump, 74 anni, e il rivale democratico Joe Biden, 77 anni, si sono insultati per oltre novanta minuti in quello che è considerato “il peggior dibattito presidenziale in tv della storia”.

Un duello senza esclusione di colpi

Ieri sera alla Case Western Reserve University di Cleveland, in Ohio, nel Midwest, uno degli stati in bilico, è andato in scena il primo dei tre dibattiti televisivi per le presidenziali del 3 novembre. Il moderatore Chris Wallace di Fox News ha avuto grosse difficoltà a condurre il dibattito interrotto continuamente, all’insegna delle offese reciproche. Dal canto suo Trump si è vantato dei primati della sua presidenza, dell’economia e della gestione del Covid-19, che senza di lui, ha detto, avrebbe fatto ancora più morti. “Se non avessi chiuso i confini alla peste cinese adesso avremmo due milioni di morti“. Pesante la replica di Biden: ”Sei il presidente che ha lavorato di meno. La gente moriva e tu andavi sui campi da golf. Non sei riuscito a fare un piano contro il coronavirus“. Il risultato per il rivale dem sono i 7 milioni di malati e gli oltre 200 mila morti e milioni di persone che hanno perso il lavoro: “Una volta a proposito della pandemia Trump ha detto ‘è quello che è’”, ricorda Biden. E poi la bordata: ”Il coronavirus è quello che è perché tu sei quello che sei”.

Trump più a suo agio davanti alle telecamere

Tuttavia, nel complesso il presidente Usa è apparso più a suo agio davanti alle telecamere. Biden, sebbene sia un politico ultra navigato, è stato continuamente sovrastato dal tycoon ed è apparso palesemente più debole nei toni e nella comunicazione. “Se non volete ascoltare bugie per altri quattro anni. Andate a votare”, si è limitato a dire, nell’appello agli elettori. I 90 minuti del duello tv (poi sforati) sono stati suddivisi in 6 segmenti di 15 minuti monotematici: la nomina alla Corte suprema, l’emergenza sanitaria del coronavirus, la crisi economica generata dalla pandemia, le proteste razziali e le violenze nelle città, le tasse e le carriere politiche dei candidati, la regolarità delle elezioni del 3 novembre. Nelle intenzioni del conduttore, ai due candidati erano concessi due minuti di tempo a testa per rispondere alla domanda del moderatore con i successivi dieci per il dibattito. Invece è stato il caos più totale, con poche argomentazioni e continui litigi sui 6 temi scelti. I commentatori bollano il dibattito come uno spettacolo poco degno per le presidenziali che peraltro non è mai decollato sul piano dei contenuti. “Un dibattito davvero terribile“, lo boccia la Cnn. Continua a leggere

Salvini faccia sintesi nel Sovranismo italiano!

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di Matteo Castagna (pubblicato su Informazione Cattolica di oggi)

I globalisti, ovvero le sinistre hanno brindato alla vittoria delle elezioni regionali. Eppure, se si vanno a vedere i numeri non sembrerebbe che per i partiti che si riconoscono nel “deep State” la situazione sia propriamente quella prospettata da Di Maio e Zingaretti. Il fronte sovranista, infatti, governa 14 Regioni su 20 e centinaia di comuni, confermandosi largamente maggioritario nel Paese.

Fa tenerezza vedere i grillini esaltarsi della vittoria del “sì” al referendum costituzionale quando il consenso è stato, per loro, impietoso, relegandoli ad avere, quasi sostanzialmente, una rappresentanza parlamentare che, però, risale alle elezioni del 2018.

Mario Mieli, sul Corriere della Sera, ha osservato che la destra in Italia è viva e vegeta nonché che dispone del partito di maggioranza relativa e di un leader che, piaccia o non piaccia, è l’artefice principale di questa fiducia da parte degli italiani. Non possiamo nascondere che vi siano dei problemi, che non vanno osservati ma affrontati. Un grande partito, con degli alleati, deve sapersi assumere l’onere e l’onore dell’esercizio del potere di decidere cosa va e cosa non va, nonché quali persone siano le migliori a dover interpretare il prossimo futuro, sapendo che si vince in squadra.

Un cambio di passo in senso pragmatico verso l’Europa è auspicabile, come auspicato da Giancarlo Giorgetti, laddove questo non significhi mandare a finire in quel che fu Fiuggi per Fini un sovranismo ancora in fase embrionale. Significa, semmai, due cose: andare a definire almeno nei suoi tratti fondamentali, questo benedetto sovranismo e renderlo credibile a governare il Paese, soprattutto attraverso una classe dirigente preparata, nel rispetto delle diverse anime e identità. A Salvini l’arduo compito di fare la sintesi, non certo di farsi da parte, come qualche sprovveduto o rosicone desidererebbe, facendo il gioco, più o meno consapevole, dei globalisti. Sarebbe auspicabile che si comprendesse che il fondamento su cui costruire trova solidità autentica e duratura solo attorno a principi fondamentali e addirittura, ancestrali, post-ideologici che in Occidente, ed in particolare in italia vedono nella cristianità la base di partenza. E’ proprio perché “non possiamo non dirci cristiani” che questa frase è stata fatta propria anche da autorevoli atei ed è la base da riconoscere anche e soprattutto da parte di chi non è cattolico, ma intellettualmente e culturalmente onesto. Le nostre radici classico-cristiane non sono contestabili. Basta guardarsi attorno per capire che sono, oggettivamente, la nostra primaria Identità. Partire da qui sarebbe importante per un processo fondativo da costruire tra uomini e donne che sono certamente peccatori, ma non per forza debbono essere impenitenti. Continua a leggere

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