VUOTERÀ IL SACCO?
Interesse a svelare segreti, in teoria non ne ha. Tiene famiglia. Il fratello Salvatore, le quattro sorelle, i cognati, la madre Lorenza, la figlia Lorenzina. Se apre bocca consuma tutti. Anche economicamente, visto il patrimonio che ha accumulato con i suoi affari fra l’eolico e la grande distribuzione. Meglio stare zitti.
Ha pur sempre una reputazione da mafioso da difendere, soprattutto se è convinto che non abbia molto da vivere. Ma non si sa mai. La mente umana è imprevedibile e, chissà, se il boss di Castelvetrano non smentisca sé stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco.
La lista potrebbe comprendere: i mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993; le protezioni di cui ha goduto; l’archivio di Totò Riina che, secondo alcuni pentiti, sarebbe in suo possesso; le relazioni che ha intessuto con imprenditori in mezza Sicilia.
Primo punto. Con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano è l’unico ormai in vita (Leoluca Bagarella si è curato in Cosa nostra solo della macelleria) che conosce i segreti degli accordi stipulati da Totò Riina con «quelli di lassù», Roma e Milano, nell’anno e mezzo che separano Capaci e via D’Amelio dal fallito attentato all’Olimpico, passando naturalmente dal massacro dei Georgofili di Firenze del maggio 1993. È uno degli ultimi testimoni mafiosi di quella spaventosa stagione italiana.
Secondo punto. Per restare alla macchia trent’anni serve una montagna di denaro e protezioni di alto livello, che non possono includere soltanto quel centinaio di vivandieri che gli hanno assicurato riparo fra Castelvetrano e Marsala, fra Campobello e Palermo. Ci vuole ben altro per conquistarsi la libertà per oltre un quarto di secolo. Amici dappertutto, anche fra le forze di polizia. Spiate. Una singolare coincidenza – ma attenzione è solo una coincidenza temporale – è l’arresto che avviene appena un mese dopo l’entrata nel carcere milanese di Opera dell’ex sottosegretario all’Interno Antonino D’Alì, rampollo di un’aristocratica famiglia trapanese che con i Messina Denaro ha storicamente avuto stretti rapporti.
D’Alì è stato condannato definitivamente in Cassazione a 6 anni di reclusione per concorso esterno, doveroso ricordare però che il suo «essersi speso a favore dell’associazione denominata Cosa nostra» è cessato nel 2006. In trenta giorni, ecco la coincidenza, sono finiti tutti e due in galera.
Terzo punto. L’arma letale è il tesoro di Totò Riina, le carte che non sono state recuperate nella villa di via Bernini a Palermo perché una squadretta di mafiosi ha ripulito le stanze accuratamente grazie a un “disguido” dei carabinieri di Mori, che invece avrebbero dovuto sorvegliare ogni movimento intorno alla villa. «Ci sono cose da far tremare l’Italia», hanno confessato più collaboratori di giustizia ai procuratori di Palermo. L’archivio sarebbe nelle mani di Matteo. Una bomba. Se lo facesse ritrovare, ci sarebbe veramente di che scrivere. |