NOTE CIRCA LA PROPOSTA DI LEGGE REGIONALE SUL SUICIDIO ASSISTITO

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Francesco Farri

1. La proposta di legge regionale di iniziativa popolare su “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per l’effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019” richiede, anzitutto, di chiarire un equivoco di fondo, che essa si presta a generare fin dalla sua intitolazione.

Il richiamo fin dal titolo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 sembra presentare la proposta di legge come qualcosa di costituzionalmente necessario, ossia di indispensabile per dare attuazione ai principi costituzionali, come affermati – secondo la proposta stessa – dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019.

Sennonché, essa in verità non ha e non può avere tale portata.

Infatti, la sentenza n. 242/2019 ha un ambito ben preciso, che è quello di dichiarare incostituzionale la norma che puniva in ogni caso e senza differenziazione l’aiuto al suicidio; non è una sentenza la cui portata precettiva investe l’organizzazione amministrativa e sanitaria; non è una sentenza che istituisce un “diritto al suicidio”.

La sentenza stabilisce che, in alcuni casi peculiari, l’aiuto al suicidio non deve essere punito in maniera identica alla generalità dei casi; non dichiara illegittime le norme sul servizio sanitario nazionale nella parte in cui non stabiliscono procedure e tempi per l’aiuto al suicidio. La sentenza si limita a dichiarare la non punibilità di alcuni comportamenti, non fonda un diritto pretensivo a ottenere dall’amministrazione pubblica il comportamento scriminato (come efficacemente precisato da G. Razzano, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, in Consulta Online, 2024, 77). E non fonda un simile “diritto pretensivo”, non già per ragioni formali o processuali, ma ben più radicalmente perché esclude nel merito che un tale diritto esista: la sentenza afferma infatti, a chiare lettere, che “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” (par. 6) e che dalla Costituzione “discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire” (par. 2.2.).

Questa differenza di portata precettiva è fondamentale e va tenuta ben presente quando si affronta il tema.

La sentenza è quindi di per sé già del tutto autosufficiente per conseguire il risultato che essa ritiene costituzionalmente doveroso, ovvero differenziare il trattamento di alcuni casi di aiuti al suicidio rispetto agli altri. Essa non richiede affatto come costituzionalmente necessario un intervento del legislatore per completarla.

La Corte “auspica” solamente che la materia formi oggetto di compiuta disciplina da parte del legislatore, ma non detta un obbligo vincolante in tal senso, né detta tempi, né suggerisce contenuti.

Tanto meno la Corte ha imposto al servizio sanitario nazionale di erogare prestazioni di suicidio assistito: essa ha unicamente affidato al servizio sanitario nazionale una fase di verifica delle condizioni e delle modalità del protocollo suicidario, non certo la diretta erogazione del servizio o assistenza per la sua esecuzione materiale, come invece propugna la proposta di legge di cui si discute (art. 2, comma 5; art. 3, commi da 5 a 7; art. 4).

Occorre quindi sgombrare il campo dal possibile equivoco che la proposta di legge in questione sia costituzionalmente doverosa. Essa non lo è e rappresenta unicamente una proposta politica, rispondente a una precisa scelta ideologica.

2. Appurato che la proposta di legge non è costituzionalmente necessaria, se la si esamina nel dettaglio balzano agli occhi – per converso – macroscopici profili di incostituzionalità, che rendono pressoché certo il suo annullamento da parte della Corte Costituzionale, nella ipotesi in cui venisse approvata.

I profili di incostituzionalità si possono dividere in due gruppi.

Un primo gruppo attiene all’incompetenza delle regioni a legiferare in materia.

Un secondo gruppo attiene ai contenuti della proposta di legge stessa, che violano i paletti posti dalla Corte Costituzionale nella stessa sentenza n. 242/2019 cui pure la proposta ambirebbe a dare esecuzione.

Vediamoli con ordine.

3. A dispetto del titolo, la proposta di legge va ben oltre il perimetro dell’organizzazione sanitaria di competenza (concorrente) regionale e impinge in modo consistente in materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Tale aspetto è stato analiticamente dimostrato, tra l’altro, da un parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato ai Presidenti dei Consigli Regionali del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, nn. 39326/23 e 40525/23 del 15 novembre 2023.

3.1. Anzitutto, è evidente che la proposta normativa in questione incide in modo diretto sul diritto alla vita, introducendo un “diritto al suicidio”, ossia a disporre della propria vita, addirittura esigendo la cooperazione dell’amministrazione pubblica per renderlo effettivo.

Ebbene, come ben evidenziato anche nella prima parte del parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in data 15 novembre 2023, la Corte Costituzionale, per giurisprudenza costante (ribadita sia nella sentenza n. 242/2019, sia nella giurisprudenza successiva, si pensi, in particolare, alla sent. n. 50/2022), qualifica il diritto alla vita come diritto inviolabile supremo, “cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, costituendo “la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona”.

Se così è, ogni bilanciamento che lo riguardi non può che attenere ai livelli essenziali delle prestazioni attinenti ai diritti civili che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

Il discorso va oltre la formale individuazione dei LEA e attiene al cuore dello stesso concetto di “livello essenziale” dei diritti civili, utilizzato dalla Costituzione (art. 117, c. 2, lett. m). Se per la Corte Costituzionale il diritto alla vita attiene “all’essenza dei valori supremi”, ne consegue che tutto ciò che direttamente lo riguarda integra per sua natura un nucleo “essenziale” dei diritti civili. Come tale, ciò rientra nella competenza esclusiva statale perché non può che essere disciplinato in modo unitario su tutto il territorio nazionale, pena una radicale compromissione dei principi supremi di pari dignità sociale di tutti i cittadini (art. 3 Cost.) e di unità della Repubblica (art. 5 Cost.).

3.2. In materia affine, quella delle d.a.t., dove una regione aveva tentato di introdurre una regolamentazione regionale prima di una legge nazionale (poi approvata con legge n. 219/2017), la Corte ha chiaramente affermato che si tratta di temi che “necessita[no] di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di uguaglianza” (Corte Cost., n. 262/2016), pena la violazione anche di un altro ambito di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ossia l’ordinamento civile e penale della Repubblica (art. 117, c. 2, lett. l Cost.).

Invero, se rientrano nel concetto di ordinamento civile tutte quelle norme suscettibili di incidere “su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona” (Corte Cost., n. 262/2016), appare evidente come una norma, che sancisca un “diritto al suicidio” e lo disciplini per esigere una cooperazione di soggetti terzi per realizzarlo, non potrebbe che essere emanata – sul puro piano delle competenze (e ferma la sua incostituzionalità nel merito, cfr. infra par 4.1.) – unicamente dal legislatore statale. Una norma del genere, infatti, inciderebbe in sommo grado sulla “integrità della persona”, compromettendola alla radice (F. Piergentili, Progresso tecnologico e nuove questioni costituzionali: la (in)competenza delle Regioni sul fine vita, in Dir. Merc. Tecn., 2023, par. 4).

3.3. E’ chiarissimo, d’altronde, che l’invito – non vincolante – che la Corte rivolge al legislatore affinché intervenga a disciplinare compiutamente la materia è rivolto specificamente al Parlamento, e non al legislatore regionale. E’ il Parlamento cui si rivolge la propedeutica ord. n. 207/2018 ed è il Parlamento a essere evocato nei passaggi della sent. n. 242/2019 che al possibile intervento del legislatore si riferiscono.

A ciò si aggiunga che, come rilevato dall’Avvocatura Generale dello Stato, “i criteri dettati dalla Corte nella sentenza n. 242/2019 scontano un inevitabile tecnicismo (si pensi, ad esempio, alla nozione di “trattamenti di sostegno vitale”), che, inevitabilmente, si prestano ad interpretazioni non omogenee, le quali potrebbero determinare una ingiustificabile disparità di trattamento, per casi analoghi, sul territorio nazionale”, laddove la normativa fosse dettata da leggi regionali, così ledendo anche sotto questo ulteriore profilo la competenza esclusiva statale in tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, di cui all’articolo 117, c. 2, lett. m), Cost..

3.4. Alla luce di quanto sopra esposto, risulta chiaro come sia dunque privo di attinenza il richiamo, compiuto dalla proposta di legge, al principio di “cedevolezza invertita”, secondo cui l’intervento del legislatore regionale potrebbe anticipare l’inerzia del legislatore statale, nelle more e fino a un intervento di quest’ultimo. Tale principio, infatti, “attiene pur sempre (e soltanto) a materie di competenza concorrente della Regione” (Corte Cost., n. 1/2019), per cui non vale neppure in parte nel caso di specie dove, come si è detto, vengono in rilievo competenze legislative esclusive dello Stato.

Anche sul punto, davvero nessun dubbio può sussistere, poiché il tema è già stato affrontato dalla Corte Costituzionale nel già menzionato affine caso del “testamento biologico” regionale. Anche in quel caso la Regione interessata (il Friuli Venezia Giulia) ritenne di aver titolo a intervenire a fronte della mancata regolamentazione da parte del legislatore nazionale (poi, in qual caso, superata dalla l. n. 219/2017). La Corte, tuttavia, non ebbe dubbi nel dichiarare incostituzionale la legge regionale, statuendo che, in una materia affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, l’affermata inerzia del Parlamento “non vale a giustificare in alcun modo l’interferenza della legislazione regionale” (Corte Cost., n. 262/2016).

Risulta quindi confermata, sotto ogni aspetto, l’incompetenza della Regione a legiferare su aspetti come quelli fatti oggetto della proposta di legge sul suicidio assistito in commento.

4. Vi è di più, in quanto l’incostituzionalità della proposta di legge in commento non attiene soltanto al versante dell’incompetenza legislativa regionale, ma anche al merito dei contenuti.

Una legge del genere sarebbe incostituzionale anche se fosse in ipotesi approvata dallo Stato, poiché essa non viola soltanto i criteri di riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, ma anche altri principi costituzionali e gli stessi criteri di fondo della sent. n. 242/2019 cui pretenderebbe di dare esecuzione.

4.1. Anzitutto, contrasta alla radice con la Costituzione una proposta di legge che sancisca un “diritto al suicidio” e ne affidi l’esecuzione al sistema sanitario nazionale. L’art. 32 della Costituzione afferma che la Repubblica e, dunque, il sistema sanitario pubblico tutela la “salute” e garantisce “cure” alle persone, mentre per definizione il farmaco suicidario non tutela la salute della persona e non la cura, bensì la sopprime. La sentenza della Corte, n. 242/2019 è ben attenta a distinguere il profilo su cui si pronuncia della non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, in alcuni frangenti, rispetto all’affermazione di un diritto a suicidarsi con l’aiuto di terzi, che essa al contrario nega.

La Corte, infatti e sulla base di costante giurisprudenza (cfr. par. 2.2.), afferma che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)”.

4.2. Ferma tale preclusiva ragione, la proposta di legge in esame viola i paletti posti dalla Corte Costituzionale anche se si limitasse a disciplinare i casi di non punibilità, anziché debordare nella costituzione di un preteso diritto al suicidio e alla cooperazione di terzi per realizzarlo.

La Corte Costituzionale, infatti, ha indicato chiaramente tra i pre-requisiti per la non punibilità dell’aiuto al suicidio che “il paziente sia stato adeguatamente informato … in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua”. Requisito, questo, totalmente dimenticato dalla proposta di legge in commento.

La proposta di legge in questione, quindi, non appare idonea neppure a regolare validamente le condizioni scriminanti rispetto alla condotta di aiuto al suicidio.

Da ciò discende, altresì, un ulteriore profilo di violazione dell’art. 117, c. 2, lett. l, Cost.: omettendo di considerare il pre-requisito delle cure palliative, la proposta di legge di fatto allarga l’esimente introdotta dalla Corte Costituzionale, così intervenendo in modo diretto e illegittimo sull’ordinamento penale, riservato in via esclusiva allo Stato (M. Ronco – D. Menorello, “Legge Cappato”: la scorciatoia regionale è incostituzionale, in www.centrostudilivatino.it, 30 ottobre 2023, par. 3).

Occorre osservare, al riguardo, che la dimenticanza delle cure palliative non appare casuale, bensì al contrario consentanea rispetto all’impianto assiologico di fondo della proposta di legge in discorso. La palliazione, infatti, risponde a un modello di cura della persona opposto rispetto al suicidio.

4.3. Oltre a ciò, la proposta è costituzionalmente illegittima anche nella misura in cui, in violazione del principio di libertà di coscienza (derivante dagli artt. 2 e 19 Cost.) non consente ai medici l’obiezione di coscienza, espressamente richiesta dal par. 6 della sentenza della Corte (M. Ronco – D. Menorello, op. cit., par. 1).

La proposta è ulteriormente incostituzionale nella parte in cui impone al Servizio Sanitario Nazionale una prestazione da offrire gratuitamente agli utenti (art. 4) senza indicare analiticamente la copertura degli oneri per farvi fronte e senza addirittura allegare una relazione tecnica, in doppia violazione dell’art. 81 Cost.. Non sarebbe possibile, infatti, attingere le somme per finanziare il suicidio assistito dal fondo per le cure palliative, poiché la legislazione nazionale ne ha previsto l’utilizzo per una finalità diversa – e opposta – rispetto all’aiuto al suicidio e ha espressamente stabilito il vincolo delle somme all’utilizzo per il fine stabilito dalla legge (ossia appunto le cure palliative, non il suicidio assistito) (art. 12, c. 2 della l. n. 38/2010), nonché rigorosi meccanismi di monitoraggio dell’effettivo utilizzo per tali finalità, a pena della perdita per la Regione dei finanziamenti integrativi del sistema sanitario a carico dello Stato (art. 5, c. 4-bis della l. n. 38/2010).

Altri profili di incostituzionalità potrebbero essere individuati nella proposta di legge in commento (si rinvia, sul punto, a M. Ronco – D. Menorello, op. cit.). Si confida, tuttavia, che quanto sopra sia sufficiente a dimostrare come l’approvazione di una legge del genere da parte del Consiglio Regionale costituirebbe un’operazione giuridicamente priva di fondamento e destinata al sicuro insuccesso di fronte alla Corte Costituzionale.

 

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LA MATERNITÀ SURROGATA COME REATO UNIVERSALE: COMPRENDERE PRIMA DI VALUTARE

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

Sommario: 1- Premessa. 2- La tutela dei minori 3-La valutazione sulla surrogazione di maternità. 4-La modifica prevista dal disegno di legge. 5- Le caratteristiche del reato universale. 6-Conclusioni

di Cesare Parodi
Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Torino

1. Premessa

La valutazione sulla modifica del reato di maternità surrogata – che si vorrebbe trasformare in “reato universale” – inevitabilmente risente dell’approccio ideologico e culturale al problema; una questione che non può essere affrontata correttamente senza una disamina del quadro normativo e delle interpretazioni fornite dalla Corte Costituzionale, dalla Cassazione e dalle autorità europee sul tema.

Il significato di questo breve contributo è esattamente questo. Prima di esprimere valutazioni personali – indubbiamente tutte legittime- sul significato sociale prima ancora che giuridico della maternità surrogata è indispensabile individuare con chiarezza le posizioni ufficiali sull’argomento – a livello nazionale e internazionale – al fine di comprendere se forme di intervento su quella che è la realtà del settore siano giustificate e condivisibili anche laddove riguardino condotte che non avvengono sul territorio nazionale.

Per chiarezza, occorre ricordare che la surrogazione di maternità non solo è fenomeno differente dalla fecondazione eterologa, ma non è fenomeno univoco, in quanto può assumere due forme distinte:

  • surrogazione di concepimento e di gestazione, quando una donna demanda a un’altra donna sia la produzione di ovociti, sia la gestazione, non fornendo alcun apporto biologico
  • surrogazione di gestazione, nella quale l’aspirante madre produce l’ovocita il quale, una volta fecondato dallo spermatozoo, viene impiantato nell’utero di un’altra donna che fungerà esclusivamente da gestante.

2. La tutela dei minori

E’ necessario premettere un aspetto che- almeno apparentemente- risulta condiviso: la assoluta, prioritaria, imprescindibile tutela dei minori “frutto” di tali pratiche.  Un concetto che è stato ribadito – se mai ce ne fosse stato bisogno – dalle S.U. della S.C.[1], per la quale il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla gestazione per altri e il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto assoluto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, volto a tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione non solo soggettiva, ma anche oggettiva; ne consegue che, in presenza di una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non è consentito al giudice, mediante una valutazione caso per caso, escludere in via interpretativa la lesività della dignità della persona umana e, con essa il contrasto con l’ordine pubblico internazionale, anche laddove la pratica della surrogazione di maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino.

In tale occasione la S.C. ha precisato che « anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d)».

Indicazioni univoche sul punto giungono anche dalla Corte Costituzionale. Al proposito, la sentenza 32/2021 richiama la sentenza 347/1998, nella quale si evidenziava l’urgenza d’individuare idonei strumenti di tutela del nato a seguito di fecondazione assistita (situazione per vari aspetti assimilabile a quella della maternità surrogata), soprattutto in relazione «ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendosene le relative responsabilità».  Proprio in conseguenza di questa esigenza il legislatore, agli artt. 8 e 9 della l. 40/2004, ha previsto che il consenso alla P.M.A. determina l’effetto per chi lo abbia prestato di divenire responsabile nei confronti del nato quale destinatario naturale dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico e ciò sebbene il dato della provenienza genetica non costituisca un imprescindibile requisito della famiglia (Corte Cost., n. 162/ 2014; n. 272/2017).

E’ considerato determinante «il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche in contrasto con la verità biologica» (Corte Cost., n. 127/2020).

Anche la sentenza 33/2021, con oggetto la valutazione della violazione dei principi di cui agli art. 12, comma 6, l 40/2004, (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), fa proprie in larga misura le preoccupazioni espresse da altre decisioni in ordine all’esigenza di assicurare al minore il diritto a un inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, segnalando il rischio di situazioni d’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti che non hanno determinato la condizione filiale in cui versano.

Sul punto, si segnala anche l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU che afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del «legame di filiazione» (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (sentenza Mennesson contro Francia, paragrafo 100; sentenza D. contro Francia, paragrafo 64).

La menzionata sentenza delle S.U., inoltre, segnala l’opportunità di affidare il riconoscimento della genitorialità a strumenti adeguati in grado di tutelare i minori, che non possono di certo essere quelli automatici. «L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore…..non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale». Una diversa soluzione «porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata».

Pare chiaro che su questo aspetto non vi possono essere esitazioni. Tutti i minori – quale che siano state le circostanze del loro concepimento e della loro gestazione- hanno diritto a una condizione assolutamente paritaria, sotto tutti i profili.

3. La valutazione sulla surrogazione di maternità

Vediamo, allora, se esiste una valutazione sulla surrogazione di maternità espressa a prescindere dai condizionamenti culturali e ideologici dei singoli.

Anche sul punto, deve essere riportata la valutazione delle S.U. della S.C. (si tratta, come è evidente, dalla più autorevole espressione a livello giurisdizionale); la decisione sottolinea la volontà di disincentivare il ricorso alla maternità surrogata, una pratica che per i giudici di legittimità «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo». Sul punto, la S.C. osserva che il riconoscimento mediante delibazione o trascrizione del provvedimento straniero «finirebbe per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante», aggiungendo che detto automatismo non sarebbe neppure funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, «attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi» (p. 51).

Le Sezioni unite, nel richiamare la sentenza numero 79/2022 della Corte costituzionale, hanno messo in evidenza che la fecondazione eterologa va tenuta distinta dalla maternità surrogata: nel caso di quest’ultima, infatti, “la genitorialità giuridica non può fondarsi sulla volontà della coppia” perché “dalla disciplina degli articoli 8 e 9 della legge 40 del 2004 non possono trarsi argomenti per sostenere l’idoneità del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternità”.

Sul tema la Corte Costituzionale (sentenza 272/2017) ha affermato che il desiderio di genitorialità attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita o alla gestazione per altri, «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” e non può legittimare un illimitato diritto alla genitorialità».

Indicazioni sostanzialmente non difformi sono reperibili anche a livello europeo; il 17 dicembre 2015, nel corso dell’Assemblea plenaria del Parlamento europeo, è stata approvata la Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014, sulla politica dell’Unione Europea in materia, di cui alla risoluzione 2015/2229 (INI); la Relazione contiene un emendamento che stabilisce che il Parlamento europeo «condanna la pratica della maternità surrogata, che mina la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce; considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani» a disposizione dell’Unione europea nel dialogo con i Paesi terzi.

Anche recentemente il Parlamento Europeo ha ribadito la sua posizione nei confronti della pratica della maternità surrogata; il 5 maggio 2022 sono stati pubblicati tutti i testi approvati da tale organo, tra i quali è presente il documento che riguarda la risoluzione sull’impatto della guerra contro l’Ucraina sulle donne, al cui interno è possibile trovare la posizione chiara del Parlamento nei confronti della maternità surrogata. Al proposito il Parlamento Europeo:

«13. condanna la pratica della maternità surrogata, che può esporre allo sfruttamento le donne di tutto il mondo, in particolare quelle più povere e in situazioni di vulnerabilità, come nel contesto della guerra; chiede che l’UE e i suoi Stati membri prestino particolare attenzione alla protezione delle madri surrogate durante la gravidanza, il parto e il puerperio e rispettino tutti i loro diritti nonché quelli dei neonati;

14. sottolinea le gravi ripercussioni della maternità surrogata sulle donne, sui loro diritti e sulla loro salute, le conseguenze negative per l’uguaglianza di genere nonché le sfide derivanti dalle implicazioni transfrontaliere di tale pratica, come è avvenuto nel caso delle donne e dei bambini colpiti dalla guerra contro l’Ucraina; chiede che l’UE e i suoi Stati membri analizzino le dimensioni di tale industria, il contesto socioeconomico e la situazione delle donne incinte, nonché le conseguenze per la loro salute fisica e mentale e per il benessere dei neonati; chiede l’introduzione di misure vincolanti volte a contrastare la maternità surrogata, tutelando i diritti delle donne e dei neonati»

Ancora, il 18 marzo 2016, il Comitato nazionale per la bioetica, organo di consulenza al Governo, al Parlamento e alle altre istituzioni, ha approvato una mozione con la quale definisce la maternità surrogata come « un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione », ritenendo che «l’ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i princìpi bioetici fondamentali ».

Alla luce di tali indicazioni, si può ragionevolmente affermare che – allo stato- è rilevabile un giudizio autorevole, ampiamente condiviso, negativo sulla maternità surrogata, proprio in relazione alla condizione della donna e allo sfruttamento e alla lesione della dignità della stessa.

4. La modifica prevista dal disegno di legge.

La legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita», all’articolo 12, comma 6, prevede che «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Il disegno di legge 306[2] prevede che all’articolo 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il reato di surrogazione di maternità è perseguibile anche quando è commesso in territorio estero da un cittadino italiano».

La finalità è chiara: al momento la legge non sanziona le condotte commesse dai cittadini fuori dal territorio nazionale, così che le coppie interessate stipulano contratti di maternità surrogata all’estero, nei paesi in cui tale pratica è lecita. Sul presupposto della non illeceità del fatto commesso all’estero, può essere, in seguito richiesto il riconoscimento dei minori, considerando la necessità di tutelare – ovviamente – i diritti di questi ultimi.

Proprio considerando il giudizio negativo espresso – come sopra ricordato- sulla maternità surrogata dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale, si ritiene necessario integrare l’attuale disciplina prevista dalla Legge numero 40/2004 estendendo il divieto e la sanzione penale anche alle condotte commesse all’estero.

5. Le caratteristiche del reato universale

Numerose e varie sono le critiche che si sono levate nei confronti della prospettiva di trasformare il delitto in oggetto in reato universale.

In estrema sintesi si assume:

  • che si tratterebbe di un “attacco” alla sovranità dei Paesi nei quali tale pratica è lecita
  • che sussisterebbero oggettive difficoltà di accertamento del reato, atteso che tali Stati potrebbero rifiutare forme di collaborazione, alla luce della liceità della condotta per i propri ordinamenti.
  • che la categoria del reato di carattere universale, per cui chiunque commette il reato, anche al di fuori del nostro territorio nazionale, sarebbe prevista dal codice penale – all’art. 7 c.p.- solo per delitti contro l’umanità, casi estremi, di assoluta gravità, perseguiti in tutti gli ordinamenti del mondo.

Si tratta di argomentazione che non convincono sino in fondo. Vediamo per quali ragioni.

Sul primo aspetto, si deve rilevare che “l’attacco” alla sovranità potrebbe essere ipotizzato ove la nuova fattispecie non presentasse una forte caratterizzazione di carattere nazionale. La norma, in effetti, non è diretta a stigmatizzare negativamente qualsiasi forma di maternità surrogata, ma solo quando la condotta avviene in territorio estero da parte di un cittadino italiano. E’ la connotazione soggettiva dell’autore del reato che impedisce di rilevare una indebita ingerenza nella “sovranità” di altri Stati, in quanto il legislatore italiano intende intervenire sulle condotte di soggetti che- evidentemente- intendono ottenere una “ricaduta” giuridica a livello nazionale della condotta posta in essere all’estero e non genericamente su condotte dirette a determinare una maternità surrogata.  Per altro, il codice penale prevede in termini generali la punibilità per reati commessi all’estero, siano essi politici (art 8 c.p.) siano essi comuni, sebbene a determinate condizioni, tra le quali specifici “livelli” di pena ( art 9 e 10 c.p.) sia nel caso di cittadini italiani che di stranieri, senza che in concreto si sia posti in generale un problema di “rispetto” dell’altrui sovranità.

Sul secondo aspetto si impone una duplice considerazione. La difficoltà (in alcuni casi concreta impossibilità) della prova non può rilevare sulla valutazione sull’esigenza di riconoscere la rilevanza penale di una condotta. E’ un dato di fatto, significativo ma non decisivo. Se consideriamo, ad esempio, alcuni reati informatici, la presenza su territorio estero di molti server e la non collaborazione di tali soggetti imporrebbero di rivedere l’ambito di penale rilevanza di molti fenomeni presenti sul web. Non è così, ovviamente, e non vi sono ragioni per applicare tale principio al caso di specie. La mancata volontà di collaborazione di altri Stati- verosimili ma da verificare- si scontra, comunque, con un dato di fatto non trascurabile: la necessità per i soggetti che chiedono il riconoscimento di minori concepiti tramite maternità surrogata di “documentare” la provenienza del minore e di fornire indicazione sui soggetti che intendo riconoscere lo stesso. Un quadro che- evidentemente- può essere in gran parte completato con accertamenti praticabili sul territorio nazionale.

In relazione, infine al fatto che l’art. 7 c.p. sarebbe stato inserito nel codice solo per sanzionare condotte di assoluta gravità, perseguiti in tutti gli ordinamenti del mondo – quali i crimini contro l’umanità- o poste in essere in contrasto con interessi nazionali di natura pubblicistica, occorre verificare se in concreto ciò corrisponda al vero.

L’art. 7 c.p. indubbiamente prevede la punibilità secondo la legge italiana per soggetti che commettono anche in territorio estero reati con matrice fortemente “pubblicistica”[3]. Nondimeno, è altresì prevista la punibilità per «ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana».

Se andiamo a verificare alcuni casi specifici per i quali tale punibilità è prevista, si può rilevare che si tratta di situazione di esigenze di tutela di singoli soggetti, che si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità. Così l’art. 591 comma 4 c.p., in tema di abbandono di minori o di incapaci, sanziona la condotta di chi «abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro».

Non solo: in termini generali ai sensi dell’art. 604 c.p. (Fatto commesso all’estero) estende la punibilità di una serie di reati in materia sessuale (segnatamente «le disposizioni di questa sezione nonché quelle previste dagli articoli 609bis, 609ter, 609quater, 609quinquies, 609 octies e 609 undecies») anche ai fatti commesso all’estero da cittadino italiano ovvero in danno di cittadino italiano…..

Infine- ed emblematicamente- nessun limite territoriale o legato alla cittadinanza è previsto, in base all’art. 600 quinquies c.p., per stabilire la punibilità di chi «organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività…».

6. Conclusioni

Se si esaminano le valutazioni globalmente negative espresse sulla maternità surrogata dalla Corte Costituzionale, dalle Sezioni Unite della S.C. e dal Parlamento pare difficile ritenere che condotte di contrasto a tale pratica possono essere espressive di una scelta “eccentrica” rispetto a una considerazione ampiamente diffusa e correttamente giustificata rispetto a tale pratica, in relazione alla necessità di tutela della dignità della donna e dei diritti del minore.  In questa prospettiva non pare risolutiva la prospettazione della  distinzione tra una surrogazione di maternità dietro compenso – non facilmente difendibile in relazione alla menzionata tutela della dignità della donna- da quella gratuita, che sarebbe effettuata per scopo sostanzialmente solidaristico, proposta sulla base di un parallelismo con la donazione di organi. Si tratta di una tesi indubbiamente suggestiva, anche se pare improponibile assimilare un organo al prodotto del concepimento, anche e soprattutto in relazione al minore che di tale operazione è il frutto. Si tratta di una prospettazione che non tiene conto che dopo nove mesi di gestazione quella donna potrebbe maturare- magari nel futuro- un rapporto psicologicamente non facile da gestire con quel bambino ( con il quale non ha potuto mantenere alcun rapporto) e di come quello stesso minore potrebbe sentirsi negata una parte importante – anche se sconosciuta e proprio in quanto sconosciuta – della propria esistenza. Un bambino non è un rene e un utero non è una incubatrice per conto terzi.

Per altro, la menzionata sentenza delle S.U. della S.C. ha precisato che non è possibile in questi casi il riconoscimento diretto in Italia delle sentenze straniere che riconoscono la filiazione, indicando la strada dell’adozione speciale, attraverso una valutazione attenta dell’interesse del minore, che è l’aspetto fondamentale da tenere in considerazione e al limite valutando una revisione globale della disciplina dell’adozione, che non è stata “toccata” dalla recente riforma del diritto di famiglia.[4]

In fondo, questo è il vero nocciolo del problema: proprio l’assoluta necessità di  fornire comunque e soprattutto tutela ai minori- a tutti i minori, indistintamente- ha suggerito l’esigenza di strutturare un forte disincentivo per una pratica che – come sopra precisato- è stata censurata in varie e autorevolissime sedi. Come è stato correttamente osservato «La tutela dei minori – se veramente questo è l’obiettivo che si vuole perseguire ‒ dovrebbe …essere anticipata fino al punto da impedire pratiche disumanizzanti, non già essere strumentalizzata per obbligare l’ordinamento ad accettare qualcosa che ha vietato, attraverso la logica del “fatto compiuto”. La tutela dei minori già nati con il ricorso alla maternità surrogata dovrebbe andare di pari passo con la stigmatizzazione di coloro che hanno fatto ricorso ad una pratica lesiva della dignità umana».[5]


[1] Cass. civ, S.U. n. 38162, 30 dicembre 2023. Rv. 666544

[2] Proposta di legge 306 Modifica all’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano

[3]. Si  tratta dei delitti contro la personalità dello Stato italiano, dei delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; dei delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano e dei delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni

[4] Su questi temi I. Perinu, Da Padova un monito: il giudice (e il sindaco) non possono sostituirsi al legislatore, wwww.centrostudilivatino.i

[5] Così D. Bianchini, Maternità surrogata e giurisprudenza creativa: in danno di donne e bambiniwww.centrostudilivatino.it

DROGA: I DATI DELLA RELAZIONE ANNUALE 2023

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di Daniele Onori

La Relazione Annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze 2023 è stata inviata al Parlamento dal Sottosegretario Alfredo Mantovano. Questa relazione è la principale fonte informativa nazionale del Dipartimento per le Politiche Antidroga ed è prevista dal DPR 309/90. I dati utilizzati per la relazione provengono da diverse fonti, tra cui amministrazioni centrali, periferiche, centri di ricerca e enti del privato sociale competenti in materia. Lo scopo principale della Relazione è fornire un quadro il più accurato possibile del fenomeno delle tossicodipendenze al fine di guidare gli interventi pubblici in questo settore. Il rapporto mira a rappresentare in modo completo e aderente alla situazione attuale il problema delle tossicodipendenze. Inoltre, si prevede un adeguamento nella raccolta dei dati per renderne l’aggiornamento ancora più puntuale dal prossimo anno. Questo adeguamento comprenderà anche altre forme di dipendenze, come quelle comportamentali, al fine di fornire una visione più completa e aggiornata della situazione delle dipendenze nel paese.

La Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia[1] rappresenta uno strumento di analisi essenziale per la comprensione del fenomeno delle dipendenze che è sempre più legato a dinamiche di mercato complesse che caratterizzano sia la domanda che l’offerta di sostanze stupefacenti. L’analisi affronta le tendenze che caratterizzano la situazione attuale e identifica i nuovi scenari emergenti.

Il fenomeno analizzato da un punto di vista dei consumi appare in aumento sia nella fascia 18-64 anni sia nella fascia 15-19 anni.

In particolare, preoccupante è l’incremento nella fascia giovanile rispetto ai dati riferiti al 2021 (aumento dei consumi dal 18,7% al 27,9%) con un aumento rilevante soprattutto per cannabinoidi sintetici e NPS.

Nei dati di quest’anno da segnalare in particolare la persistenza di una alta prevalenza di uso di cannabinoidi sintetici e delle NPS che nel loro complesso rappresentano circa il 10% dei consumi. Sostanze queste “di nuova generazione” che hanno come fonte principale di acquisto il mercato del web. Ulteriore dato che colpisce è l’uso di psicofarmaci (SPM) riportato nella fascia 15-19 anni al 10,8% (nel 2021 era di 6,6%)

Lo stesso Rapporto Mondiale sulla Droga 2022 dello United Nation Office of Drugs and Crime ha confermato il sensibilissimo aumento nella coltivazione e nel traffico di cocaina, nonché l’esponenziale crescita nella produzione e commercializzazione delle Nuove Sostanze Psicoattive, individuando nella popolazione giovanile a livello planetario il “target” privilegiato per l’offerta delle sostanze stupefacenti e riconoscendo necessarie nelle Agende dei Governi le decisioni condivise in tema di politiche di prevenzione, cura e contrasto alle droghe illegali per la tutela della salute delle popolazioni.

Quale e quanta droga si consuma in Italia?

La cocaina continua ad essere una delle sostanze più presenti nel mercato delle droghe in Italia, con un flusso di sostanza proveniente in prevalenza via mare dai Paesi di produzione sudamericani: negli ultimi quattro anni i quantitativi intercettati nel nostro Paese sono passati da circa 3 tonnellate e mezzo (2018) a oltre 26 tonnellate di sostanza sequestrata, il 77% delle quali presso le aree doganali marittime. A fronte di una maggiore diffusione nel territorio non è cambiata nel tempo la concentrazione media (70%) di principio attivo rilevata nei campioni di sostanza analizzati. Stabili anche il costo medio al chilogrammo a livello del narcotraffico (38.300 euro) e il prezzo sul mercato della strada, dove un grammo di sostanza costa in media 83 euro.

La spesa per il consumo stimata nel 2022 rappresenta poco meno di un terzo della spesa generale attribuita all’acquisto di sostanze stupefacenti e si aggira intorno ai 5 miliardi di euro. Tornano a crescere anche i consumi fra i giovanissimi (15-19enni): nel 2022 circa 44.000 studenti (ossia il 2% della popolazione studentesca) ne riferiscono l’utilizzo.

Sono mezzo milione le persone tra i 18 e gli 84 anni (1,1%) che ne hanno fatto uso nel corso dello stesso anno rendendo evidente che la cocaina resta una delle sostanze stupefacenti più diffuse nel Paese, dato confermato anche dalle analisi delle acque reflue.

La penetrazione nei territori è confermata anche dall’incremento nell’ultimo decennio delle segnalazioni per possesso di sostanza per uso personale (Art.75 DPR n.309/1990), che rappresentano il 18% del totale delle segnalazioni avvenute nel 2022 e che vedono protagonisti soprattutto i consumatori con almeno 30 anni di età. A fronte di un generale decremento delle denunce per traffico e detenzione (Art.73 DPR n.309/1990) e quelle per associazione finalizzata al traffico illecito (Art.74 DPR n.309/1990), crescono in percentuale quelle associate a reati penali cocaina/crack-correlati.

Gli ultimi anni hanno reso evidente anche il maggiore impatto dei danni sanitari correlati alla sostanza e, se i dati del 2022 riferiti alle persone in trattamento presso i SerD, per uso primario o secondario di cocaina, mostrano una sostanziale stabilizzazione, cresce il numero di coloro che intraprendono un percorso nell’ambito dei servizi per le dipendenze del Privato Sociale, dove questa è la sostanza per il maggior numero di persone (39%) in trattamento.

Importante inoltre evidenziare che la cocaina rappresenta la sostanza d’uso primaria per oltre la metà dei detenuti tossicodipendenti e che il numero assoluto dei detenuti assistiti per disturbi da uso di sostanze da questa sostanza (10.047 soggetti) è quasi il doppio di quello riferito agli oppioidi (5.323 soggetti). In progressivo aumento anche i ricoveri correlati al consumo di cocaina, sia per diagnosi principale sia per diagnosi multiple droga-correlate, rispettivamente pari al 24% e 34% dei ricoveri droga-correlati.

Coerentemente aumentano anche i decessi attribuibili a overdose da cocaina/crack che nel 2022 hanno superato il 22% del totale (n.66). In generale si assiste quindi a un aumento della diffusione di cocaina, sia sul mercato sia a livello dei consumi: un fenomeno che necessita di essere attentamente monitorato al fine di contrastarne la diffusione e prevenirne il consumo.

Cannabis: la sostanza illegale più utilizzata

Tutti gli indicatori esaminati descrivono i prodotti della cannabis come le sostanze stupefacenti più utilizzate in Italia, dato in linea con i medesimi indicatori riferiti a domanda e offerta a livello europeo e mondiale.

Dopo un’apparente contrazione osservata nel biennio trascorso il mercato torna ai valori del periodo pre-pandemico. Nel 2022 in più di 9.400 operazioni di polizia, che rappresentano circa il 50% delle operazioni totali, sono state sequestrate oltre 47 tonnellate di cannabis e derivati.

Oltre il 93% della sostanza sequestrata è stata rinvenuta nel territorio nazionale e nello specifico sulle persone fermate, in abitazioni private, in auto e all’interno di pacchi e lettere. Dall’analisi qualitativa è emersa una importante variabilità del quantitativo di principio attivo contenuto nei campioni con un sostanziale incremento medio di quello rinvenuto nei sequestri di hashish che dal 2018 è passato da una concentrazione media del 17% al 29%.

A conferma di una capillare penetrazione nel Paese, circa 4 milioni di persone tra i 18 e gli 84 anni (8,5%) hanno riferito di aver utilizzato prodotti della cannabis almeno una volta nel corso dell’anno e dalle analisi delle acque reflue si stimano circa 50 dosi giornaliere ogni 1.000 abitanti. Fra i giovanissimi sono oltre 580mila gli studenti tra i 15 e i 19 anni (24%) che ne hanno riferito l’uso nell’anno con valori tornati alle prevalenze osservate prima della pandemia.

Il 75% delle segnalazioni per detenzione a uso personale (Art.75 DPR n.309/1990) è legato al possesso di cannabinoidi dato questo che, a seguito di una riduzione nel biennio precedente, torna a crescere, mentre restano stabili le denunce cannabis-correlate per traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (Art.73 DPR n.309/1990) così come quelle per associazione finalizzata al traffico illecito (Art.74 DPR n.309/1990) che rappresentano rispettivamente il 44% e l’8% del totale delle denunce. Stabile la quota delle persone assistite per l’uso di derivati della cannabis, circa l’11% delle persone in trattamento presso i SerD e poco meno dell’8% per quanto riguarda gli utenti in trattamento presso i servizi del Privato Sociale. Bassa seppur in progressivo aumento dal 2011 la percentuale di ricoveri direttamente attribuibili alla cannabis (dal 3% al 6% dei casi droga-correlati), dato che tuttavia incrementa sensibilmente quando ci si riferisce a ricoveri con diagnosi multiple (26%), arrivando a rappresentare la seconda sostanza maggiormente indicata.

Eroina e Oppiacei: un fenomeno da non sottovalutare

I dati relativi alla diffusione di eroina e oppiacei descrivono un contesto articolato e controverso. Nel corso del 2022 si è osservata una generale stabilità del mercato degli oppiacei. I quantitativi di sostanza intercettata (circa 550 chilogrammi) si mantengono, come nel 2021, al di sotto dell’1% del totale delle sostanze sequestrate dalle Forze dell’Ordine. L’analisi qualitativa nei campioni sequestrati in media presenta percentuali di principio attivo stabile rispetto agli anni passati. Stabile o in leggera diminuzione anche il prezzo medio nello spaccio e nel traffico.

Stabili anche le segnalazioni per detenzione per uso personale (Art.75 DPR n.309/1990), che rappresentano il 5% delle segnalazioni totali, e le denunce eroina-correlate per traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (Art.73 DPR n.309/1990) così come quelle per associazione finalizzata al traffico illecito (Art.74 DPR n.309/1990) che, complessivamente, racchiudono il 7,4% delle denunce per reati droga-correlati.

Il dato relativo ai consumi nella popolazione indica invece una inversione di tendenza rispetto agli anni passati. Se nella popolazione studentesca si è tornati a livelli pre-pandemici con circa 25.000 studenti (1%) che riferiscono l’uso nel 2022, nella popolazione generale sono 750.000 le persone fra i 18 e gli 84 anni (1,4%) che riportano l’uso almeno una volta di eroina/oppiacei nell’anno, con un valore 3 volte superiore rispetto alla rilevazione del 2017.

Questo incremento potrebbe risentire della recente maggiore disponibilità di farmaci a base oppiacea, interpretazione sostenuta dal fatto che gli incrementi maggiori sono stati osservati nella popolazione femminile fra i 55 e i 74 anni.

In un quadro generalmente stabile gli oppiacei, e l’eroina in particolare, continuano a rappresentare la sostanza con un maggiore impatto di tipo sanitario, rappresentano infatti la principale sostanza di consumo tra gli utenti in trattamento ai servizi pubblici per le dipendenze e sono responsabili del 30% dei percorsi di recupero presso le strutture del Privato Sociale e del 20% dei ricoveri con diagnosi principale droga-correlata.

L’uso principale di eroina/oppiacei è inoltre attribuito al 14% dei detenuti tossicodipendenti. Rappresentano infine la categoria di sostanze responsabili del 50% dei decessi per overdose registrati in Italia seppur con una tendenza alla riduzione osservata nel corso degli ultimi tre anni. In un quadro di generale stabilità si osserva quindi un lento ritorno alla situazione pre-pandemica che potrebbe risultare inasprita da una maggiore contiguità con i farmaci a base oppiacea.

Nuove sostanze psicoattive: ancora più potenti e pericolose

La crescente variabilità nel mercato delle sostanze stupefacenti è influenzata dalla disponibilità e dal consumo delle cosiddette NPS (Nuove Sostanze Psicoattive), composti sintetici che, essendo rapidamente manipolabili, sono difficili da rilevare e non sono immediatamente elencati nelle liste delle sostanze vietate dalla legge e dagli accordi internazionali.

Si tratta di un insieme molto ampio e dinamico, in continua evoluzione, che comprende sostanze molto pericolose o potenzialmente letali. Queste caratteristiche rendono il monitoraggio di questo fenomeno tanto centrale quanto complesso.

Da anni il Sistema Nazionale di Allerta Precoce (SNAP) rende possibile un aggiornamento costante di questa tipologia di sostanze: nel 2022 ha rilevato 76 nuove sostanze, appartenenti prevalentemente alla classe dei cannabinoidi sintetici e dei catinoni sintetici, 29 delle quali circolanti per la prima volta nel nostro Paese. L’identificazione è avvenuta quasi sempre a seguito di sequestro.

Inoltre, 48 sostanze stupefacenti e 2 piante sono state inserite all’interno delle Tabelle ministeriali contenenti le sostanze stupefacenti e psicotrope. Nella popolazione generale questo tipo di sostanze ha una diffusione contenuta, in crescita se comparata alla rilevazione precedente: nel 2022 sono circa 300.000 le persone che riferiscono di averne fatto uso, la loro diffusione e versatilità è confermata anche dalla presenza nelle analisi delle acque reflue che identificano la presenza varie tipologie di catinoni sintetici, di triptamine, di aricicloesamine, di ketamine e di fetanili.

Sono in particolare i più giovani a consumare NPS: tra gli studenti di 15-19 anni è circa il 6%, equivalente a oltre 140mila ragazzi, ad averle consumate almeno una volta nell’anno. Dopo la cannabis rappresentano la seconda tipologia di sostanze più diffusa e spesso vengono utilizzate in associazione con altre sostanze psicoattive. Le NPS maggiormente popolari fra gli studenti sono i cannabinoidi sintetici (4,4%) che hanno visto un ritorno ai valori pre-pandemici, seguiti da oppioidi sintetici (0,9%), ketamina (0,7%) e catinoni (0,5%).

Le nuove sostanze psicoattive rappresentano quindi un complesso e significativo problema nell’attuale panorama delle dipendenze: nonostante coinvolgano una percentuale relativamente bassa di persone è un mercato che si caratterizza per la sua dinamicità e volatilità, con sostanze che emergono e scompaiono rapidamente, potenzialmente molto dannose e difficili da individuare con importanti conseguenze per la salute pubblica. Pertanto, è di fondamentale importanza identificare e sviluppare tecniche di analisi rapide ed efficaci, nonché implementare interventi preventivi per affrontare questa problematica e contrastare l’aumento del mercato delle NPS.

Sostanze stupefacenti: in Italia è emergenza under 25

In particolare, le sostanze psicoattive, legali e illegali, risultano piuttosto diffuse tra i giovanissimi. Nel 2022 si è osservato un generale aumento dei consumi che sono tornati a valori in linea o superiori rispetto a quelli prepandemici.

Tra le sostanze psicotrope legali, la più diffusa è l’alcol, consumato nell’anno da circa 1milione e 900mila studenti di 15-19 anni. Per oltre 780mila studenti (33%) si è trattato di un consumo elevato che ha portato all’intossicazione alcolica e, tra i 18-24enni, la quota di quanti si sono ubriacati nell’ultimo anno è circa il 50%. La grande novità sta nel sorpasso di genere: nel 2022 sono state soprattutto le studentesse sia ad utilizzare alcolici (M=77%; F=79%) sia ad essersi ubriacate (M=29%; F=35%).

In forte aumento anche l’uso di psicofarmaci senza prescrizione medica che nell’ultimo anno ha coinvolto quasi 270mila 15-19enni. Queste sostanze risultano da sempre più diffuse tra le studentesse, per le quali, nel 2022, si registrano i valori di consumo nell’anno più elevati mai osservati fino a oggi (15,1%). Il consumo di sostanze psicoattive illegali ha interessato circa il 30% della popolazione studentesca, il dato è in crescita rispetto al 2021 e ha raggiunto valori superiori a quelli pre-pandemici. La sostanza maggiormente utilizzata è la cannabis, seguita dalle nuove sostanze psicoattive, inalanti e solventi, cannabinoidi sintetici, stimolanti, allucinogeni, cocaina, anabolizzanti e oppiacei.

La cannabis è stata consumata dal 24% degli studenti e da oltre un quarto dei 18-24enni, con percentuali che tendono a diminuire dopo i 25 anni. Aumenta anche la quota di minorenni segnalati per violazione dell’Art.75 DPR n.309/1990, in particolare tra le ragazze che, nel 2022, raggiungono il 16% (M=11%; Totale=12%). Così come crescono del 15%, rispetto all’anno precedente, le denunce alle Autorità Giudiziarie per reati droga-correlati a carico di minorenni. Nel 2022, quasi il 10% degli accessi al Pronto Soccorso direttamente droga-correlati ha riguardato minorenni e circa il 14% 18-24enni. Tra i ricoveri con diagnosi principale droga-correlata, il 15% ha riguardato persone con meno di 24 anni, valore che risulta anch’esso in aumento. Si osserva inoltre una generale riduzione dell’età media dei ricoverati, specialmente nel genere femminile.

Nuove dipendenze

Oltre all’uso di sostanze, negli ultimi anni, si è assistito all’emergere di ulteriori comportamenti a rischio e potenzialmente additivi, spesso legati a Internet e alle nuove tecnologie. Il più diffuso tra questi è il gioco d’azzardo che nel 2022 ha interessato circa la metà degli studenti 15-19enni.

In seguito alla pandemia si osserva inoltre un incremento dell’utilizzo di Internet a rischio e della percentuale di vittime e autori di atti di cyberbullismo. Sempre nel mondo delle relazioni digitali emergono nuovi fenomeni come il ghosting o il ritiro sociale volontario. Il primo, nel 2022, ha coinvolto oltre 850mila studenti mentre sono circa 55mila gli studenti che sono rimasti isolati per oltre 6 mesi. Nello scenario attuale si osserva sempre più frequentemente una concomitanza di questi comportamenti, associati spesso tra loro e al consumo di sostanze psicoattive, legali e illegali, questo configura la necessità di considerare numerose dimensioni di fragilità in questa delicata fase dello sviluppo e l’urgenza di prospettare una presa in carico multidisciplinare capace di accogliere i bisogni dei più giovani.

Da vari anni, il tema delle dipendenze si è esteso includendo sempre di più, accanto alle principali forme di dipendenza legate a sostanze (ad es. alcol, cocaina, oppiacei), le cosiddette dipendenze comportamentali in cui non è implicato l’uso di sostanze.

Queste nuove dipendenze o New Addictions, che interessano un numero di persone sempre maggiore, vengono considerate da alcuni autori come malattie della postmodernità. Infatti, la loro diffusione sembra essere agevolata dall’innovazione tecnologica e dai cambiamenti socioculturali e socioeconomici.

Conclusioni

Dalla Relazione annuale emerge ancora una volta che  la droga costituisce una minaccia per la salute di ogni persona e per la sicurezza delle nostre comunità. È dovere di uno Stato opporsi a qualsiasi forma di traffico di sostanze stupefacenti e anche alla legalizzazione di talune di esse, perché tutte sono dannose, non ci sono droghe leggere.

Come affermato sapientemente dal Sottosegretario Alfredo Mantovano alla 66esima sessione della Commissione Stupefacenti delle Nazioni Unite il 13 marzo 2023:

Di fondamentale importanza è l’attività di prevenzione, informazione e comunicazione rivolte specialmente agli adolescenti, ponendo attenzione al trattamento e al recupero delle persone dipendenti garantendo l’accesso ai servizi di cura a chiunque ne abbia bisogno, senza discriminazione, sviluppando una solida rete territoriale, basata sulla collaborazione tra servizi pubblici di trattamento delle dipendenze e comunità terapeutiche. In altre Nazioni europee si sono conseguiti risultati importanti in termini di abbattimento, ad esempio, del consumo di tabacco, grazie a sanzioni mirate e a grandi campagne di informazione. Non possiamo dire altrettanto per il consumo di droga, questo perché continuano a circolare con troppa insistenza messaggi fuorvianti, relativi alla presunta innocuità o leggerezza di talune sostanze. Il richiamo ai diritti impone di interessarci, prima ancora dei milligrammi in più o in meno di ciascuna delle sostanze riportate nelle varie tabelle dei singoli Stati, di qualcosa di più importante: e cioè del significato da conferire a termini come libertà e responsabilità.  Per chi intende riscrivere le legislazioni sulla droga avvicinandole a esperienze di legalizzazione, libertà ha la declinazione di fare quello che si vuole, incluso darsi la morte, o comunque porre sé stesso nelle condizioni di non essere più sé stesso. Chi contrasta questa deriva è convinto invece che la libertà consista nel porsi nelle condizioni di rispettare sempre sé stessi e la propria dignità, e nel dare senso alla propria vita.


[1] https://www.politicheantidroga.gov.it/it/attivita/relazioni-annuali-al-parlamento/relazione-annuale-al-parlamento-sul-fenomeno-delle-tossicodipendenze-in-italia-anno-2023-dati-2022/

droga, Alfredo Mantovano,

Fonte: https://www.centrostudilivatino.it/droga-i-dati-della-relazione-annuale-2023/

IL RAFFORZAMENTO DEL PROPOSITO DI SUICIDIO INTEGRANTE ISTIGAZIONE AL SUICIDIO PUNIBILE AI SENSI DELL’ART. 580 C.P.

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Carmelo Leotta

Il 12 luglio scorso è stata depositata la sentenza della Corte di assise di appello di Catania – di cui i media hanno dato ampia notizia a seguito dell’udienza del 28 giugno – che, ribaltando il giudizio di primo grado, ha condannato Emilio Coveri,  presidente dell’associazione Exit Italia, per il delitto punito dall’art. 580 c.p. (istigazione e aiuto al suicidio) per aver rafforzato il proposito di suicidio di una donna, capace di intendere e di volere, affetta da depressione e da sindrome di Eagle, non sottoposta a cure di sostegno vitale. L’intento suicidario era portato a compimento dalla donna a Zurigo presso la clinica Dignitas, il 27.3.2019.

1. Il thema decidendum: la condotta di rafforzamento del proposito di suicidio rilevante ai sensi dell’art. 580 c.p. Pur non essendosi ancora formato il giudicato sulla vicenda, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania, a prescindere dal riferimento specifico al fatto di cronaca qui non oggetto di commento, si rivela di profondo interesse nella discussione penalistica sul fine-vita dal momento che fornisce una serie di preziosi criteri per accertare l’efficacia causale di condotte “comunicative” di convincimento rivolte da una terza persona ad un soggetto che, avendo già precedentemente contemplato tale possibilità, infine decide e mette in atto il suicidio proprio a seguito del contatto con il “rafforzatore”. La sentenza, in verità, si presta anche a talune critiche, di cui pure si dirà, allorquando tratta del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., limitandosi a individuare nell’autonomia individuale l’oggetto di tutela della fattispecie di istigazione al suicidio.

2. Il giudizio di primo grado. Il giudizio di primo grado si svolge dinnanzi al g.u.p. di Catania che, con sentenza del 10.11.2021 assolve l’imputato dall’accusa di istigazione al suicidio di G.B., L’istigazione si sarebbe realizzata, nell’ipotesi accusatoria, con plurime condotte messe in atto dall’imputato che intratteneva con la paziente rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica, a far data dal 2017 e fino al decesso, inducendola altresì ad iscriversi alla sezione italiana di un’associazione di diritto svizzero il cui scopo è quello di diffondere una cultura per la morte dignitosa, di cui lo stesso imputato era (come è tuttora) presidente. Il g.u.p catanese assolveva l’imputato ritenendo che le condotte contestate fossero sprovviste di una effettiva capacità di influenzare la decisione della donna, in particolare in considerazione del fatto che l’imputato era stato contattato dalla paziente quando già aveva maturato il proprio proposito di suicidio affinché le fornisse informazioni circa l’associazione di cui egli era presidente. Dal punto di vista strettamente fattuale il giudice delle prime cure valorizza a sostegno della propria decisione in particolare i seguenti elementi: la irreversibilità della patologia della paziente; la sua capacità di autodeterminazione (su cui si erano espressi i c.t. del P.M.); il fatto che la stessa si fosse procurata autonomamente la documentazione richiesta dalla struttura dove avvenne il suicidio e che si fosse fatta accompagnare da una propria conoscente in aeroporto per andare in Svizzera (dunque, senza l’intervento diretto dell’imputato), peraltro mentendo sulla ragione del suo viaggio.

3. L’appello del P.M. e la riforma della sentenza di assoluzione. Il P.M. siciliano chiede la riforma della sentenza di prime cure, posto che il g.u.p. non avrebbe correttamente valutato l’efficacia causale delle condotte contestate rispetto all’effetto finale di decisione e messa in atto del suicidio da parte della G.B. La Corte di assise di appello di Catania, accogliendo l’appello del P.M., all’esito di rinnovazione dibattimentale, in riforma della sentenza appellata, condanna l’imputato (peraltro escludendo la concessione delle attenuanti generiche) per avere «fornito un contributo causale idoneo a rafforzare il proposito suicidario di una persona affetta da patologie non irreversibili, seppur dolorose ma trattabili, sfruttando la fragilità e vulnerabilità della donna per convincerla, in maniera definitiva, a porre fine alla sua vita». Come si legge in sentenza, «la formazione della volontà della G. di porre fine alla propria vita non è stato il frutto di un percorso di autodeterminazione della donna: la stessa, sebbene capace di intendere e d volere, è stata rafforzata nel proprio intento suicidario dall’operato dell’odierno imputato avendo lo stesso influito in maniera determinante nel processo psichico di un soggetto vulnerabile che non aveva ancora deciso in maniera autonoma di porre fine alla propria esistenza in quanto il suo proposito suicidario, già in essere, non era ancora definitivo».

La decisione depositata lo scorso 12 luglio ripercorre i temi di maggior interesse riferiti alla fattispecie di istigazione al suicidio punita dall’art. 580 c.p. che può essere integrata, come noto, sia da una condotta di determinazione sia da una condotta di rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio. L’art. 580 c.p., che contempla altresì, quale terza ipotesi delittuosa, l’autonoma condotta di aiuto al suicidio, sanziona pertanto, tre distinti comportamenti (determinazione, rafforzamento, aiuto) che hanno in comune l’intervento del terzo, a titolo materiale o morale, nell’altrui suicidio, senza che il fatto integri il più grave delitto di omicidio del consenziente.

Nel caso di specie il fatto contestato all’imputato sarebbe consistito, come si è sopra evidenziato, nel rafforzamento del proposito di suicidio già in precedenza manifestato dalla persona offesa. La condotta di rafforzamento può dirsi integrata solo a fronte di un obiettivo contributo alla maturazione della decisione definitiva del suicida, accompagnato, sul piano soggettivo, dalla prefigurazione dell’evento come conseguenza della propria condotta e dalla consapevolezza dell’obiettiva serietà del proposito della persona offesa.

4. I criteri di accertamento del delitto di istigazione al suicidio realizzato nella forma del rafforzamento dell’altrui intento suicidario. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento penalmente rilevante è, invero, piuttosto complesso; il rafforzamento, infatti, viene realizzato con condotte “comunicative” che perlopiù si estrinsecano in un “dire” e che, sul piano degli effetti, operano su di un piano psichico, tuttavia presupponendo, diversamente dalle condotte di determinazione, la previa e autonoma esistenza di un’intenzione suicidaria, necessariamente non definitiva, su cui si innesta un impulso esterno che segna, appunto, il passaggio, nel suicida, dalla possibilità alla decisione di morte. La Corte, al fine di vagliare la rilevanza penale della condotta di rafforzamento, individua taluni criteri particolarmente calzanti, che possono essere così catalogati:

a) l’esistenza di uno stato iniziale di incertezza della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio;

b) la vulnerabilità della persona offesa, originata (ad es.) dalla sua sofferenza fisica e psichica che la rende esposta alle interferenze di soggetti terzi. Il giudizio sulla vulnerabilità deve tenere conto della sussistenza di un eventuale stato depressivo in capo alla persona offesa e in genere delle implicazioni psicologiche generate dalla sofferenza fisica, come pure degli effetti della patologia depressiva sulla percezione del dolore causato dalla patologia fisica (c.d. “somatizzazione”);

c) la consapevolezza, da parte dell’autore della condotta di rafforzamento, sia dello stato di incertezza iniziale della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio sia  della sua condizione di vulnerabilità;

d) la possibilità di inferire la consapevolezza sulla condizione di vulnerabilità della persona offesa dalla conoscenza (da parte dell’imputato) delle condizioni di sofferenza/malessere del malato, senza che sia necessario, per l’autore della condotta di rafforzamento, il possesso di competenze mediche;

e) il carattere non neutro e non asettico con cui sono rese le informazioni sulle procedure di suicidio assistito all’estero;

f) la perduranza e la quantità delle comunicazioni con cui si esorta il futuro suicida a vincere le resistenze alla propria decisione, anche «esprimendo pensieri negativi e sottolineando gli aspetti peggiori della sua vita» che, rivolti ad un interlocutore sofferente e affetto da depressione, accentuano «il senso di inutilità della sua esistenza»;

g) la formulazione e la comunicazione alla persona offesa di un giudizio positivo sul piano etico riferito alla scelta di suicidio e la prospettazione del suicidio assistito quale unica forma di sollievo delle sue sofferenze;

h) il tono dissacrante o spregiativo con cui l’autore della condotta rafforzativa connota gli argomenti contrari al suicidio (legati, ad es., alla fede religiosa della persona offesa).

Non integra, invece, condotta penalmente rilevante il fatto di limitarsi a «fornire informazioni per realizzare il proposito già definitivo […] di ricorrere al suicidio assistito». Quanto al giudizio di valore secondo cui la morte sia preferibile ad una vita sofferente, si tratta – afferma la Corte – di «principio che di per sé non è censurabile in tale sede soltanto se è frutto di una libera scelta, non se viene propinato ad un soggetto, quale era la G.A. [persona offesa] vulnerabile e che aveva qualche resistenza a mettere in atto l’intento suicidario».

Non escludono la responsabilità per istigazione al suicidio:

– il fatto che, a valle di una condotta di rafforzamento, i successivi contatti con la persona offesa siano sporadici e abbiano solo un contenuto informativo;

– la circostanza che l’ultimo contatto con la persona offesa avvenga diversi mesi (nel caso di specie, sei mesi) prima del decesso;

– la dichiarazione, resa dalla persona offesa, che la decisione «“è solo sua”, quasi avesse la necessità di dimostrare che la scelta era stata presa autonomamente»;

– la manifestazione a terzi, da parte del suicida, del desiderio di morire avvenuto in tempi antecedenti al contatto con l’autore della condotta di rafforzamento;

– l’irremovibilità della decisione di suicidio, provata ad. es. dall’assenza di tentennamenti, nel momento in cui l’atto anticorservativo è portato a compimento.

In particolare, l’irrilevanza, al fine di escludere la responsabilità, di una eventuale distanza temporale tra l’ultimo contatto del “rafforzatore” con il suicida e la morte di questi trova ragione nel fatto che l’efficacia causale della condotta oggetto di scrutinio non deve valutarsi rispetto all’evento finale del suicidio, bensì rispetto alla maturazione definitiva della decisione di morire della persona offesa. E’ pur vero che trattandosi di fatti psichici, l’individuazione del momento preciso in cui l’aspirante suicida assume la decisione definitiva di morte non è semplice; a tal fine, appare ragionevole, come in effetti si evince dalla sentenza in commento, valorizzare comportamenti materiali della vittima (in sentenza si rinviene l’espressione «fattiva determinazione»), quali, nella vicenda di G.A., furono il reperimento della documentazione necessaria per accedere alla clinica svizzera e la fissazione dell’appuntamento presso la stessa clinica.

L’attenzione con cui la Corte siciliana fornisce un catalogo di criteri per valutare l’integrazione della condotta di rafforzamento punita dall’art. 580 c.p. risponde adeguatamente all’esigenza di ponderare, nel caso concreto, l’efficacia causale delle condotte comunicative rivolte nei confronti dell’aspirante suicida, il quale ha già considerato, eventualmente anche esternando tale ipotesi con terzi, ma non ancora deciso in via definitiva, di ricorrere al suicidio. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento comporta uno scrutinio delicato non solo per la difficoltà di valutare comportamenti che esplicano la loro efficacia sulla psiche del soggetto passivo, ma anche perché la condotta censurata si pone al confine con una mera manifestazione di pensiero avente come contenuto un giudizio positivo sull’atto di suicidio. Tale manifestazione di opinione merita, in verità, di essere fortemente criticata su di un piano morale e giuridico dal momento che il suicidio in sé e per sé rappresenta l’atto definitivo e irrevocabile con cui il soggetto esprime un giudizio pratico di immeritevolezza sulla conservazione del proprio essere. Il suicidio, pertanto, è sempre contrario alla dignità umana. Ancorché una manifestazione di pensiero che associ un valore positivo al suicidio sia quindi deprecabile perché pregna di un grave disvalore con immediate ricadute anche giuridiche, essa non può ancora meritare lo stigma penale. Da qui origina, pertanto, la difficoltà, ai fini della individuazione della tipicità delle condotte punite come istigazione al suicidio dall’art. 580 c.p., di tracciare la linea di confine tra una mera manifestazione di opinione, non ancora punibile, seppur contraria alla dignità della persona, e una condotta, invece punibile, perché effettivamente attivante (nel caso di condotta di determinazione) o incentivante (nel caso di condotta di rafforzamento) una volontà anticonservativa di una vittima vulnerabile.

Posto il problema in questi termini, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania ha il pregio di fornire una serie di utili strumenti per valutare quando le “parole”, collocate in un certo contesto, che tiene conto anzitutto delle caratteristiche della vittima, abbiano innescato un suo processo decisionale definitivo in vista della morte.

Ciò detto, la decisione in commento presenta, tuttavia, come si dirà, talune non marginali criticità nella parte in cui individua essenzialmente nell’autodeterminazione individuale il bene protetto dalle norme incriminatrici che puniscono l’istigazione al suicidio.

5. Quale bene protegge la norma che punisce l’istigazione al suicidio ?

La Corte di assise di appello di Catania ripercorre, in apertura, la ratio di incriminazione della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e di istigazione e aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), che segnalano il persistente riconoscimento da parte dell’ordinamento del «valore fondamentale di rilevanza collettiva» assegnato alla vita umana. Tali previsioni incriminatrici si pongono all’esito di una «scelta per così dire di compromesso, per cui – pur non riconoscendo espressamente un cd. “diritto al suicidio”in quanto scelta negatrice del fondamentale principio del rispetto e della promozione della vita, e perciò non tutelata dall’ordinamento – si esclude la punibilità del tentativo di suicidio, poiché giuridicamente privo di offensività erga alios (trattandosi di fatto compiuto esclusivamente sulla propria persona e a proprio danno), ma vengono punite tutte quelle condotte esecutrici, agevolatrici, istigatrici o rafforzative del proposito suicidario altrui».

La sentenza dà atto che il principio ora richiamato ha subìto nel tempo una rilettura giurisprudenziale nell’ambito del fine-vita, in particolare a partire dalle decisioni dei casi Welby ed Englaro che, come noto, hanno segnato un’enfasi in chiave auto-deterministica del diritto al rifiuto delle cure, anche quanto queste siano necessarie alla conservazione della vita.

Venendo a trattare della ratio di incriminazione delle tre autonome ipotesi delittuose contemplate dall’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio, determinazione e rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio), la Corte di assise di appello individua l’offesa delle tre condotte nel «danno sociale che proviene dall’intervento di terzi nel suicidio di una persona, senza che il fatto assuma l’aspetto dell’omicidio del consenziente. Ciò è espressione – continua la sentenza – della qualificazione, nel nostro ordinamento, del suicidio quale fatto moralmente e socialmente dannoso, che cessa di essere penalmente indifferente quando a cagionarlo, concorra, insieme con l’attività del soggetto principale (il suicida), anche un’altra forza individuale estranea. Proprio detto percorso costituisce, appunto, quel rapporto tra persone che determina l’intervento preventivo-repressivo del diritto contro il terzo, poiché proprio da quest’ultimo proviene l’elemento che determina l’evento dannoso, concretizzando ciò che sarebbe stato relegato alla sfera intima del suicida».

Fin qui, a parte il riferimento al concetto di “danno sociale” che, in verità, non è appropriato perché oscura la dimensione personalistica del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., la sentenza in commento esclude con chiarezza la configurabilità di un diritto individuale al suicidio.

Nel seguito, tuttavia, la stessa sentenza ripercorre in termini piuttosto affrettati i princìpi in materia dettati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nei precedenti Pretty (2002), Hass (2011) e Gross (2013), i quali, come noto, si sono occupati dell’ammissibilità dei limiti posti dagli Stati all’accesso a pratiche di suicidio assistito. Prendendo le mosse dalla decisione più risalente (Pretty c. Regno Unito), la Corte siciliana, pur menzionando alcuni passaggi di quella sentenza, omette, ad es., di richiamarne almeno due nodi fondamentali in cui i giudici europei espressamente escludono che il diritto alla vita sancito dall’art. 2 CEDU possa ricomprendere anche il diritto alla morte per mano di terze persone o con l’assistenza di un’autorità pubblica (cfr. Pretty c. U.K., par. 40) e in cui ribadiscono il dovere per gli Stati di adottare ogni atto o misura preventiva per salvaguardare l’incolumità individuale

Con riferimento, poi, al precedente Hass c. Svizzera, è pur vero, come si legge nella sentenza catanese, che la Corte EDU fa discendere dall’art. 8 CEDU il diritto individuale a decidere quando e in che modo mettere fine alla propria vita, a condizione che il soggetto sia in grado di orientare liberamente la propria volontà; tuttavia, l’arresto Hass pure afferma (precisazione omessa nella sentenza depositata lo scorso 12 luglio) che la pretesa al suicidio assistito non sia giuridicamente azionabile, in quanto non è un diritto ad una prestazione da parte dello Stato o all’intervento del terzo.

Soprattutto nella ricostruzione del diritto vivente interno in materia di fine vita, la Corte di assise di appello non offre una lettura adeguata della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, che, nel giudizio incidentale promosso nell’ambito del processo milanese contro Marco Cappato, ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 580 c.p. Tale decisione, diversamente da quanto affermano i giudici siciliani, non ha introdotto, infatti, un diritto al suicidio assistito per le persone affette da patologia irreversibile e sofferenze intollerabili, sottoposte a trattamento di sostegno vitale e capaci di formulare personalmente la richiesta di suicidio: qualora ricorrano tali quattro condizioni, la sentenza della Consulta del 2019, dichiarando l’incostituzionalità parziale della sola norma incriminatrice (tra le tre dettate dall’art. 580 c.p.) dell’aiuto al suicidio, si è limitata a prevedere una causa di non punibilità nei confronti del sanitario che, nel contesto di una sua adesione volontaria e libera alla richiesta del malato, lo aiuti nel darsi la morte. Dalla sentenza n. 242 non discende, infatti, alcun obbligo di intervento anticonservativo per il sanitario, a riprova del fatto il suicidio assistito non costituisce una pretesa individuale che il malato possa far valere nei confronti di terzi.  Proprio a tal proposito si legge nella pronuncia della Consulta: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».

A fronte di queste premesse, l’arresto catanese finisce per travisare la stessa oggettività giuridica delle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p. Si legge in sentenza: «Il quadro fin qui tracciato spinge ad evidenziare, alla luce di quanto positivizzato anche nella l. 219/2017, che il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. non è la vita in quanto valore superindividuale e non disponibile come risalenti orientamenti pretendevano di sostenere. Il bene giuridico che viene in rilievo nel caso dell’istigazione è, infatti, la libertà di autodeterminazione del soggetto: non si vuole evitare che si sviluppi un proposito suicidario ma si vuole garantire che questo avvenga in maniera del tutto autonoma e libera da condizionamenti esterni. Proprio in caso di condizionamento esterno l’evento morte non sarebbe causa di una scelta libera del suicida ma conseguenza di un comportamento volontario e cosciente di un altro soggetto volto a causarne, mediante suicidio, la morte: in caso di istigazione al suicidio, il suicida non è più un soggetto attivo, bensì un soggetto passivo della decisione altrui».

Una siffatta ricostruzione del bene giuridico protetto dall’art. 580 c.p. (e specificamente delle norme dettate da tale articolo che incriminano l’istigazione al suicidio nelle due ipotesi di determinazione e di rafforzamento dell’intento di suicidio), disattende del tutto le indicazioni della Corte costituzionale.  Come da quest’ultima chiarito con l’ord. n. 207 del 2018, infatti, «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».

D’altronde se il bene protetto dalla norma incriminatrice dell’art. 580 c.p. fosse esclusivamente l’autodeterminazione individuale non si giustificherebbe più, a ben vedere, né l’incriminazione, dettata dallo stesso art. 580 c.p., dell’aiuto al suicidio, né quella dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. che sanzionano fatti in cui non vi è intromissione da parte di un soggetto terzo nel processo decisionale del suicida.

La sentenza in commento, pertanto, pur lodevole per lo sforzo di fornire all’interprete un catalogo articolato di criteri per valutare la consumazione della condotta di rafforzamento dell’intento di suicidio punita dall’art. 580 c.p., finisce per fraintendere, forse all’esito di una lettura affrettata dei precedenti di Strasburgo e, soprattutto, delle due decisioni costituzionali relative al caso Cappato (n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019), l’oggettività giuridica dello stesso art. 580 c.p. che, invero, non svolge la funzione di garantire che la scelta individuale di suicidarsi sia compiuta in un contesto di libertà morale del suicida, in nome dell’autodeterminazione individuale, ma tutela piuttosto la vita del soggetto esposto al rischio di suicidio, inibendo le condotte materiali e morali di terzi che agevolino su di un piano o sull’altro il compimento dell’atto suicida. È, dunque, senz’altro il diritto alla vita (e non l’autodeterminazione individuale) il bene protetto dall’articolo in questione.

Fonte: https://www.centrostudilivatino.it/il-rafforzamento-del-proposito-di-suicidio-integrante-istigazione-al-suicidio-punibile-ai-sensi-dellart-580-c-p/

 

COPPIE OMOSEX: IL RICONOSCIMENTO DELLA DOPPIA GENITORIALITÀ SAREBBE IN LINEA CON LA COSTITUZIONE?

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Pietro Dubolino

Ecco i perché della risposta negativa.

1.  In una intervista comparsa il 1 luglio scorso sul quotidiano “La Repubblica” il prof. Giuliano Amato, già presidente della Corte costituzionale, ha sostenuto che, fatta eccezione per il caso di nascita derivante da “maternità surrogata” (il ricorso alla quale, com’è noto, in Italia ed in numerosi altri paesi è previsto come reato), nulla impedirebbe, a livello costituzionale, che venisse riconosciuta, per legge, la piena genitorialità di entrambi i componenti di una coppia “omoaffettiva” i quali abbiano fatto ricorso, per ottenere la nascita di un figlio, alla fecondazione eterologa, ora consentita, in Italia, soltanto a coppie formate da soggetti di sesso diverso.  In sostanza, si tratterebbe di far comparire, nell’atto di nascita, come genitori, accanto a quello che ha fornito il “materiale biologico” utilizzato per la fecondazione eterologa, anche quello c.d. “intenzionale”, che si è limitato ad esprimere il proprio consenso all’utilizzazione di quel materiale, nella prospettiva, però, di considerare e trattare come figlio anche proprio quello che, a seguito della fecondazione eterologa, sarebbe poi nato. A sostegno di tale posizione si richiama il noto ed indiscusso principio secondo cui, in materia familiare, la “stella polare” (per così dire) alla quale deve farsi riferimento tanto nella legislazione quanto nella prassi applicativa, è quella costituita dal “miglior interesse” di chi, in un modo o nell’altro, viene messo al mondo. Principio, questo, che, in effetti, risulta solennemente affermato in numerose Convenzioni   internazionali, tra le quali, in particolare, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge n. 176/1991 (all’art.3) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o “Carta di Nizza” (all’art. 24).  E, nella visione del prof. Amato e di quanti condividono la sua posizione, il “miglior interesse” del figlio nato da fecondazione eterologa decisa nell’ambito di una coppia “omoaffettiva” sarebbe indubbiamente quello di vedersi riconosciuta la piena genitorialità di entrambi i componenti di detta coppia. Ciò nel chiaro – ancorchè inespresso – presupposto che avere due genitori, anche se dello stesso sesso, sia sempre e comunque meglio che averne uno solo.

2. Ma è proprio a partire da tale presupposto che l’intera costruzione logico-giuridica finora sommariamente illustrata inizia a mostrare le sue crepe. Non sempre, infatti, il risultare ufficialmente figlio di entrambi i genitori, anche nell’ambito della genitorialità eterosessuale, è da ritenersi per ciò solo rispondente all’interesse del minore. Basti ricordare, al riguardo, che proprio la Corte costituzionale, con la sentenza n. 341 del 1990, ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 274 cod. civ., nella parte in cui  non prevedeva che l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità promossa dal genitore esercente la potestà su di un minore degli anni 16 nei confronti dell’altro (presunto) genitore fosse ammessa solo se “ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio”; interesse che, quindi, non poteva darsi per automaticamente scontato. E anche nel caso di un minore degli anni 14 (originariamente degli anni 16) già riconosciuto da uno solo dei genitori, il riconoscimento da parte dell’altro genitore può avvenire, in base all’art. 250 cod. civ., soltanto se, a fronte dell’eventuale opposizione da parte del primo, il giudice lo trovi effettivamente rispondente all’interesse del minore.  Se, dunque, anche nel caso di genitorialità eterosessuale, non è sempre detto che il riconoscimento da parte di entrambi i genitori sia nel “miglior interesse” del minore, a maggior ragione deve ritenersi che ciò valga anche nel caso in cui trattisi di genitorialità da attribuirsi a quello, fra i due “partners” di una coppia omosessuale, che, a differenza dell’altro, non ha neppure un rapporto biologico con il preteso figlio; rapporto che, invece,  si presume esistente per entrambi i genitori in una coppia eterosessuale.

D’altra parte, è stata ancora la Corte costituzionale ad affermare (si vedano, in particolare, le sentenze nn. 221/2019 e 230/2020), che non può considerarsi, di per sé, “arbitraria ed irrazionale” l’idea che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato». Il che significa, in buona sostanza, che, anche nella visione della Corte, è quanto meno ammissibile ritenere che il “miglior interesse” del minore sia quello di avere, appunto, una famiglia rispondente al modello di società naturale scolpito in Costituzione; modello al quale non può in alcun modo ritenersi che sia “sic et simpliciter”, assimilabile quello costituito dalla “famiglia” omogenitoriale. Anzi, dal momento che tale modello si discosta dall’altro non su aspetti marginali, ma su un punto essenziale, che è quello della diversità di sesso dei genitori, appare logico desumerne che esso sia da considerare come radicalmente contrario a quell’interesse. Del resto, se così non fosse, la Corte costituzionale, nel dichiarare, con le sentenze nn. 162/2014 e 96/2015, la parziale incostituzionalità degli artt. 4,9 e 12 della legge n. 40/2004 sulla procreazione assistita, nella parte in cui vietavano in assoluto il ricorso alla fecondazione eterologa, senza escludere dal divieto, in presenza di determinate condizioni, le coppie eterosessuali, non avrebbe avuto ragione di limitare solo a queste ultime l’operatività dell’esclusione e, quindi, la possibilità di ricorrere alla suddetta pratica; possibilità che, non a caso, è stata subordinata alla riscontrata esistenza di “una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili” ovvero alla circostanza che si tratti di “coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche”. Anche dalla puntuale e precisa specificazione di tali condizioni si comprende, quindi, come la Corte abbia volutamente inteso escludere ogni rilevanza costituzionale alle eventuali aspettative di genitorialità congiunta da parte di coppie omosessuali che, pure, volendo, nulla le avrebbe impedito di prendere in considerazione, per giungere quindi ad una diversa e più ampia declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme in questione.

Di qui una prima conclusione, e cioè che una legge in base alla quale dovesse riconoscersi la genitorialità congiunta dei componenti di una coppia omosessuale rispetto al figlio concepito mediante ricorso alle tecniche della fecondazione eterologa, non sarebbe certo in sintonia con le richiamate pronunce della Corte costituzionale ma si porrebbe, piuttosto, con esse in stridente contrasto.

3. Una legge del tipo anzidetto, stando a quanto si desume dalle parole di Giuliano Amato, dovrebbe peraltro applicarsi soltanto al caso della coppia omosessuale che abbia fatto ricorso alla fecondazione eterologa, rimanendo invece escluso quello in cui abba fatto ricorso alla c.d. “maternità surrogata”. Ciò in adesione, tra l’altro, a quanto ritenuto dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 33/2021, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 (che prevede come reato la suddetta pratica) e di altre norme ad esso collegate, «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico» (questi i termini in cui la questione era stata sollevata dalla prima sezione civile della Corte di cassazione). A sostegno di tale decisione la Corte, in sintesi, ha osservato che, da una parte, deve ritenersi meritevole di tutela “l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale”; dall’altra, che una tale tutela, nel caso di nascita da “maternità surrogata”, dovrà “essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino”; procedimento che può anche essere quello della c.d. “adozione in casi particolari”, previsto dall’art. 44, comma 1, lett. d), della legge n. 184/1983, da disciplinarsi, però – dice ancora la Corte – in modo da renderlo “più aderente alle peculiarità della situazione in esame”. Ciò in quanto (sempre secondo la pronuncia in discorso) la non riconoscibilità dell’atto straniero nel quale figurino, come genitori del bambino, entrambi i componenti della coppia omosessuale che abbia fatto ricorso alla pratica della “maternità surrogata”, trova una sua giustificazione in quella che viene definita la “legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica”. E analogo concetto risulta espresso nella sentenza n. 38162/2022 pronunciata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, secondo cui la non riconoscibilità risponde soltanto all’intento, ritenuto legittimo, di “scoraggiare i cittadini dal ricorso all’estero ad un metodo di procreazione che l’Italia vieta nel suo territorio perché ritenuto lesivo di valori primari”.

A ben vedere, però, tutto il ragionamento si basa sul presupposto, chiaramente enunciato nella sentenza della Corte costituzionale e presente anche in quella delle sezioni unite della Cassazione, che anche il genitore c.d. “d’intenzione” si sia preso cura, unitamente a quello “biologico” del bambino, tanto da rendere configurabile l’interesse di quest’ultimo a vedersi riconosciuta, se non la genitorialità, quanto meno una forma di legame giuridicamente rilevante quale, appunto, quella derivante dall’adozione “in casi particolari”. Ma un tale presupposto sarebbe, all’evidenza, del tutto assente qualora, per legge, il rapporto di genitorialità “intenzionale” dovesse essere riconosciuto fin dal momento della nascita. E, d’altra parte, l’esistenza di un rapporto di genitorialità, quale che esso sia, non può che essere affermata con riferimento alla situazione esistente all’atto del concepimento (anche se, in ipotesi, riconosciuta ex post), e non mai con riferimento ad una situazione che si sia maturata in un tempo successivo. E’ quindi giocoforza ammettere che un’ipotetica legge che prevedesse l’automatica attribuzione della genitorialità anche al genitore “d’intenzione” non potrebbe farlo se non basandosi, appunto, su quanto già verificatosi all’atto del concepimento, e cioè soltanto sull’avvenuta prestazione del consenso all’utilizzazione del materiale biologico del “partner”, magari con l’aggiunta (per quanto possa valere) dell’impegno ad adempiere, di fatto, una volta avvenuta la nascita, ai doveri derivanti dalla genitorialità. Ciò comporterebbe, però, il dare per scontato che il “miglior interesse” del minore sarebbe appunto, in ogni caso, quello di vedersi riconoscere, come genitori, tanto quello “biologico” quanto quello “intenzionale”. Il che, oltre a non avere riscontro nella realtà (per le ragioni già illustrate in precedenza), renderebbe difficilmente giustificabile la mantenuta soccombenza di detto interesse rispetto a quello – quando la nascita sia avvenuta mediante ricorso alla vietata pratica della “maternità surrogata” – di “disincentivare” o “scoraggiare” (come si è visto) quanti vi ricorrono recandosi a tal fine nel territorio di Stati nei quali nei quali essa è consentita. Se è vero, infatti, che – come affermato dalla Corte costituzionale, sia pure ad altri fini, nella sentenza n. 272/2017 e ripreso, poi, in altre pronunce della stessa Corte e della Corte di cassazione, tra cui la già citata sentenza delle sezioni unite n. 38162/2022 – il divieto della suddetta pratica trova giustificazione nel fatto che essa “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, è altrettanto vero che la produzione di tali effetti, quando il divieto venga violato, non è certo addebitabile al soggetto che, a seguito di detta violazione, sia stato messo al mondo. Una qualsiasi limitazione dei suoi diritti rispetto a quelli riconosciuti alla generalità dei nati a seguito di concepimento realizzato in tutti gli altri possibili modi equivarrebbe quindi ad attribuirgli le stigmate di quelli che una volta, ai tempi della deprecata “morale borghese”, si chiamavano “i figli della colpa”. Il che, per quanti si ritengono e vogliono accreditarsi come animati da spirito “progressista” dovrebbe costituire causa di un qualche imbarazzo.

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=0e2d44c7cd&e=d50c1e7a20

IL SEME DELL’ETICA: LA VITA E LA TESTIMONIANZA DI ROSARIO LIVATINO PER LA MAGISTRATURA

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

QUINTA COLONNA

di Gianluca Grasso

Testo della relazione di Gianluca Grasso, presentata al Convegno “L’attualità del Beato Rosario Livatino” il 18 gennaio 2023 presso la biblioteca di Santa Maria sopra Minerva, Roma, organizzato da Centro Studi Rosario Livatino.

Sommario: 1. Il seme dell’etica. – 2. L’etica e la Magistratura. – 3. La formazione sull’etica giudiziaria nell’esperienza della Scuola superiore della magistratura.

1. Il seme dell’etica.

«26 (..) “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme in terra, 27 dorme e si alza, la notte e il giorno; il seme intanto germoglia e cresce nel modo che egli stesso ignora. 28 La terra da sé stessa dà il suo frutto: prima l’erba e poi la spiga, poi nella spiga il grano ben formato. 29 E, quando il frutto è maturo, subito il mietitore vi mette la falce perché è giunta l’ora della mietitura» (Marco 4, 26-29).

In questa parabola il seminatore pianta in fede e raccoglie in gioia. Dopo aver finito di piantare, egli un giorno si sveglia per scoprire che i suoi semi sono diventati maturi.

Rosario Livatino, all’età di 38 anni, veniva assassinato dalla “stidda agrigentina” il 21 settembre del 1990, mentre percorreva, senza scorta per sua scelta, la strada per il Tribunale di Agrigento.

La storia del giudice Livatino, proclamato beato il 9 maggio 2021, ci dona la prospettiva di una figura di riferimento non solo per la Magistratura ma per tutti gli operatori di giustizia[1].

In questo mio breve intervento vorrei soffermarmi su uno dei semi piantati da Livatino con la sua vita e la testimonianza di giudice fedele alla Costituzione e alle leggi. E si badi non magistrato bigotto ma un laico consapevole del suo ruolo nella società, che ha ricoperto anche un incarico di carattere associativo, quale quello di segretario della sezione di Agrigento dell’Associazione nazionale magistrati.

Due sono gli interventi a metà degli anni 80 che Livatino ci ha lasciato e che delineano in maniera puntuale il suo itinerario di fede e di azione: Il ruolo del giudice nella società che cambia (17 Aprile 1984) e Fede diritto (30 Aprile 1986).

Bastano pochi passaggi per delineare il ruolo del magistrato, il cui compito non si esaurisce nelle aule di giustizia ma prosegue nel quotidiano; non con l’atteggiamento di un giustiziere o del moralista, ma della persona semplice e umile, lontana dai riflettori ma al tempo stesso  consapevole del proprio ruolo e dell’esempio (positivo o negativo) che da lui può derivare: “quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” .

Queste le parole di Livatino[2], ben note ma ogni volta illuminanti:

«Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro, ineliminabile, di forma.

L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.

Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.

Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile.

Bisogna riconoscere che, quando l’art. 18 della legge sulle guarentigie dice “che il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere”, esprime un’esigenza reale.

La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. “Un giudice”, dice il canone II del già richiamato codice professionale degli U.S.A. “deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario”.

Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive.

Qui è importante che egli offra di se stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.

Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole».

2. L’etica e la Magistratura.

In qualsiasi società, qualunque sia il modo in cui vengono assunti, la formazione e la portata del loro mandato, i magistrati sono investiti di poteri penetranti, che consentono di intervenire in ambiti che riguardano gli aspetti essenziali della vita dei cittadini e dell’economia.

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce, dal punto di vista del cittadino, che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge» (art. 6, par. 1). Lungi dall’enfatizzare l’onnipotenza del giudice, la norma mette in evidenza le garanzie fornite ai contendenti e stabilisce i principi su cui si basano i doveri del giudice: indipendenza e imparzialità.

È pertanto necessario che, sia all’interno degli uffici giudiziari, sia al di fuori, vi siano regole di condotta concepite per mantenere la fiducia in queste aspettative, quello che va sotto il nome di etica giudiziaria.

Qui va chiarito che l’etica va intesa come complesso di principi e di regole che devono orientare il corretto comportamento del magistrato, a prescindere da una sanzione prevista dall’ordinamento per la loro violazione. Si ha così riguardo alla sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate[3]. In tal senso, le regole dell’etica rappresentano il modello a cui tendere, il “massimo etico”, mentre il disciplinare costituisce il cosiddetto “minimo etico”, ovvero la soglia di accettabilità al di sotto della quale il comportamento deve essere oggetto di sanzione[4].

L’etica giudiziaria ha assunto nel corso degli anni un posto di rilievo nel contesto internazionale, a partire dall’adozione dei principi di Bangalore  (2001), nel quadro delle Nazioni unite, cui hanno fatto seguito il parere n. 3 del Consiglio consultivo dei giudici europei (Ccje) sull’etica e la responsabilità dei giudici  (2002), il codice ibero-americano di etica giudiziaria  (2006), la dichiarazione di Londra sull’etica dei giudici con cui è stato approvato il rapporto intitolato “Etica dei giudici – Principi, valori e qualità” come linee guida per la deontologia dei magistrati europei  (2010), promossa dalla Rete europea dei consigli di giustizia, la Raccomandazione R(2010)12 del 17 novembre 2012 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità.

Negli ultimi anni la gran parte dei Paesi dell’Ue si è dotata di testi di etica giudiziaria (codici, guide, raccolte di principi) di diversa origine (Consigli di giustizia, associazioni giudiziarie, conferenze dei giudici, presidenti di tribunali, ecc.).

L’ordinamento italiano è stato tra i precursori di questo orientamento tra i paesi di civil law, essendosi dotato di un codice etico fin dal 1994.

3. La formazione sull’etica giudiziaria nell’esperienza della Scuola superiore della magistratura.

Costituisce talvolta un luogo comune che l’etica professionale non si insegna e a sostegno di questo assunto si evidenzia il fatto che l’etica – interessantissima, coinvolgente, divisiva quando si affrontano i singoli casi concreti e le questioni controverse – rischia di risultare banale quando si enunciano in astratto principi e regole di comportamento, senza esplorarne la genesi storica e senza discuterne le contaminazioni con la realtà.

L’etica, è vero, si insegna innanzitutto con l’esempio; Livatino ne costituisce un modello paradigmatico perché vivendo tutti i giorni la sua professione con serietà e dedizione costituiva un riferimento per tutti i colleghi che lo incontravano e il suo esempio continua a produrre frutti e proprio quel tragico martirio li ha moltiplicati, essendo divenuto un modello non solo per le persone che lo conoscevano ma per tutti gli operatori di giustizia. Si deve allora rinunciare all’idea di realizzare attività di formazione sull’etica?

L’esperienza maturata nel corso degli anni dalla Scuola superiore della magistratura mostra che è possibile realizzare questa formazione, coniugando la riflessione sui principi e le regole dell’etica dei comportamenti con la dimensione applicativa. Essa si inserisce in un contesto europeo (Rete europea di formazione giudiziaria), internazionale (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga, UNODC) e comparato dove, specie nei paesi di tradizione di common law, questo tipo di formazione è particolarmente sentita.

La magistratura italiana ha affrontato uno dei momenti più complessi e difficili degli ultimi decenni. Il Presidente della Repubblica, nel suo intervento del 18 giugno 2020, in occasione della cerimonia commemorativa del quarantesimo anniversario dell’uccisione di Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa e del trentennale dell’omicidio di Rosario Livatino ha evidenziato che la magistratura deve necessariamente impegnarsi «a recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca».

E per far sì che la correttezza sia costantemente praticata, tanto nell’esercizio delle funzioni quanto al di fuori dell’ufficio, un utile ausilio risiede nelle attività di formazione che fanno capo alla Scuola, a cui il Capo dello Stato ha rivolto l’invito a dedicare sessioni specifiche all’etica dei comportamenti.

La Scuola ha raccolto questo invito dedicando specifiche sessioni all’etica giudiziaria sia nei corsi dedicati ai magistrati in tirocinio sia nella formazione permanente.

Le attività di formazione sui profili etici formano oggetto delle linee programmatiche annuali sulla formazione e l’aggiornamento professionale dei magistrati e sul tirocinio e a tali temi la Scuola dedica specifici momenti di approfondimento, anche nella dimensione europea nei programmi dedicati alla formazione iniziale (programmi THEMIS e AIAKOS).

Nel settore della formazione iniziale, alla fine del 2020, grazie al lavoro svolto da un gruppo di magistrati esperti in materia, è stata elaborata una raccolta sistematica di questioni etiche con cui ciascun magistrato si può trovare a confrontare all’interno e al di fuori dell’ufficio. Le questioni sono state poste in forma interrogativa al fine di consentire a ciascun partecipante alla sessione di proporre delle soluzioni. Esse spaziano dai rapporti con i colleghi, il personale amministrativo, le parti, all’uso dei social network, ai rapporti con la stampa, alle frequentazioni, alla spendita del nome, solo per fare alcuni esempi. Per aiutare a trovare le risposte più adeguate abbiamo raccolto i testi principali in materia di etica sul piano nazionale e internazionale. Le questioni etiche e i principi vengono condivisi per tempo con coloro che dovranno prendere parte alla sessione, mentre un ulteriore testo, che contiene le possibili soluzioni, viene distribuito solo in prossimità dell’evento. I partecipanti vengono organizzati in gruppi ristretti di 15/20 persone affidate al coordinamento di un esperto, chiamato a facilitare la discussione.

Questa metodologia, che ha riscontrato grande apprezzamento tra i magistrati in tirocinio, è stata utilizzata con successo anche nei corsi di formazione permanente realizzati negli ultimi due anni: il primo[5] caratterizzato dallo sguardo alla situazione interna, il secondo[6], inserito nel semestre di Presidenza italiana del Comitato di ministri del Consiglio d’Europa, con una prospettiva internazionale e mandato in streaming con interpretariato in inglese in tutti i paesi del Consiglio d’Europa. Entrambi i corsi sono disponibili tra i seminari pubblicati sul canale YouTube della Scuola[7]. A fine anno, il corso riguarderà l’etica della giustizia, in una prospettiva allargata a tutte le professioni legali a partire dall’Avvocatura, con la cui Scuola il seminario è organizzato.

La raccolta sistematica delle questioni etiche è liberamente disponibile e consultabile  sul sito della SSM[8], così come il volume sull’etica giudiziaria[9], inserito nella collana dei Quaderni della Scuola, che contiene i contributi tratti dai corsi degli ultimi due anni.

Per ampliare ulteriormente la formazione sull’etica al di là di coloro che abbiano partecipato ai corsi di formazione permanente, il Comitato direttivo, partendo dai materiali del corso del 2021, ha deliberato di invitare tutte le formazioni decentrate della Scuola a realizzare in ciascun distretto, nel corso del 2021, un corso sull’etica del magistrato secondo un format condiviso. Il documento diffuso alle strutture di formazione decentrata in tutta Italia contiene in premessa un estratto testuale dalla conferenza di Livatino su Il ruolo del giudice nella società che cambia. Diverse sono le strutture di formazione decentrata che hanno realizzato con successo questo seminario.

Questa metodologia casistica, inoltre, è alla base di un volume recentemente portato a compimento sull’etica della magistratura onoraria e che a breve verrà pubblicato sul sito della SSM allo scopo di fornire un manuale operativo per la formazione dei magistrati onorari anche su queste tematiche, fin qui mai fatte oggetto di un’analisi sistematica.

Da ultimo, va segnalato il seminario in programma nel gennaio 2024 su “Etica giudiziaria in Europa e nel mondo arabo: una panoramica comparata” che la Scuola ha in programma presso la sede di Napoli nell’ambito delle attività della Rete euro araba di formazione giudiziaria. Attingendo al quadro internazionale e alla giurisprudenza pertinente, il corso mira a un confronto sui dilemmi etici nell’esercizio dei doveri professionali tra realtà europea e araba.

Queste attività che ho provato a rappresentare sono la testimonianza di come il seme di Rosario Livatino abbia fruttificato anche nell’ambito dell’etica giudiziaria.

Gianluca Grasso


[1] Significativa la letteratura che riguarda la figura del magistrato. Tra i più recenti contributi: A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Milano, 2021; I. Abate, Il piccolo giudice. Fede e giustizia in Rosario Livatino, Roma, 2021; A. Mira , Rosario Livatino. Il giudice giusto, Alba, 2021;  R. Mistretta, Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente, Nuova ediz., Alba, 2022. Si v. altresì A. Balsamo in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione, Rosario Livatino: il “giudice ragazzino” e la lotta alla mafia tra giustizia e fedehttps://www.unicost.eu/rosario-livatino-il-giudice-ragazzino-e-la-lotta-alla-mafia-tra-giustizia-e-fede/

[2] R. Livatino, Il ruolo del giudice nella società che cambia. Conferenza tenuta dal giudice Rosario Livatino il 7 aprile 1984, presso il Rotary Club di Canicattì https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_6_9.wp?contentId=NOL82525

[3] Etica, Enciclopedia on line Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/etica/

[4] G. Natoli, Etica & deontologiahttp://movimentoperlagiustizia.org/non-ci-posso-credere/186.html

[5] P21040 L’etica del magistrato, in https://tinyurl.com/mr2bs4kc

[6] P22022 L’etica e la deontologia del magistrato, in https://tinyurl.com/yc23tpym; Judicial Ethics, https://www.scuolamagistratura.it/web/portalessm/judicial-ethics

[7] https://www.youtube.com/c/ScuolaSuperioredellaMagistratura

[8] https://tinyurl.com/yt8sb85h

[9] https://www.scuolamagistratura.it/web/portalessm/nuovi-quaderni-ssm-frontend

 

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=443b532327&e=d50c1e7a20

Migrazioni e confini nazionali: non solo ONG

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

L’emergenza migranti fra doveri di solidarietà umana, diritto del mare e diritto degli Stati al controllo dei propri confini: un sistema multilivello da chiarire e migliorare.

1.​ Per effetto di una serie di provvedimenti delle scorse settimane, il Ministero dell’Interno, di concerto con i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, e anche a seguito di alcuni interventi formali della Farnesina, ha stabilito disposizioni in forza delle quali non sarà consentito alle navi delle ONG – Organizzazioni Non Governative umanitarie- ( che soccorrono e raccolgono i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane a mezzo dei ‘barconi’ salpanti dall’Africa ), di sbarcare i migranti nei porti italiani, eccezione fatta per i ‘fragili’, ossia coloro che presentino riconosciute condizioni di salute e/o personali tali da necessitare immediata assistenza. A seguito di ciò, sembra essersi riaperto il vaso di pandora mediatico delle polemiche, invero allargatesi ben oltre il perimetro nazionale, relative all’ingresso in Italia -e, quindi, in Europa- degli stranieri che utilizzano il liquido confine del Mediterraneo per accedere al territorio della UE – Unione Europea. Al di là della polemica politica, e non restringendo la complessa questione alle sole ONG, appare opportuno provare a ricostruire l’articolato quadro normativo in materia, anche allo scopo di capire chi deve fare cosa.

2.​ Il contesto giuridico attorno al quale la questione ruota è tutt’altro che univoco e chiaro, specie perché le fonti sono multilivello, cioè appartengono a differenti – e a volte anche contrastanti – ambiti ordinamentali, a voler tacere della strutturale difficoltà delle norme di diritto internazionale ad essere efficaci ed effettive quando lo Stato cui si indirizzano si sottragga al principio generale del “pacta sunt servanda”. Occorre distinguere e coordinare, anzitutto, norme di diritto internazionale che disciplinano il salvataggio di naufraghi, spesso indicate come “diritto del mare”, e norme di diritto europeo, in materia di diritto d’asilo. Su tale composito compendio di principi e norme, si innestano poi le prerogative del diritto nazionale.

In materia di diritto d’asilo, le fonti normative di riferimento sono le convenzioni internazionali generali, quali in particolare la Convenzione di Ginevra approvata nel 1951 sotto l’egida dell’ONU, e, per i Paesi europei, le cosiddette Convenzioni di Dublino. L’accordo di Dublino, in particolare, ha ad oggetto l’individuazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità Europea (oggi Unione Europea). È un trattato internazionale multilaterale in tema di diritto di asilo, stipulato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997, poi sostituito con il regolamento di Dublino II (regolamento 2003/343/CE) adottato nel 2003 ed entrato in vigore per tutti i Paesi della Ue (oltre alla Svizzera, Islanda, Liechtenstein ed alla Norvegia), oggi codificato dal  regolamento di Dublino III (2013/604/CE), approvato nel giugno 2013, in aggiornamento del regolamento di Dublino II, e vigente in tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione della Danimarca.

Entrato in vigore il 19 luglio 2013 ed in scadenza decennale il prossimo anno, il regolamento di Dublino III si basa sullo stesso principio dei due precedenti regolamenti: di là dai casi di esigenze connesse al ricongiungimento familiare del richiedente (artt. 8-11) o di preesistenza di un titolo di soggiorno o di un visto (art. 12), quando “ilrichiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale” (art. 13).

Tale regola appariva razionale quando fu introdotta nel 1990, allorché i flussi migratori erano limitati ed erano ancora presenti le frontiere fra i paesi Europei (poi apertesi con gli accordi di Schengen) e, a ben vedere, non implica affatto l’interpretazione che ne danno alcuni Paesi UE del Nord Europa, i quali vorrebbero trarne ostacolo giuridico alla ricollocazione degli stranieri comunque entrati nel territorio del primo Stato membro che se ne dovrebbe occupare in via esclusiva rispetto agli altri, con l’effetto che, se una persona che presenta istanza di asilo nel Paese di ingresso, attraversa le frontiere verso un altro Paese dell’UE, deve essere riconsegnata al primo Stato. Niente di tutto ciò appare postulato dalla norma in questione, che indica unicamente quale debba il primo Stato a occuparsi della gestione della domanda d’asilo.

Anche per effetto di tale interpretazione, la Convenzione di Dublino è ormai da più parti riconosciuta come inadeguata per affrontare le sfide poste dall’attuale atteggiarsi del fenomeno migratorio. A tacer d’altro, essa si pone in evidente contrasto con la capacità dei Paesi del fronte meridionale della UE di gestire da soli l’arrivo dall’Africa di decine di migliaia di migranti che di anno in anno cercano di fuggire dall’oppressione politica dei propri Stati di origine o, più semplicemente, dalla povertà e da altre forme di deprivazione economica. A tale riguardo, è di qualche rilievo considerare che la Conferenza sul futuro dell’Europa in materia di immigrazione, conclusasi il 9 maggio 2022, ha formulato, fra le altre, la seguente proposta: “rivedere il sistema di Dublino al fine di garantire la solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità, compresa la ridistribuzione dei migranti fra gli Stati membri, prevedendo eventualmente anche ulteriori forme di sostegno”. (cfr.: “Conferenza sulle sfide in materia di immigrazione”, Documentazione per le Commissioni, Riunioni Interparlamentari, Dossier, 12 maggio 2022, Senato della Repubblica – Camera dei Deputati).

I plurimi tentativi di ottenerne significativa modifica nel senso della redistribuzione sull’intero territorio dell’Unione degli stranieri inizialmente ospitati dagli Stati di approdo, a fronte della indisponibilità a prevedere quote permanenti ed obbligatorie di ricollocazione, ha, infine, avuto almeno parziale soddisfazione, con l’accordo del 22 giugno 2022 che ha previsto sì la relocation, ma su base meramente volontaria, in formale accoglimento dell’invito rivolto dal Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel ‘Discorso della Presidente sullo stato dell’Unione 2020’: “Salvare vite in mare non è un’opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione europea (…). Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità”, in ossequio all’art. 80 del TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, per il quale le politiche relative ai controlli delle frontiere all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati, in più specifica disciplina della previsione di cui all’art. 3 par. 2 del TUE – Trattato sull’Unione Europea, che prevede che la UE garantisce “misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione”, ed agli artt. 67 TFUE, che dispone che l’Unione sviluppi “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi“, e 77 TFUE, con il quale viene precisato che l’Unione sviluppa una politica volta a “garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne” nonché a “instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne”.

Il Patto, nel quale è confluito il nuovoRegolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione proposto dalla Commissione, di cui la Francia ha annunciato la sospensione dopo il caso Ocean Viking, che coinvolge 23 Paesi, tra cui 19 Stati membri e quattro extra Schengen, essendo un accordo di redistribuzione su base volontaria, peraltro relativo non solo ai richiedenti asilo ma anche ai migranti economici, non impone alcun obbligo a chi l’ha sottoscritto e, dunque, appare, nonostante la professata intenzione di dare finalmente corso alla solidarietà fra gli Stati membri, ancora affetto da un approccio meramente casistico con il rischio di dare luogo ad un sistema, ancora una volta, basato su una solidarietà interstatale easimmetrica (cfr. S. De Stefani, “Cosa resta di Dublino”, in Altalex, 26.3.2021).

Così, a titolo esemplificativo, la Germania ha dichiarato disponibilità all’accoglienza per 3.000 migranti, la Francia 3.500, ma, di fatto, i numeri di effettiva ricollocazione sono, allo stato, rimasti pressoché irrisori (secondo i dati divulgati dal Viminale, non smentiti, al 13 novembre 2022, 8 in Francia, 74 in Germania, 5 in Lussemburgo), specie se confrontati con le statistiche di ingresso nei Paesi rivieraschi: in base al ‘cruscotto’ dei migranti, aggiornato quotidianamente dal Ministero dell’Interno, e pubblicamente fruibile sulla pagina web del Ministero stesso, in Italia sono arrivati dal 1 gennaio 2022 al 14 novembre 2022 91.711 migranti, nel 2021 59.069, nel 2020 (anno della pandemia) 32.032, di cui i minori stranieri non accompagnati sbarcati sono stati per l’anno 2020 4.687, per il 2021 10.053, e finora nel 2022, 11.172. Statistiche all’interno delle quali si devono poi ricercare i minori numeri dei richiedenti asilo ed i numeri, ancor più ristretti, di quelli che vedono accolte le proprie istanze in quanto non semplici migranti economici.

Al riguardo, è appena il caso di precisare che nella larga maggioranza dei casi le operazioni di soccorso ai naufraghi nella zona SAR (Search And Rescue) del Mediterraneo centrale sono condotte dalla Guardia Costiera italiana o da altri mezzi della Marina militare e mercantile, che naturalmente li conducono nei più vicini porti (solitamente siciliani, prevalentemente Lampedusa). La percentuale di ingressi marittimi attribuibili alle navi di soccorso delle ONG riguarda circa il 12% del totale.

Già solo la considerazione di ciò impedirebbe di contestare all’Italia di venire meno al diritto del mare ovvero alle più generali norme umanitarie che impongono di dare soccorso al naufrago, in base al principio PoS – Place of Safety, pur esso codificato dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che più dettagliatamente si esamineranno infra, in virtù del quale occorre garantire al naufrago, appunto, un luogo sicuro dove approdare.

Altro è, poi, il destino dei migranti soccorsi, una volta giunti sul territorio nazionale, poiché, in base alla legislazione domestica vigente (costituita dalla l. 189/2002, cd. Bossi-Fini dal nome dei suoi ispiratori, e dalla legge n. 132/2018) lo straniero clandestinamente introdottosi in Italia non ha diritto di restarvi e deve essere rimpatriato nel Paese d’origine, a meno che non dimostri, dopo averne fatto rituale istanza, di essere qualificabile come rifugiato, cioè di provenire da luogo donde è fuggito per sottrarsi a qualsivoglia forma di persecuzione.

È bene precisare al riguardo che non v’è alcuna norma di diritto internazionale che imponga ad alcuno Stato nazionale di dover dare indiscriminato accesso all’interno dei propri confini a chi non ne ha cittadinanza. Soltanto il diritto d’asilo è previsto in materia ma, come noto, esso si basa su presupposti ben specifici, che non sempre ricorrono.

3.​Ciò detto sul piano del diritto d’asilo, occorre svolgere alcune considerazioni ulteriori circa il ruolo e lo statuto giuridico delle ONG e, in particolare, circa l’applicabilità nei confronti delle operazioni da esse compiute dei principi di cui all’art. 98, comma 2 della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare – cosiddetta UNCLOS.

Occorre considerare, al riguardo, che la convenzione UNCLOS recepisce all’art. 98, comma 1 un diritto internazionale consuetudinario di lunga data sul salvataggio delle persone in mare, mentre al comma 2 dello stesso articolo, al fine di istituire meccanismi di prevenzione delle sciagure marittime, istituisce per la prima volta delle zone di alto mare sulle quali gli Stati hanno compito di organizzare le operazioni di salvataggio (cd. zone SAR). Ne consegue il dovere dello Stato nella cui zona SAR l’evento si verifica di coordinare il soccorso tramite il proprio MRCC (Maritime Rescue Coordination Center, in Italia la Guardia Costiera) e mettere a disposizione un porto sicuro (secondo quanto previsto dalla Convenzione SAR di Amburgo, come modificata nel 2006, come specificato dal manuale IAMSAR, vol. 2, redatto dalla IMO – International Maritime Organization) (in Italia, la competenza all’individuazione del porto sicuro è affidata al Ministero dell’Interno).

Per effetto di ciò, nel caso in cui le operazioni di carico dei migranti non siano avvenute nella zona SAR di uno Stato (es., l’Italia), e questo non abbia coordinato i soccorsi o comunque non abbia accettato di assistere la nave, il comma 2 dell’art. 98 della convenzione UNLCOS non dovrebbe ritenersi applicabile e, conseguentemente, lo Stato non dovrebbe ritenersi avere obblighi di offrire un porto sicuro per lo sbarco. In questo senso si è espressa la dottrina più accorta: “L’Italia non pare avere obblighi di fornire POS se non nei casi previsti dalla Convenzione SAR, e cioè quando il soccorso avviene in zona SAR italiana, sia coordinato dal nostro MRCC, ovvero l’Italia abbia comunque accettato di assistere la nave” o stipulato accordi ad hoc con altri Stati coinvolti (F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, in Dir. Marittimo, 2020, 351; cfr. altresì ibid., 354 e 357).

Tale profilo di regolamentazione, derivante dalla convenzione di Amburgo e relativo manuale attuativo, deve essere ovviamente coordinato con le norme e i principi generali in materia di tutela dei diritti umani: la soluzione in alcuni casi adottata dall’Italia, di far sbarcare unicamente i passeggeri a rischio, è stata ritenuta ragionevole dalla CEDU nel caso Rackete c. Italia, 25 giugno 2019, n. 32969/19 (ma, come noto, non dalla Cassazione nel medesimo caso Sea Watch – Rackete; cfr. Cass. pen., sez. III, n. 6626/2020; per un commento critico a tale pronuncia, cfr. M. Ronco, “L’esercizio dei poteri discrezionali in materia di libertà, sicurezza e giustizia e l’obbligo di lealtà nel rapporto tra gli organi dello Stato”, in Archivio Penale, 2020, 35-54).

Da quanto risulta, ad esempio, nei casi Geo Barents e Humanity le operazioni di carico dei migranti da parte delle navi ONG non sono avvenute nella zona SAR di pertinenza italiana; per questo motivo è stato ritenuto possibile dalle autorità italiane escludere, almeno inizialmente, la concessione di un porto per lo sbarco di tutto il personale, circoscrivendolo soltanto alle persone in stato di effettivo bisogno.

Anche nel caso in cui la convenzione risulti applicabile sul piano della zona nella quale l’operazione di carico dei migranti è avvenuta, peraltro, la dottrina ha sollevato dubbi in merito all’effettiva applicabilità delle convenzioni SAR e UNCLOS.

Invero, come accennato, tali norme convenzionali si pongono in linea con un diritto internazionale di lunga data che si basa su presupposti applicativi diversi da quelli precostituiti dalle ONG. E infatti, come evidenziato dalla più autorevole dottrina (cfr. F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342), nel caso delle operazioni delle ONG:

– manca il presupposto della occasionalità del salvataggio da nave a nave (poiché le navi ONG effettuano tale attività professionalmente);

– manca il fine di applicazione della norma sul salvataggio da nave a nave (poiché il fine non è il rientro dei salvati alle proprie case, tipico del diritto internazionale marittimo, ma la permanenza nello stato di attracco);

– pur non volendo né criminalizzare né generalizzare, è stato revocato in dubbio che il fine del salvataggio sia esclusivamente e unicamente di tipo umanitario (si è, cioè, prospettato che le ONG siano mosse anche da finalità di ritorno d’immagine, con conseguenze in termini di crowdfunding e donazioni, spesso probabilmente provenienti anche da vettori commerciali che incoraggiano il ruolo delle ONG per evitare di doversi trovare davvero in prima persona a effettuare salvataggi)[1].

L’istituto del porto sicuro di cui alla convenzione UNCLOS, in altre parole, deriva da un diritto internazionale consuetudinario ed è concepito in tal senso perché le navi che effettuano soccorso occasionale si presumono non pronte a sostentare per lungo tempo persone a bordo supplementari, mentre le navi ONG si pongono invece proprio il fine di soccorrere e quindi sono organizzate in tal senso. In questa prospettiva, come evidenziato dalla dottrina (F. Munari, op. cit., 344), sussiste un obbligo di controllo di congruità dei mezzi ai fini da parte dello Stato di bandiera[2].

L’invocazione della Convenzione di Amburgo in fattispecie come quelle connesse all’attività delle ONG sembra dar luogo, in altre parole, a una forma di “abuso del diritto” da parte loro. E la circostanza, emersa in alcuni casi, che talune delle navi utilizzate per queste tipologie di operazioni siano formalmente registrate come destinate a funzioni diverse da salvataggio e soccorso sembra confermarlo. Come noto, l’abuso del diritto consiste essenzialmente nell’invocazione strumentale di norme per applicarle a fattispecie diverse dalla ratio delle stesse e dai presupposti tipici di applicazione delle medesime. Il concetto è tipico del diritto europeo (cfr. art. 54 della Carta di Nizza), ma non è estraneo neppure al diritto internazionale propriamente inteso, fermo che naturalmente quest’ultimo investe direttamente i rapporti tra Stati e non tra Stati e operatori.

4. Ciò detto con riferimento al caso in cui le operazioni siano avvenute in zona SAR italiana, diversi sono, invece, i principi applicabili nel caso in cui le operazioni di imbarco dei migranti avvengano al di fuori di tale zona. In tal caso, le responsabilità di assistenza competono allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto (es. la Libia) e, nel caso in cui sia ritenuto un porto non sicuro (in base al decreto interministeriale Esteri-Interni-Giustizia del 4.10.2019, la Libia non è considerato Paese sicuro, mentre lo sono, tra gli altri, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco), competono ragionevolmente allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato l’operazione (in tal senso sembra propendere la ricostruzione del Tribunale dei Ministri di Roma, nel caso Alan Kurdi: sul tema cfr. F. Munari, op. cit., 353, 359, 360).

Tali Stati hanno facoltà di chiedere assistenza allo Stato costiero, ma in mancanza di accordi specifici non risultano obblighi di concedere il proprio assenso (ferma l’incertezza della locuzione utilizzata dalla Convenzione “quando le circostanze lo richiedono”). Nel caso in cui la nave contatti strumentalmente uno Stato diverso da quello competente, esso (cd. First RCC) dovrà smistare la pratica allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto o, infine (ad es. laddove esso non disponga di porti sicuri), allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso: essi sono tenuti ad accettare la competenza, ma non viene chiarito che cosa avvenga nel caso in cui di fatto non la accetti e, soprattutto, se lo Stato che ha ricevuto la richiesta -pur essendo incompetente- sia legittimato a spogliarsi della vicenda dopo aver effettuato la comunicazione alle autorità competenti (cfr. Manuale IAMSAR, su cui cfr. F. Munari, op. cit., 337). Secondo la dottrina più autorevole, “La circostanza che MRCC Italia riceva una richiesta di soccorso fuori dalla propria zona SAR non integra altro obbligo per il nostro Paese se non quello, al massimo, di operare come First RCC, non potendosi quindi pretendere dalle persone concretamente coinvolte nella richiesta di soccorso alcun comportamento diverso da quello previsto dalle norme internazionali in capo a chi opera quale First RCC” (F. Munari, op. cit., 352).

Sotto altro profilo, allo Stato di bandiera competono verifiche sulla idoneità delle proprie imbarcazioni a effettuare il servizio alle quali sono preposte e che, pertanto, l’insufficienza dei mezzi che esse approntano rispetto al fine che si propongono rientra nella responsabilità del comandante ma indirettamente anche dello Stato di bandiera.

5. Vi è di più, in quanto lo Stato di bandiera non dovrebbe ritenersi estraneo neppure agli obblighi connessi alla ricezione della domanda d’asilo, secondo la convenzione di Dublino. Infatti, è principio tradizionale di diritto internazionale quello per cui le navi costituiscono una sorta di appendice del territorio di uno Stato, talché non appare peregrino sostenere che la frontiera europea, cui si collega l’obbligo degli Stati di ricevere le domande d’asilo da parte degli interessati, sia stata varcata nel momento in cui il migrante sale a bordo di un mezzo battente bandiera europea e che tale ingresso interrompa il nesso di provenienza da un Paese terzo.

In tali ipotesi, è dunque lecito utilizzare il sistema della ufficiale chiamata in causa dello Stato di bandiera, per la presa in carico della pratica, entro i termini di cui all’art. 21 del regolamento 604/UE/2013. In caso di declinatoria di competenza da parte dello Stato richiesto (una sorta di conflitto negativo di competenza), il regolamento si limita a prevedere una fase di conciliazione di fronte al Comitato ad hoc dell’art. 37, contiguo alla Commissione, che rende un parere non vincolante. Non si forniscono indicazioni sulla tutela giurisdizionale, ma si può ritenere che sia possibile adire la Corte di Giustizia, quanto meno ai sensi dell’art. 259 TFUE.

Occorre tener conto, peraltro, che la fictio iuris della nave come isola flottante o appendice distaccata dello Stato di bandiera non trova appigli testuali univoci nelle convenzioni internazionali. Le norme che più da vicino la richiamano sono gli artt. 91 e 92 della convenzione sul diritto del mare di Montego Bay (UNCLOS), ove si afferma che “Le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. Fra lo Stato e la nave deve esistere un legame effettivo … Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”.

Sulla base di tali principi, la giurisprudenza internazionale ha avuto modo di affermare quanto segue:

A corollary of the principle of the freedom of the seas is that a ship on the high seas is assimilated to the territory of the State the flag of which it flies, for, just as in its own territory, that State exercises its authority upon it, and no other State may do so. … [B]y virtue of the principle of the freedom of the seas, a ship is placed in the same position as national territory; but there is nothing to support the claim according to which the rights of the State under whose flag the vessel sails may go farther than the rights which it exercises within the territory properly so called.  It follows that what occurs on board a vessel on the high seas must be regarded as if it occurred on the territory of the State whose flag the ship flies …” (trattasi dello storico Lotus Case, Corte Internazionale di Giustizia, 1927).

The ship, everything on it, and every person involved or interested in its operations are treated as an entity linked to the flag State” (caso Saiga 2, Tribunale Internazionale del Mare, 1999).

Numerose sono le deroghe a questa fictio per cui la nave sarebbe una propaggine del territorio dello Stato, ma può darsi atto come lo Stato Italiano abbia recepito pienamente il principio tradizionale, mediante l’art. 4 comma 2 del codice penale, il quale – in ossequio al generale principio della territorialità della giurisdizione penale – stabilisce, tra l’altro, che “le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera”).

Merita di essere ricordato, in proposito, un caso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in materia di migranti, in cui è stata riconosciuta la giurisdizione dello Stato di bandiera della nave che imbarca i migranti in acque internazionali (cfr. CEDU, Grande Chambre, Hirsi Jamaa et al. c. Italia, 2012, parr. 77-82).

In quel caso, si trattava di imbarcazioni italiane che recuperavano migranti in acque internazionali, nel contesto degli accordi con la Libia, e li riportavano in Libia. Fu affermato l’obbligo dello Stato italiano di farsene carico perché imbarcati su navi italiane.  Se il diritto ha un senso, però, dovrebbe valere esattamente il reciproco quando le imbarcazioni battano bandiera di altro Stato e sia l’Italia a far valere il principio stesso.

6.​Se ne ricava conclusivamente un quadro giuridico d’insieme tutt’altro che univoco e concordante ma che, al di là di strumentalizzazioni di parte, non permette di qualificare come radicalmente infondata la pretesa di proteggere i propri confini dall’indiscriminato accesso degli stranieri, in un contesto di assai scarsa considerazione europea del problema che si preferisce nascondere sotto il tappeto degli Stati rivieraschi del Sud, laddove la disciplina dell’ineludibile fenomeno dell’emigrazione dovrebbe essere piuttosto preoccupazione generale dell’intera Europa.

Resta, infine, da considerare una prospettiva radicalmente alternativa di affrontare tale imponente fenomeno migratorio, consistente nella gestione intergovernativa dello stesso. Si tratta, in buona sostanza, di approfondire seriamente la strada della interlocuzione sistematica con i principali Paesi di provenienza dei migranti, al fine di consentirne un maggior sviluppo e permettere ai loro cittadini di realizzare compiutamente la propria esistenza nei propri luoghi natii senza necessità di emigrare per garantirsi una vita dignitosa e, in ogni caso, di regolare i flussi dei migranti e controllarli, in un’ottica finalmente di condivisione europea, che sia improntata alla solidarietà, non solo intraeuropea, ma anche con le Nazioni che patiscono tali emorragie di risorse umane.

È una grande occasione per l’Europa, ancora una volta al bivio fra pulsioni ideologiche suicidarie e soluzioni coraggiose rispettose della dignità di chi migra e di chi accoglie.


[1] “Pur non essendo in discussione gli obiettivi umanitari delle ONG, in molti casi, ai medesimi si aggiungono altre motivazioni, le quali, necessariamente, producono effetti anche giuridici sull’azione delle ONG stesse nel Mediterraneo: alcune di tali motivazioni sono ovvie, e riguardano … l’enorme visibilità mediatica per le ONG scaturenti da operazioni SAR di migranti, e le ricadute sul crowdfunding che tale visibilità determina … Per le ONG di cui trattasi possiamo assumere l’esistenza anche di motivazioni volte a generare ricadute positive in termini di immagine, e di incremento del sostegno a loro favore, che le pongono quindi in una sorta di vantaggio competitivo rispetto ad altre ONG impegnate nell’aiuto ai più deboli: quindi, in senso lato, motivazioni di termini di business in un “mercato” la cui offerta è generata dalle donazioni per scopi caritatevoli (V. J. PARENT, No duty to save lives, no reward for rescue: Is that truly the current state of international salvage law?, in Annual Survey of International & Comparative Law, 2006, 87-91; R.L. KILPATRICK JR. – A. SMITH, The international legal obligation to rescue during mass migration at sea: Navigating the sovereign and commercial dimensions of a Mediterranean crisis, in University of San Francisco Maritime Law Journal, 2015-2016, 141 ss.). Altre motivazioni sono meno ovvie, ma più che plausibili: in particolare, in ambito International Chamber of Shipping si ritiene che le missioni delle ONG nel Mediterraneo svolgano (anche) la funzione di ridurre il rischio per le navi mercantili (e soprattutto per le grandi navi di linea che hanno schedule e costi gestionali molto alti) di subire il coordinamento di un MRCC, con richiesta e obbligo di deviare la rotta per salvare un’unità carica di migranti. Donde l’ipotesi che tra i donors di queste ONG possano anche esservi compagnie di navigazione che “si servono” delle prime per garantirsi la regolarità dei traffici da esse serviti”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342-343.

[2] “La disciplina giuridica della navigazione pretende una relazione precisa tra modalità costruttive, gestionali e organizzative di una spedizione marittima e lo scopo per la quale essa è destinata a muovere. Tutto ciò impone quindi obblighi dallo Stato di bandiera al comandante della nave, siccome previsti a livello internazionale e necessariamente imposti al primo dal diritto nazionale”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 344.

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=ca13a5709a&e=d50c1e7a20

IL CROCIFISSO ESILIATO

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Mauro Ronco

Il Crocifisso di Munster viene rimosso dalla Friedensaal del Municipio di Westfalia in occasione della conferenza sulla pace dei Ministri degli Esteri del 3 e 4 novembre scorso. In Europa si litiga su tutto, ma sul Crocifisso l’accordo è totale: non va accolto. È così, nel luogo dove si pose fine alla guerra di religione nel 1648, si sancisce sbrigativamente l’esilio di quel che venne riconosciuto come fondamento della pace in Europa.

1La rimozione del Crocifisso di Münster. – I Ministri degli Esteri del G7 (Germania, Francia, Italia, Giappone, Canada, USA e Gran Bretagna) si sono incontrati nei giorni 3 e 4 novembre 2022 nella Città di Münster della Westfalia per una conferenza sulla pace organizzata dal Ministero Federale degli Esteri sotto la presidenza della Ministra tedesca Annalena Baerbock, esponente del partito dei Grünen.

L’incontro è avvenuto nella Friedenssaal dello storico municipio di Münster ove vennero siglati i Trattati di Westfalia che misero fine nel 1648 alla trentennale guerra di religione tra protestanti e cattolici consumatasi in larga parte dell’Europa.

Il carattere simbolico della Friedenssaal dal punto di vista religioso è evidenziato  dalla sporgenza nella sala di una parete rivestita di legno ove è situato un grande Crocifisso, il Ratskreuz del XVI secolo. Innanzi alla venerabile icona furono siglati i Trattati di pace del 1648. Ancora oggi gli eletti al Consiglio della Città, prima di assumere le funzioni di Consiglieri, prestano giuramento innanzi a questo Crocifisso, di inestimabile valore religioso e storico.

In occasione dell’incontro dei Ministri degli Esteri del  G7 il Crocifisso è stato rimosso. Il quotidiano tedesco Die Welt ha riportato in un primo momento tale notizia riferendo quanto dichiarato dal portavoce della Città di Münster, che la rimozione era stata richiesta dalla Ministra in persona. La notizia è stata successivamente corretta. Alle critiche di alcuni deputati dei partiti cristiani CDU e CSU ha fatto seguito una dichiarazione del Ministero degli esteri, sulla circostanza che non era stato il desiderio della Ministra a provocare la rimozione.

La decisione non avrebbe avuto alcuna rilevanza politica, poiché era stata decisa dalla Divisione-protocollo del Ministero previo accordo con la Città di Münster. Annalena Baerbock nel pomeriggio del 4 novembre ha soggiunto di aver appreso della rimozione allorché aveva fatto ingresso in  mattinata nella Friedenssaal: “il Crocifisso è anche parte della storia del luogo, perciò avrebbe anche potuto rimanerci”.

2L’offesa al patrimonio religioso e culturale dell’Europa. – L’episodio si rileva come segno della tendenza sempre più accentuata di cancellare dal territorio europeo i simboli cristiani e, in specie, la Croce su cui Nostro Signore Gesù Cristo è morto per riconciliare al Padre gli uomini e le donne di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Con la sua precisazione – non priva di ambiguità, poiché il Sindaco di Münster Markus Lewe ha dichiarato: “questa decisione non avrebbe dovuto essere presa e me ne rammarico”- la Ministra ha inteso togliere rilievo politico al gesto.

La ragione per cui ella ha dichiarato che il Crocifisso avrebbe potuto anche restare nella Friedenssaal – cioè che quell’icona costituisce una parte della storia del luogo – rivela anzitutto il suo ateismo: ella, allo stesso modo del Cancelliere tedesco e del Ministro dell’Economia, ha prestato giuramento, assumendo l’incarico di Ministro, omettendo il richiamo a Dio presente nella formula prescritta dalla legge tedesca.

Ma la precisazione fatta mostra soprattutto la sua incomprensione profonda in ordine al significato degli eventi storici.

Ella ha dichiarato che il Crocifisso avrebbe potuto rimanere nella Friedenssaal perché fa parte della storia del luogo, trascurando con ciò di ricordare che tutti gli eventi storici sono costituiti non soltanto da un supporto fisico-materiale, bensì soprattutto da un significato spirituale, che illumina di luce razionale il fine per cui gli uomini hanno tenuto determinate condotte.

Il Crocifisso di Münster ,nonché la sottoscrizione innanzi a esso dei Trattati di pace non sono un fatto storico muto che fa parte soltanto della storia di un luogo, ma costituiscono il patrimonio, anche culturale, che la generazione che stipulò la pace trasmise alla seguente, e così via, generazione per generazione. L’atto di trasmissione non è puramente meccanico, giacché incorpora il valore spirituale inerente agli atti compiuti dai protagonisti della pace del 1648.

La storia non è soltanto il passato, come sembra ritenere Annalena Baerbock. All’evento del 1648, celebrato innanzi al Crocifisso, ella amputa il valore spirituale che gli uomini dell’epoca ad esso assegnarono. Tale valore spirituale è il principio costitutivo concreto di una civiltà, di una società, di una nazione. Si tratta di ciò che rende possibile il progresso, l’educazione, la stessa vita della cultura, come vita di creazione e di assimilazione di un patrimonio realizzato dall’umanità. La trasmissione del valore spirituale sintetizza lo statuto concreto dell’uomo come spirito incarnato che vive nel tempo.

La rimozione del Crocifisso dalla Friedenssaal – indipendentemente da chi ne sia stato l’autore materiale  – costituisce un atto simbolico espressivo del rigetto del patrimonio spirituale comune ai popoli europei.

3Il rancore contro lo statuto ontologico integrale dell’uomo, spirito incarnato. – L’uomo è anche un ente spirituale, composto indissolubilmente di anima e di corpo. La sua spiritualità suscita in lui l’energia di superare i suoi limiti fisici e psicologici nella ricerca dell’essere, del bene e dell’unità. Questi beni costituiscono obiettivamente la dimensione che perfeziona in modo specifico la natura umana.

La rimozione dei simboli religiosi – o la loro devastazione o imbrattamento, come accade sempre più spesso in Europa e nell’America del Nord[1] – esprime, pertanto, un vero e proprio rancore contro  la natura della persona e contro la sua tendenza intrinseca all’autotrascendimento e al perfezionamento della sua natura in Dio creatore e provvidente.

Quindi i gesti del tipo di quelli di Münster offendono la persona umana e il suo diritto alla libertà religiosa. Essa non consiste infatti soltanto nell’immunità dalla coercizione ad essere forzato ad agire secondo la coscienza, ma anche nella libertà positiva di proporre pubblicamente la fede, perché “le moltitudini hanno il diritto di conoscere le ricchezze del mistero di Cristo”[2].

La cosiddetta cancel culture della memoria religiosa e, in specie, della memoria dei popoli che hanno visto la nascita della loro civiltà sul fondamento della fede religiosa, costituisce anche una grave aggressione al diritto alla libertà religiosa, che “è la premessa e la garanzia di tutte le libertà che assicurano il bene comune delle persone e dei popoli”[3].

4. La sfida a Dio onnipotente. – Né va dimenticato, infine e soprattutto, che per i cristiani la cancellazione di simboli religiosi e, in particolare, dell’icona di Nostro Signore Gesù Cristo che riconcilia gli uomini al Padre con il sacrificio della Croce, costituisce anche espressione di quel “Non serviam”, che fu pronunciato dall’Arcangelo ribelle nel tempo misterioso precedente alla creazione del mondo degli uomini. Il “Non serviam” si è ripetuto innumerevoli volte nella storia; oggi sembra essersi eretto come principio cardine della cancel culture, che intende strappar via la prima Tavola del Decalogo, in cui è scritto ciò che Dio per bocca di Mosè disse a Israele riunito in assemblea: “Io sono il Signore, tuo Dio… non avere altri dei di fronte a me”[4].

Questa sfida rischia di far scomparire la nostra civiltà secondo l’ammonimento di Giambattista Vico nella Scienza Nuova, per cui tutte le nazioni sorsero e tutte si conservano o si distruggono a seconda che in esse siano venerate la religione, il matrimonio, e la tradizione[5].


[1] In Vandea nel 2018 fu eretta su decisione del Municipio di Sables-d’Olonne una statua di San Michele nella piazza antistante la chiesa di Saint Michel. Su ricorso dell’associazione La Libre Pensée il Tribunale amministrativo e la Corte di Appello amministrativa di Nantes hanno ordinato con le loro sentenze di rimuovere la statua (sentenze rispettivamente del 16.12.2021 e del 16.09.2022). Ciò perché “la statua dell’Arcangelo San Michele…è un emblema religioso” e, pertanto, il suo insediamento è contrario alla legge del 1905  sulla separazione tra Chiesa e Stato. Le Maire di Sables-d’Olonne ha presentato ricorso al Consiglio di Stato, forte anche di un referendum, estraneo alla procedura giudiziaria nel quale gli abitanti della Città avevano espresso il loro parere favorevole alla permanenza della statua nella misura del 94.51%.

[3] Ibidem, § 39.

[4] Deut., 5,6.

[5] G. Vico, Scienza Nuova (1744): Libro Primo – Dello Stabilimento de’ Principj , Bompiani, Milano, 2013, 825-906.

‘CASO UNGHERIA’ FRA SOVRANISMO E SOVRANITÀ NAZIONALE

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

L’iniziativa della Commissione UE di congelare i 7 miliardi di euro del PNRR – Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa ungherese e di tagliare il 65% dei fondi di coesione, pari ad altri 7.5 miliardi, è dichiaratamente fondata sulla presunta lesione dei princìpi dello Stato di diritto da parte del governo magiaro. Ma siamo certi che spetti alla Commissione o ad altri organi dell’Unione Europea stabilirlo? 

  1. L’Europarlamento ha votato lo scorso 15 settembre una mozione che condanna il governo di Budapest perché «non è più una democrazia compiuta». Il rapporto definisce l’Ungheria «una minaccia sistemica» ai valori UE, un «regime ibrido di autocrazia elettorale», ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni, ma manca il rispetto di norme e standard democratici. In particolare, destano preoccupazione l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse e la libertà di espressione, compreso il pluralismo dei media, nonché la libertà accademica, la libertà di religione, la libertà di associazione, il diritto alla parità di trattamento, i diritti delle persone LGBTIQ, i diritti delle minoranze, dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati politici.
    La Commissione si è schierata in conformità al Parlamento europeo: dopo avere sospeso l’invio della prima tranche di acconto sul PNRR ungherese e aver minacciato l’applicazione del meccanismo di condizionalità economica sui fondi di bilancio europeo destinati allo Stato membro, il collegio dei Commissari europei ha deliberato sul documento del 20 luglio del commissario al Bilancio Johannes Hahn, votando all’unanimità la proposta di sospendere il 65% dei fondi di tre programmi operativi per la Coesione destinati all’Ungheria a causa della violazione dello Stato di diritto. Il valore totale dei fondi in questione è di 7,5 miliardi di euro, che corrisponde circa a un terzo di tutti i fondi di Coesione destinati all’Ungheria. La decisione – ha spiegato il Commissario europeo al Bilancio, Johannes Hahn – deriva dalle irregolarità sistemiche nelle procedure di appalto, dalle insufficienti inchieste contro il conflitto d’interessi e in generale dalla debolezza nell’intervento contro la corruzione.
  2. Secondo altri, la vera ragione della recrudescente azione degli organi UE nei confronti dell’Ungheria è la riluttanza di Orban a consentire più significative iniziative europee contro la Russia di Putin – Orban è rimasto l’unico a rilasciare visti di ingresso Shengen ai cittadini russi -, diversamente dall’apparente appeasement della Commissione nei confronti della Polonia – pur essa ritenuta rea di lesione dello Stato di diritto, che ha, al contrario, assunto la guida della resistenza pro Ucraina contro la Federazione russa.
    La contestualità temporale dei provvedimenti UE contro l’Ungheria con la nuova normativa ungherese in materia di aborto farebbe, piuttosto, pensare a una ritorsione contro la previsione, appunto introdotta il 15 settembre, che i medici che si occupano di interruzione di gravidanza dovranno mostrare alle donne che scelgono l’aborto, «una prova chiara delle funzioni vitali del feto», tra tutte, il battito del cuore, dovendo il personale sanitario fornire documenti che attestino che la paziente è stata sottoposta a tale procedura: altrimenti l’aborto non potrà essere praticato (su di esso cf. https://www.centrostudilivatino.it/la-tutela-del-concepito-tra-diritto-romano-e-costituzione-ungherese/).
    In realtà, l’aborto è praticabile in Ungheria, sin dal 1953, fino a 12 settimane dall’inizio della gestazione senza particolari restrizioni, mentre invece la normativa italiana, la legge n. 194/1978, che taluni vorrebbero porre a fondamento di un inesistente diritto all’aborto[1], nel prevedere l’assistenza dei consultori familiari alle donne che chiedono di abortire stabilisce che essi, “oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto” (art. 5).
  3. È difficile da comprendere in che cosa consista l’aggravamento della condizione femminile delle ungheresi – la cui libertà di abortire sarebbe messa a repentaglio dall’ascolto del battito fetale del proprio bambino – rispetto alle italiane, cui il probabile prossimo Presidente del Consiglio italiano, con omologo scandalo mediatico, vorrebbe far rispettare più attentamente la normativa vigente, anche nella parte in cui questa prevede l’aiuto alla maternità responsabile.
    Ma tant’è, se la stessa Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, la ‘popolare’ tedesca, “non una pericolosa comunista” (come ha ricordato Enrico Letta, segretario DEM), a proposito della possibile deriva ungherese dell’Italia post 25 settembre, rispondendo a una domanda a Princeton sul possibile risultato delle elezioni in Italia, dato che – è stato fatto notare – tra i candidati vi sono figure vicine a Putin, ha testualmente dichiarato: “Vedremo il risultato del voto in Italia, ci sono state anche le elezioni in Svezia (con il clamoroso successo dei Democratici Svedesi di destra). Se le cose andranno in una direzione difficile, abbiamo degli strumenti, come nel caso di Polonia e Ungheria“.
    A fronte delle polemiche suscitate da tale intervento, contestato come una indebita intromissione nelle elezioni di un Paese membro, la Commissione europea, con interpretazione autentica tesa a sedare gli animi ma, in realtà, ancor più urticante, ha fatto sapere che “lavorerà con tutti i governi che usciranno dalle elezioni e che vogliono lavorare con noi”, con la presidente che avrebbe solo “cercato di spiegare il ruolo di guardiana dei trattati della Commissione in particolare nel campo dello Stato di diritto”.
  4. Orbene, gli strumenti di cui parla von der Leyen sono le procedure di infrazione per violazione dei trattati europei. Nel caso dell’Ungheria sono stati avviati per violazione del trattato fondamentale sull’Unione europea, in relazione alla mancanza di indipendenza della magistratura, alla scarsissima libertà di stampa e alla carenza di diritti e tutele o la vera e propria vessazione delle minoranze, a partire dalla comunità Lgbt, oltre, appunto, al grande scalpore suscitato dalla legge in base alla quale le donne che intendono abortire dovranno prima ascoltare il battito del feto.
    L’Europarlamento chiede addirittura di attivare l’art. 7 del trattato dell’Unione Europea, che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea, tra cui il diritto di voto in sede di Consiglio, in caso di violazione grave e persistente da parte di un Paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione.
    È lecito chiedersi, al riguardo, se la asserita violazione di regole e princìpi che vengono assimilati alla rule of law, ma che piuttosto rientrano in materie espressamente riservate, in base agli stessi Trattati fondativi dell’Unione, alla competenza esclusiva degli Stati membri, sia censurabile dagli organi UE senza, con ciò, ledere, per esorbitanza, il rispetto delle prerogative loro assegnate.
    In altri termini, ai fini della tenuta dell’Europa, è più pericolosa la pretesa di governi nazionali, liberamente eletti ed espressione democratica del popolo, di sottrarsi al mainstream dei ‘nuovi diritti’, o piuttosto l’autoassunzione della Presidente della Commissione della funzione di guardania dei Trattati in materie che questi non assegnano all’Unione? Intendono quelli esercitare la propria sovranità nazionale o sono espressione eurofobica di pericoloso sovranismo?
    In un contesto geopolitico in cui l’Europa è chiamata a svolgere finalmente un ruolo da protagonista, pena la sorte del vaso di coccio tra quelli di ferro, sarà più prudente spingere per una Europa delle nazioni o per quella che Vladimir Bukovskjy, già all’inizio del millennio, paventava come l’EURSS, l’Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche?

                                                                                Renato Veneruso


[1]  L’art. 1 recita espressamente: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite

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DIRITTO NATURALE E DIRITTI UMANI IN FRANCISCO DE VITORIA

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

Abile e notissimo Maestro di teologia, a partire dalle problematiche nuove che il suo tempo e le vicende storiche gli presentavano, de Vitoria cercò di trovare le soluzioni che più rispondessero tanto alle esigenze del Vangelo, quanto a quelle della filosofia e del pensiero umano. Contribuì – insieme ad altri autori della cosiddetta “prima Scuola di Salamanca” – a una nuova elaborazione filosofica in ambiti afferenti l’economia morale e il diritto internazionale, in cui si distinse particolarmente. Si ritiene che abbia posto le basi della moderna concezione dei diritti umani. La sua notorietà fu tale che fu invitato a partecipare ad alcune sessioni del Concilio di Trento, come teologo imperiale. Non poté parteciparvi a causa di una grave malattia che lo avrebbe pesto portato alla morte, all’età di 63 anni, nel 1546.

1. Francisco de Vitoria nasce a Burgos, in Spagna, nel 1483. A 22 anni entra nell’Ordine dei Frati predicatori. Dopo gli studi nella città natale, viene inviato dall’Ordine a studiare filosofia e teologia all’Università di Parigi, in uno dei collegi aggregati alla Sorbona, il collegio di Saint Jacques, dove rimarrà fino al 1523 percorrendo il curriculum studiorum fino al conseguimento del dottorato in teologia e l’inizio dell’insegnamento. Durante gli anni della formazione, acquisisce una profonda conoscenza dei testi della cultura classica, con particolare attenzione alle opere di Aristotele, Cicerone e Seneca, e cresce in erudizione con le letture e i dettati della Summa Theologiae di S. Tommaso.

Inizialmente convinto sostenitore dell’impostazione filosofica nominalista, indirizzo di pensiero all’epoca prevalente a Parigi, si fece successivamente promotore di una riscoperta e rivalutazione del pensiero di Tommaso d’Aquino, tanto che il confratello De Crockaert, che stava perseguendo un analogo itinerario, cogliendo la sintonia d’intenti, lo volle, nonostante la giovane età, come collaboratore alla stesura della sua edizione parigina della Secunda Secundae dello stesso S. Tommaso (1512). Nella capitale francese prese poi contatti anche con Juan Fenario (Feynier), più tardi maestro generale dell’Ordine, che gli comunicò le preoccupazioni per la crisi intellettuale e sociale che la società dell’epoca stava attraversando.

Quando nel 1523 fu chiamato a insegnare al collegio di S. Gregorio a Valladolid, invece dei tradizionali Libri Sententiarum di Pietro Lombardo introdusse come manuale didattico per la teologia la Summa Theologiae. Il suo insegnamento ebbe tanto successo che nel 1526 vinse la cattedra de prima nella facoltà di teologia di Salamanca, fondando quella che in seguito sarebbe stata chiamata la scuola spagnola di diritto naturale. Il suo insegnamento si coglie soprattutto in una serie di opere pubblicate postume, tra cui le Relectiones theologicae (1557), il Confessionario (1562), la Summa Sacramentorum Ecclesiae (1560). De Vitoria incentrò la riflessione su questioni di attualità, che volle affrontare per mezzo di un metodo rigoroso basato sull’uso attento della ragione nelle questioni di fede, il ricorso costante alla Sacra Scrittura, il ritorno ai Santi Padri e agli autori della Scolastica[1].

2. La sintesi così pensata fra teoria e pratica, fra speculazione ed etica, raggiunse in lui un equilibrio difficilmente riscontrabile in altri teologi. Celebrato come padre dell’ideale di giustizia e di pace fra le genti del mondo, de Vitoria era dunque cresciuto intellettualmente alla scuoladi S. Tommaso.

In tutta la sua opera – lo confermerà la lezione sul libero arbitrio – troviamo una nozione di Legge naturale che si allontana progressivamente dall’intellettualismo scolastico e finisce per trovare il fondamento ultimo nella volontà divina. Dio è il legislatore che ordina razionalmente la creazione secondo i fini che gli sono propri e guida le azioni degli uomini con l’aiuto illuminante della Rivelazione. D’altra parte, Dio inteso come Dominum, non è limitato da alcun divieto, precetto o criterio razionale, essendo incommensurabile e agendo come padrone di ciò che esiste. Come corrispondente all’ordine immanente voluto da Dio, la causa efficiente del diritto è d’origine divina, tuttavia, nella sua determinazione concreta, esso si identifica con il diritto positivo. La potestà spetta alla consesso sociale, che la trasferisce al principe, senza tuttavia che ciò comporti una sua abdicazione definitiva. Perché vi sia legge, ciò che è razionalmente ordinato deve emanare da un corpo sovrano, cioè deve esprimere una volontà imperativa ed essere applicabile in virtù del suo potere.

Per de Vitoria, l’autorità della Legge naturale sul diritto positivo non deriva dal predominio della ragione sulla volontà, ma dalla superiorità dell’Autore stesso della Legge naturale, che è Dio, sull’autore della legge umana, che è l’uomo. La Legge naturale, dice de Vitoria, è giusta per sua stessa natura, essendo indipendente dalla volontà umana ed è di per sé necessaria. Il carattere di necessità della Legge naturale deve intendersi fatta salva l’incoercibilità dell’autorità divina, che può sempre modificarla[2]. I modi di arrivare alla conoscenza della Legge naturale presuppongono una metodologia che eredita dalla epistemologia aristotelico-tomista: a) si parte da ciò che è naturalmente conosciuto come giusto attraverso il retto esercizio della ragione, per mezzo del lume naturale; b) si incontrano poi, via via, i principi conosciuti dalla nostra ragione o dal lume naturale; c) in un terzo luogo, troviamo i precetti morali e pratici che guidano l’agente morale e che si deducono dai principi naturali[3]. Quanto poi all’idea di giustizia, il Nostro la concepisce come un valore inerente all’oggetto, al fatto o alla condotta, che implica sempre una relazione di alterità e un debitum, un dovere di dare ciò che appartiene a un altro, o in virtù di una relazione sinallagmatica, o in virtù di meriti da riconoscere (giustizia commutativa e distributiva)[4].

Pertanto, la Legge naturale, non prescrittiva né proibitiva, è sostanzialmente una legge permissiva, concedendo all’uomo il diritto di agire[5]. Il fondamento del dominio nella Legge Naturale, così inteso, sarà fondamentale per comprendere l’apologia che il Nostro farà del dominio naturale degli “indiani” sulle loro terre, da cui derivò poi il rifiuto dell’idea, allora in voga, secondo cui questo dominio era stato in realtà abolito a causa del peccato o che pre-esistente a esso doveva ammettersi un dominio naturale pre-giuridico, come quello rivendicato dai nominalisti[6].

3. Tornando al rapporto tra la Legge divina e la legge umana, de Vitoria definisce la legge umana come il giusto determinato dalla volontà umana[7]. Le leggi umane non vincolano soltanto a causa del timore di una punizione esterna, ma pretendono l’adesione del foro interno della coscienza, per cui chi agisce contro la legge dettata dal principe pecca in maniera eventualmente anche mortale, in ragione della gravità della materia volta per volta considerata[8]. Perché ci sia legge, è necessario dunque che l’imperativo della volontà autoritativa si aggiunga al razionale umano. A riprova di ciò, de Vitoria intende per Legge eterna tutta la Legge divina in assoluto, non solo quella naturale, proprio perché rivolge la sua attenzione all’Autore della legge; e se la Legge naturale obbliga, è perché contiene ed estrinseca la volontà divina. Il volontarismo dogmatico supposto dalla sua trattazione sulle leggi – in virtù del quale l’essenza dell’obbligo si trova proprio nell’atto di volontà dell’autorità – porteranno il Nostro, nel suo trattato De Legibus, a compiere il definitivo passaggio teorico da una concezione oggettiva a una concezione soggettiva del diritto, che si cristallizzerà definitivamente nel 1539 con la Relectio De indis.

In questo senso, de Vitoria svilupperà una curiosa equivalenza tra potere, facoltà, volontà e dominio: “Tutti diciamo che si è proprietari di una cosa quando si ha piena facoltà di usarla […]. Ora, si dice che si ha il libero arbitrio perché si ha il dominio sui propri atti. Pertanto, il dominio e il libero arbitrio sono riuniti nella stessa parola: facoltà. Il libero arbitrio è la facoltà della ragione e della volontà, e il dominio sulle azioni umane è anche la facoltà di usare la ragione e la volontà[9]. Trasferendo questa riflessione alla definizione di ius, si direbbe che la facoltà giuridica è null’altro se non il potere della volontà attribuito dalle leggi al soggetto razionale, per cui siamo di fronte a una delle prime categorizzazioni complete del diritto soggettivo. Si osservano cioè tutti gli elementi del concetto di diritto soggettivo: lo ius come fonte di diritti, il diritto come potere di fare o non fare e l’uomo come soggetto del diritto in quanto essere capace di intendere e di volere. La libertà elettiva di fare o non fare, della libera volontà di usare o non usare la facoltà, costituisce l’essenza stessa dello ius inteso come dominium e ciò porrà il Nostro all’apice del lungo processo di formulazione teorica del diritto soggettivo[10].

Questa tesi soggettivista dello ius sarà ulteriormente sviluppata nella sua famosa Relectio de Indis (1539), dove metterà a punto una decisa difesa dei poteri e delle facoltà inerenti agli indiani, come tali ad essi provenienti dallo stesso diritto naturale. Dunque, se il diritto naturale genera autentici diritti soggettivi negli individui, ci troviamo allora di fronte al precursore della moderna concezione dei diritti umani. Per de Vitoria, infatti, la legge naturale dà all’uomo il diritto alla proprietà, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, alla conservazione della propria vita et similia, diritti il cui fondamento di titolarità e legittimazione è in ultima analisi l’uomo stesso in quanto creatura razionale creata a immagine e somiglianza di Dio, dotata di una dignità che è il termine primo ed ultimo di ogni potere e dominio[11].

4. Il cammino che condusse a un tale sviluppo teorico, fu tutt’altro che semplice. Negli anni in cui andava pubblicando la sua Relectio de Indis (1539), il confratello Bartolomeo de Las Casas stava incontrando una vivace opposizione soprattutto negli ambienti ecclesiastici[12]. Da tempo interessato alla questione, Francisco de Vitoria non si limitò ad una difesa d’ufficio del confratello, ma sviluppò l’argomento espressamente in due “trattati” scolastici (le Relectiones, appunto), che per la loro natura vennero a costituire le basi di quello che sarà poi il diritto internazionale moderno. Mentre, infatti, in opere precedenti aveva incluso lo jus gentium nell’ambito del diritto positivo, nella De Indis lo includerà nell’ambito del diritto naturale o derivato dal diritto naturale.

Per de Vitoria il diritto delle genti (ius gentium) deriva direttamente dal diritto naturale. Egli attribuisce agli stati il ruolo di soggetti del diritto internazionale e afferma il principio della naturale comunicazione e consociazione fra i popoli, come principio generale di diritto naturale che orienta lo jus gentium. In nome di un’universale parentela che accomuna tutti i popoli, il diritto delle genti rende gli scopritori proprietari delle cose che non sono di nessuno, “quae in nullius bonis sunt, iure gentium sunt occupantis“. Alla luce di ciò, dunque, gli Spagnoli, al pari degli altri popoli conquistatori, erano sì legittimati a rivendicare il pieno diritto a stare nei territori degli Indios, purché non arrecassero danni e anzi si prodigassero per il progresso materiale e il riscatto morale di quelle popolazioni. Ma è nella seconda parte della De Indis che de Vitoria mette a punto una lucida ed insuperata critica ai principali argomenti addotti nella sua epoca per giustificare la Conquista.

Afferma, all’uopo, che l’Imperatore non può essere considerato come un dominus totius orbis, né il Papa come detentore di una plenitudo potestatis negli affari temporali. Rifiuta di riconoscere il diritto di scoperta (jus inventionis) come legittimo presupposto di conquista, affermando altresì come la giusta preoccupazione per la propagazione della fede cristiana non possa di per sé assurgere amotivo di guerra giusta. Afferma ancora che peccati come il cannibalismo e i sacrifici umani, commessi dai nativi del Nuovo Mondo, non possono stimarsi quali motivazioni idonee a giustificare una guerra e nega risolutamente la legittimità del ricorso retorico all’argomento di una speciale concessione divina – cui ricorrevano sistematicamente dagli apologeti della Conquista – spesso abusando del paradigma biblico della Terra Promessa.

5. Una volta definite le Nazioni come soggetti di diritto internazionale e i principali diritti naturali che devono ispirare i loro rapporti, de Vitoria affronta il terzo principio fondamentale della sua concezione dell’ordine mondiale, cioè la discussione sulla guerra giusta che sarà poi sviluppata nella Relectio De Iure Belli.  Il ricorso alla guerra è ammesso dopo che siano state esaurite tutte le forme di persuasione pacifica possibili, perseguite non solo a parole, ma anche attraverso fatti concreti che mostrino la volontà di instaurare un rapporto di scambio e di commercio su basi di effettiva, reciproca utilità. La guerra è vista quindi come extrema ratio e, in un primo momento, ammessa solo come guerra puramente difensiva, che non dà diritto di sottomettere il nemico e di farlo prigioniero.

L’argomento principale a giustificazione della guerra giusta resta quello secondo cui la guerra appartiene senz’altro al diritto naturale, almeno per ciò che riguarda quella difensiva, essendo un principio elementare del diritto quello per il quale “vim vi repellere licet“. Ma anche la guerra offensiva, quella cioè fatta per vendicare una offesa, è legittima allorché la sicurezza della Repubblica non potrebbe raggiungersi se non dissuadendo il nemico dal commettere ingiustizie proprio con la minaccia ed eventualmente l’azione della guerra. La pace e la tranquillità tra i diversi popoli sarebbe infatti impossibile se i malvagi potessero impunemente imperversare in danno degli innocenti. Ma oltre a uno ius ad bellum, de Vitoria si spingerà a teorizzare anche uno ius in bello, in forza del quale considerare lecito compiere tutto quanto è necessario al bene pubblico della nazione e alla sua difesa, così come al mantenimento della pace e della sicurezza dei confini, anche eventualmente vendicando le offese ricevute, dacché rientra tra le prerogative sovrane del Principe l’agire in difesa dell’onore e della reputazione della nazione.

Antonio Casciano


[1] Vitoria, F., Sacra Doctrina, a cura di C. Pozo, in Archivo Teològico Granadino, 20 (1957), pp. 417-419.

[2] Vitoria, F., De justitia, Publicaciones de la Asociación Francisco de Vitoria, Madrid, 1934, pp. 15-17.

[3] Ibid., pp. 17-22.

[4] Ibid., pp. 35-57.

[5] Vitoria, F., De justitia, cit., p. 77.

[6] Ibid., pp. 78-85.

[7] Vitoria, F., De Legibus, Universidad de Salamanca, 2010, p. 139.

[8] Ibid., pp. 139-143.

[9] Vitoria, F., De aquello a lo que el hombre está obligado al llegar al uso de la razón, en Obras de Francisco De Vitoria. Relecciones Teológicas, BAC, Madrid, 1960,p. 1315.

[10] Vitoria, F., Relección primera sobre los Indios, en Obras, cit., p. 662.

[11] Urdánoz, T., «Introducción a la Relección primera de Indis», en Obras…, cit., p. 654.

[12] Soltanto due anni prima, infatti, nel 1537, Paolo III aveva pronunciato la bolla Sublimis Deus, in cui dichiarava che gli Indiani erano veramente uomini come gli altri, come tali in grado di ricevere i sacramenti. Grazie a questa nuova decisione papale, nel 1539 Vitoria ebbe la strada aperta per dare potere agli indios ed estendere la sua teoria del dominio come estensione dell’Imago Dei agli indios.

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