Gravi errori della Civiltà cattolica sulla proposta di legge in tema di “suicidio assistito”
PREMESSA: l’articolo è interessante e le critiche sono condivisibili. Il problema di fondo è che la rivista La Civiltà Cattolica e i gesuiti sono conciliari, quindi appartengono alla religione nata col Conciliabolo Vaticano II, che non fu un Concilio della Chiesa ma, appunto, un conciliabolo della Contro-Chiesa, che occupa i Sacri Palazzi. (n.d.r.)
Segnalazione Corrispondenza Romana
di Tommaso Scandroglio
Ha fatto molto parlare di sé l’articolo dal titolo La discussione parlamentare sul ‘suicidio assistito’ a firma di padre Carlo Casalone apparso sull’ultimo numero della rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica (Quaderno 4114, a. 2022, vol. I, pp. 143-156). L’articolo è problematico per più motivi, che in questa sede non possiamo analizzare in modo esaustivo, ma in primis perché appoggia il varo della proposta di legge dal titolo Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita. Ma procediamo con ordine esaminando gli aspetti più critici di questo articolo.
Casalone innanzitutto giudica positivamente la legge 219/2017: «Pur non mancando elementi problematici e ambigui, essa è frutto di un laborioso percorso, che ha consentito di raccordare una pluralità di posizioni divergenti». Dopo aver elencato le condotte legittimate dalla legge, Casalone conclude: «Il combinato disposto di questi elementi convalida la differenza, etica e giuridica, tra “lasciar morire” e “far morire”: il quadro delineato permette di operare rimanendo al di qua della soglia che distingue il primo dal secondo». Dunque secondo il gesuita la legge 219 non permetterebbe l’eutanasia. Ma le cose non stanno così. La legge permette la pratica dell’eutanasia omissiva e commissiva. In merito a quest’ultima tipologia la legge consente l’interruzione di terapie salvavita e di mezzi di sostentamento vitale quali l’idratazione e l’alimentazione assistite (tralasciamo qui per motivi di spazio la quaestio se tali mezzi possano configurare terapie, perché nulla muterebbe sul piano morale). Dunque consente l’uccisione di una persona innocente.
Passiamo ad un altro passo problematico dell’articolo: «Come la sentenza n. 242/2019, il testo riconosce non un diritto al suicidio, ma la facoltà di chiedere aiuto per compierlo, a certe condizioni». La sentenza a cui fa cenno Casalone è quella pronunciata dalla Corte costituzionale che ha legittimato l’aiuto al suicidio in presenza di alcune condizioni. L’attuale progetto di legge (Pdl) ricalca da vicino la struttura di questa sentenza. Ora c’è da dire che sia la sentenza che il Pdl attribuiscono un diritto all’aiuto al suicidio, non una mera facoltà. Sia la sentenza che la legge prevedono la necessaria e quindi doverosa realizzazione di alcune condotte in capo ai medici al verificarsi di alcune condizioni. Però nella sentenza, a differenza del Pdl, i medici possono astenersi dall’assumere queste condotte eccependo l’obiezione di coscienza: «Quanto, infine – si legge nella sentenza – al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (un altro errore dell’articolo è ritenere che nella sentenza non vi fosse presente l’obiezione di coscienza). Dunque se è presente l’obiezione di coscienza vuol dire che esiste, parallelamente, un obbligo verso cui eccepire questo istituto, altrimenti non avrebbe senso obiettare se, a monte, non ci fosse un dovere. E se c’è un dovere di eseguire X, vuol dire che in capo al paziente esiste un corrispettivo diritto di esigere X, diritto che se non verrà soddisfatto dal medico obiettore dovrà comunque essere soddisfatto da qualche altro medico. Dunque, come già accennato, sia nella sentenza che nel Pdl esiste il dovere di attuare la richiesta di assistenza al suicidio da parte del paziente, ma nella sentenza il medico può ricorrere all’obiezione di coscienza, nella legge non è presente questa possibilità. Ma anche laddove verrà inserita, l’aiuto al suicidio rimarrà comunque un diritto da riconoscersi in capo al paziente e la struttura ospedaliera dovrà trovare un medico non obiettore per soddisfare l’esercizio di questo diritto.
Veniamo ora ad un altro passo, forse il più significativo, che merita di essere censurato (tralasciandone altri, tra cui una sezione in cui pare fondarsi l’illeceità morale del suicidio in primis sul concetto di relazione, come se la persona originasse la sua dignità dalla relazione con gli altri). L’articolo così continua: «Non c’è dubbio che la legge in discussione, pur non trattando di eutanasia, diverga dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il Magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti. La valutazione di una legge dello Stato esige di considerare un insieme complesso di elementi in ordine al bene comune, come ricorda papa Francesco: “In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte, lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società”». Dunque da una parte Casalone precisa che la ratio della legge è incompatibile con la dottrina cattolica, ma su altro fronte pare qualificarla come male minore frutto di un compromesso tra visioni differenti in senso alla società: un doveroso punto di equilibrio dato che viviamo in una società pluralista.
Perché male minore? Quali mali maggiori eviteremmo votando questa legge? Casalone ne indica più di uno. Il primo riguarderebbe un appoggio al referendum radicale sull’omicidio del consenziente: «La domanda che si pone è, in estrema sintesi, se di questo PdL occorra dare una valutazione complessivamente negativa, con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente, oppure si possa cercare di renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi. […] L’omissione di un intervento rischia fortemente di facilitare un esito più negativo». Il ragionamento (erroneo) è il seguente: affossiamo questa legge e verrà approvato il referendum radicale sull’omicidio del consenziente. Se invece l’appoggiamo, nel nostro ordinamento chi vorrà morire userà del suicidio assistito e non sentirà il bisogno di avere anche una legge sull’omicidio del consenziente. Le cose non stanno così. Innanzitutto si danno casi in cui la persona non può fisicamente darsi la morte (v. i tetraplegici) e quindi, per morire, chiederebbe che qualcuno la uccida (omicidio del consenziente). In secondo luogo e in modo più pregnante, appoggiare una legge sul suicidio assistito significa appoggiare anche una futura legge di matrice referendaria sull’omicidio del consenziente, perché la ratio è la medesima. Dire sì all’aiuto al suicidio significa dire sì alla possibilità di uccidere l’innocente, così come avviene nell’omicidio del consenziente. In altri termini, varare una legge sul suicidio assistito significa accettare il principio di disponibilità della vita. Accettato questo principio non si vede il motivo di rifiutare una legge sull’omicidio del consenziente che configurerebbe solo una diversa modalità di applicazione di questo stesso principio. In estrema sintesi: se sei a favore dell’aiuto al suicidio favorisci l’omicidio del consenziente.
Una breve riflessione su questa frase appena citata: “si possa cercare di renderla [la legge] meno problematica modificandone i termini più dannosi”. Una norma che legittima l’aiuto al suicidio sarebbe una norma intrinsecamente malvagia e mai potrebbe essere votata, perché legge ingiusta. Non è lecito votare una legge ingiusta – anche nel caso fosse “meno problematica [rispetto ad una versione precedente] modificandone i termini più dannosi” – perché votare a favore significa approvare e mai si può approvare l’ingiustizia, mai si può approvare il male, seppur minore, perché è comunque un male (sul punto mi permetto di rimandare a T. Scandroglio, Legge ingiusta e male minore. Il voto ad una legge ingiusta al fine di limitare i danni, Phronesis, Palermo, 2020, testo in cui si analizza anche il n. 73 dell’Evangelium vitae, numero che erroneamente si chiama in causa in casi come questi per legittimare il voto ad una legge ingiusta).
Casalone poi così prosegue: “Tale tolleranza sarebbe motivata dalla funzione di argine di fronte a un eventuale danno più grave”. Tradotto: votare una legge meno ingiusta di un’altra, ossia votare una legge sul suicidio assistito meno iniqua rispetto a quella attualmente in esame in Parlamento, è atto di tolleranza. Errato: la tolleranza significa non volere direttamente un certo effetto – anche provocato da terzi – quindi sopportarlo, subirlo. Votare a favore di una legge ingiusta all’opposto significa volere direttamente questa legge ingiusta. Io posso lecitamente tollerare il male compiuto da un altro per un bene maggiore – ad esempio per evitare danni più gravi – ma quando sono io a compiere il male, seppur minore, è errato usare il verbo tollerare. Se uccido un innocente per salvarne 100, io non tollero l’assassinio di quella persona, io voglio l’assassinio di quella persona.
L’articolo di La Civiltà cattolica poi aggiunge: “Il principio tradizionale cui si potrebbe ricorrere è quello delle «leggi imperfette», impiegato dal Magistero anche a proposito dell’aborto procurato”. Non comprendiamo esattamente a cosa l’autore dell’articolo si riferisca quando collega l’espressione “leggi imperfette” all’aborto procurato, ma, nonostante ciò, possiamo dire che la locuzione “leggi imperfette” è spendibile solo per le leggi giuste che possono essere più giuste, ossia per le leggi perfettibili. La gradualità della perfezione è predicabile solo nell’ambito del bene, non del male. Una legge meno ingiusta di un’altra non è una legge migliore di un’altra, ma meno peggiore, non è una legge con un maggior grado di perfezione, non è una legge imperfetta.
Casalone così prosegue: «Per chi si trova in Parlamento, poi, occorre tener conto che, per un verso, sostenere questa legge corrisponde non a operare il male regolamentato dalla norma giuridica, ma purtroppo a lasciare ai cittadini la possibilità di compierlo». L’illeceità del votare a favore questa legge prima di risiedere nella collaborazione formale all’aiuto al suicidio – la legge diviene strumento per compiere questa azione intrinsecamente malvagia – risiede nel voto stesso: votare a favore significa approvare e mai è lecito approvare l’ingiustizia.
L’articolo così continua: «Per altro verso, le condizioni culturali a livello internazionale spingono con forza nella direzione di scenari eticamente più problematici da presidiare con sapiente tenacia». Quindi un altro motivo per approvare questa legge sarebbe quello di giocare d’anticipo: in giro per il mondo alcuni Paesi hanno approvato o stanno approvando leggi sul suicidio gravemente ingiuste, noi facciamoci furbi e, votando una legge meno ingiusta, anticipiamo chi, qui in Italia, vorrebbe imitarli. In parole povere, compiamo noi oggi il male minore per evitare che altri compiano domani un male maggiore. Ma anche in questo caso vale un principio di base della morale naturale già ricordato: non si può compiere il male minore per evitare un male maggiore, perché pur sempre di male si tratta. Non si può compiere il male a fin di bene. Paolo VI nell’Humanae vitae scriveva: «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (14). Agire diversamente significherebbe scadere nell’utilitarismo, nel proporzionalismo.
Infine così il padre gesuita chiude l’articolo: «La latitanza del legislatore o il naufragio della PdL assesterebbero un ulteriore colpo alla credibilità delle istituzioni, in un momento già critico. Pur nella concomitanza di valori difficili da conciliare, ci pare che non sia auspicabile sfuggire al peso della decisione affossando la legge». Un ulteriore danno che l’approvazione della legge permetterebbe di schivare sarebbe quello del vulnus alla credibilità delle istituzioni. In questo caso, addirittura il principio di proporzione proprio dell’utilitarismo non sarebbe rispettato: metteremmo sul piatto della bilancia le vite delle persone uccise con l’aiuto al suicidio e sull’altro piatto della bilancia la credibilità delle istituzioni. Persino il vero utilitarista non potrebbe che riconoscere che le vite umane valgono più della credibilità delle istituzioni.
In conclusione, l’articolo de La Civiltà Cattolica risulta gravemente erroneo sul piano dei principi della morale naturale e cattolica apparendo antitetico all’insegnamento del Magistero in tema di eutanasia e manifesta una ignoranza o perlomeno una pessima interpretazione delle sentenze e delle leggi richiamate nel medesimo articolo.
Gravi errori della Civiltà cattolica sulla proposta di legge in tema
di “suicidio assistito”