La formula della via russa

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di Aleksandr Dugin

Il quadro è il seguente: le amministrazioni Clinton, Bush Jr. e Obama, così come l’amministrazione Biden, hanno sostenuto e continuano a sostenere il liberalismo nelle relazioni internazionali, vedono il mondo come globale e governato da un governo mondiale attraverso i capi di tutti gli Stati nazionali. Persino gli Stati Uniti non sono altro che uno strumento temporaneo nelle mani di un’élite mondiale cosmopolita; da qui l’avversione e persino l’odio dei democratici e dei globalisti per qualsiasi forma di patriottismo americano e per la stessa identità tradizionale degli americani.

Per i sostenitori del liberalismo nei Paesi del Medio Oriente ogni Stato nazionale è un ostacolo sulla strada del governo mondiale e uno Stato nazionale sovrano forte, che per di più sfida apertamente l’élite liberale, è un vero nemico da distruggere.

Dopo la caduta dell’URSS, il mondo ha cessato di essere bipolare ed è diventato unipolare, e l’élite globalista, gli aderenti al liberalismo nelle Relazioni Internazionali, si sono impadroniti delle leve di governo dell’umanità.

La Russia degli anni ’90, sconfitta e smembrata, come residuo del secondo polo, sotto Eltsin accettò le regole del gioco e si adeguò alla logica dei liberali delle Relazioni Internazionali. Mosca doveva solo rinunciare alla sua sovranità, integrarsi nel mondo occidentale e iniziare a giocare secondo le sue regole. L’obiettivo era quello di ottenere almeno un certo status nel futuro governo mondiale e i nuovi vertici oligarchici fecero di tutto per inserirsi nel mondo occidentale a qualsiasi costo, anche a livello individuale.

Da allora, tutti gli istituti di istruzione superiore e le università russe si sono schierati dalla parte del liberalismo in materia di relazioni internazionali. Il realismo è stato dimenticato (anche se conosciuto), equiparato al “nazionalismo” e la parola “sovranità” non è stata pronunciata affatto.

Tutto è cambiato nella realpolitik (ma non nell’educazione) con l’arrivo di Putin. Egli è stato fin dall’inizio un convinto realista nelle relazioni internazionali e un convinto sostenitore della sovranità. Allo stesso tempo Putin condivideva pienamente l’universalità dei valori occidentali, la mancanza di alternative al mercato e alla democrazia, considerava il progresso sociale e scientifico-tecnologico dell’Occidente l’unico modo per sviluppare la civiltà.

L’unica cosa su cui insisteva era la sovranità, da qui il mito della sua influenza su Trump. È stato il realismo a far incontrare Putin e Trump, per il resto sono molto diversi. Il realismo di Putin non è contro l’Occidente, ma contro il liberalismo nelle relazioni internazionali, contro il governo mondiale, come è il caso del realismo americano, del realismo cinese, del realismo europeo e di qualsiasi altro realismo.

L’unipolarismo che si è sviluppato dall’inizio degli anni ’90, però, ha fatto girare la testa ai liberali del Medio Oriente. Essi ritenevano che il momento storico fosse arrivato, che la storia come confronto di paradigmi ideologici fosse finita (tesi di Fukuyama) e che fosse giunto il momento di iniziare con nuova forza il processo di unificazione dell’umanità sotto il governo mondiale ma, per fare ciò, la sovranità residua deve essere abolita.

Questa linea è in contrasto con il realismo di Putin. Ciononostante, egli cercò di rimanere in equilibrio sul filo del rasoio e di mantenere a tutti i costi le relazioni con l’Occidente. Ciò è stato abbastanza facile con il realista Trump, che ha compreso la volontà di Putin in materia di sovranità, ma è diventato impossibile con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca. Quindi Putin, da realista, ha raggiunto il limite del compromesso possibile. L’Occidente collettivo, guidato dai liberali delle Relazioni Internazionali, ha fatto sempre più pressione sulla Russia per smantellare definitivamente la sua sovranità invece di rafforzarla.

Questo conflitto è culminato nell’inizio dell’Operazione. I globalisti hanno sostenuto attivamente la militarizzazione e la nazificazione dell’Ucraina. Putin si è ribellato a tutto ciò perché ha capito che l’Occidente collettivo si stava preparando a una campagna simmetrica – per “smilitarizzare” e “denazificare” la Russia stessa. I liberali chiudevano un occhio sul neonazismo russofobico dilagante in Ucraina e, di fatto, lo promuovevano attivamente, favorendo al contempo la sua militarizzazione il più possibile, mentre accusavano la Russia stessa esattamente della stessa cosa – “militarismo” e “nazismo”, cercando di equiparare Putin a Hitler.

Putin ha iniziato la SMO come realista, niente di più, ma un anno dopo la situazione è cambiata. È diventato chiaro che la Russia era in guerra con la moderna civiltà liberale occidentale nel suo complesso, con il globalismo e i valori che l’Occidente impone a tutti gli altri. La svolta nella consapevolezza della Russia sulla situazione mondiale è forse il risultato più importante dell’intera Operazione Speciale.

La guerra si è trasformata da difesa della sovranità a scontro di civiltà. La Russia non si limita più a insistere su una governance indipendente, condividendo atteggiamenti, criteri, norme, regole e valori occidentali, ma agisce come una civiltà indipendente, con atteggiamenti, criteri, norme, regole e valori propri. La Russia non è più l’Occidente, non è un Paese europeo, ma una civiltà eurasiatica ortodossa.

Questo è ciò che Putin ha proclamato nel suo discorso del 30 settembre in occasione dell’ammissione delle quattro nuove entità costituenti la Federazione Russa, poi nel discorso di Valdai e ripetuto più volte in altri suoi discorsi. Infine, con il decreto 809, Putin ha stabilito un quadro politico statale per proteggere i valori tradizionali russi, un insieme che non solo è significativamente diverso dal liberalismo, ma per certi aspetti è l’esatto contrario.

La Russia ha spostato il suo paradigma dal realismo alla Teoria del mondo multipolare, ha rifiutato il liberalismo in tutte le sue forme e ha sfidato direttamente la moderna civiltà occidentale negandole apertamente il diritto di essere universale.

Putin non crede più nell’Occidente e definisce “satanica” la moderna civiltà occidentale. Questo è facilmente identificabile sia come un riferimento diretto all’escatologia e alla teologia ortodossa, sia come un’allusione al confronto tra il sistema capitalista e quello socialista dell’epoca staliniana. Oggi, è vero, la Russia non è uno Stato socialista, ma questo è il risultato della sconfitta subita dall’URSS all’inizio degli anni ’90, con la Russia e gli altri Paesi post-sovietici che si sono ritrovati ad essere colonie ideologiche ed economiche dell’Occidente globale.

L’intero regno di Putin, fino al 24 febbraio 2022, è stato una preparazione a questo momento decisivo. Ma è rimasto all’interno del quadro realista. Ovvero, la via occidentale dello sviluppo + sovranità. Ora, dopo un anno di durissime prove e terribili sacrifici subiti dalla Russia, la formula è cambiata: sovranità + identità civile. La via russa.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Foto: Idee&Azione

4 marzo 2023

Il ritorno del padre e della madre

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di Marcello veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Con l’anno neonato verranno ripristinati il padre e la madre, rispetto alle loro controfigure fluide, genitore 1 e genitore 2, che ne avevano usurpato il posto per dare priorità alle coppie omosessuali. Per “includere” poche centinaia di coppie dello stesso sesso, con prole adottata, si voleva escludere dal gergo burocratico e di riflesso dal lessico “corretto”, il nome del padre e della madre. Sostituiti con quel grottesco e neutrale riferimento alla genitorialità, differenziata solo dal numeretto, come le file alla posta e dal salumiere: Genitore 1 e genitore 2, dove paradossalmente si faceva una peggiore discriminazione di genere, se assegnavi per esempio al padre il numero 1 e relegavi la madre nel ruolo secondario di numero 2; e lo stesse valeva se il criterio si fosse applicato all’inverso, comunque un’inaccettabile gerarchia ai fini della parità dei diritti.
Quella diversa designazione dei genitori sulla carta d’identità, applaudita dalla sinistra, aveva trovato conferma in una sentenza del tribunale di Roma che nello scorso novembre aveva riammesso la dicitura genitore 1/genitore 2, già propagata anche in altri ambiti “sensibili”, come le scuole, e ambiva sostituire in modo definitivo le denominazioni di sempre, padre e madre. Non più onora il padre e la madre, ma ometti il padre e la madre.
La definizione sostitutiva di genitore 1 e genitore 2 era stata già introdotta in precedenza. Un decreto Salvini del 2019, quando era Ministro dell’Interno, aveva ripristinato il riferimento al padre e alla madre. La sentenza recente aveva invece riportato la dicitura neutrale.
Ma il ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha annunciato che la dicitura corrente sulle carte d’identità e sui documenti pubblici, non si adeguerà a quella sentenza, che ha valore individuale, cioè vale solo per la singola coppia che ha fatto ricorso. Il sottinteso è che chiunque voglia rifiutare la denominazione tradizionale, tra le coppie dello stesso sesso, dovrà fare ricorso e ottenere il riconoscimento; ben sapendo che la decisione si applicherà solo nel suo caso, non farà giurisprudenza né sistema. Come è giusto, altrimenti il potere legislativo passerebbe definitivamente al potere giudiziario: le leggi sarebbero fatte o corrette dai giudici e non più dal Parlamento, espressione del popolo sovrano nel rispetto della separazione dei poteri, tra esecutivo, legislativo e giudiziario.
Le organizzazioni gay insorgono perché ricorrere ai giudici per ottenere la dizione neutra significherebbe perdere tempo e denaro; ma l’obiezione chiara ed elementare è che non si può cancellare la paternità o la maternità per riconoscere l’omogenitorialità. Anzi, l’ipotesi che si possa richiedere un diverso riconoscimento giuridico preserva la libertà dei singoli e sancisce un buon equilibrio tra diritti privati, individuali, e diritto pubblico e universale. Per semplificare, il diritto privato non può prevaricare sul diritto pubblico, modificarlo e imporre che il secondo si adegui al primo. Ma i movimenti omotrans annunciano class action e confidano nella Commissione Ue che sta approvando un regolamento filo-gay e anti-famiglia tradizionale a cui gli Stati nazionali dovrebbero conformarsi. E magari studiano in alternativa il ricorso alla Corte europea dei diritti umani, che come è noto e come dimostrano non pochi suoi pronunciamenti, svolge ormai una funzione di correzione ideologica nel segno del politically correct, scavalcando i tribunali e i canoni giuridici nazionali.
Insomma, la partita è aperta, e probabilmente assisteremo a conflitti, rovesciamenti, sballottamenti che alla fine non sono solo giuridici, formali, burocratici ma incidono sulla visione reale dei rapporti famigliari e genitoriali. Si fronteggiano due visioni opposte: una fondata sulla natura, la tradizione, la realtà di sempre; l’altra sull’ideologia, la correzione della realtà, il predominio di una sparuta minoranza sulla larga maggioranza delle famiglie.
Ma per una volta soffermiamoci sul significato simbolico di questo “ritorno del padre e della madre” seppure nel linguaggio formale della legge.
Certo, la crisi della famiglia, della figura paterna e materna, non vengono certo attenuate da un cambio di dizione formale; così come la dicitura imposta dalla legge di genitore 1 e genitore 2, non modificava certo l’uso nel linguaggio corrente del riferimento alla mamma e al papà. È inimmaginabile pensare che la prima parola pronunciata da un lattante non sia un monosillabo riferito alla mamma (o al babbo) ma un vago riferimento a genitore uno o due. Il linguaggio della natura, degli istinti e di una tradizione che si è fatta quasi corredo genetico, non può essere surrogato da un lessico finto, artificiale, burocratico. E penso che la stessa cosa valga anche per i bambini adottati dalle coppie omosessuali.
Resta però vero che per restituire vitalità al ruolo paterno e materno, da qualche parte bisogna pur cominciare. E riconoscere già la parola è comunque un primo segnale. Dopo le parole magari verranno i fatti. In ogni caso, è più difficile ripensare alla paternità e alla maternità se già la loro denominazione è cancellata, rimossa, negli atti pubblici, nei tribunali, negli uffici comunali e nelle scuole. Intanto Le Sezioni Unite della Cassazione, hanno ribadito in una sentenza che la maternità surrogata – anche laddove avvenga in forma gratuita ‒ è sempre da considerarsi una pratica “che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Una bella svolta.
Il sottinteso che il concepimento, la gravidanza e il parto, il legame di sangue, l’eredità genetica siano irrilevanti, è un’erosione progressiva e malefica del naturale e affettivo legame tra un padre, una madre, un figlio e una figlia, con tutto ciò che ne deriva.  Adeguiamo la legge e il suo linguaggio alla natura, alla civiltà e alla realtà di sempre.

L’Occidente si è ristretto

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Qualunque sia il giudizio sulla guerra in Ucraina e qualunque sarà l’esito della rovinosa crisi che sconvolge il mondo, possiamo già dire una cosa: è profondamente sbagliato continuare a credere che l’Occidente sia il mondo e che i suoi modelli, i suoi canoni, le sue linee siano la guida del pianeta.
I governi euro-atlantici e l’industria dell’informazione prefabbricata – che lavorano da noi a pieno regime come le macchine propagandistiche dei regimi autocratici e dispotici – ci hanno dato in questi mesi una falsa rappresentazione della realtà: Putin isolato, la Russia contro tutti. La realtà, invece, è ben diversa: i quattro quinti del mondo, e anche di più se ci riferiamo al piano demografico, non hanno adottato alcuna sanzione, alcuna condanna nei confronti della Russia di Putin. Gigantesche democrazie come l’India, potenti Stati totalitari come la Cina, grandi nazioni islamiche come l’Iran, interi continenti come l’Asia e l’Africa, con poche eccezioni, non hanno condiviso il piano di controguerra, minacce e ritorsioni della Nato e dell’Amministrazione Biden degli Stati Uniti. Solo l’Europa s’è accodata, e in alcuni paesi di malavoglia, frenando o cercando di stabilire una doppia linea.
Fino a ieri pensavamo che globalizzazione volesse dire occidentalizzazione del mondo, se non americanizzazione del pianeta: e sicuramente per molti anni questa identificazione ha largamente funzionato, la globalizzazione era l’estensione planetaria di modelli, prodotti, stili di vita, forme politiche ed economiche occidentali. Ma ora si deve onestamente riconoscere che non è più così. E non aveva avuto torto Donald Trump a cambiare direzione di marcia agli Stati Uniti: se globalizzazione oggi vuol dire espansione commerciale e politica della Cina e del sud est asiatico, e non più egemonia americana, meglio mutare registro, giocare in difesa, concentrarsi sul proprio paese e avviare una politica di protezione delle proprie merci per tutelarle dal selvaggio mercato globale e dalla sua crescente inflessione cinese.
L’Occidente si è ristretto, e il ritrovato filo-atlantismo dell’Europa e in particolare dell’Italia, suona davvero anacronistico, come l’accorrere sotto l’ombrello della Nato, come se fosse la Salvezza del Mondo. Che la Nato ci protegga dalle minacce altrui è vero almeno quanto il suo contrario: che con le sue posizioni e pretese egemoniche, ci espone a conflitti e ritorsioni. Lo provano del resto i numerosi conflitti a cui la Nato ha partecipato in questi decenni di “pace”, i numerosi bombardamenti effettuati su popolazioni e paesi ritenuti criminali, la mobilitazione periodica di apparati militari.
Ma usciamo dal frangente della guerra in corso, e usciamo pure dalle considerazioni pratico-commerciali sulla globalizzazione deviata, che ha cambiato egida e direzione di marcia. Affrontiamo il tema sul piano dei principi, degli orientamenti di fondo e delle visioni del mondo: il punto di vista occidentale, il modello culturale e ideologico d’Occidente, i temi dei diritti umani e dei diritti civili, agitati in Occidente, non sono più la chiave del mondo. Della spinta occidentale verso la globalizzazione sono rimasti due grandi strumenti, la Tecnologia e il Mercato, ma non s’identificano più con l’Occidente; sono due mezzi e sono stati trasferiti in contesti sociali e culturali differenti, cinesi, giapponesi, coreani, indiani, asiatici in generale. Anche i due antefatti della globalizzazione non hanno più una precisa matrice universalistica e imperialistica di tipo occidentale: vale a dire la colonizzazione del mondo, grazie alle imprese militari, e l’evangelizzazione del mondo, grazie alle missioni religiose. Oggi gli apparati bellici più aggressivi non sono patrimonio esclusivo dell’Occidente. E la missione di convertire i popoli e portare il cristianesimo ovunque, si affievolisce, ottiene risultati fortemente minoritari, subisce ritorsioni e persecuzioni in tutto il mondo; per non dire della massiccia offensiva islamica. E altrove patisce l’impermeabilità, la refrattarietà di molte società provenienti da altre culture e tradizioni. Il cristianesimo tramonta in Occidente ma non attecchisce più massicciamente nel resto del mondo.
L’Occidente è la parte e non il tutto, si è come rimpicciolito; l’America non è più culturalmente la guida del pianeta, oltre che il guardiano del mondo e l’Impero del Bene, pur disponendo ancora di apparati culturali, commerciali e militari di tutto riguardo. L’Europa è un vecchio ospizio, dove ci sono le popolazioni più anziane del pianeta (col Giappone e gli Stati Uniti), dove la denatalità è forte, e dove la popolazione complessiva sta riducendosi addirittura alla ventesima parte del pianeta o poco più.
Insomma, abituiamoci a pensare in futuro che l’Occidente non sia il Signore del Mondo, il Faro dell’Umanità, ma solo una delle sue opzioni. E abituiamoci a temere che il mondo rimpiazzi l’egemonia occidentale con l’egemonia cinese, l’importazione di merci, modelli e mentalità dalla Cina e dalla sua inquietante miscela di capitalismo e comunismo, dirigismo e controllo capillare. Auguriamoci invece che il mondo riprenda la sua pluralità di civiltà e di culture, che risalgono almeno a una decina di aree omogenee, di spazi differenziati: la Cina e il sud est asiatico, l’India e il Giappone, l’Africa e il Medio Oriente, l’Australia, la Russia. E l’Occidente sia ormai una categoria forzata e obsoleta, perché è più realistico vederlo distinto tra Stati Uniti (e Canada), Europa e America latina. Accettare un mondo plurale, multipolare, diviso in quegli spazi vitali di cui scrisse Carl Schmitt e la miglior geopolitica, e di recente Samuel Hungtinton, è il modo migliore di accettare la realtà e rigettare ogni mira egemonica ed espansionistica. Ciò non ci ripara da guerre, soprusi e pretese; ma perlomeno parte dal riconoscere con realismo l’equilibrio delle differenze.

(Il Borghese, giugno)

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L’Italia è la Bielorussia della Nato

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Come essere intellettualmente onesti e non essere d’accordo con questo pensiero di Pietrangelo Buttafuoco? (n.d.r.)

QUINTA COLONNA

Segnalazione di Arianna Editrice

Fonte: La Verità

di Pietrangelo Buttafuoco 

O con la Nato o con Putin. Se questo è il bivio, lei da che parte va?

«Quando sei di fronte a una guerra, non puoi che andare ai fondamentali nudi e crudi. La situazione è questa: la Russia muove sullo scacchiere e invade l’Ucraina. Ho ben chiaro chi attacca e chi difende, chi è l’aggressore e chi l’aggredito. Ma in Italia la cosa che più mi colpisce è l’assenza di un serio dibattito. Tutto è destinato alla propaganda, alla malafede obbligata».

In che senso obbligata?

«Nel senso che a questa propaganda sei costretto ad adeguarti. L’Italia, rispetto alla Nato, è come la Bielorussia per Putin. Solo l’infinita autorevolezza di Draghi, grazie a Dio, gli impedisce di vestire i panni del Lukashenko occidentale. Per il resto, non abbiamo margini di manovra. Ricordiamoci che tra le potenze sconfitte nella seconda guerra mondiale il nostro Paese è l’unico che non ha potuto imbastire una sua autonomia in assenza di sovranità. La Germania un primato egemonico in economia se l’è costruito, e oggi si avvia al riarmo; lo stesso Giappone ha superato il grande tabù sulle forze armate. L’Italia no».

Dunque non abbiamo la forza per perseguire i nostri interessi nazionali?

«Chi avrebbe mai immaginato che la Turchia sarebbe diventata il protagonista Nato nel continente euroasiatico? Conta molto più dell’Italia e della Francia, è diventato il punto di riferimento degli Stati Uniti. Non avendo problemi di sovranità, i turchi possono fare delle scelte sulla base del loro interesse nazionale, anche assumendo una posizione critica sulle sanzioni. Cosa che a noi è impedito».

Le sanzioni fanno più male a noi che a loro?

«Quando il Fondo Monetario Internazionale dice che l’Italia rischia la recessione senza il gas russo, si incarica, purtroppo, di smentire compassati editorialisti di cui beviamo ogni parola, e autorevoli statisti cui guardiamo sempre con trepidazione e indiscussa fedeltà. Forse seguendo l’esempio di altri con la testa a posto, come Germania e Turchia, cambieremo registro anche noi. A meno che l’ansia di essere la Bielorussia dell’Occidente non ci faccia scantonare».

Anche in passato eravamo definiti un Paese a sovranità limitata. Oggi è peggio di ieri?

«Neppure la democrazia cristiana più cattocomunista dei Dossetti ha mai avuto un atteggiamento di tale sudditanza. Forse anche perché il pontificato dell’Italia di allora aveva un peso che l’attuale non ha. Oggi agli Stati Uniti non importa nulla del Vaticano, sono indifferenti e quasi sprezzanti. Non considerano questo Papa un interlocutore. Purtroppo siamo sempre costretti a ragionare in un ambito angusto: quando alziamo lo sguardo sulla scena internazionale non ci rendiamo conto di come all’estero considerino le vicende italiane».

Parlava della mancanza di dibattito. Intende dire che dinanzi alla linea bellicista dell’appoggio armato agli Ucraini, non è ammesso dissenso?

«Una volta c’era un minimo di confronto. Ma oggi siamo nell’epoca del conformismo compiuto, non ti puoi consentire più margini di discussione eterodossa. Tutto si è trasformato in un immenso bar sport. Hanno passato intere stagioni a inseguire il populismo, quando invece il populismo se lo sono fabbricato nelle cattedrali della rispettabilità istituzionale dell’informazione e della cultura».

La sorprende questo centrosinistra ultra-atlantista?

«Non mi stupisce perché conosco la loro ideologia: quella di avere sempre uno Stato guida cui fare riferimento. È l’ortodossia togliattiana».

E oggi lo Stato guida è l’America di Biden?

«No, è direttamente il «deep state» americano. D’altro canto, in una situazione come questa non possiamo pensare che sia Biden l’eminenza grigia, il cervello fondante. Semmai è la Cia e quelle strutture di sistema che costituiscono l’apparato di potere dell’Occidente».

Il Pd terminale della Cia?

«Intendo dire che, in questa particolare fase della storia, il Pd è il partito unico a tutti gli effetti. Teniamo conto che gli italiani non sono mai stati fascisti, democristiani o comunisti: sono sempre stati italiani. E gli italiani applaudono il re come il presidente della repubblica, erano tutti iscritti al Pnf e poi tranquillamente alla Dc e al Pci. Tutto risponde a un istinto comune, quello del guelfismo nazionale che si identifica con il partito unico delle carriere. In un Paese di uomini o caporali, alla fine i caporali sono sempre loro».

E il Pd dunque rappresenta questo guelfismo?

«Il Pd l’ha perfezionato: oggi è il primo partito di governo, il primo editore, il primo educatore, domina anche mentalmente, è il punto di riferimento dell’alta burocrazia, è il veicolo di carriera dei giovani arrembanti, basta vedere le facce di chi lavora a Palazzo Chigi. Pensa invece al destino da fessacchiotti in cui si ritrovano a vivere quelli di centrodestra nell’attuale maggioranza, dove sui temi fondamentali non vincono mai».

Fino a ieri i punti di riferimento a sinistra erano Angela Merkel e il ticket Joe Biden-Kamala Harris. Oggi il pantheon sembra spopolarsi.

«Vuoi che si spaventino per questo? Questi si sono fatti la villa con i rubli e oggi sono i portabandiera della Nato. Avranno sempre e comunque ragione, essendo loro i padroni della parola e della vetrina. Solo per fare un esempio: è stato il governo Letta quello che ha costruito i rapporti più forti con la Federazione Russa. Ma tutto è dimenticato, perché nel cancellare le tracce sono i più bravi di tutti».

Che succederà se Putin uscirà vincitore in Ucraina, o comunque non sconfitto?

«Già mi vedo le prime pagine dei giornali: cercheranno di convincerci che non possiamo fare a meno dello Zar Putin. E già pregusto il Caffè di Gramellini corretto alla vodka».

Trova analogie tra la gestione della pandemia e la gestione della crisi ucraina, con l’aut aut tra pace e aria condizionata?

«Questo governo ha ereditato dal precedente la logica del Cts e dell’escatologia sanificatrice. Passeremo in un niente dalla mascherina obbligatoria al ventaglio obbligatorio. Con lo stesso giudizio morale, e la stessa ansia di scovare il nemico interno. Sono formidabili nel neutralizzare il dissenso: o ti ridicolizzano, o ti criminalizzano. E alla fine sfoceremo nel solito provincialismo: levata la mascherina, sventoliamo la bandierina (ucraina). Insomma, stanno approfittando di una catastrofe mondiale per regolamentare i conti nel proprio cortile. E sa qual è la cosa davvero
straordinaria?».

Quale?

«Che gli artisti, di solito detentori della sovversione, oggi sono i primi guardiani della fureria: passano le giornate a scrivere tweet con il ditino alzato».

Un’eredità del cortigianesimo?

«Peggio. Il cortigiano si riservava uno spiraglio di crudele ironia. Invece gli intellettuali di regime, i comici di regime, i drammaturghi di regime, non sono genuini creatori di rivoluzione, come poteva essere un Majakovskij. No, questi credono davvero a ciò che dicono».

Ha scritto che gli Stati Uniti vogliono trasformare la Russia nell’Unione Europea. Ce la spiega?

«Per l’Occidente la Russia è un nemico più ostile persino dell’Unione Sovietica, perché decenni di materialismo scientifico non sono riusciti a scalfirne l’identità e lo spirito. La Russia è la prima potenza cristiana sul continente europeo, ha solide tradizioni, a Dio i russi ci credono davvero. Tutto ciò appare preoccupante e odioso per chi guarda il mondo con gli occhi del laicismo e dello scientismo occidentale».

Insomma, dietro il conflitto armato si cela uno scontro di civiltà?

«Da un lato c’è «l’imperium», le potenze imperiali, Stati Uniti compresi: come dice Dario Fabbri, sono i popoli che non prendono l’aperitivo, che hanno spirito combattivo e identità plurali. Dall’altro c’è il «dominium» di noi europei, il tentativo di riunire il mondo ad unica identità, ad un unico progetto. Anziché perdere tempo con la propaganda, dovremmo riflettere su una guerra che mette in discussione la globalizzazione. Noi occidentali siamo convinti di avere la parola definitiva sugli eventi della storia, ma esiste un disegno globale dove potenze spiritualmente fortissime si sono incontrate: Cina, Russia, India, Pakistan».

Che effetto le fa vedere l’Europa in ordine sparso, dal Baltico alla Germania al Mediterraneo, senza una guida?

«Come abbiamo detto all’inizio, torniamo ai fondamentali. Chi sono i due soggetti attualmente egemoni nel mediterraneo, con un ruolo attivo? Quando mi affaccio dalla spiaggia iblea, in Sicilia, vedo passare incrociatori battenti bandiera russa e turca. Noi italiani, invece, possiamo fare tutto: tranne quello che non ci consentono di fare».

a cura di Federico Novella

Necrologio di civiltà

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di Giuliano Guzzo

La nuova copertina dell’Espresso, in realtà, non è una copertina. É un necrologio. Ritrae la fine della famiglia, della compresenza di padre e madre, della differenza tra i sessi, dell’allattamento, del diritto di un bambino ad essere educato e non indottrinato. Significativamente, poi, il soggett* ritratt* è senza occhi. Forse per non correre il rischio di vedersi o forse perché una società che si suicida – degradando la religione a opinione ed elevando i desideri a dogmi – non può che essere cieca.

Perché non vede che i figli son doni e non pretese, che ormoni e chirurgia camuffano un’identità ma non la cambiano, che non si può dire «la diversità è ricchezza» e poi tifare per il ddl Zan, che falcidia la prima diversità: quella di pensiero. Per una volta, credo passerò in edicola a comprarlo, L’Espresso e spero lo facciano in tanti, assicurando magari un record di vendite. Così gli archeologi del futuro, studiando il tracollo della società occidentale attraverso le letture dei loro avi, vedranno che no, non è stato affatto un caso.

Necrologio di civiltà

Ovunque il Cristianesimo è arrivato ha portato la civiltà, ricordiamocelo!

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L’IDENTITA’ CLASSICO-CRISTIANA DELL’OCCIDENTE (pubblicato su Informazione Cattolica di oggi)

Di Matteo Castagna

Vogliamo dare un’anima a questo Occidente secolarizzato, in profonda crisi soprattutto di identità? Ebbene cos’è l’identità?  E’ l’insieme delle caratteristiche di un popolo.

Il grande sociologo anglo-polacco Zygmund Bauman alle soglie del terzo millennio, presentò per la prima volta, in maniera compiuta e puntuale, la sua geniale quanto profetica visione, o meglio versione, della modernità, una modernità liquida, che come un liquido straborda a infettare tutto ciò che tocca. Simbolo del nostro secolo e della sua liquidità, frutto acerbo degli stravolgimenti che la modernità liquida ha portato con sé, è stato per Bauman l’uomo narcisisticamente isolato, che si presenta ancora oggi tanto evoluto quanto egocentricamente solo, incapace di riflettere lucidamente e in maniera indipendente sugli eventi che caratterizzano questi anni, essendo racchiuso nel suo ego e rimanendo schiavo delle paure nate dal contatto con l’esterno.

L’individuo per Bauman è in continua decadenza ma, insieme a lui, decade la società in toto: le strutture amministrative, la polis, la cultura, la sfera personale. La vita liquida si alimenta dell’insoddisfazione e della frustrazione che l’io prova rispetto a se stesso, il quale rinuncia alla sua identità, al suo ruolo sociale, al suo valore intrinseco, preferendo trasformarsi in un ‘kit Ikea’ da assemblare per essere funzionale solo per un periodo limitato di tempo, piuttosto che impegnarsi attivamente nella propria sfera personale e sociale. È stato, infatti, fra i primi sociologi a denunciare il pericoloso processo di isolamento dell’uomo moderno inserito nella società opulenta, che tende «a sacrificare le soddisfazioni di oggi in vista di finalità remote, e dunque ad accettare sofferenze prolungate in cambio di gratificazioni individuali in nome del benessere di un gruppo» (Z. Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. VII).

Fra le conseguenze più gravi della debolezza umana ed esistenziale, Bauman ha rintracciato il decadimento delle strutture fondamentali della società. Entrano in crisi le famiglie e i rapporti umani; le istituzioni politiche, che pongono innanzi i propri interessi piuttosto che quelli dei cittadini; l’identità nazionale e partitica, che si annulla a vantaggio di logiche di mercato caotiche; e la qualità del tempo che si perde del tutto, costringendo indirettamente l’individuo a vivere apaticamente la propria esistenza svolgendo attività ‘narcolettiche’ per fuggire alla paura del domani. La perdita di consistenza dell’individuo e il suo isolamento costringono l’uomo a venir meno ai suoi compiti di cittadino attivo, padre o madre, intellettuale o scrittore, politico o ‘maestro’, cancellando la funzione esercitata dall’etica sull’individuo e sulla società. La flessibilità si pone come nuovo valore sociale, presupposto necessario per la nascita delle cose e delle relazioni fra esse: «Una società può definirsi liquido-moderna se le situazioni in cui operano gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure» (Ivi, p. 45). Più volte Bauman ha rimarcato che la vita che viviamo è precaria e angosciante, perché l’individuo percepisce che il mondo viaggia ad una velocità più sostenuta rispetto al ritmo della propria esistenza e, non riuscendo a stare al passo con gli avvenimenti, si sente colto alla sprovvista, e ciò provoca in lui un profondo senso di frustrazione. Continua a leggere

Pillola abortiva RU486: Il “passo avanti importante” di una presunta civiltà

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di Valentina Bennati*

Fonte: Comedonchisciotte

In un post del 8 agosto sulla sua pagina facebook il Ministro Speranza presenta come “un passo avanti importante” l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital fino alla nona settimana. Sottolinea che ciò avviene “nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese”.
Ma quando, anni fa, hanno approvato la legge sull’aborto non l’avevano spacciata per una legge che evitava alle donne di abortire in casa perché rischiavano di morire?
Dunque queste nuove linee guida aggiornate sulla somministrazione della pillola RU486 senza ricovero ospedaliero obbligatorio, più che un passo avanti, mi sembrano in realtà un balzo indietro per le donne.

La RU486, sia chiaro, non è amica delle donne ma di chi preferisce che le donne facciano in fretta, pesando meno sui costi del sistema sanitario nazionale e correndo più rischi.
Il ‘New England Journal of Medicine’ del primo dicembre 2005, una delle più importanti riviste mediche mondiali, ha dedicato l’apertura e un articolo interno proprio all’aborto farmacologico, mettendone pesantemente in discussione la presunta sicurezza. Nell’editoriale firmato da Michael Greene, professore alla Harvard Medical School, si specificava testualmente che, con i dati disponibili fino a quel momento, la morte per aborto con il metodo chimico (un caso su centomila) era dieci volte superiore a quella per aborto chirurgico. QUI è possibile leggere l’articolo de ‘Il Foglio’ che ne parla.
E merita lettura anche un articolo recente de ‘Il Giornale’ con l’intervista al Prof. Giuseppe Noia, ginecologo e docente di Medicina prenatale al Policlinico Gemelli di Roma che conferma come l’interruzione della gravidanza con la RU486 non sia né indolore né semplice né sicura. Continua a leggere

Il fisico contro le patrie

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Anche il fisico Carlo Rovelli ha voluto allinearsi al Tema Permanente: attaccare il patriottismo perché si tramuta in veleno nazionalista, nazista e razzista, e cantare le lodi all’umanità senza frontiere. Ha scritto ieri un lungo articolo sul Corriere della sera intitolato “L’unica nazione è l’umanità”.

Ma perché dobbiamo tradurre l’amor patrio con la sua degenerazione violenta e razzista, non è possibile amare e tutelare la propria nazione, la propria civiltà senza degradare in xenofobia e razzismo? Quando parliamo di religione, la riduciamo forse al fanatismo e alla persecuzione religiosa? Quando parliamo di famiglia, di amore paterno, filiale o materno, dobbiamo necessariamente ridurla agli abusi e ai soprusi compiuti talvolta in suo nome? E cambiando versante, perché quando parliamo di uguaglianza non l’associamo subito al ricordo del Terrore giacobino o agli orrori del comunismo in tutti i suoi regimi? O quando parliamo di libertà la riduciamo forse agli abusi di libertà che conducono alla violenza, alla droga, alla sopraffazione e all’arbitrio?

L’amor patrio, il legame naturale e culturale con la propria nazione e le sue tradizioni, è un bisogno fondamentale dell’animo umano e appartiene ad ogni epoca e a ogni civiltà. Ci sono vari modi di intendere quel legame. Oggi, il modo più coerente non è chiudersi nelle tribù l’un contro l’altra armate, ma integrare le nazioni in contesti più ampi, come l’Europa, e riconoscere reciproca legittimità e valore alle nazioni, la tua come la mia. Ma si può amare l’umanità a partire dalla propria città, dalla propria terra, dalla propria nazione. Sentire la solidarietà a partire da chi è più vicino verso chi è più lontano. Continua a leggere

E nun ce vonno sta’

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di Raffaele Pengue

E nun ce vonno sta’

Fonte: byebyeunclesam

Succedono tante cose in questo strano Paese. Forse sarà il caldo che rende tutti un po’ nervosi, ma siamo tutti concentrati, con rabbia, angoscia, curiosità e tifo. E il punto non è la paura del ritorno al fascismo (una colossale sciocchezza) e al razzismo e altri concetti propri del caldo e dell’assenza di un pensiero. Non sono neanche le magliette rosse (oramai i colori iniziano a scarseggiare…), hanno già annoiato. Non sono i digiunatori. Il borghese da centro storico, il “radical chic con il Rolex e l’attico a New York”. La duecentesima “reunion” del PD all’Ergife. L’ennesimo scoop sulla Raggi: “Chi di buca ferisce di buca perisce: Virginia Raggi inciampa e rischia di cadere”. La fine dell’era degli Emilio Fede e delle meteorine, perché comincia finalmente la stagione della tivù di qualità e perciò, colpo di scena: in tivù Matteo Renzi. No. Il problema dei problemi d’Italia, è ‘sto fatto che un mondo sia ormai fuori dai giochi. Un mondo che per non dissolversi del tutto confida nella zizzania e così separare i gialli dai verdi. Diventati, negli ultimi mesi, il parafulmine e i responsabili principali di ogni disumanità internazionale. Continua a leggere

La fine della nostra civiltà

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della dott.ssa Silvana De Mari

Abbiamo buttato via il posto di figlio di Dio per diventare un bambino all’orfanotrofio… ripartiamo dal rosario

Ha spiegato Konrad Lorenz, in Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, che una civiltà è come un ecosistema. Quando si sopprime qualcosa in un ecosistema, qualcosa che sembrava inutile o irrazionale o dannoso, si possono ottenere catastrofi assolutamente inaspettate, completamente involontarie e deliziosamente irreversibili. Una civiltà è come un arazzo: si taglia in un punto un filo e mezzo arazzo si disfa.
Come diceva la buonanima di Chesterton, prima di tirare giù una palizzata, poniti il problema del perché è stata costruita. Forse è vero che ormai è inutile, ma potrebbe anche non esserlo, quindi questa domanda fattela, e comincia a dirti subito che se l’unica risposta che ti viene in mente è che tu sei sicuramente molto più intelligente dei tuoi antenati che erano cretini, quella risposta è sbagliata.
Una civiltà si è formata nell’arco di secoli e tutti i tasselli hanno un senso.
Con questo non voglio dire che le società devono restare immobili e sempre identiche a se stesse, altrimenti abbiamo le terrificanti civiltà circolare dove tutti fanno sempre le stesse cose. L’operazione, però, fatta con l’Illuminismo prima e con il ’68 poi – ovvero di denigrare e rinnegare la religiosità, il mito, il rito, senza nemmeno chiedersi per quale necessità siano nati, quali erano tutti i loro significati e vantaggi, senza nemmeno avere un dubbio che un significato e un vantaggio da qualche parte ci fossero – è stata un suicidio. Faccio u discorso assolutamente laico, che ha valore anche per i non credenti. Continua a leggere

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