Schiaffo dai Sauditi: perché Biden non può che rimproverare se stesso

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Riyad allineata a Mosca? Lettura semplicistica e autoconsolatoria, ecco gli errori Usa: produzione nazionale bloccata da agenda green; sauditi maltrattati; Europa abbandonata

di Federico Punzi

Alla fine è arrivato il sonoro schiaffone dell’Arabia Saudita all’amministrazione Biden. Ieri, a Vienna, l’Opec+, il cartello che riunisce i principali Paesi produttori di petrolio più la Russia, ha deciso un taglio della produzione di ben 2 milioni di barili al giorno. E questo nonostante da mesi Washington chieda a Riyad di aumentare la produzione per raffreddare i prezzi.

Il presidente Joe Biden si era speso in prima persona recandosi in visita nel Regno, nel luglio scorso, e ricevendo critiche in patria per un saluto pugno a pugno ritenuto troppo complice con il principe ereditario Mohammad bin Salman.

Atto ostile: ma di chi?

Qualche ora prima della decisione la Casa Bianca aveva fatto circolare, via Cnnparole durissime sulla prospettiva di un taglio della produzione: “disastro totale”“atto ostile”.

La reazione alla decisione non si è fatta attendere. “Il presidente è deluso dalla miope decisione” e “si consulterà con il Congresso sugli strumenti per ridurre il controllo dell’Opec+ sui prezzi dell’energia”.

Un proposito che suona beffardo, perché Washington avrebbe un modo molto semplice per “ridurre il controllo” dell’Opec: aumentare la sua produzione nazionale, che invece, fin dal primo giorno in cui si è insediata, l’amministrazione Biden ha sistematicamente sabotato.

Ora Biden torna a supplicare l’industria petrolifera Usa, la stessa che in campagna elettorale aveva promesso che avrebbe fatto chiudere (letteralmente: “I guarantee you, we’re going to end fossil fuel”), di abbassare i prezzi dei carburanti.

E apre ad un nuovo rilascio di riserve strategiche per calmierare i prezzi. Di fatto, le sta prosciugando nel tentativo di evitare una sonora sconfitta alle elezioni di midterm, che si terranno tra circa un mese.

Un funzionario dell’amministrazione ha rivelato che la Casa Bianca ha segretamente offerto all’Opec+ di acquistare fino a 200 milioni di barili del suo petrolio a 80 dollari al barile per rimpinguare le riserve strategiche, oggi ai minimi storici, in cambio della rinuncia a tagliare la produzione.

E bisogna ricordare che nel 2020 i Democratici bloccarono la proposta di Trump di riempire le riserve con il petrolio dei produttori Usa, provati dalla pandemia, acquistandolo ad un prezzo di soli 24 dollari al barile.

Il vero atto ostile è quello dell’amministrazione Biden contro l’industria oil & gas Usa, ostacolata con ogni mezzo, fermando progetti infrastrutturali e bloccando nuove concessioni, come abbiamo già raccontato su Atlantico Quotidiano. Oggi la produzione in America, stima Robert Bryce (The Power Hungry podcast), è inferiore del 7 per cento al periodo pre-Covid.

Biden ha pensato di cavarsela ottenendo dall’Opec+ un aumento della produzione, evitando così di dover aumentare la produzione nazionale, e quindi di scontentare i gretini del suo partito. Quello che ha ottenuto, invece, è aver reso l’America più vulnerabile alle decisioni dell’Opec+, aver aiutato Putin e alimentato l’inflazione.

La mossa dell’Opec infatti va anche a contrastare gli sforzi della Fed per raffreddare l’inflazione. Se il rialzo dei tassi diminuisce la domanda di petrolio, abbassandone i prezzi, il taglio della produzione deciso ieri lo compensa almeno in parte, costringendo la Fed ad un ulteriore rialzo, che però spingerà ancor di più l’economia Usa verso la recessione.

Lo ripetiamo: in America, così come in Europa, l’obiettivo della decarbonizzazione, di uscire dalle fonti fossili, è una follia insostenibile. Ma lo è ancor di più in concomitanza con la guerra economica alla Russia.

Riyad si schiera con Mosca?

Fin troppo facile concludere che l’Arabia Saudita ha deciso di schierarsi con la Russia e contro l’Occidente. È proprio così? La realtà è più complessa.

L’Opec+ si mostra “allineata con la Russia“, ha affermato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, e leggerete molte analisi in tal senso. Ma è proprio questo genere di letture a far letteralmente imbufalire Riyad, perché dimostrano come a Washington gli interessi sauditi siano totalmente snobbati.

Per dare la misura dell’irritazione di Riyad su questo tema, proprio ieri, durante la conferenza stampa al termine della riunione dell’Opec+, il ministro dell’energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, si è rifiutato di rispondere ad un giornalista della Reuters, rimproverando all’agenzia di aver pubblicato una falsa storia di collusione tra Arabia Saudita e Russia utilizzando una fonte anonima. Purtroppo ormai certa stampa si è fatta prendere la mano dalle storie di collusione con la Russia…

Alla base della decisione di ieri dell’Opec+ ci sono valutazioni certo economiche e innegabilmente anche di natura politica. Ma non banalmente dettate dalla volontà di “schierarsi” dalla parte di Putin e contro l’Occidente. Questa lettura caricaturale, anzi, rischia di essere un regalo a Mosca.

Una reazione al price cap

Non solo i segnali di recessione globale e l’obiettivo dei Paesi Opec+ di tenere il prezzo del petrolio al di sopra dei 90 dollari (fino a ieri era poco sopra gli 80). Come molti avevano avvertito, questa decisione è una reazione – economica e politica – al price cap sul petrolio russo, esteso anche ai Paesi terzi che volessero rivenderlo.

Se il miglior modo per tagliare gli introiti di Putin è tenere bassi i prezzi di gas e petrolio, la misura ha avuto un effetto contrario, spingendo gli altri Paesi produttori a difendere il prezzo del petrolio, ma soprattutto a sanzionare quello che viene giustamente considerato, dal loro punto di vista, un precedente pericoloso.

Gli interessi sauditi

Questi Paesi, Arabia Saudita in testa, non si sono schierati ideologicamente con Mosca, ma sono stati costretti dalle nostre scelte a difendere il loro interesse nazionale con esiti che li fa apparire vicini alla Russia.

Come ha spiegato Mohammed Alyahyasenior fellow dell’Hudson Institute, questo genere di letture sembra negare a Ryad il suo diritto a considerare i propri interessi e sembra presumere che l’Arabia Saudita sia un attore irrazionale e inaffidabile. Ma questo è un presupposto “falso e pericoloso”.

E ricorda come nell’aprile 2020, in piena pandemia, Riyad abbia combattuto “con le unghie e con i denti” una guerra dei prezzi contro la Russia, vincendola. Non per ragioni politiche, ma per proteggere l’Opec+ e difendere la propria leadership nei mercati energetici, il suo ruolo di gestore e stabilizzatore del mercato.

Nulla è cambiato oggi, si tratta di interessi. L’interesse saudita è anche oggi proteggere l’Opec+ in quanto organizzazione. Ma questo a Washington non sono sembrati in grado di comprenderlo.

Tra l’altro, fa notare lo studioso, il taglio effettivo è di un milione di barili, non due, perché molti Stati membri dell’Opec+ già oggi non riescono a soddisfare le loro attuali quote di produzione, nella misura di un milione di barili.

Con il taglio odierno, sostiene Alyahya, gli Stati del Golfo avranno una maggiore capacità inutilizzata per far fronte alle interruzioni che saranno causate dalle sanzioni Usa-Ue sul petrolio russo. Senza questa ulteriore capacità inutilizzata, non sarebbero in grado di mantenere i mercati in equilibrio.

Un’analisi condivisa da Gregg Carlstrom dell’Economistil mercato petrolifero è un “casino” in questo momento. L’Opec+ ha poca capacità inutilizzata; molti produttori non riescono a rispettare le proprie quote; le sanzioni alla Russia stanno “biforcando” il mercato.

I sauditi hanno “un interesse razionale” a mantenere prezzi alti e stabili, e il settore petrolifero abbastanza redditizio da consentire alle compagnie di investire nella costruzione di nuova capacità – cosa che a quanto pare a noi occidentali non interessa più.

Gli affronti di Biden a Riyad

Detto questo, la decisione dell’Opec+ non può che apparire come un “affronto” dei sauditi a Washington, a soli tre mesi dalla visita del presidente Joe Biden a Jeddah per ricucire i rapporti con Riyad.

Ma secondo Carlstrom si tratta di un problema di aspettative eccessive: i tempi della visita e alcuni messaggi hanno suggerito che Biden si fosse assicurato un aumento della produzione di petrolio. Ma “questo non è mai stato realistico, come ti avrebbe detto chiunque nel Golfo prima della sua visita”.

Da una parte, dunque, la percezione americana e occidentale che i sauditi non stiano rispettando la loro parte dell’accordo quasi secolare con gli Usa e si stiano schierando con la Russia. Dall’altra, però, va detto che i sauditi hanno buone ragioni per ritenere che l’America non stia rispettando i propri impegni sulla “sicurezza”, a cominciare dalle politiche occidentali che conferiscono potere all’Iran a livello regionale.

Gli errori dell’amministrazione Biden con l’Arabia Saudita risalgono infatti ai primi giorni del suo mandato: la diffusione del rapporto dell’Intelligence che accusava il principe ereditario Mohammed Bin Salman di aver personalmente approvato e ordinato l’omicidio di Jamal Khashoggi; lo stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti; la revoca della designazione dei ribelli Houthi come organizzazione terroristica; la decisione di riprendere i colloqui con Teheran per un nuovo accordo sul programma nucleare. Quattro veri e propri affronti, tutti all’inizio del mandato.

Già in campagna elettorale, inoltre, Biden aveva avvertito che con lui alla Casa Bianca le cose tra Washington e Riyad sarebbero cambiate, spingendosi fino a definire il Regno “un pariah” della comunità internazionale.

Gestione disastrosa della crisi energetica

Ma ancora peggio, per tutto il 2021 e fino all’inizio del 2022, incredibilmente l’amministrazione Biden non ha fatto nulla per riparare i rapporti con Riyad, nonostante avesse acquisito e diffondesse informazioni sempre più credibili e precise circa le intenzioni e i preparativi di Mosca per invadere l’Ucraina, dunque pur essendo consapevole che ci saremmo potuti trovare presto nel bel mezzo di uno shock energetico e di una guerra economica con la Russia.

Se la gestione del conflitto ucraino da parte dell’amministrazione Biden è stata efficiente dal punto di vista militare e di intelligence (sebbene a nostro avviso poteva essere più coraggiosa nello stabilire linee rosse e più rapida nell’invio di armamenti a Kiev), è stata senza alcun dubbio niente meno che disastrosa sul piano energetico.

Dai già menzionati rapporti con l’Arabia Saudita alla crisi del gas che attanaglia l’Europa, completamente abbandonata, che rischia di sgretolare il supporto europeo alla causa ucraina.

Nel momento in cui i Paesi Ue, a cominciare da Italia e Germania, hanno assunto la decisione di liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, sarebbe stata opportuna una iniziativa di Washington per una gestione coordinata e solidale della crisi energetica tra gli alleati Nato (di cui fa parte la Norvegia, importante produttore di gas), in modo da tenere il più possibile sotto controllo i prezzi.

L’alternativa all’hub del gas russo-tedesco

Venendo meno l’hub energetico russo-tedesco per ovvie ragioni, l’amministrazione Biden, piuttosto che fare promesse di forniture LNG impossibili da mantenere, avrebbe dovuto impegnarsi da subito per sostituirlo con un hub di gasdotti italiano, su cui far convergere tutto il gas proveniente dal Mediterraneo e dall’Africa.

Un progetto, però, che non avrebbe fatto piacere a Erdogan, che infatti sembra aver giocato d’anticipo. Proprio ieri è arrivata la notizia che Turchia e Libia – o meglio, il governo libico riconosciuto ma attualmente sfiduciato dal Parlamento di Tripoli – hanno firmato accordi di collaborazione nel settore petrolio e gas, scatenando l’ira sia del Parlamento di Tobruk, che di Grecia ed Egitto.

Ebbene, non solo gli Usa non hanno finora rilanciato il progetto Eastmed, ma non hanno nemmeno mosso un dito per la risoluzione della crisi libica.

Una latitanza di Washington – e di Roma – che denota la miopia sia dell’amministrazione Biden che del governo Draghi, che avrebbero potuto almeno avviare lo sviluppo di alternative in grado nel medio-lungo termine di risolvere il problema dell’approvvigionamento di gas all’Europa.

Libia-Siria: per chi tifano, per chi tifare

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di Fulvio Grimaldi
Amici, anche stavolta siamo lunghi. Perdono. Comunque per 15 giorni sono fuori e, dunque, c’è tempo per piano piano farcela. Se credete.

Diciamocelo: che bravi governanti sono quelli di Al Qaida e Isis!
Per chi tifano in Siria quelli là (non fatemeli nominare sennò Facebook mi banna e cancella il post) non è difficile saperlo: basta leggere il “New York Times”, standard aureo del giornalismo perennemente degno  dei riconoscimenti, se non di Pulitzer, di Reporters Sans Frontières (il corrispettivo mediatico di Medicins Sans Frontières e altrettanto cari a quelli là). Se pensavamo che nella provincia nord-occidentale di Idlib si fossero concentrati, accolti, nutriti e armati dai vecchi padrini turchi, tutti i tagliagole Isis e Al Qaida generosamente fatti evacuare dai territori e dalle città da loro abbellite con croci appesantite da infedeli, o con pelli di corpi scuoiati di dissidenti, la lettura del “New York Times” ci libera dall’intossicazione di simili fake news.
L’autorevole giornale che, se non fosse stato per l’assist della CNN, dei media di obbedienza atlantista con, nel nostro piccolo, il “manifesto”, ci avrebbe con le sue sole penne liberato da Milosevic, Saddam, Gheddafi, Assad e dai Taliban, rettifica quella che finora e per troppo tempo, quasi otto anni, è stata un’informazione falsa, bugiarda, truffaldina. Assad, con quegli hackers e troll delle ingerenze urbi et orbi russe, con quegli spiritati di flagellanti sciti, iraniani e hezbollah, voleva farci credere, col supporto di chilometri di audiovisivi fabbricati, raffiguranti giustizieri cha spellavano vivi innocenti, li incendiavano, o li annegavano in gabbie o li crocifiggevano, o ne sposavano a ore le donne, che il suo paese era stato invaaso, non da oppositori democratici assistiti dalla “comunità internazionale”, bensì da un branco di ossessi islamisti attivati da una “comunità internazionale” in preda a psicopatia stragista. Come pretendeva fosse successo in Libia e, poi di nuovo, in Iraq.
No, no, il NYT e i Pulitzer nostrani ci gratificano del privilegio della verità: E’ da far rabbrividire il destino “di combattenti ribelli e dei loro sostenitori civili che, oltre sette anni fa, si sollevarono per chiedere un cambio regime”. Deplorato che il vice primo ministro siriano si sia permesso di definire “terroristi” questi bravi combattenti, il giornale, al quale dobbiamo molto della credibilità delle armi di distruzione di massa di Saddam e del viagra fornito da Gheddafi ai suoi soldati perché stuprassero le connazionali, passa alla descrizione di come gli ingiustamente diffamati ribelli abbiano ben governato la provincia dai turchi loro affidata: “Si sono comportati da legittima autorità di governo e pubblica amministrazione, facilitando, tra l’altro, il commercio transfrontaliero con la Turchia e organizzando forniture di aiuti alla popolazione”. Visto che bravi, si preoccupano di nutrire la popolazione. Altro che Assad, che per principio l’affama.

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Toobin: Trump’s tweet blasting sessions ‘May be an impeachable offense’

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Segnalazione Breitbart

New Day

@NewDay

.@JeffreyToobin on President Trump blasting AG Sessions over indictments of GOP congressmen: “This tweet alone may be an impeachable offense. This is such a disgrace.” https://cnn.it/2PDv0nP 

Tuesday on CNN’s “New Day,” network legal analyst Jeffrey Toobin reacted to President Donald Trump’s Monday tweet that blasted Attorney General Jeff Sessions for indicting GOP Congressmen California Rep. Duncan Hunter and New York Rep. Chris Collins just ahead of the midterms, saying the president’s tweet “may be an impeachable offense.”

Donald J. Trump

@realDonaldTrump

Two long running, Obama era, investigations of two very popular Republican Congressmen were brought to a well publicized charge, just ahead of the Mid-Terms, by the Jeff Sessions Justice Department. Two easy wins now in doubt because there is not enough time. Good job Jeff……

“This tweet alone may be an impeachable offense,” Toobin stated. “This is such a disgrace, this is so contrary to the traditions of the Department of Justice.”

He later added, “The sentiment at the core of that tweet is so contrary to the mission of the Department of Justice, and it’s such an insult to the decent people who work there.”

Follow Trent Baker on Twitter @MagnifiTrent

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Per quanto ancora continueremo a far finta che i Palestinesi non siano un popolo?

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di Robert Fisk

Per quanto ancora continueremo a far finta che i Palestinesi non sono un popolo?

Fonte: Comedonchisciotte

Mostruoso. Spaventoso. Perverso. E’ strano come oggi, in Medio Oriente, manchino semplicemente la parole. Sessanta Palestinesi morti. In un giorno. Duemilaquattrocento feriti, più della metà da proiettili veri. In un giorno. Questi numeri sono un oltraggio, una fuga dalla moralità, un motivo di infamia per ogni esercito.

E noi dovremmo credere che l’esercito israeliano sia quello della “purezza delle armi”? E abbiamo un’altra domanda da fare. Se questa settimana ci sono 60 Palestinesi morti al giorno, che cosa succederà se la prossima settimana ce ne saranno 600? O 6.000 il mese prossimo? Le squallide giustificazioni di Israele (e la rozza risposta americana) sollevano esattamente questo interrogativo. Se adesso riusciamo ad accettare un massacro di questa magnitudine, quanto potrà reggere il nostro sistema immunitario nei giorni, nelle settimane e nei mesi a venire? Continua a leggere