Foibe: i titini hanno perso il pelo ma non il vizio
Segnalazione del Centro Studi Federici
Segnalazione del Centro Studi Federici
di Giovanni Perez
La memoria delle foibe carsiche e istriane e l’esodo della popolazione italiana dalla Venezia-Giulia e dalla Dalmazia, che si protrasse fino alla fine degli anni Cinquanta, si è tramandata attraverso un sottilissimo filo, che ha rischiato più volte di spezzarsi; un filo che si rinforza soprattutto grazie a coloro che raccolgono in qualche modo l’eredità di quella pagina di storia lacerata da ferite non ancora rimarginate e che tali rimarranno, forse per sempre.
A rinforzare quel sottilissimo filo sono libri come quello recentemente edito dalle Edizioni Vita Nova, scritto da Lamberto Maria Amadei, in cui sono state raccolte le “giovani memorie fiumane” di Marina Smaila, quando fu strappata da quel mondo in cui muoveva i suoi primi passi e assaporava le prime gioie di bambina. Siamo in questo racconto di fronte al sovrapporsi delle vicende di una famiglia che viveva a Fiume, perciò italianissima, che cercò di sfuggire ad un destino di morte, catapultati così nella Storia, con la “S” maiuscola, che si consumò nei confini orientali di un’Italia uscita sconfitta dal conflitto mondiale. Furono anni terribili, in cui la realpolitik dei vincitori, soprattutto di quelli legati alla Russia sovietica, mai si coniugò con il più elementare sentimento di umanità, fino a perseguire, per ragioni ideologiche, il progetto di un annientamento totale della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, anche distr ggendo gli archivi, i monumenti su cui era impressa l’italianità di quei luoghi, trasmessa nel corso dei secoli attraverso innumerevoli generazioni.
Il 10 febbraio 1947, l’Italia stipulò con la Jugoslavia l’oneroso Trattato di pace con cui vennero cedute le terre istriane fiumane e dalmate, da secoli italianissime, e la creazione del Territorio Libero di Trieste. A Fiume, Pola, Zara, Capodistria, Pirano, Parenzo e in tante altre città da sempre italiane e venete, i giovani sono stati educati all’idea, invece, che quelle terre furono sempre state abitate da sloveni e croati.
Le questioni delle foibe e dell’Esodo, che insanguinarono l’Istria e il Carso, la Venezia Giulia e la Dalmazia, sono intimamente connesse tra loro, sebbene ancora oggi vi sia chi tenta di negarlo. Entrambi sono l’esito di due cause, anche queste tra loro intimamente collegate. Da una parte un radicale odio anti-italiano, dalle radici antiche, ed ora scatenatosi senza alcun argine militare, dopo la ritirata dell’esercito italiano, dall’altra parte, lo svelamento della natura intrinsecamente criminogena dell’ideologia comunista, che, questa volta, aveva assunto il volto delle bande partigiane del maresciallo Tito.
Se non si comprende il concorso di questi due elementi, la Legge del 30 marzo 2004, istitutiva del Giorno del Ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati, presto o tardi diverrà carta straccia. Di ciò, purtroppo, si cominciano ad intravvedere i primi segnali, unitamente al prevalere delle tesi non più negazioniste delle foibe, ma di quelle giustificazioniste, che attribuiscono la reazione criminale degli slavi alla precedente politica fascista. Fortunatamente, sempre a sinistra, non mancano le eccezioni, e i vari Giampaolo Pansa hanno avuto il coraggio intellettuale di ammettere come sono andate veramente le cose, confutando alla radice quella assurda e insostenibile tesi.
Per i trecentocinquantamila esuli, iniziò un’odissea senza ritorno, negata non solo dal Partito comunista italiano, per il quale essi altro non erano che “criminali fascisti sfuggiti alla giustizia popolare jugoslava”. E l’identificazione tra le vittime delle foibe e quanti dovettero abbandonare case, affetti, ricordi e una loro presunta appartenenza ideale al fascismo, ha ispirato la storiografia negazionista e giustificazionista. Tale tesi ancora oggi non è stata affatto definitivamente confutata e si ritrova nelle volgari e squallide parole di un Tomaso Montanari e di altri epigoni e nostalgici del socialismo reale.
Il Partito comunista di Togliatti si schierò naturaliter con le bande partigiane del Maresciallo Tito, sebbene il loro odio anti-italiano, più forte dello stesso antifascismo, fosse ben noto agli stessi partigiani comunisti italiani che operarono nella Venezia-Giulia, costretta dalle necessità politiche ad un complice e omertoso silenzio. L’episodio di Malga Porzûs, che non fu affatto un caso isolato, ha fatto completa giustizia di questo aspetto tra i più esecrabili della lotta partigiana, e non solo di quella combattuta sul confine orientale.
Di Togliatti, il cosiddetto “Migliore”, si dovranno sempre ricordare le ignobili parole scritte nella lettera inviata il 7 febbraio del 1945 a Ivanoe Bonomi, in cui finì anche per riconoscere che a difendere gli italiani di quelle terre erano rimasti i fascisti e tedeschi! Un lapsus, si dirà, sicuramente tragico, per non dire comico.
Sono fin troppo note le angherie commesse in seguito, nell’Italia liberata, dai militanti comunisti ai danni degli esuli al loro arrivo in Italia, mentre ancora oggi non è stata adeguatamente considerato l’altrettanto orribile e sostanzialmente complice atteggiamento assunto dalla Democrazia cristiana, in ossequio alle scelte dei vincitori statunitensi e inglesi, come risultò evidente con la cessione della Zona B di Trieste alla Jugoslavia del novembre 1975. Le lacrime di Sandro Pertini sulla bara di Tito, poi, sono un episodio talmente inqualificabile, che merita solo disprezzo e silenzio; esso fu talmente sconcertante, che si commenta da solo.
Tragicamente sincere le parole di Oskar Piskulic, uno dei peggiori infoibatori, trascinato in giudizio presso il Tribunale di Roma dal giudice Giuseppe Pititto, che arrivò ad ammettere la verità, sostenendo che, in fondo, di italiani e fascisti, i partigiani comunisti avrebbero dovuto assassinarne ancora di più, fino alla completa loro estinzione, in quanto nemici di classe, ossia ostacolo da eliminare per realizzare finalmente la società comunista secondo le indicazioni di Tito.
Purtroppo, se vogliamo essere sinceri, ai tanti esuli che per ragioni molteplici, umanamente addirittura comprensibili, occultarono il proprio passato, la propria identità, si aggiunsero quelli che finirono per accettare la tesi che la responsabilità dei crimini commessi contro gli italiani, era da attribuire effettivamente alla politica del governo fascista, così assolvendo i propri carnefici, per ragioni perciò ideologiche. Non solo, perché contribuì anche un meccanismo ben noto alla psicologia e ben noto anche al coraggioso Giovannino Guareschi, che fu tra i primi a denunciarlo.
Più difficile, ovviamente, è riuscire ad imporre, nonostante l’evidenza storica, la tesi dell’intrinseca natura criminogena dell’ideologia comunista, per cui le foibe e i circa cento milioni di vittime dei tanti socialismi compiuti in nome del celebrato “Sol dell’avvenire”, non furono affatto effetti indesiderati dello stesso tentativo di realizzare sulla terra il paradiso socialista.
Secondo una leggenda balcanica, al termine di una uccisione e aver scaraventato nelle foibe i morti, i moribondi e le vittime ancor vive, si gettava anche la carcassa di un cane nero, affinché facesse la guardia alle anime delle vittime impedendo loro di affiorare e reclamare giustizia. Una leggenda, appunto, che dimostra però come, ancor oggi, la storia viene raccontata dai vincitori, violentando da cima a fondo la verità.
Spetta a noi fare in modo che le anime dei quindicimila infoibati non saranno mai dimenticate, perché se dovesse vincere l’oscuro guardiano della leggenda, sarebbe per tutti loro come morire una seconda volta.
di Antonio Pannullo
Paolo Di Nella morì 37 anni fa, in questo giorno. Morì, fuori tempo massimo, nel 1983, dopo la stagione degli anni di piombo. Sembrava che quel periodo tragico fosse ormai concluso, con la morte nel marzo 1980 di Angelo Mancia. Il dipendente del nostro giornale assassinato in un agguato partigiano dalla Volante Rossa. Come gli assassini di Paolo Di Nella, anche quelli di Angelo Mancia rimasero impuniti. Paolo Di Nella lo conoscevo, frequentava la sezione del Msi del Trieste Salario in viale Somalia e la federazione provinciale del Fronte della Gioventù. Era amico di tutta quella meglio gioventù di attivisti di quegli anni. Ma in particolare dei fratelli Buffo, di Gianni Alemanno, di Sergio Mariani, di Paolo Omodei e di quel gruppo di giovanissimi che frequentavano la sezione Trieste. Era apparentemente un po’ chiuso, ma sempre pronto a scherzare quando stava con i suoi fratelli. Il gruppo era profondamente legato. Era spesso preso in giro per le sue battaglie ambientaliste, alle quali dedicava tutte le sue energie. Allora non capivamo che Paolo Di Nella era avanti tutti noi.
I fatti sono noti, ma li rievochiamo per quei giovani che oggi portano avanti anche la sua battaglia. Alle 20.05 di quel 9 febbraio 1983 il suo cuore smise di battere. Noi ragazzi del Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano) ci sentimmo allora irrimediabilmente più soli. Perché sapevamo perfettamente che “uccidere un fascista non è reato” non era solo uno slogan dei “duri” dell’Autonomia operaia (che rivendicò l’assassinio), ma era diventata una legge non scritta. L’avevamo subìta parecchie volte e non ci eravamo mai fermati. Il Fronte non si fermò neanche allora, benché sapessimo perfettamente che anche questo omicidio non sarebbe mai stato punito, così come era accaduto per Francesco Cecchin, ucciso da sconosciuti a piazza Vescovio pochi anni prima. E così è stato. Ancora oggi aggressori a piede libero. Nel caso di Paolo Di Nella le cose andarono un po’ diversamente, anche se una sfortunata vicenda giudiziaria chiuse il caso senza che si fosse arrivati a un colpevole.
Anche perché gli inquirenti si mossero con un certo impegno solo dopo che l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini accorse, in forma privata, al capezzale di Paolo. Era evidentemente stato colpito dall’efferatezza e dalla gratuità del gesto feroce verso un ragazzo di vent’anni che si batteva per il verde pubblico nel suo quartiere. Pertini fu affrontato – è il caso di dirlo – da una ragazza del Fronte, Marina, che eludendo la sorveglianza al presidente, riuscì a intercettarlo e a dirgli quello che pensava. «Questo è il frutto dell’odio che avete alimentato per quarant’anni! Ci stanno ammazzando tutti!», disse Marina. Pertini la guardò in faccia, rimase a capo chino in silenzio, le posò una mano sulla spalla e si allontanò. Il vecchio partigiano ascoltò con molta attenzione la ragazza in lacrime di rabbia e di dolore, e probabilmente capì che i tempi della giustizia sommaria erano davvero finiti per sempre. Possiamo affermare senza timore di essere smentiti da nessuno, che se gli anni di piombo si chiusero fu solo ed esclusivamente grazie alla buona volontà, al senso di responsabilità, alla civiltà degli “estremisti di destra” di allora, che scelsero consapevolmente di non attuare ritorsioni di alcun genere.
E dopo Pertini, fu un profluvio, piuttosto stupefacente, per noi missini, di solidarietà da tutte le parti: l’allora sindaco di Roma Ugo Vetere, del Pci, venne all’ospedale, il segretario del partito Enrico Berlinguer mandò un commosso telegramma. Il giornalista Giuliano Ferrara scrisse un articolo in difesa di Di Nella e del suo diritto a pensarla come la pensava. E proprio così Paolo conduceva la sua lotta politica: civilmente e pacificamente, talmente fiducioso nel suo diritto da andare ad attaccare manifesti da solo con la sua ragazza, in un periodo in cui questo non era consigliabile.
Paolo non era assolutamente un violento, ma non si fermava mai. Non c’era nulla che si potesse dire o fare per impedirgli di agire come a lui sembrava giusto. Anche quella sera, poiché non c’erano persone disponibili ad accompagnarlo, gli fu proposto di rimandare alla sera successiva l’affissione, ma lui non ne volle sapere. La battaglia di combatte tutti i giorni, e guai a chi si ferma. Andò con una militante del Trieste Salario, che lo accompagnò con l’automobile. E’ grazie a lei se abbiamo una testimonianza precisa di tutto quello che accadde. Paolo scendeva, affiggeva, e ripartivano. L’Autonomia operaia era molto attiva nel quartiere Africano, quello dove Paolo e i suoi camerati lottavano affinché Villa Chigi fosse restituita alla gente. Negli anni e precedenti le sezioni missine della zona, via Migiurtinia, viale Somalia, la Monte Sacro, la Talenti, la Tufello, erano state oggetto di decine di attentati dinamitardi incendiari, assalti armati.
A piazza Gondar, in viale Libia (dove oggi c’è la scritta che lo ricorda), Paolo fu aggredito da dietro da due ragazzi, uno dei quali lo colpì con un oggetto contundente mai identificato. Gli causò la commozione cerebrale che lo portò, dopo una settimana di agonia, alla morte. La ragazza lo accompagnò a sciacquarsi la testa alla fontanella, e lui le gece promettere di non dire nulla a nessuno, che non er aniente. Ma tornato a casa si sentì male e fu portato in ospedale. Vegliato incessantemente – oltre che dalla sua splendida famiglia – da tutti i suoi camerati. Il suo sacrificio è servito a far accorgere agli italiani di quanto accadeva, a far diventare Villa Chigi parco pubblico – oggi è intitolato a suo nome – e a far finire gli anni di piombo.
La responsabilità morale della sua e di altre morti è ascritta per sempre a tutta una classe politica e mediatica che per anni ha chiuso gli occhi di fronte alla palese ingiustizia a cui i giovani missini erano sottoposti da parte di tutti. In quella settimana di agonia di Paolo ci furono affissioni per denunciare l’accaduto, un corteo sfilò per il quartiere, assemblee nelle scuole, ma a nessuno sembrava gliene fregasse qualcosa: al Giulio Cesare anzi si arrivò a confermare il diktat che uccidere un fascista non è reato.
Vogliamo concludere questo ricordo con il comunicato del Fronte della Gioventù emesso qualche giorno dopo la morte di Paolo. “Con Paolo di Nella è morto un combattente per il proprio popolo, un nazional-rivoluzionario. Nessuno si permetta di offendere questo martire con inutili isterismi. L’unica vendetta è continuare la sua lotta contro il sistema che lo ha assassinato”. Al suo funerale, quando la bara avvolta nella bandiera con la croce celtica uscì dalla chiesa di piazza Verbano, a migliaia salutarono Paolo Di Nella col braccio teso.
Il volantino di rivendicazione dell’assassinio spuntò il 14 febbraio, in una cabina telefonica di piazza Gondar, a pochissimi metri da dove c’era stata l’aggressione. È firmato da Autonomia Operaia. L’ultimo atto della tragedia avviene nel dicembre del 2008, il papà di Paolo è morto e la famiglia ha deciso di farli riposare insieme. La bara di Paolo è lentamente esposta e appaiono ancora quei colori: il rosso, il bianco, il nero; per venticinque anni la bandiera con la celtica ha riposato insieme a Paolo. La bara di Paolo viene messa vicino a quella del padre, si stende di nuovo sopra la sua bandiera, e c’è una piccola scritta: “Caduto per la Rivoluzione”.
di Alfio Krancic
Come sono buffi quelli di sinistra. Vogliono un mondo open senza confini; vogliono stati senza sovranità dove milioni di “migranti” possano entrare senza documenti e fare ciò che più gli aggrada; vogliono un mondo arcobaleno di pace e di bontà. Poi se qualcuno osa entrare in conflitto con uno stato di cui loro si sono affezionati, scattano come bisce per difenderlo: inviano armi a bizzeffe; strepitano sulla sovranità violata e sui confini sacri profanati dai cattivi etc. Insomma: confini, sovranità e arcobalenate, sono concetti relativissimi per noi, assolutissimi gli amici.
di Redazione
Non tutti possono camminare assieme. Le istruzioni di don Francesco Ricossa saranno particolarmente importanti per la nostra formazione, soprattutto per i nuovi arrivati, al fine di comprendere come si diventa dei buoni militanti cattolici.
Segnalazione del Centro Studi Federici
L’EDITORIALE DEL LUNEDI per https://www.informazionecattolica.it/2021/11/15/lattuale-societa-post-moderna-e-la-sintesi-dei-fallimenti-delle-rivoluzioni/
di Matteo Castagna
A DIFFERENZA DELL’EGUALITARISMO LA COMUNITA’ DI DESTINO COSTITUISCE IL PRINCIPIO VITALE DI OGNI SOCIETA’
La società attuale, detta post-moderna, può essere vista come la sintesi dei fallimenti delle rivoluzioni condotte nei secoli precedenti contro la civiltà tradizionale, che era una comunità gerarchica ed organica, diretta da autorità provenienti da Dio, che al netto degli errori umani, perseguiva il bene comune nell’armonia fra Trono e Altare.
Noi cattolici crediamo che la vita delle società sia sottomessa ad un certo numero di leggi immutabili. La cosiddetta “comunità di destino” è la prima di queste leggi. Se scompare, i raggruppamenti umani cadono in preda alla sclerosi e all’anarchia. Essa esiste quanto gli uomini condividono spiritualmente o materialmente la stessa esistenza, per gli stessi fini e con gli stessi rischi.
Ha due forme distinte:
a) la somiglianza. C’è comunità di destino tra un operaio della Fiat e uno della Renault, tra due contadini di regioni diverse, tra il marinaio che conduce una rotta e quello che ne persegue un’altra. Costoro appartengono alla stessa classe sociale, fanno gli spessi lavori e conducono, più o meno, lo stesso genere di vita. I loro destini si assomigliano;
b) la solidarietà reciproca. Se a un lavoratore di una certa categoria capita una disgrazia, gli operai che operano in un’altra non ne saranno direttamente toccati. Se prendiamo due lavoratori dello stesso settore con ruoli differenti, essi vivranno, nel bene o nel male, seguendo destini non solo simili ma solidali.
Questa comunità di destino tra esseri che, attraverso la loro diversità di situazione e vocazione, rimangono strettamente dipendenti gli uni dagli altri, conferisce ai raggruppamenti umani il loro carattere organico. La famiglia è la comunità organica per eccellenza. Ben più che i legami di sangue, è l’interdipendenza dei destini, nella differenza ed armonia dei ruoli stabiliti dalla natura, che costruisce l’unità familiare, così come quella delle categorie lavorative. Il socialismo, declinato in ogni sua forma, oggi definibile come globalismo, tende all’egualitarismo assoluto, che, essendo innaturale, genera divisione e conflitto. La comunità di destino esige la solidarietà organica, ovvero l’esistenza di legami vitali tra gli uomini. Essa è il barometro della vitalità e della stabilità della società, che, invece, il modello liberal-capitalista mette a repentaglio in nome dell’egoismo assoluto e dell’ assolutizzazione disumana del profitto.
La crisi della post-modernità non è forse la deriva delle ideologie socialista e liberale, che è giunta al punto di implodere e che cerca in maniera subdola e, talvolta, tirannica, di risolvere il problema attraverso una transumana rimodulazione della sua alleanza strategica, già fallita dopo la Seconda Guerra Mondiale?
Al contrario della lotta di classe e dell’egoismo assoluto, che sono i figli degeneri del socialismo e del liberalismo, la comunità di destino presenta vari vantaggi che influiscono felicemente sulla vita sociale. Favorisce l’amore che è l’anima di ogni unità sociale. E’ chiaro che noi amiamo più più facilmente l’essere che vive al nostro fianco e condivide le nostre gioie e le nostre preoccupazioni, che non un estraneo, magari imposto dalla società liberal-socialista proprio al fine di distruggere la comunità di destino, in nome di un egualitarismo inesistente, impossibile perché innaturale e forzato perché che crea solo conflitti.
La comunità di destino verte a neutralizzare l’egoismo, piegandolo al servizio del bene comune, mentre l’interdipendenza crea, quasi automaticamente l’aiuto scambievole. Quando La Fontaine scrive che “se il tuo vicino viene a morire, è su di te che cade il fardello” presuppone l’esistenza di destini solidali. Gustave Thibon (1903-2001, nella foto qui sotto), in Diagnosi (1940), aveva ben compreso e scritto tutto questo: “Uno stato sociale è sano nella misura in cui tende a diminuire la tensione tra l’interesse e il dovere, è malsano nella misura in cui tende ad aggravarla“.
La soppressione della comunità di destino, voluta dal globalismo e dal mondialismo, distrugge il senso solidale dell’aiuto comunitario, distrugge i legami sociali, abbandona a se stesse le masse umane esponendole a tutti i risucchi di un egoismo senza contrappeso. Queste situazioni vengono, d’altronde, fin troppo confermate dallo spettacolo della società attuale, che ha ucciso Dio, dissolto la Patria e trasformato la famiglia, sciogliendo quella continuità vivente tra gli individui nello spazio e le generazioni nel tempo. Gli uomini disuniti come automi e privi di quella gerarchia che è principio naturale, ma odiato dal liberal-socialismo, disperdono i loro sforzi e producono solo opere di corto respiro, senza legame e senza unità. E’ in epoche come il Medioevo, in cui le differenze sociali e i privilegi erano portati alla loro suprema espressione, che gli uomini hanno vissuto con la massima profondità la loro comunità di destino. L’invidia, tipica dello spirito social-comunista distrugge l’armonia della comunità di destino, che è l’antidoto all’egualitarismo.
Tutto quanto è local, invece, favorisce la società di destino in una vera presa di coscienza del “noi” e del superamento dell’ “io”, figlio della cultura liberale. In tutti i campi, l’attaccamento al dato sensibile precede e condiziona l’amore dello spirituale e dell’universale. Perciò la comunità di destino è in grado di rispondere concretamente alle Sacre Scritture, laddove si dice: “Chi non ama suo fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede?“.
di Redazione www.nicolaporro.it
Fa un certo effetto sapere che la quasi totalità dei leader mondiali continui a prostrarsi di fronte a una ragazzina svedese che canta e balla sulle note di “Bella Ciao”. Sì, perché ci fa capire, oltre ogni ragionevole dubbio, in che direzione sta andando il mondo. Quale sarà, volenti o nolenti, il nostro futuro. Non ci credete? Guardate questo video in cui Greta e i suoi adepti si divertono mentre in sottofondo si innalza potente il canto della Resistenza.
Pensate forse che quello di Milano possa essere un episodio isolato? Che Greta sia stata in qualche modo contagiata dall’aria rossa della città meneghina? Tutt’altro. Ecco un altro video, risalente a due anni fa, in cui la Thunberg e “compagni” cantano un inno ambientalista a Torino utilizzando, ancora una volta, la base melodica di “Bella Ciao”.
Questo il testo integrale della canzone cantata dagli attivisti green o, per meglio dire, red:
We need to wake up
We need to wise up
We need to open our eyes
And do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
We’re on a planet
That has a problem
We’ve got to solve it, get involved
And do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
Make it greener
Make it cleaner
Make it last, make it fast
and do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
No point in waiting
Or hesitating
We must get wise, take no more lies
And do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
“Dobbiamo costruire un futuro migliore”. Questo il succo della canzone. E in effetti questa è sempre stata l’utopia delle ideologie di stampo marxista. L’arrogante pretesa di sapere quale sia il futuro migliore per tutti. E ancora: “La Terra ha un problema, dobbiamo risolverlo”. La lotta per il clima è l’odierna lotta di classe. E chi la pensa diversamente diventa l’equivalente del vecchio borghese.
E’ inutile che ci prendano in giro. L’ambientalismo declinato in questa maniera, non è nient’altro che un mezzo politico molto furbo per attaccare il fondamento dell’odierna società occidentale: il sistema capitalistico. Anche perché, se così non fosse, i paladini dell’ambiente eviterebbero di utilizzare simboli politici divisivi, come appunto Bella Ciao. E magari potrebbero concentrarsi sull’andare a protestare là dove serve davvero, come ad esempio in Cina, paese in cui l’inquinamento negli ultimi anni è aumentato molto più che all’Ovest.
L’aspetto più preoccupante, però, è che queste sono le nuove leve. Sono coloro che vengono incoraggiati da Papa Francesco. Sono quelli al cospetto dei quali il nostro premier Mario Draghi e il nostro ministro Cingolani si cospargono il capo di cenere, e magari fossero solo loro. Sono i volti puliti che servono alla sinistra mondiale per portare avanti le narrazioni utili alla causa politica e che vengono quindi spinti da tutti i media mainstream.
Ma noi la verità la conosciamo: cambiano i tempi, cambiano i mezzi e i messaggi, ma non gli uomini e i loro obiettivi. Inutile prendersela con Greta e i ragazzi. Il problema è chi c’è dietro. Chi, sconfitto innumerevoli volte dalla storia, ha purtroppo ancora in mano il potere di scriverla. E prova a farlo con mezzi molto più subdoli rispetto al passato. In questo aveva ragione da vendere Berlusconi. Sono ancora, oggi, come sempre, dei poveri comunisti!
Altro che Fridays 4 Future, pray 4 future…
Fonte e Video: https://www.nicolaporro.it/greta-canta-bella-ciao-la-paladina-green-alza-bandiera-rossa/
Mezzetti – Zuppi -Mazza – Bonaccini
di Matteo Castagna (pubblicato su Informazione Cattolica di oggi)
“Tres organizaciones caritativas de la Compañía de Jesús (jesuitas) han recibido en los últimos años más de un millón y medio de Open Society Foundations, la fundación del magnate pro aborto George Soros”.
La notizia viene data dalla Aci Press di ETWN, che è il maggior circuito internazionale di informazione del mondo cattolico ufficiale.
Sono altresì poco noti i finanziamenti dati dal Partito Democratico ad alcune componenti del mondo cattolico ufficiale.
Basti, come esempio, il milione e mezzo di Euro donati ai dossettiani, portati alla luce dal coraggioso consigliere regionale Daniele Marchetti della Lega (vedi qui). Continua a leggere
La macabra notizia è stata divulgata dai media croati circa una settimana fa. Si sono concluse lunedì scorso le operazioni di recupero delle vittime dei partigiani di Tito dalla Foiba di Jazovka, nei pressi del villaggio di Sošice, nel Comune di Žumberak, in Croazia, non poco lontano dal confine sloveno. Complessivamente, dalla squadra di speleologi sono stati riportati in superficie i resti di ben 814 corpi, riferiti a ustascia, domobranci, civili, medici, infermieri e suore di diversi ospedali di Zagabria, gettati nella cavità alla fine e dopo la seconda guerra mondiale dai partigiani comunisti.
“Tali iniziative di recupero ci sono utili per smontare il mito di un comunismo sociale e rispettoso della libertà al popolo” spiega il direttore Archivio museo storico di Fiume Marino Micich. “Erano sistemi totalitari, dove pochi avevano il predominio di tutto e su tutti. Le foibe sono l ‘ esempio più eclatante in casa nostra come anche il triangolo rosso.. bisogna insistere a far conoscere queste verità per il rispetto della storia e per la libertà. Per lunghi anni a sinistra si è cercato e si continua per molto versi a minimizzare tali efferatezze”.
Secondo quanto dichiarato da alcuni membri del team incaricato del recupero delle salme, diversi sarebbero anche i resti di donne e bambini.
Fonte: https://www.iltempo.it/attualita/2020/07/27/news/foibe-croazia-jazovka-cadaveri-infoibati-suore-23995077/ Continua a leggere
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