ENNESIMO BARBARO ATTACCO DEL REGIME DI KIEV ALLA POPOLAZIONE CIVILE RUSSA

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DICHIARAZIONE DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN RELAZIONE ALL’ENNESIMO BARBARO ATTACCO DEL REGIME DI KIEV ALLA POPOLAZIONE CIVILE RUSSA

Il regime di Kiev HA MOSTRATO ANCORA UNA VOLTA LA SUA INIQUA NATURA NAZISTA. Ha commesso un altro crimine cinico e sanguinoso attaccando con lanciarazzi multipli i quartieri residenziali della città di Belgorod.

I consiglieri britannici e americani, che OSTINATAMENTE E IRRESPONSABILMENTE regolarmente incitano le autorità dell’attuale UCRAINA a commettere crimini sanguinosi, sono stati direttamente coinvolti nell’organizzazione di questo attacco terroristico. Anche i Paesi dell’Unione Europea ne sono responsabili, poiché continuano a rifornire di armi le autorità ucraine.

Va sottolineato che l’attacco è stato deliberatamente mirato a luoghi in cui erano ammassati i civili, famiglie con bambini.
I criminali ucraini hanno utilizzato munizioni a grappolo per aumentare il numero delle vittime dell’attacco terroristico.

Il bombardamento di aree popolate nel Donbass, nelle regioni di Kherson e Zaporozhye, in Crimea e in altre regioni russe, l’uccisione spietata e cieca di civili testimoniano l’agonia del regime neonazista di Zelensky, impantanato nel terrorismo, nell’illegalità, nella corruzione e nel cinismo, che nella sua rabbia impotente cerca di uccidere il maggior numero possibile di russi per compiacere i suoi padroni occidentali.

Tutti gli organizzatori e gli autori di questo e di altri crimini della giunta di Kiev saranno inevitabilmente puniti secondo la legge.

Chiediamo a tutti i governi responsabili e alle strutture internazionali competenti di emettere una forte condanna di questo brutale attacco terroristico e di prendere pubblicamente le distanze dal regime di Kiev e dai suoi collaboratori occidentali che commettono tali crimini.

IL SILENZIO IN RISPOSTA ALLA BARBARIE DEGLI UKRONACISTI E DEI LORO COMPLICI PROVENIENTI DALLE “DEMOCRAZIE CIVILIZZATE” EQUIVARRÀ A FAVORIRE LE LORO AZIONI SANGUINARIE.

Fonte

Il conflitto israelo-palestinese mette in luce il suprematismo occidentale

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di Fabio Fioresi

Ormai è una settimana che le bombe cadono su Gaza uccidendo uomini, donne e bambini.
La propaganda sionista non fa che accusare tutti quelli che dissentono come filonazisti e genocidi, mentre sono i cari sostenitori dell’unica democrazia del medioriente che festanti predicano la trasformazione della striscia in un cimitero.
La cosa più incredibile è la quantità di razzismo, xenofobia e intolleranza che i benpensanti hanno riscoperto.
Eppure, il nostro paese ha combattuto un’occupazione, noi più di tutti dovremmo sapere cosa vuol dire non passa lo straniero, e si sa i massacri perpetrati ai civili occupanti sono comunque colpa dei colonizzatori, perché sono loro che gli hanno messi in quella situazione di pericolo.
L’islamofobia da due soldi è forse la parte più esilarante ed irritante insieme, la saccenza di pensionati della domenica che giudicano popoli che non sanno neanche trovare sulla mappa geografica, che attacca i mussulmani per gli attentati recenti a Bruxelles. Ma lo vogliamo ricordare che noi bombardiamo quei paesi un giorno sì e l’altro pure, e ci indigniamo per attacchi che in confronto ai nostri sono nulla?
Un piccolo inciso, perché quando c’è un attentato di matrice islamista ogni mussulmano deve sempre chiedere scusa? Noi italiani per ogni cosa legata alla mafia ci dobbiamo vergognare?
Contemporaneamente la libertà di parola sta venendo ulteriormente irregimentate dal regime libertario.
economicamente ma totalitario politicamente, ovvero il nostro caro Piantedosi vorrebbe mandare agenti nelle scuole per verificare se hanno dei sentimenti pro Palestina.
Più va avanti la situazione più penso che la definizione di Russia e Cina come autocrazie sia solo un esempio di lapsus freudiano.

I fattori dietro la (sorprendente) tenuta economica della Russia

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di Giacomo Gabellini

Fonte: l’AntiDiplomatico

L’offensiva militare, economica, finanziaria e commerciale scatenata dal cosiddetto “Occidente collettivo” contro la Federazione Russa nasce da una palese sottovalutazione «della coesione sociale della Russia, del suo potenziale militare latente e della sua relativa immunità alle sanzioni economiche». L’intera campagna sanzionatoria imposta da Stati Uniti ed Unione Europea, in particolare, si fondava sulla previsione che la Russia non sarebbe stata in grado di reggere un lungo periodo di pressione economica e finanziaria esterna, in virtù della debolezza strutturale, dell’arretratezza e degli squilibri che caratterizzano il suo sistema produttivo.

I dati indicano che, alla fine del febbraio 2022, la Russia registrava un debito pubblico corrispondente ad appena il 12,5% del Pil, una posizione finanziaria netta fortemente positiva e riserve auree pari a circa 2.300 tonnellate. L’oro riveste una rilevanza particolare, trattandosi del tradizionale “bene rifugio” che tende sistematicamente a rivalutarsi proprio in presenza di congiunture critiche come quella delineatasi per effetto dell’attacco all’Ucraina. Stesso discorso vale per tutte le commodity di cui la Russia è produttrice di primissimo piano, dal petrolio al gas, dall’alluminio al cobalto, dal rame al nichel, dal palladio al titanio, dal ferro all’acciaio, dal platino ai cereali, dal legname all’uranio, dal carbone all’argento, dai mangimi ai fertilizzanti.

L’incremento combinato dei prezzi delle materie prime e dei prodotti raffinati i cui mercati risultano fortemente presidiati dalla Federazione Russa – la cui posizione si è ulteriormente rafforzata con l’incorporazione dei giacimenti di carbone, ferro, titanio, manganese, mercurio, nichel, cobalto, uranio, terre rare di vario genere e idrocarburi non convenzionali presenti nei territori delle repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k – ha per un verso penalizzato enormemente la categoria dei Paesi importatori netti, in cui rientra gran parte dell’“Occidente collettivo”. Per l’altro, ha assicurato alla Russia un volume di proventi talmente imponente da attenuare in maniera sensibile l’impatto dirompente prodotto dal congelamento delle riserve russe detenute presso istituzioni finanziarie estere.

I settori dell’economia russa ad alto valore aggiunto

Le principali categorie merceologiche di cui si compone l’export russo (petrolio, gas, materie prime, prodotti agricoli) delineano i contorni di un’economia non all’avanguardia, ma il discorso cambia completamente se si tengono in debita considerazione sia le punte di eccellenza raggiunte dal Paese in campo nucleare, aerospaziale, informatico e militare, sia il volume assai considerevole di entrate assicurato allo Stato dalla vendita all’estero di macchinari ed equipaggiamenti. Le attuali economie avanzate, strutturatesi nella forma odierna sulla base degli indirizzi strategici affermatisi a partire dagli anni ’80, poggiano soprattutto su attività ad alto valore aggiunto riconducibili al settore terziario, che apportano un contributo alla formazione del Pil di gran lunga superiore a quello assicurato dai comparti ricompresi nei settori primario e secondario. Nelle economie moderne, servizi finanziari e assicurativi, consulenze, nuovi sistemi di comunicazione e design risultano predominanti rispetto ad agricoltura, manifattura, estrazione di idrocarburi e minerali.

Un Paese come gli Stati Uniti può quindi contare sul colossale apporto alla “produzione di ricchezza” fornito dalle spese sanitarie gonfiate a dismisura, dalla crescita esorbitante delle cause legali fittizie che arricchiscono interi eserciti di avvocati, dal sistema carcerario privatizzato che fa lobby al Congresso per ottenere leggi in grado di garantire il maggior numero di detenuti possibile, ecc.

Alcuni economisti sia europei che statunitensi si sono addirittura spinti a sostenere l’integrazione della prostituzione e del traffico di stupefacenti nel paniere dei servizi che concorrono alla formazione del Pil.

I (veri) dati dell’economia russa

Se, come evidenziano i dati della Banca Mondiale, in termini di Pil nominale l’economia russa (1.779 miliardi di dollari nel 2022) risulta paragonabile per dimensioni a quella italiana (2.108 miliardi), sotto il profilo della parità di potere d’acquisto (4.808 miliardi, contro i 2.741 dell’Italia) tende invece ad avvicinarsi a quella tedesca (4.848 miliardi). Ma, evidenzia l’economista Jacques Sapir, neppure il Ppa riflette appieno la rilevanza della Federazione Russa, i cui vantaggi strategici connessi a “stazza”, posizione geografica e struttura economica a trazione agricolo-industriale-edilizia le conferiscono una capacità di resistenza pressoché inconcepibile per ogni altro Paese.

L’economia della Russia, che con una popolazione universitaria di 2,2 volte inferiore rispetto a quella degli Stati Uniti forma il 30% di ingegneri in più, si incardina infatti su produzioni fondamentali, perché necessarie alla soddisfazione dei bisogni primari. Idrocarburi, metalli, cereali, fertilizzanti, mangimi sono risorse imprescindibili per garantire riscaldamento e sicurezza sia alimentare che energetica.

Condizioni assicurate in periodi di stabilità, ma che divengono improvvisamente vacillanti in presenza di congiunture geopolitiche altamente conflittuali, in cui si riscopre il primato di petrolio, gas, alluminio, nichel, grano, ecc. rispetto a tutto il resto. La rivista «The American Conservative» nota in proposito che: «la spettacolare crescita dei settori ad alta intensità di capitale, insieme alla loro ricchezza nominale e produttività, ha portato molti a Washington e in varie capitali occidentali non solo ad abbracciarli, ma anche a preferirli politicamente, culturalmente e ideologicamente. Noi americani siamo particolarmente orgogliosi, ad esempio, del successo dei nostri giganti della tecnologia come motori di innovazione, crescita e prestigio nazionale. Internet e le varie applicazioni per gli smartphone sono considerate da molti intrinsecamente democratizzanti, fungendo effettivamente da canale di diffusione per i valori americani e di promozione degli interessi nazionali statunitensi. Questo amore per i settori dei servizi si traduce in una tendenza a identificare le industrie ad alta intensità di manodopera del passato – energia, agricoltura, estrazione di risorse, produzione – come reliquie del passato. Ma questa prospettiva distorta ci ha lasciato impreparati per un mondo in cui i beni tangibili sono ancora una volta di vitale importanza, come dimostrato plasticamente dalla guerra in Ucraina».

 

 

Il conflitto in Ucraina: i numeri del complesso militare industriale

Come ha dichiarato nel febbraio 2023 il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, lo schieramento atlantista aveva fino a quel momento assicurato all’Ucraina un’assistenza militare, finanziaria e umanitaria senza precedenti, quantificata in 120 miliardi di dollari. Il trasferimento di materiale bellico a Kiev si è rivelato talmente ingente da svuotare letteralmente gli arsenali di molti Paesi membri della Nato. La Danimarca ha consegnato tutti e 19 gli obici semoventi di fabbricazione francese Caesar in proprio possesso. Il Ministero della Difesa tedesco ha ammesso che, qualora si fosse ritrovata a combattere una guerra ad alta intensità come quella russo-ucraina, la Germania avrebbe esaurito le munizioni nell’arco di appena due giorni. Stesso discorso vale per Francia e Gran Bretagna, mentre il Pentagono ha avanzato dubbi circa la capacità degli Stati Uniti di continuare a rifornire l’Ucraina senza distogliere armi ed equipaggiamenti da teatri di primario interesse quali quello del Mar Cinese meridionale. Alla fine del 2022, rilevava il Royal United Services Institute britannico, il Dipartimento della Difesa statunitense aveva ceduto all’Ucraina «circa un terzo delle riserve di missili anticarro Javelin e di quelli antiaerei Stinger: ripianare tali scorte richiederà rispettivamente 5 e 13 anni». Per quanto concerne le munizioni dei lanciarazzi campali multipli Himars, «a fronte di una produzione di 9.000 razzi all’anno, le forze armate ucraine ne consumano almeno 5.000 al mese».

Nemmeno il rapido e imponente incremento (500%) della produzione di proiettili d’artiglieria realizzato dal “complesso militar-industriale” è risultato sufficiente a compensare l’erosione delle riserve strategiche di armi e munizioni a disposizione degli Usa. Al punto da indurre Washington a rivolgersi alla Corea del Sud, il cui governo ha «accettato di fornire in prestito agli Stati Uniti 500.000 proiettili di artiglieria da 155mm che non saranno però forniti a Kiev ma consentiranno all’Us Army di non depauperare troppo le sue riserve di munizioni ridottesi in seguito alle massicce forniture all’Ucraina». Come ha riconosciuto Stoltenberg, «il nostro attuale ritmo di produzione delle munizioni è di molte volte inferiore al livello di consumo da parte dell’Ucraina», che risulta a sua volta enormemente ridotto rispetto a quello della Russia. La quale è riuscita a sparare fino a 50.000-60.000 proiettili d’artiglieria al giorno a fronte dei 5.000-6.000 esplosi dall’Ucraina e – secondo fonti di intelligence britanniche riportate dal «Washington Post» – a produrne nell’arco del 2022 qualcosa come 1,7 milioni di unità, contro le 180.000 fabbricate dagli Usa. Segno di una capacità industriale notevolissima, supportata da catene di approvvigionamento di materiali critici e componentistica solide e perfettamente funzionanti.

Il finanziamento dello sforzo bellico, per di più, non ha comportato alcuna distorsione della struttura economica russa; lo si evince da una stima formulata da una fonte “al di sopra di ogni sospetto” come l’«Economist», secondo cui le spese militari sostenute da Mosca nel corso del primo anno di guerra avrebbero assorbito circa 67 miliardi di dollari, pari ad “appena” il 3% del Pil russo. Una percentuale tutto sommato modesta, specialmente se raffrontata a quelle raggiunte sia dall’Unione Sovietica (61%) che dagli Stati Uniti (53%) nelle fasi più acute della Seconda Guerra Mondiale.

La vera forza dell’arsenale difensivo a disposizione della Russia risiede quindi nelle caratteristiche della sua struttura economica nella centralità che il Paese riveste rispetto al commercio internazionale, oltre che nell’indisponibilità del resto del mondo ad aderire alla campagna sanzionatoria imposta dal cosiddetto “Occidente collettivo”. Nonché dall’attivismo della Repubblica Popolare Cinese; di fronte al deflusso delle multinazionali occidentali dal Paese, Mosca ha reagito non soltanto nazionalizzandone gli asset e affidando la gestione degli stabilimenti sottoposti a confisca ad amministratori esterni secondo una logica di preservazione della continuità aziendale implicante necessariamente anche il sequestro dei brevetti (in assenza dei quali la produzione rimane pressoché impossibile), ma anche schiudendo le porte del mercato nazionale alle società sia pubbliche che private cinesi. Le quali hanno prontamente occupato gli spazi lasciati vuoti – soltanto parzialmente – dalle aziende europee e statunitensi, e costituito allo stesso tempo alleanze strategiche con le imprese locali operanti nei cruciali settori energetico, minerario e metallurgico.

Tutti aspetti, questi ultimi, che politici e specialisti di spicco del cosiddetto “Occidente collettivo”, persuasi che le misure punitive “da fine del mondo” avrebbero condannato la Russia all’isolamento e alla bancarotta nell’arco di poche settimane, non sono stati minimamente in grado di prevedere, nell’ambito di quello che l’economista Patricia Adams considera «il più monumentale errore di calcolo della storia moderna».

La responsabilità dei governanti nel conflitto ucraino

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di Thierry Meyssan

Fonte: Voltairenet

In occasione del primo anniversario dell’intervento russo, l’Alleanza Atlantica glorifica l’Ucraina. La osserviamo servirsi della più ingannatrice delle propagande; la vediamo maneggiare omissioni, nonché talvolta menzogne. A differenza di quanto sostiene la Nato, l’attacco della Russia non è mai stato illegale, sebbene oggi appaia a molti non più necessario, quindi da interrompere. Ma le cause che hanno portato alla guerra permangono e il Cremlino prevede un secondo round del conflitto: non per annettere l’Ucraina o la Moldavia, ma per salvare la Transnistria.
Gli Occidentali hanno approfittato del primo anniversario dello scontro militare Oriente-Occidente in Ucraina per convincere le opinioni pubbliche che si trovano “dalla parte giusta della Storia” e che la vittoria è “inevitabile”.
Non c’è da sorprendersi. È normale che i governi divulghino il proprio operato. Ma in questo caso le informazioni sono menzogne per omissione e i commenti sono propaganda. Siamo di fronte a un tale rovesciamento della realtà che c’è da chiedersi se, in definitiva, gli sconfitti della seconda guerra mondiale non siano oggi al potere a Kiev.

“La guerra illegale, ingiustificabile e non-provocata della Russia”
Tutti gli interventi occidentali ribadiscono con forza che l’Occidente condanna la “guerra illegale, ingiustificabile e non-provocata della Russia”. È oggettivamente falso.
Lasciamo da parte l’attributo “ingiustificabile”, che rinvia a una posizione morale indegna. Nessuna guerra è giusta. Ogni guerra è risultato non di un errore, ma di un fallimento. Analizziamo invece la definizione di guerra “non-provocata”.
Secondo la diplomazia russa la vicenda è cominciata con l’operazione statunitense-canadese del 2014 e il rovesciamento del presidente ucraino democraticamente eletto, Viktor Janucovič, in violazione della sovranità ucraina, quindi della Carta delle Nazioni Unite. Non si può negare che Washington abbia svolto un ruolo determinante nella cosiddetta “rivoluzione della dignità”: l’allora vicesegretaria di Stato per l’Europa e l’Eurasia, Victoria Nuland, si è esibita alla testa dei golpisti.
Secondo la diplomazia cinese, che ha da poco pubblicato due documenti sulla questione, non bisogna fermarsi all’operazione del 2014: per individuare la prima violazione della sovranità ucraina e della Carta delle Nazioni Unite bisogna risalire alla “rivoluzione arancione” del 2004, anch’essa organizzata dagli Stati Uniti. La Russia non vi fa riferimento perché, a differenza che nel 2014, vi svolse un ruolo.
Gli Occidentali sono talmente assuefatti alla disinvoltura degli Stati Uniti nel manipolare folle e rovesciare governi da aver smarrito la capacità di percepire la gravità di questi atti. Dal rovesciamento del 1953 di Mohammad Mossadeq in Iran a quello del 2018 di Serge Sarkissian in Armenia, gli Occidentali si sono abituati ai cambiamenti forzati di regime. Non importa che i politici rovesciati fossero buoni o cattivi governanti. In ogni caso è inammissibile che uno Stato straniero ne abbia organizzato il rovesciamento nascondendosi dietro oppositori nazionali. Sono atti di guerra senza intervento militare.
I fatti sono testardi. La guerra in Ucraina è stata provocata dalle violazioni della sovranità ucraina del 2004 e 2014, indi da otto anni di guerra civile.
La guerra non è illegale nemmeno secondo il diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite non vieta il ricorso alla guerra. Il Consiglio di Sicurezza ha persino il potere di dichiararla (articoli da 39 a 51). La particolarità della situazione attuale è che la guerra oppone membri permanenti del Consiglio.
La Russia ha cofirmato gli Accordi di Minsk per mettere fine alla guerra civile. Tuttavia, non essendo nata ieri, ha presto capito che gli Occidentali non volevano la pace, bensì la guerra. Sicché, cinque giorni dopo la conclusione degli Accordi di Minsk, li ha fatti avallare dal Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione 2202; poi ha costretto l’oligarca russo Konstantin Malofeïev a ritirare i suoi uomini dal Donbass ucraino. Mosca ha inoltre fatto aggiungere alla risoluzione una dichiarazione in cui i presidenti di Francia, Ucraina, Russia e la cancelliera tedesca si facevano garanti dell’applicazione degli Accordi, impegnando i rispettivi Paesi.
Nei giorni successivi la firma degli Accordi il presidente ucraino Petro Poroshenko ha subito dichiarato che era fuori questione ogni cessione territoriale, anzi, gli abitanti del Donbass andavano puniti.
L’ex cancelliera Angela Merkel ha dichiarato a Die Zeit che con la firma degli Accordi voleva solo guadagnare tempo per permettere alla Nato di armare Kiev. Merkel ha chiarito la sua posizione in una discussione con un provocatore che si spacciava per l’ex presidente Poroshenko.
L’ex presidente François Hollande ha confermato al Kyiv Independent le affermazioni di Angela Merkel.
La Russia invece il 24 febbraio 2022 ha iniziato un’operazione militare speciale in ottemperanza alla “responsabilità di proteggere” assunta con la firma degli Accordi. Sostenere che l’intervento russo in Ucraina è illegale equivale a dire, per esempio, che l’intervento della Francia durante il genocidio in Rwanda era illegale e che si doveva lasciar continuare il massacro.
Le e-mail del consigliere speciale del presidente russo Putin, Vladislav Surkov recentemente rivelate dagli ucraini, non fanno che confermare questo svolgimento dei fatti. Negli anni successivi agli Accordi la Russia ha aiutato le Repubbliche ucraine del Donbass a prepararsi mentalmente all’indipendenza. Un’ingerenza illegale, ma che rispondeva a un’ingerenza altrettanto illegale degli Stati Uniti, che non armavano l’Ucraina bensì i nazionalisti integralisti ucraini. La guerra era già iniziata, ma combattuta solo da ucraini. Ha fatto 20 mila morti in otto anni. Gli Occidentali e la Russia intervenivano solo indirettamente.
Bisogna capire la portata di quanto affermato da Merkel e Hollande: fingendo di negoziare la pace hanno commesso il peggiore dei crimini. Infatti, secondo il Tribunale di Norimberga, i “crimini contro la pace” sono più gravi addirittura dei “crimini contro l’umanità”, perché non sono causa di questo o quest’altro massacro, ma sono causa della guerra. Per questa ragione il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha chiesto la convocazione di un nuovo Tribunale di Norimberga per giudicare Merkel e Hollande. L’istanza di Volodin non è stata diffusa dalla stampa occidentale.
L’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia del 16 marzo 2022 ha stabilito a titolo cautelativo che la “Federazione di Russia deve sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina” (rif.: A/77/4, paragrafi da 189 a 197). Mosca non ha ubbidito, ritenendo che la Corte fosse stata chiamata a giudicare sulla natura genocidaria di quanto perpetrato da Kiev contro la sua stessa popolazione, non sull’operazione militare finalizzata a proteggere la popolazione ucraina.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha da parte sua adottato molte risoluzioni, l’ultima è la A/ES-11/L.7 del 23 febbraio 2023 che afferma: “Si esige nuovamente l’immediato, completo e incondizionato ritiro di tutte le forze militari della Federazione di Russia dal territorio ucraino all’interno delle proprie frontiere internazionalmente riconosciute e si chiede la cessazione delle ostilità”.
Nessuno di questi testi dichiara l’intervento russo illegale. Entrambi ordinano o pretendono che l’esercito russo si ritiri. 141 Stati su 193 ritengono che la Russia debba cessare l’intervento. Alcuni di questi Stati giudicano l’intervento illegale, ma la maggior parte crede che “non è più necessario” ed è causa di inutili sofferenze. Non è affatto la stessa cosa.
L’ottica degli Stati è diversa da quella dei giuristi. Il diritto internazionale può sanzionare solo ciò che esiste. Gli Stati invece devono proteggere i cittadini dai conflitti che si profilano, prima che sia troppo tardi per porvi rimedio. Per questa ragione il Cremlino non ha ottemperato alle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Non si è ritirato dal campo di battaglia. Per otto anni ha infatti osservato la Nato armare l’Ucraina e preparare la guerra. Sa anche che il Pentagono sta pianificando una seconda puntata della guerra: in Transnistria. Quindi deve proteggere la popolazione da questa seconda operazione. Così come ha deciso la data dell’intervento in Ucraina sulla base di informazioni di un imminente un attacco di Kiev in Donbass, successivamente confermate, ora ha deciso di liberare tutta la Novorossia, Odessa inclusa. Una decisione inaccettabile giuridicamente fino a quando non ci saranno prove dei maneggi occidentali, ma sin da ora necessaria dal punto di vista della responsabilità.
Evidentemente queste ottiche diverse non sono sfuggite agli osservatori. Il fatto di giudicare l’intervento russo “non più necessario” non va confuso con il sostegno all’Occidente. Infatti solo 39 Stati su 191 partecipano alle sanzioni occidentali contro la Russia e inviano armi in Ucraina.

L’Ucraina è una “democrazia”
Il secondo cavallo di battaglia dei dirigenti occidentali è che l’Ucraina è una “democrazia”. Prescindendo dal fatto che il termine democrazia ha perso ogni significato perché le classi medie spariscono e il divario di ricchezza è il più importante di tutta la storia dell’umanità, e quindi è sempre più divergente dall’ideale di uguaglianza, l’Ucraina è tutto meno che una democrazia.
L’Ucraina è l’unico Paese al mondo ad avere una Costituzione razzista. L’articolo 16 stabilisce infatti che “Preservare il patrimonio genetico del popolo ucraino è dovere dello Stato”; un passaggio redatto da Slava Stetsko, vedova del primo ministro nazista ucraino.
Questo è il punto dolente. Almeno dal 1994 i nazionalisti integralisti (da non confondere con i nazionalisti tout court), ossia coloro che si richiamano all’ideologia di Dmytro Dontsov e ll’azione di Stepan Bandera, occupano alti ranghi nello Stato ucraino. Di fatto questa ideologia si è radicalizzata con il tempo. Durante la seconda guerra mondiale ha assunto un significato diverso rispetto alla prima. Fatto sta che dal 1942 Dmytro Dontsov fu uno degli ideatori della “soluzione finale delle questioni ebraica e zigana”. Fu amministratore dell’organo del III Reich incaricato di assassinare milioni di persone per la loro origine etnica, l’Istituto Reinhard Heydrich di Praga. Quanto a Bandera, fu il capo militare dei nazisti ucraini. Ordinò molti pogrom, nonché massacri di massa. Contrariamente a quello che sostengono i suoi attuali seguaci, non fu mai internato in un campo di concentramento, ma fu messo agli arresti domiciliari nella periferia di Berlino, nella sede dell’amministrazione dei campi di concentramento. Peraltro finì la guerra dirigendo le truppe ucraine agli ordini diretti del führer Adolf Hitler.
A un anno dall’inizio dell’intervento militare russo, in Ucraina si vedono simboli nazionalisti integralisti ovunque. Il giornalista di Forward, Lev Golinkin, che ha iniziato una ricognizione in tutto il mondo dei monumenti in memoria di criminali implicati nei crimini nazisti, ha redatto uno sbalorditivo elenco dei monumenti di questo tipo anche in Ucraina. Secondo Golinkin, sono quasi tutti di epoca successiva al colpo di Stato del 2014. È perciò evidente che le autorità uscite dal colpo di Stato fanno riferimento proprio al nazionalismo integralista, non al nazionalismo tout court. E per chi dubita che il presidente ebreo Zelensky celebri i nazisti, rammentiamo che due settimane fa ha conferito alla 10a Brigata d’assalto autonoma da montagna “il titolo onorifico Edelweiss”. Edelweiss fa riferimento alla 1a Divisione da montagna nazista che “liberò” (sic) Kiev, Stalino, i passaggi del Dnepr, nonché Karkiv.
Poche sono le personalità occidentali che hanno assentito alle affermazioni del presidente Putin e del ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, sulla questione. Tuttavia l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett e l’ex ministro della Difesa, Benny Gantz, hanno più volte dichiarato che l’Ucraina doveva sottostare alle ingiunzioni di Mosca almeno su questo punto: Kiev deve distruggere tutti i simboli nazisti esposti. Poiché Kiev si rifiuta di farlo, Israele non consegna armi all’Ucraina: nessun’arma israeliana sarà messa nelle mani dei successori dei massacratori di ebrei. Evidentemente questa posizione può mutare con il governo di coalizione di Benjamin Netanyahu, egli stesso erede dei sionisti revisionisti di Vladimir Jabotinsky che si allearono con i nazionalisti integralisti contro i sovietici.
L’attuale politica del governo di Zelensky è incomprensibile. Da un lato le istituzioni democratiche funzionano; dall’altro, non solo si celebrano ovunque i nazionalisti integralisti, ma sono stati vietati i partiti politici di opposizione e la Chiesa ortodossa che fa riferimento al Patriarcato di Mosca; sono stati distrutti milioni di libri perché scritti o stampati in Russia; sei milioni di ucraini sono stati dichiarati “collaboratori dell’invasore russo” e sono stati uccisi personaggi che li sostengono.
(traduzione di Rachele Marmetti)

 

Mediterraneo: epicentro del conflitto tra civiltà e barbarie atlantica

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

Siamo alle soglie di un’epoca di transizione. La guerra tra USA e Russia in Ucraina, con la relativa crisi energetica, così come la pandemia, a cui ha fatto seguito l’incipit della quarta rivoluzione industriale e della transizione ambientale, sono eventi destinati a sconvolgere gli equilibri geopolitici preesistenti e con essi, il modello economico – politico neoliberista globale. L’area mediterranea, già emarginata nel contesto geopolitico mondiale, è destinata ad assumere un ruolo di protagonista nel futuro nuovo ordine mondiale multipolare, scaturito dal declino dell’unilateralismo americano.
Dopo la fine del bipolarismo della Guerra fredda, le sponde mediterranee del sud e dell’est, oltre ad essere sconvolte dalle guerre mediorientali e dai conflitti delle “primavere arabe”, sono divenute l’epicentro delle migrazioni di massa provenienti dall’Africa e dall’Asia. Il fenomeno migratorio è del tutto connaturato al modello di sviluppo neoliberista globale, che prevede la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali. Pertanto, le migrazioni di massa, comprese le tragedie del mare, sono eventi che si inseriscono in un contesto socio – economico mondiale, in cui i paesi più arretrati vengono deprivati delle migliori risorse umane necessarie al loro sviluppo e i paesi più avanzati importano masse di lavoratori a basso costo al fine di comprimere i salari e rendere più competitive le loro economie nel mercato globale.
Con l’avvento della UE, l’asimmetria economica, culturale e politica tra l’Europa del nord e quella del sud si è accentuata. Allo sviluppo del nord Europa, ha fatto riscontro il depauperamento e la subalternità dell’Europa mediterranea e all’accentuarsi del sottosviluppo dei paesi del Nord Africa. Si è dunque determinata una scala gerarchica dello sviluppo e del potere politico tra il nord e il sud europeo in base ai parametri del sistema economico neoliberista.
Del resto, in virtù del primato dell’asse franco – tedesco in Europa, la UE è sempre stata concepita come una unificazione che avesse il suo baricentro economico e politico nell’Europa carolingia, con relativa marginalizzazione dell’area mediterranea e dei suoi rapporti con il MENA (Medio Oriente – Nord Africa). L’Europa ha sempre denunciato una grave carenza di visione strategica, nel concepire il Mediterraneo un’area integrata nelle logiche ideologiche e strategiche dell’Occidente, prima nel bipolarismo tra Oriente e Occidente scaturito dalla Guerra fredda e in seguito all’interno della divaricazione tra il Nord capitalista e il Sud sottosviluppato del mondo, sancita dall’ordine mondiale unilateralista americano.
La guerra russo – ucraina ha inciso profondamente anche nei rapporti di supremazia interni all’Europa. Con la fine della interdipendenza economica ed energetica tra la UE e la Russia, la Nato ha assunto il controllo politico e strategico dell’Europa, con il declassamento della potenza tedesca e la devoluzione della leadership europea all’Anglosfera britannico – scandinava e dei paesi baltici, con la Polonia assurta a prima potenza militare europea. Il baricentro strategico dell’Europa si è spostato a nord est, con il declassamento del Mediterraneo ad area marginale europea, anche a seguito del disimpegno americano nel MENA.
I mutamenti strategici della Nato in chiave russofobica, potrebbero favorire una maggiore libertà di azione dei paesi dell’Europa mediterranea, nella prospettiva di fuoriuscita dalla condizione post storica di irrilevanza geopolitica in cui oggi appare confinata. La subalternità europea alla Nato è sempre stata funzionale ai disegni imperialisti americani di estendere il proprio dominio assoluto nel Mediterraneo, concepito come lago atlantico. Ben altra configurazione geopolitica esso è invece destinato ad assumere nell’incipiente mondo multipolare. Attraverso il Mediterraneo transita il 28% delle forniture di idrocarburi del mondo ed il “Mare nostrum” è divenuto lo snodo strategico per l’accesso al Mar Rosso e all’area dell’Indo – Pacifico.
Il Mediterraneo è dunque destinato ad assumere il ruolo geopolitico di Medioceano, come ben descritto da Salvo Ardizzone nel suo saggio “Medioceano e Medio Oriente: appunti per un teatro cruciale”: “Il Mediterraneo è sempre stato area di scambi, mare di commerci e traffici per eccellenza ma, da alcuni anni, è evoluto a Medioceano, bacino allargato alle coste atlantiche del Maghreb e della Penisola Iberica a Occidente, fino al Corno d’Africa attraverso il Mar Rosso a sud-est, connessione fra l’area indo-pacifica e l’Atlantico. Di recente amputato del Mar Nero e delle crescenti connessioni con la Russia e l’Asia Centrale dal conflitto ucraino ma, a seguito di esso, elevato ad area di confronto-scontro fra Unipolarismo egemonico e Multipolarismo”.
Il Mediterraneo sarà infatti un’area di confronto tra gli USA e le potenze emergenti del BRICS, da cui dipende anche il suo destino di lago atlantico o di Medioceano. L’Occidente ha concepito il Mediterraneo come l’area dello “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington, quale necessario conflitto per affermare il primato americano nel mondo. In realtà, il conflitto è assai più profondo e non è solo bellico, ma anche culturale ed esistenziale per i popoli dell’area: tra globalismo e sovranità degli stati, cosmopolitismo e identità dei popoli, tra individualismo e comunitarismo, tra materialismo e fedi religiose.

Il pluriverso mediterraneo scomparso

Il Mediterraneo evoca un insieme di tradizioni storico – culturali che sono parte integrante della nostra identità, una sensibilità, una estetica, una concezione della vita e dell’uomo quali valori unificanti dei popoli dell’area.
Le radici storiche della nostra civiltà hanno origine nell’area mediterranea. Il Mediterraneo fu certo teatro di guerre e contrapposizioni tra Islam e Cristianesimo, ma tuttavia fu anche epicentro del connubio tra civiltà diverse, di scambi commerciali e terreno di confronto culturale, religioso, scientifico. L’area mediterranea rappresentò un pluriverso di civiltà, il cui incontro / scontro contribuì alla evoluzione e all’arricchimento dei valori culturali e religiosi dei popoli. Affermò intorno al 1100 Fulcherio di Chartres, nella sua “Historia Hierosolymitana”: “Ora, noi che fummo occidentali, siamo diventati orientali. Chi fu latino o franco, in questa terra è diventato galileo o palestinese. Chi fu cittadino di Reims o di Chartres, ora è diventato cittadino di Tiro o di Antiochia. Ormai ci siamo dimenticati dei nostri luoghi natii: la maggior parte di noi non li ha mai visti, o addirittura mai sentiti nominare. C’è chi già possiede le proprie case e i propri servi come se fossero cose tramandategli in eredità, e c’è anche chi ha preso in moglie non una compatriota, ma una siriana, un’armena e talvolta addirittura una saracena”.
In questo mondo multietnico, aperto alla integrazione tra i popoli, si generò un processo di assimilazione tra due culture: quella islamica, erede delle culture greco – giudaiche e quella europea, dall’identità romano – cristiana. Questa moltitudine di popoli, civiltà, fedi religiose diverse e contrapposte, diede vita ad una particolare simbiosi identitaria identificabile con quel pluriverso mediterraneo, la cui memoria storica oggi è quasi scomparsa. L’era della globalizzazione ha ridotto il Mediterraneo ad una entità geografica, identificabile dalle masse dell’Occidente con le suggestioni virtuali orientalistiche e con l’immagine mediatica dei villaggi turistici.
La disgregazione del Mediterraneo ha origini lontane. Tra l’800 e il ‘900 il MENA fu oggetto delle conquiste coloniali europee e tale dominio si accentuò con la dissoluzione dell’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Il processo di frantumazione del MENA si perpetuò anche in epoca post – coloniale, in concomitanza della Guerra fredda: la Turchia e i paesi del Golfo Persico furono integrati nell’Occidente americano, mentre Egitto, Libia, Siria e Algeria aderirono al blocco sovietico. Aggiungasi, che la fondazione dello stato di Israele generò uno stato di guerra permanente nell’area mediorientale.
Ma fu soprattutto la trasformazione della Nato da alleanza strategica difensiva ad apparato militare aggressivo a determinare un’insanabile frattura tra l’Occidente e il mondo islamico che coinvolse il Mediterraneo, le cui opposte sponde divennero teatro di un conflitto geopolitico ancora in corso. Il nuovo atlantismo si affermò sulla scorta di disegni strategici espansionisti americani su scala globale. Con gli attentati dell’11 settembre, gli USA intrapresero una strategia aggressiva di “guerra al terrorismo” che, oltre alle guerre “preventive” in Afghanistan e Iraq (a cui fecero seguito le aggressioni alla Libia e alla Siria), comportò un espansionismo politico ed economico che si estese anche all’area mediterranea. L’Europa, già emarginata nello status post – storico di irrilevanza geopolitica, divenne, con il moltiplicarsi delle basi Nato sul proprio territorio, una piattaforma strategica per l’espansionismo americano, estesosi, oltre che nel MENA, anche ai confini con la Russia, che, ritenendosi assediata e minacciata nella sua sicurezza dall’Occidente, ha poi invaso l’Ucraina.
Le “primavere arabe”, quale strategia della Nato volta alla destabilizzazione degli stati islamici del MENA, sono fallite. Anzi hanno costituito l’occasione propizia per l’inserimento di nuovi attori dalle mire espansionistiche nell’area mediterranea, quali la Turchia, la Russia, gli Emirati arabi. L’estromissione dell’Europa dall’area è ormai un dato di fatto. La sola Francia mantiene una presenza neocoloniale nei paesi del Sahel e parzialmente in quelli del Maghreb, sempre più osteggiata dai popoli dell’area e contrastata dall’espansionismo in Africa di Russia, Turchia e Cina.

Al disimpegno americano nel MENA, ha fatto riscontro la creazione di una nuova alleanza filoccidentale tra Israele e alcuni stati arabi in funzione anti iraniana, denominata “Patto di Abramo”. E’ stata costituita infatti, una nuova Nato mediorientale, in conformità del mutamento della strategia americana nella geopolitica mediorientale, che prevede l’implementazione di un dominio americano indiretto nel MENA. Questa nuova Nato mediorientale è comunque destinata a sfaldarsi, data la diversificazione delle strategie politiche delle potenze del MENA. Israele e la maggioranza dei paesi arabi sono contrari alle politiche sanzionatorie messe in atto dagli USA nei confronti della Russia e l’Arabia Saudita ha concluso rilevanti accordi economici con la Cina.
L’espansionismo americano concepisce il Mediterraneo come un lago atlantico. Ma il mondo multilaterale avanza. E potranno anche ricomporsi le fratture interne al Mediterraneo, a condizione però che l’Europa possa assumere un ruolo autonomo dalla Nato nell’area. Così si espresse Danilo Zolo al riguardo nel suo saggio “La questione mediterranea”: “Ma tutto questo può diventare possibile solo a un’ultima condizione: che l’Europa, ritrovate le sue radici mediterranee, si mostri capace di erigersi a soggetto internazionale, dotato di una forte identità culturale e politica e perciò libero dai vincoli dell’atlantismo e aperto alla collaborazione con il mondo islamico e al confronto con le potenze asiatiche emergenti. Queste sono le condizioni di un rilancio dell’unità, della originalità e della grandezza civile del Mediterraneo che possono essere ragionevolmente pensate come un’ <alternativa>”.

Il divario economico incolmabile tra l’Occidente e il MENA

Tra le sponde nord e sud del Mediterraneo esiste una evidente asimmetria economica e tecnologica. I paesi europei della sponda nord detengono l’80% del Pil complessivo dell’area mediterranea. E tale divario nello sviluppo ha costituito il pretesto per i progetti di colonizzazione economica del MENA da parte dell’Occidente. Il fenomeno migratorio ne è una tragica conseguenza. Il debito dei paesi arabi nei confronti della UE è aumentato a dismisura negli ultimi decenni.
Alla fine del XX° secolo fu avviato un programma di partenariato economico e per la politica di sicurezza tra la UE e i paesi del MENA, denominato “processo di Barcellona”. Tali accordi avrebbero dovuto condurre all’integrazione economica dell’area mediterranea, con la prospettiva di creare una Zona di libero scambio. Tuttavia tali progetti fallirono, data l’impossibilità per i paesi arabi, dalle economie troppo deboli, di sostenere la competitività con le economie dei paesi più avanzati della UE. Tali forme di cooperazione, nel contesto del sistema neoliberista globale si sono sempre rivelate un capestro i paesi sottosviluppati. Comportano inevitabilmente un indebitamento insostenibile e quindi l’imposizione da parte del FMI di manovre di aggiustamento strutturale che conducono fatalmente i paesi meno sviluppati al default.
Occorre inoltre rilevare che il MENA è afflitto anche dalla dipendenza alimentare dal nord del pianeta, che peraltro si è gravemente accentuata con la guerra russo – ucraina. La UE ha adottato da sempre politiche protezionistiche nel settore agricolo nei confronti del MENA. L’agricoltura dei paesi del sud europeo è da decenni falcidiata dalla concorrenza selvaggia del mercato mondiale, eppure, impone paradossalmente un regime protezionistico alle importazioni dal sud del Mediterraneo.
Il dialogo e la cooperazione tra i popoli del nord e del sud del mondo sono oggi impossibili, dato il differenziale di potenza economica e politica tra l’Occidente e gli stati sottosviluppati. Ma, con l’affermarsi del multilateralismo e la dedollarizzazione dell’economia mondiale, tale divario potrà senz’altro ridursi e il Mediterraneo, trasformatosi in Medioceano, potrebbe divenire assai determinate nella costituzione di un nuovo ordine mondiale. Solo infatti in un ordine multilaterale, in cui a tutti i popoli viene riconosciuta pari dignità, potrà esserci tra gli stati dialogo, cooperazione, pacificazione.

Decostruire il fondamentalismo atlantico

Le due sponde del Mediterraneo sono oggi separate da un abisso socio – culturale incolmabile. Il dialogo è reso impossibile dal fatto che l’Europa si identifica con i valori dell’Occidente. Pertanto, considerando l’Occidente l’incarnazione di valori universali e irrinunciabili, quali i diritti del’uomo, lo Stato di diritto, la liberaldemocrazia, il libero mercato globale, sulla base di tale primato, gli USA e la UE pretendono di imporre i propri valori ai paesi islamici, come a tutto il mondo. L’Occidente americano è dunque da considerarsi un nuovo eurocentrismo atlantico, che, quale civiltà superiore, si ritiene legittimato alla colonizzazione culturale, economica e politica del mondo islamico. In virtù della sua autoreferenza, l’Occidente americano impone al mondo il suo sistema ideologico – politico con sanzioni, propaganda mediatica e guerre umanitarie. Tra l’altro, l’Occidente americano vuole esportare con le armi un sistema democratico ormai degenerato in oligarchia finanziaria e tecnocratica e pertanto assai lontano dal modello originario della democrazia rappresentativa.
Tra le sponde del Mediterraneo è in atto da decenni un conflitto politico – ideologico in cui si contrappongono le modernità occidentale e i paesi islamici, la cui cultura si è rivelata incompatibile con il processo di globalizzazione cosmopolita e neoliberista imposto dall’unilateralismo americano. Anzi, la civiltà islamica si è rivelata un elemento di resistenza al dominio globale della superpotenza americana.
Due visioni del mondo in conflitto, che si rivelano inconciliabili in quanto gli USA sono una potenza geneticamente unilaterale, incapaci di concepire “l’altro da sé”. Un mondo composto da una molteplicità di culture e identità differenziate è per gli USA inconcepibile. All’ordine mondiale unipolare fondato sui diritti dell’uomo, dovrebbe subentrare un mondo multipolare basato sul primato dei diritti dei popoli. In un ordinamento in cui l’uomo, anziché essere considerato un’entità astratta, secondo i dettami dell’ideologia liberale, ma come in individuo appartenente e partecipe di una comunità strutturata su valori culturali, politici e religiosi identitari, potrebbero essere maggiormente tutelate le liberà individuali, i diritti delle minoranze e delle classi subalterne. Allo stesso modo, nel contesto geopolitico, il primato dei diritti dei popoli, conferirebbe pari dignità a tutti gli stati e pertanto si affermerebbe un ordine che garantisca la sovranità e l’indipendenza degli stati e salvaguardi le loro identità culturali, affrancando i popoli più deboli e meno sviluppati dalla schiavitù del debito, che costituisce oggi il principale strumento del dominio occidentale.
Nel Mediterraneo si sono scontrati due fondamentalismi contrapposti. Quello islamico è infatti un fenomeno sorto come reazione esasperata al fondamentalismo del mercato, dei diritti umani, del “destino manifesto”, quale valore identitario degli USA di origine veterotestamentaria. Occorre dunque che l’Europa decostruisca il fondamentalismo dei “valori occidentali” imposto dalla occupazione americana del secondo dopoguerra. Per istaurare un dialogo occorre che ad entrambi gli interlocutori venga riconosciuta pari dignità. Attraverso il dialogo con i popoli del MENA, l’Europa potrebbe ritrovare e riconoscere se stessa, riappropriandosi della propria memoria storica, riscoprire le sue radici identitarie (in primis il cristianesimo), le origini della sua cultura premoderna. Secondo quanto afferma Franco Cassano nel suo saggio “Necessità del Mediterraneo”: “Dal divieto dell’usura al forte rilievo dato ai doveri di assistenza agli altri membri della comunità, l’Islam può essere una sponda importante per decostruire un gioco che è alla base del fondamentalismo dell’Occidente, il solipsismo dell’individualismo radicale, l’apologia di un soggetto totalmente sradicato da qualsiasi legame sociale, un’idea della libertà sempre più anomica, costruita sul modello del consumatore più che su quello del cittadino”.
Dal dialogo con l’Europa gli stessi paesi islamici potrebbero ricavare idee e progetti per creare un modello di sviluppo e modernizzazione compatibile con la propria identità culturale onde far emancipare le loro società dalle attuali condizioni di arretratezza e sottosviluppo che hanno costituito un humus assai fertile per la proliferazione del fondamentalismo islamico.
L’Europa dovrebbe dunque effettuare una decostruzione del fondamentalismo americanista che ha determinato la dissoluzione progressiva della sua identità culturale. Ossia, dar luogo ad una rivoluzione culturale al suo interno, per assumere un ruolo da protagonista nell’era del mondo multipolare ormai alle porte. Il fondamentalismo atlantico è in una fase di declino irreversibile e la UE, mai esistita come entità geopolitica autonoma dalla Nato, è in via di progressiva dissoluzione. Così si esprime al riguardo Serge Latouche nel suo saggio “La voce e le vie di un mare dilaniato”: “Tuttavia, è proprio vero che l’Europa può rinnegare la sua progenie e sciogliere il legame di solidarietà con il “mostro” che essa stessa ha generato? A dispetto delle rivalità e degli antagonismi di ogni sorta, l’Europa resta profondamente complice e solidale con gli Stati Uniti. Per affermare e rafforzare la sua differenza, l’Europa dovrebbe ricollegarsi alle sue radici premoderne e precapitaliste, come la visione mediterranea, e ritrovare la sua parentela con il suo versante orientale e ortodosso che è sempre rimasto ai margini. Queste due Europe, del sud e dell’est, confinano con l’altro: il vicino, il medio, l’estremo Oriente e, soprattutto, confinano con il mondo musulmano nelle sue varianti turca, persiana, curda, mongola, berbera e araba. Gli scambi incessanti, anche violenti, e le complicità di ogni sorta hanno preservato sempre (o almeno per lungo tempo) queste parti d’Europa dall’autismo dell’Europa atlantica che sconfina nella dismisura americana”.
Questa Europa, oggi scristianizzata e ridotta a periferia atlantica, dovrà fuoriuscire dall’Occidente e, onde liberarsi dal dominio dell’Anglosfera oggi imperante nella UE, dovrà riscoprire la sua vocazione mediterranea per poi proiettarsi nel Medioceano.
Non si riscontrano tuttavia ad oggi segni premonitori di una possibile resurrezione dell’Europa dal baratro atlantico della post storia in cui è precipitata. Ma chi farà riemergere dall’oblio secolare il pluriverso mediterraneo?

Nota: I saggi di Danilo Zolo “La questione mediterranea”, di Franco Cassano “Necessità del Mediterraneo” e di Serge Latouche “La voce e le vie di un mare dilaniato” sono stati pubblicati nel libro di AA. VV. “L’alternativa mediterranea” a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo, Feltrinelli 2007.

Guerra Ucraina, cosa può succedere in caso di prolungamento o de-escalation?

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di Redazione Wall Street Italia

di Simone Borghi

A più di un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, mercati e investitori si chiedono come cambierà lo scenario nei prossimi mesi. Scontato dire che molto dipenderà dagli sviluppi del conflitto sia sul campo di battaglia che sul lato diplomatico. A questo proposito, gli esperti si dividono tra coloro che temono una guerra prolungata con un peggioramento della situazione geopolitica e quelli che credono in una de-escalation ancora possibile.

Innanzitutto, c’è da dire che i mercati non amano l’incertezza e ciò si visto dall’andamento dei listini a cavallo dei periodi di guerra e tensione geopolitiche. Ad apprendere dalla storia dell’ultimo secolo, la maggiore volatilità dei mercati è sempre stata dovuta all’incertezza del clima politico ed economico che precede l’esplosione di un conflitto importante. Gli investitori, infatti, non temono tanto le guerre quanto piuttosto la mancanza di controllo sugli eventi in corso.

A giudicare da quanto sta accadendo ai mercati globali in questo momento, che sono praticamente tornati sui livelli pre-conflitto, ci sono le premesse per supporre che anche il conflitto tra Russia e Ucraina determini conseguenze borsistiche coerenti a quanto avvenuto nella storia. Le ondate di volatilità che si sono viste sui listini sono una delle caratteristiche chiave del clima dei mercati nelle fasi subito precedenti o appena iniziali di un conflitto e storicamente tale clima si è sempre disteso a conflitto in corso i listini tornano invece a crescere. La storia insegna che le borse non “disdegnano” le guerre, ma la domanda che ci poniamo tutti è quando finirà il conflitto Russia-Ucraina.

Gli effetti di un prolungamento della guerra

La guerra senza fine potrebbe esacerbare la crisi energetica. È quello che pensano gli esperti di S&P Global Ratings, secondo cui c’è un rischio significativo che il conflitto militare tra Russia e Ucraina si protragga, esacerbando la crisi energetica dell’Europa, mentre i tassi d’interesse nei mercati sviluppati potrebbero essere costretti a salire ancora più bruscamente rispetto allo scenario di base, per mitigare le crescenti pressioni inflazionistiche. Ciò potrebbe portare a una recessione più profonda del previsto in Europa e, in misura minore, negli Stati Uniti, con un concomitante aumento della disoccupazione.

Considerando l’aumento dei rischi e la loro potenziale attuazione, S&P Global Ratings ha sviluppato uno scenario negativo, con una probabilità che si verifichi pari a uno su tre. In Europa, lo scenario negativo vedrebbe prezzi energetici elevati e razionamenti. La Bce sarebbe costretta a seguire la Fed a causa del deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, alimentando l’inflazione importata. Dal punto di vista borsistico, questo porterà al perdurare del clima di incertezza, che ai mercati proprio non piace, con ritorno di volatilità nel caso la situazione geopolitica peggiori.

Gli effetti di una de-escalation del conflitto

Uno scenario di de-escalation è quello invece prospettato dagli analisti di Barclays, i quali ritengono che qualsiasi forma di cessate il fuoco tra la Russia e l’Ucraina potrebbe ridurre la pressione sui mercati europei del gas, oltre che su quelle aziende che hanno un’esposizione più ampia alla Russia.

Guardando oltre, la storia degli ultimi cento anni ci insegna che il più delle volte i mercati reagiscono con grande forza alla fine di eventi dal grave impatto socio-economico. Il rimbalzo che solitamente si innesca a fine guerra viene dato dalla tempestività degli investitori nel modificare gli asset economici dalla fase bellica all’investimento post-bellico. Ed è tutta qui che si gioca la partita della ricostruzione.

Nei principali conflitti della storia i mercati azionari hanno impiegato circa 15 sedute per riprendersi. L’equilibrio dei mercati e le prospettive di ripresa sono in mano a tutte queste dinamiche, che gli investitori, anche nel caso del conflitto in corso, non possono ignorare.

Siamo costretti a scrivere quel che nessuno vuol dire

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di Gianfranco la Grassa 

Fonte: Gianfranco la Grassa

Siamo costretti a scrivere quel che nessuno vuol dire. Ci esimeremmo volentieri dal compito se nell’Informazione ci fosse almeno qualcuno capace di staccarsi dal coro per esprimere idee degne di merito. I media, chi più chi meno, sono  concordi nell’affermare che la guerra in corso ha un aggredito e un aggressore. Pure chi ha capito che così non si può andare avanti, che per Kiev è meglio trattare, che l’Occidente non può inviare armi sine die perché non conviene all’Europa, non lesina giudizi sprezzanti sul tiranno di Mosca e sulla sua invasione. Ma trattasi di menzogna bella e buona. Per otto anni gli ucraini hanno bombardato e discriminato le popolazioni russofone delle loro province orientali. Hanno colpito per primi e ora stanno subendo la reazione che deve essere sproporzionata per non prolungare le sofferenze di tutti e ben al di là di quel contesto ristretto. I mezzi d’informazione allora non c’erano, preferivano voltarsi dall’altra parte ma questo non significa che quegli avvenimenti non stessero accadendo. I giornalisti sono troppo abituati a fabbricare i fatti tanto da giungere a credere che se non sono loro a produrli questi non esistano. Dunque, da un lato abbiamo i filo americani che tifano per la guerra perché devono obbedire al padrone il quale garantisce la loro condizione e dall’altro i filo moralisti che s’illudono di trasformare la pace in un’arma.
Ma la pace non è nulla, non esiste se non come descrizione di illusi o retorici. Ciò che viene dopo qualsiasi conflitto acuto si chiama ordine. Questo può essere stabile o più labile, in ogni caso è sempre precario, non dura per sempre perché il conflitto è ineliminabile dalle nostre società e agisce come un flusso continuo anche e soprattutto sotto traccia. La pace perpetua è quello a cui gli uomini anelano perché sono posti di fronte al conflitto costante. Quest’ultimo è la realtà mentre la prima fa parte di un mondo immaginario ma agli esseri umani piace credere che il concreto sia solo una proiezione delle loro astrazioni.
L’inseguimento di questa pace universale può diventare un problema quando alimenta sentimenti di ignavia e di vagheggiamenti che rimbambiscono i popoli. Chi si serve di queste chimere generalmente strumentalizza la credulità altrui per bassi fini di consenso elettorale. I guerrafondai a rimorchio degli stranieri sono sicuramente una razza peggiore ma non sottovaluterei gli ipocriti dell’irenismo la cui volontà di obnubilare le menti non è da meno.
Pertanto è meglio essere chiari e precisi sul senso degli accadimenti. “Perché la guerra non è lo scatenamento di sentimenti disumani, un orrore ingiustificabile per esseri razionali come gli uomini. E’ invece il mezzo che alla fine diventa necessario per mettere di nuovo ordine (mai completo, ma accettabile) nell’organizzazione della formazione generale (mondiale). Quindi la guerra è una delle modalità della Politica.
Quando la guerra ha deciso il nuovo ordine mondiale, ha semplicemente definito la nuova gerarchia di potere tra i vari paesi, gerarchia che assicuri un periodo di “pace”, che non è altro che lo scatenamento di conflitti meno acuti e non condotti con mezzi di distruzione e di uccisione di molti esseri umani. Ma anche il conflitto detto “guerra” dovrà sempre esistere finché c’è vita. Una vera pace universale c’è solo con la morte generale di tutto ciò che esiste. Non c’è un solo organismo al mondo, fosse pure la piccola molecola, in cui non c’è conflitto finché c’è vita. Vogliamo infine capirlo? Questo non significa amare la guerra, che conduce certo a drammi e dolori di immane portata. Significa solo prendere atto e capire che il dramma e il dolore sono parte essenziale della vita in “questo mondo”. Chi crede nell’“altro”, rinvii a quello ogni speranza di pace e amore; e si rassegni a quanto avviene in questo mondo e vi prenda parte.

La Russia è di fronte ad un passaggio determinante

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di Gennaro Scala

Fonte: Gennaro Scala

La strategia della Russia è entrata in crisi ed ha dovuto proclamare la mobilitazione parziale dei riservisti dell’esercito. A causa dell’impossibilità di controllare i territori conquistati con l'”operazione speciale”, ovvero con l’utilizzo dei soli professionisti dell’esercito di fronte agli Ucraini che fin dall’inizio hanno decretato la coscrizione obbligatoria e che godono del sostegno dell’intero occidente. Questo è un passaggio molto importante, che ha causato una crisi. Da come verrà risolta dipende l’esito futuro del conflitto.
In un articolo su Ria Novosti si affrontava senza reticenze il fenomeno “massiccio” di coloro che sono fuggiti dalla Russia per evitare la chiamata alle armi. Tra le varie cause il commentatore (se il traduttore automatico ci restituisce bene il senso delle sue parole) individuava la cultura occidentale che ha fatto preso sulla Russia, ma anche le ingiustizie del sistema liberal-nazionale su cui si è attestata la Russia, merito alle quali il commentatore stesso ammette che c’è del vero. “Perché dobbiamo andare a combattere per lo Yacht di Abramovic?” La Russia ha affrontato difficoltà indicibili con le truppe naziste sul proprio territorio, tuttavia anche questa volta si trova ad affrontare un nemico molto insidioso. Il contatto e il rapporto con l’Occidente di questi anni, soprattutto con l’Europa, hanno avuto come contropartita la penetrazione del veleno ideologico occidentale soprattutto quello sviluppatosi quando gli Usa seppero diabolicamente trasformare la “controcultura” sviluppatasi durante la contestazione alla guerra in Vietnam in un veleno ideologico con cui infettare le nazioni, diffondendo un individualismo anti-comunitario, in cui vince la superiore capacità di corruzione.
La Russia è di fronte ad un passaggio, ogni passaggio comporta una crisi. Questo passaggio comporta anche la necessità di abbandonare il sistema liberal-nazionale. Il gruppo dirigente con Putin ha deciso di superare la crisi in avanti, rilanciando la lotta contro l’Occidente. Bisogna vedere se la società russa nel suo complesso seguirà il suo gruppo dirigente. Da ciò dipende la vittoria o la sconfitta della civiltà russa e della civiltà in generale.

Con che spirito andremo al voto

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Ci sentiamo perfettamente allineati con questo articolo di Marcello Veneziani: realistico, intelligente, pragmatico, giusto. Andiamo tutti a votare il 25 Settembre per sperare di togliersi dalla “Cappa”…L’articolo che segue nel prossimo post è di Matteo Castagna, che aggiunge particolari, ma nello stesso spirito di Veneziani.

QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Con che spirito affrontare questi due mesi di campagna elettorale e poi il voto? Gli entusiasti non hanno dubbi e per loro sarà facile schierarsi. Beati loro. Ma per i disincantati, quelli che ne hanno viste troppe, quelli che hanno uso di mondo, esperienza di uomini e situazioni, e sanno come va a finire, si tratta di mettere a freno il proprio scetticismo e provare a ragionare, cercando di trovare motivi in positivo.
Sul piano generale, il tema preliminare che si propone è triplice. Riportare la politica alla guida dei governi. Riportare i governi alla guida di stati sovrani. Riportare il popolo sovrano alla guida della politica. Queste premesse generali già dicono quali sono i pericoli da sventare col voto: i commissari straordinari che diventano ordinari e restano a tempo indeterminato; la sottomissione degli stati sovrani alle oligarchie transnazionali e ai loro interessi; la nascita di governi su mandato delle oligarchie (la cupola) e non dalla volontà liberamente espressa dai cittadini sovrani e degli interessi popolari.
Sul piano pratico e specifico, questa premessa generale si traduce in precise conseguenze: priorità assoluta è avere finalmente un governo che non sia guidato, determinato e influenzato dal Partito Democratico, che finora è stato l’asse di tutti i governi che non sono nati dal popolo, sorti nel nome dell’emergenza. Riportare finalmente il Partito Dragocratico, in sigla PD, fuori dal potere, se il verdetto elettorale lo indica in modo chiaro e netto; e con loro tutti i loro alleati, ascari, dependance e periferiche.
Seconda condizione per restituire dignità alla politica è liberarsi dei grillini che sono stati il punto più basso e indecente dell’antipolitica che si è fatta potere; grillini, ex-grillini, contorsionisti e trasformisti, dilettanti e invasati. Hanno fatto danni con la loro azione politica e le loro leggi; e, come ulteriore danno, hanno fatto rimpiangere la prima repubblica, rivalutando i vecchi partiti, e sono riusciti a rendere inaccettabile il populismo.

Da queste premesse derivano scelte di voto ben chiare. In un sistema bipolare rispetto a questi mali maggiori, il centro-destra è da considerarsi quantomeno il male minore. Non aspettarsi nulla da loro, non pensare che possano cambiare davvero le cose. Votare dunque per schivare o per schifare il peggio. Ma senza riporre speranze o fiducia nel centro-destra.
Per quel che ci riguarda, come sapete, non abbiamo risparmiato critiche anche severe ai singoli leader del centro-destra e alla coalizione intero. Personalmente mi sforzerò in questi due mesi di restare in apnea fino alle votazioni; di non prendermela col centro-destra, coi loro leader, candidati e classi dirigenti, con la loro credibilità e affidabilità. Saranno già massacrati dalla Grande Macchina del Potere in tutte le sue ramificazioni, e non ci aggiungeremo noi ad aggravare la pena. Anzi la campagna di linciaggio, già partita, accenderà la voglia di difenderli e di combattere la piovra scatenata dai cento tentacoli. Sarà prioritario buttar fuori dal potere i Dem, la cupola dei poteri cresciuta intorno a loro, più la galassia di alleati, complici, derivati annidati nei governi, nelle istituzioni, nella cultura, nell’informazione, nell’intrattenimento, nei poteri diffusi, nella magistratura e in tanti altri ambiti. E lo sciame di leggi che vorrebbero introdurre per snaturare definitivamente la nostra società. È triste votare contro, anziché a favore, benché il voto contro sia stata la molla prioritaria della politica in Italia, tra antifascismo e anticomunismo, antiberlusconismo e ora antisovranismo. Ma la spinta originaria della politica, lo insegnava Carl Schmitt sulla scia di Hobbes e Machiavelli, è il conflitto, le alleanze che si costituiscono per fronteggiare il Nemico.

Più facile sarebbe stato incoraggiare l’astensionismo, chiamare fuori e tirarsi fuori. E facile sarebbe sostenere piccole formazioni più radicali che raccolgono gli scontenti della destra, della lega, dei grillini: ma è una legge inevitabile della politica che la loro intransigenza è direttamente commisurata al momento nascente di opposizione radicale. Finché sono irrilevanti fanno la voce grossa. Se dovessero avere i numeri per diventare forza di governo, oltre a mostrarsi anche loro inadeguati, ripercorrerebbero gli stessi “tradimenti” che attualmente denunciano delle forze “vendute” al sistema.
Con ogni probabilità quelli del centro-destra cederanno su molte cose per sopravvivere, su alcune saranno inefficaci o intimiditi; alcuni si venderanno alla Cupola, se già non è successo. Ma lasciando il passo ai loro avversari, avremo non la probabilità ma la certezza che le priorità del Paese reale verranno calpestate. E dunque dovendo scegliere tra i nemici virulenti e gli inefficaci difensori, obtorto collo, preferiremo comunque, per realismo, i secondi. È ben chiaro che una scelta di questo genere è a sangue freddo, turandosi naso orecchie e gola, e talvolta anche tappandosi la vista. Condivido quasi tutte le critiche attualmente rivolte ai tribuni del centro-destra; le ho espresse fino all’altro giorno. Ma l’idea di battere o arginare un potere soffocante e avverso, all’insegna del politically correct e dei dettami della Cappa, è impellente e non consente diversioni e defezioni. Un atteggiamento del genere è distaccato e disincantato, ma non va incontro a delusioni perché non abbraccia illusioni. Una cosa sola vi chiedo: accogliete o respingete questo ragionamento ma non siate malpensanti. Possiamo sbagliarci ma non abbiamo mai sostenuto tesi per trarne personale profitto e non lo faremo certo ora, in età grave.
Altri invece, gli entusiasti, avrebbero preferito un fervorino per l’ordalia, un appello euforico alle armi. Vi capisco, ma non è il caso. Abbiamo i piedi per terra e ci limitiamo solo a opporci a chi ci mette i piedi in testa e ci vuole sotto terra.

La Verità (27 luglio 2022)

Gli USA vogliono liquidare Cina e Russia (un articolo profetico di Caracciolo)

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Segnalazione e commento di un noto veronese, da sempre attento alla geopolitica 

Si tratta di un articolo profetico di Lucio Caracciolo, di un anno e passa orsono (12/4/2021).Quando ancora non era sta imposta la Dittatura del Pensiero Unico che  impedisce di vedere:

il prima, ovvero le cause che hanno portato alla spedizione militare della Russia in Ucraina e

il dopo,  ovvero le conseguenze economiche per l’Italia derivanti dalle sanzioni alla Russia. Scordandoci per un attimo, il pericolo che corriamo per una reazione nucleare della Russia stessa contro l’Italia.

L’Italia, fornendo armi all’Ucraìna, diventa cobelligerante contro la Russia. Siamo anche un obiettivo militare, perché ospitiamo le basi missilistiche degli Usa. Per converso, non abbiamo “il dito sul grilletto” dei missili per una eventuale nostra difesa. Una eventuale reazione missilistica sarebbe nella discrezionalità degli USA, che se ne stanno comodamente al di là dell’Atlantico.

di Lucio Caracciolo, 12/4/2021

Gli Stati Uniti hanno deciso di buttare fuori pista la Cina entro questo decennio. La Cina ha giocato la carta russa per impedirlo, stringendo una quasi inedita intesa con la Russia. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale gli americani si trovano quindi a fronteggiare due grandi potenze, la seconda e la terza del pianeta, in una partita che segue ormai la logica di guerra. Somma zero.
In questo schema triangolare, Washington ha due opzioni per evitare il possibile scontro contemporaneo con entrambe le rivali. La prima, elementare secondo la grammatica della potenza, è di giocare la più debole contro la più forte: Mosca contro Pechino.
La seconda, più rischiosa, sta nel liquidare prima la Russia per poi chiudere il match con la Cina ormai isolata. Soffocandola nel suo angolo di mondo dove, senza più il vincolo con i russi, Pechino sarebbe completamente circondata: lungo i mari dalla linea India-Australia-Giappone teleguidata da Washington. Per terra da quasi tutti i vicini, India e Russia in testa.
È questa seconda ipotesi che comincia a circolare a Washington. E che Biden sta illustrando ai soci atlantici ed asiatici, perché certo da sola l’America non ce la può fare. Le risposte finora avute dai possibili o effettivi alleati sono abbastanza promettenti. Su tutti e prima di tutti, ovviamente i cugini britannici. Global Britain vive in simbiosi con gli Stati Uniti. La strategia geopolitica di Boris Johnson, appena licenziata, presenta quindi un profilo smaccatamente antirusso prima ancora che anticinese. Nella linea della tradizionale, atavica russofobia britannica. Ma con quel pepe in più che il Brexit e il conseguente allineamento totale a Washington impongono.
Il «brillante secondo» ha risposto sì all’appello del Numero Uno: pronti a far fuori la Russia, con le buone o con le cattive.
Siccome lo scontro antirusso sarebbe tutto giocato in Europa, e più specificamente in quella parte mediana del continente che separa la Germania dalla Russia – sicché nella storia è stata spesso spartita fra i due imperi – il sì di polacchi, baltici e romeni è particolarmente squillante. Dopo aver inflitto nel 2014 una sconfitta storica a Putin, trovato con la guardia bassa in Ucraina e quindi ormai costretto nel ridotto crimeano e nel Donbas – dove le truppe di Mosca sostengono discretamente i ribelli anti-Kiev – i paesi della Nato baltica e russofoba sentono prossima la vittoria. Che per loro, come per gli americani, significa la disintegrazione della Russia. Sulle orme del collasso sovietico del 1991.
La pressione atlantica, diretta dagli americani e sostenuta dai britannici, si concentra su tre quadranti: Baltico, Nero e Caucaso.
Nel Baltico le basi americane e atlantiche sono rafforzate e ancor più lo saranno nel prossimo futuro. Per esempio in Polonia, dove non ci sarà più «Fort Trump» – una base avanzata americana intitolata all’allora presidente della Casa Bianca – ma ci saranno certamente dei «Fort Biden», di nome e/o di fatto. Intanto, per chiarire come stanno le cose, Washington è decisa a interrompere in un modo o nell’altro il progetto di raddoppio del gasdotto Nordstream, ormai quasi completato. Simbolo della cooperazione sotterranea – nel caso, sottomarina – fra Berlino e Mosca che ogni tanto emerge dai suoi percorsi carsici, e che per Washington come per Varsavia è il Male assoluto. La definizione che l’ex ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski diede di quel tubo subacqueo – «gasdotto Molotov-Ribbentrop» – fotografa questo punto di vista. Non per caso Washington ha inviato navi da guerra a pattugliare le acque dove quel vincolo energetico fra Russia e Germania sta finendo di materializzarsi.
Sul fronte del Mar Nero, gli ucraini stanno spostando armi e truppe verso il Donbas, mentre i russi stanno facendo lo stesso in direzione opposta e contraria. La tensione attorno alla Crimea ma anche nell’area di Odessa sta salendo. Per terra e/o per mare potrebbero accadere «incidenti» dagli effetti imprevedibili. Con i romeni pronti a farsi valere, e ad accogliere eventuali contingenti Nato (anche per risolvere la loro questione moldova-transnistriana, un pezzo di Romania che Bucarest considera intimamente proprio, solo provvisoriamente indipendente).
Tra Nero e Caucaso, dopo gli scontri per il Nagorno-Karabakh rischia di riesplodere anche la polveriera georgiana. Qui, fra l’altro, la filiera jihadista resta un fattore non trascurabile. Se necessario, americani e altri occidentali potrebbero eccitarla contro Mosca, sulla falsariga dell’Afghanistan negli anni Ottanta.
E la Russia? Non va troppo per il sottile. In caso fosse alle strette, Mosca sarebbe pronta alla guerra. Perché ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza. Nel frattempo, come da antico costume, si preoccupa di allacciare o riallacciare relazioni proficue con Germania, Francia e Italia, i tre principali paesi continentali, che non hanno mai condiviso la passione antirussa degli ex satelliti dell’Urss. I prossimi mesi ci diranno se questa crescente pressione americana, via Nato, sulla Russia, sarà contenuta o se, magari inavvertitamente, produrrà la scintilla di un conflitto dalle imponderabili conseguenze.”
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