La Germania esporta la sua crisi in una Europa in via di dissoluzione atlantica

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

La retorica dell’Europa unita, delle risposte comuni e della solidarietà europea indispensabile per affrontare le emergenze, si infrange dinanzi al piano di 200 miliardi stanziati dalla Germania per far fronte al caro energia e proteggere quindi famiglie ed imprese tedesche dagli effetti dei rincari energetici. I 200 miliardi di finanziamenti erogati dalla Germania contro il caro energia e l’inflazione (che si aggira attualmente intorno al 10%), costituiscono un programma di aiuti pubblici unilaterali. L’importo di 200 miliardi equivale al totale dei fondi del Pnrr concessi all’Italia in 6 anni e supera del 40% i 140 miliardi di entrate previsti per la tassa sugli extra profitti delle imprese energetiche. Tale manovra sarà finanziata dal Fondo di stabilizzazione dell’economia, ma sarà esclusa dal bilancio ordinario, così come gli investimenti di 100 miliardi stanziati dalla Germania per il riarmo. Pertanto, secondo la prassi tedesca ormai consolidata del ricorso agli artifici contabili, tali finanziamenti non costituiranno nuovo debito pubblico.

Chi sanzionerà la Germania?
Non si comprende tuttavia lo scalpore destato in sede europea dall’unilateralismo prevaricatore tedesco, da sempre praticato nella UE, in aperta violazione delle normative europee e a danno degli altri partner. Il ventennale primato tedesco in Europa si è potuto realizzare infatti solo mediante la sistematica violazione delle norme europee. La UE si è di fatto un’area unitaria di espansione economica tedesca.
L’export tedesco ha invaso l’Europa e destrutturato le economie degli altri paesi membri ignorando i limiti imposti ai surplus commerciali dai trattati europei. Le norme sulla concorrenza e sul divieto di aiuti di stato sono state da sempre eluse dalla Germania che, con il ricorso ai finanziamenti pubblici ha realizzato il salvataggio di un sistema bancario già inondato da titoli spazzatura e prossimo al default a seguito della crisi dei subprime del 2008. La Germania, con larghi sforamenti dei parametri di bilancio della UE, nel 2003 ha erogato sussidi a pioggia per sostenere la sua industria. La stessa Germania, con massicce concessioni di “credito facile” ai paesi del sud europeo ha provocato crisi del debito devastanti, salvo poi imporre alla Grecia politiche di austerity e rigore finanziario con annessa macelleria sociale, al fine di rientrare dei crediti insoluti.
La crescita esponenziale dell’export tedesco è inoltre dovuta alla adozione della moneta unica europea. Dato che la quotazione dell’euro sui mercati dei cambi dipende dall’andamento complessivo delle economie dell’intera Eurozona, l’export tedesco ha potuto giovarsi di un tasso di cambio assai favorevole, dal momento che il valore dell’euro è assai inferiore a quello che avrebbe avuto il marco. Al contrario la moneta unica penalizzato l’export dell’Italia, che con l’euro non ha più potuto giovarsi della flessibilità dei cambi.
La UE non ha prodotto crescita e stabilità in Europa, ma ha generato un trasferimento di ricchezza dal sud al nord dell’Europa e pertanto, alla crescita tedesca ha fatto riscontro il declassamento dei paesi più deboli.
Il primato tedesco è dunque frutto di una politica economica fraudolenta messa in atto dalla Germania. Ma chi, ieri come oggi, è in grado di sanzionare la Germania?

Il rapace nazionalismo tedesco e la dissoluzione prossima della UE
Lo stesso paradigma si ripropone nell’emergenza energetica. Il piano di finanziamenti tedesco di 200 miliardi è palesemente una erogazione di fondi pubblici a sostegno dell’economia tedesca in crisi, falcidiata dal caro energia e dall’inflazione. Si deve considerare che tutti i paesi della UE nelle fasi di crisi (sia pandemica che energetica), hanno fatto ricorso a programmi di sostegni pubblici. Emerge però una scandalosa sproporzione circa l’entità dei finanziamenti pubblici effettuati dai singoli paesi dal settembre 2021 al settembre 2022: la Germania ha stanziato 384,2 miliardi, la Gran Bretagna 238,4, la Francia 81,3, l’Italia 73,2, la Spagna 35,5.
Si rileva quindi che si è instaurata una vera e propria competizione tra gli aiuti di stato erogati dai singoli paesi, in cui gli effetti distorsivi della concorrenza hanno favorito le posizioni economiche dominanti della Germania e dei suoi alleati, a danno comunque dei paesi più deboli. L’Italia infatti ha ristretti spazi di manovra di bilancio a causa dell’elevato debito pubblico. L’economia italiana, inserita nella catena di valore dell’industria tedesca, si rivela particolarmente vulnerabile, dato che sarà penalizzata nella sua competitività, a causa dei più elevati costi energetici a carico delle imprese italiane. La Germania ha giustificato tale misura unilaterale di sostegno all’economia sulla base dei grandi spazi di manovra di bilancio, resi possibili dalla sua proverbiale virtuosità finanziaria rigorista. Ma certo è che la sua potenza finanziaria si è potuta realizzare mediante l’espansione dell’export e quindi in virtù di surplus commerciali prodottisi a discapito dell’Italia e di altri paesi.
La UE è dunque succube degli egoismi prevaricatori dei paesi economicamente più forti. La sua disunione è apparsa evidente nel rifiuto della Germania di aderire alla iniziativa dell’Italia, della Francia e di altri paesi per la fissazione di un tetto europeo al prezzo del gas. La Germania infatti, oltre a sostenere la sua economia con un gigantesco piano di aiuti pubblici, può giovarsi dei contratti a termine tuttora in vigore (ma in scadenza a fine anno), con la Russia per forniture di gas a basso prezzo.
L’Olanda ha espresso il suo rifiuto sia al price cup che alla proposta di disallineamento del prezzo del gas da quello dell’energia elettrica. L’Olanda è ovviamente intransigente, dati gli enormi profitti speculativi realizzati con il rialzo delle quotazioni dei titoli energetici alla borsa di Amsterdam. E la crisi energetica, come si sa, non è dovuta alla guerra ma alla speculazione finanziaria sul prezzo del gas.
La Norvegia, che non è membro della UE ma della Nato, ha innalzato il prezzo dell’esportazione di gas fino al 70% e il suo fondo sovrano ha ricavato profitti per circa 80 miliardi. Nella guerra e nella crisi esiste quindi una parte dell’Europa che si arricchisce a spese dell’altra.
E’ stata spesso esaltata la compattezza unitaria dimostrata dall’Europa dinanzi alla crisi pandemica, con la creazione di un debito comune europeo, con il varo cioè del Recovery fund. Ma sulla politica vaccinale della UE incombono ombre assai oscure. Si è rilevata la scarsa trasparenza delle trattative intercorse tra la Von der Leyen e il presidente della Pfizer Albert Bourla in merito all’acquisto dei vaccini, svoltesi attraverso una corrispondenza avvenuta tramite sms il cui contenuto è stato inspiegabilmente cancellato. Bourla non si è poi presentato per testimoniare dinanzi alla commissione sul Covid del parlamento europeo, che sta svolgendo indagini su tali trattative. E’ emerso altresì un palese conflitto di interessi che investe la Von der Leyen, il cui marito è dirigente della Orgenesis, società del settore biotech controllata dai fondi di investimento Vanguard e Black Rock, che a loro volta controllano anche la Pfizer. Il Recovery fund fu inoltre ostacolato dalla opposizione dell’Olanda e dei paesi frugali, che diedero il loro assenso in cambio della concessione nei loro confronti di sgravi fiscali da parte della UE.
Analoga politica non è stata invece replicata in occasione della crisi energetica. A causa della opposizione tedesca non verrà creato alcun fondo europeo a sostegno dei paesi in difficoltà per il caro energia. Dato che non verrà alla luce alcun fondo comune europeo per l’energia, ogni paese europeo dovrà far fronte alla crisi con le proprie risorse. I paesi della UE non sono produttori di materie prime né potenze finanziarie di rango mondiale. L’Europa ha costruito la sua potenza economica sull’industria manifatturiera. Quindi dovrà affrontare la crisi energetica mediante scostamenti di bilancio e manovre in deficit. Ma è evidente lo squilibrio di risorse finanziarie disponibili da parte della Germania rispetto agli altri paesi per implementare politiche fiscali atte a contrastare efficacemente l’impatto di questa crisi.
E’ dunque lecito definire la politica economica di Scholz come una forma di rapace nazionalismo fiscale che condurrà fatalmente alla dissoluzione di fatto della UE.

La Germania esporta la sua crisi
La guerra tra USA e Russia in Ucraina ha comportato un drastico ridimensionamento sia geopolitico e economico della Germania. La potenza economica tedesca ha potuto svilupparsi mediante la crescita del suo export, le forniture di gas russo a basso prezzo e le delocalizzazioni industriali nell’Europa orientale. La guerra e le successive sanzioni imposte alla Russia stanno determinando progressivamente la fine dei legami economici ed energetici tra la Germania e la Russia stessa. La guerra in Ucraina ha provocato parallelamente l’interruzione della via della seta su rotaia che collega la Cina con l’Europa (traversando l’Ucraina), e pertanto, sia l’export tedesco che le catene di approvvigionamento di semiconduttori, di materiali tecnologici e infrastrutturali per l’industria hanno subito un drastico tracollo. Il modello economico tedesco basato sull’export è in via di dissoluzione.
Questa guerra ha quindi indotto la Germania ad effettuare un suo riposizionamento sia economico che geopolitico nell’ambito della Nato. Scholz, in considerazione della scelta di campo atlantica e del ridimensionamento del ruolo economico e geopolitico della Germania, vuole tuttavia riaffermare il primato tedesco in Europa.
Con la crisi energetica la Germania ha imboccato la via della recessione. A causa dell’aumento dei prezzi del gas, l’inflazione si attesterà all’8,4% nel 2022 e all’8,8% nel 2023. Il Pil tedesco è in calo, la crescita si ridurrà nel 2022 all’1,4%, mentre nel 2023 è previsto un calo dello 0,4%. L’indice della fiducia dei consumatori (Esi), registra un calo di 3,5 punti ed ha raggiunto i minimi storici.
Scholz pertanto, dinanzi alla recessione incombente, al dissenso dilagante nell’opinione pubblica e alle scadenze elettorali prossime in alcuni laender tedeschi, ha varato questo piano di aiuti per 200 miliardi di fondi pubblici destinati alle imprese e ai cittadini onde far fronte al caro energia. Data la sperequazione dei costi energetici che si verificherà tra le imprese tedesche e quelle degli altri paesi della UE, la Germania ha messo in atto una manovra shock che si configura come una gigantesca operazione di dumping industriale e finanziario ai danni del resto dell’Europa. L’intento di Scholz è quello di arginare il declassamento economico della Germania scaturito dalla chiusura dei principali mercati dell’export tedesco e al rilevante calo di competitività subito dall’industria tedesca nei confronti del mercato americano. Il rafforzamento dell’export tedesco in Europa, realizzato manovre atte a produrre rilevanti distorsioni della concorrenza, sarà sufficiente a far fronte alla recessione interna e a colmare le perdite subite dall’export verso la Russia e i mercati asiatici? Certamente no. Il dumping tedesco infatti avrà solo l’effetto di esportare nella UE la sua stessa crisi. La recessione europea produrre solo decrementi della domanda che si ripercuoteranno negativamente anche sull’economia tedesca.
L’Italia è particolarmente esposta alla concorrenza sleale della Germania. In una Italia, già depauperata nella sua struttura industriale da decenni dalle manovre aggressive franco – tedesche, potranno verificarsi con la recessione incombente nuove crisi del debito, a cui faranno seguito rinnovate politiche di austerity. In tale contesto, si riproporranno nuove iniziative aggressive della Germania, da sempre ansiosa di appropriarsi del patrimonio immobiliare e del risparmio italiano, che è tra i più elevati d’Europa.

La strategia americana di aggressione all’Europa
L’Europa non sarà certo smembrata dalla politica di ricatto energetico di Putin, ma da un processo di decomposizione interna già in stato avanzato.
Occorre inoltre rilevare il silenzio doloso della Von der Leyen riguardo alle iniziative di nazionalismo predatorio della Germania. Si è solo limitata a retorici appelli all’unità della UE. Quella stessa Von der Leyen che ha sanzionato il sovranismo dell’Ungheria di Orban e si è resa responsabile di gravi ed indebite ingerenze nelle elezioni italiane affermando che “se le cose andranno in direzione difficoltosa, abbiamo gli strumenti per agire”, ora tace nei confronti del nazionalismo predatorio di Scholz.
In realtà, con la fine della Guerra fredda e l’espansione della Nato nell’est europeo, è venuta meno la rilevanza del ruolo strategico della Germania nel contenimento della Russia. Tale ruolo è oggi ricoperto dalla Polonia e dai paesi baltici che confinano direttamente con la Russia.
La guerra tra USA e Russia in Ucraina ha determinato il riposizionamento geopolitico dell’Europa nell’ambito della Nato in funzione russofobica. Ma, in perfetta coerenza con la strategia geopolitica americana, si sta verificando anche la decomposizione interna della UE. L’Europa, priva di una soggettività geopolitica autonoma nel contesto mondiale, ridimensionata nella sua potenza economica e resa dipendente dagli USA nel campo energetico, non potrà che frantumarsi progressivamente, dilaniata dalle conflittualità interne. Il declino dell’euro ne è una prova evidente. L’euro si sta svalutando nei confronti del dollaro a causa della politica antinflazionistica messa in atto dalla FED che comporta rialzi progressivi dei tassi di interesse. E i rialzi dei tassi deliberati dalla BCE avranno effetti devastanti su una economia europea in fase di recessione. Questa rincorsa della BCE ai rialzi dei tassi americani finirà col dissanguare l’Europa.
La strategia imperialista americana di aggressione all’Eurasia implica la destrutturazione dalla UE. La crisi economica incombente si tramuterà presto in crisi politico – istituzionale che coinvolgerà tutti i paesi europei. Esploderà anche una conflittualità sociale alimentata dall’accentuarsi delle diseguaglianze che si rivelerà insanabile. Emergeranno ben presto le responsabilità delle classi politiche riguardo alle suicide scelte atlantiste dell’Europa. Solo dalla dissoluzione interna della UE e dalla implosione del modello neoliberista potrà emergere la nuova Europa dei popoli e delle patrie europee. E’ questa una utopia? Ebbene, solo questa utopia può salvarci.

Dopo il covid, il virus dell’inflazione ritorna e si espande

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

L’inflazione, già invocata per anni dalla crisi del 2008, è infine arrivata insieme con la ripresa post – pandemica. E’ tornato, dopo il covid, il virus dell’inflazione, che rischia di contagiare tutto il mondo. Nella fase pre covid, nella UE, nonostante le erogazioni di liquidità della BCE, deliberate prima da Draghi e poi da Lagarde, l’inflazione non era mai riuscita a stabilizzarsi ai livelli prefissati del 2%. In Europa cioè, la ripresa dal 2008 in poi non si era dimostrata sufficiente per superare la lunga fase deflattiva generata dalla recessione.
Era comunque da considerarsi fisiologica la comparsa dell’inflazione nella fase post pandemica, a seguito di una ripresa della produzione non ancora sufficiente a coprire l’eccesso di domanda determinatosi in virtù della massa di liquidità erogata dalle banche centrali a sostegno di famiglie e imprese colpite dalla pandemia. Si prevedeva però che la comparsa dell’inflazione sarebbe stata temporanea e che essa sarebbe stata assorbita rapidamente dalla crescita dell’economia con la ripresa post – pandemica. Tuttavia tali previsioni sembrano essere state smentite dal perdurare dell’ondata inflattiva. Il presidente della FED Jerome Powell al Senato americano ha dichiarato: “È il momento di rinunciare all’aggettivo ‘transitoria’ riferito all’inflazione”. Negli USA il tasso di inflazione si attesta al 6,2%, un record negli ultimi 30 anni. Nell’area euro il tasso di inflazione medio è salito dal 4,1% di ottobre al 4,9% di novembre, con la punta massima del 6% in Germania, mentre in Italia si attesta al 3,8%, che è comunque la più alta percentuale registratasi dal 2008.
Tra le cause del fenomeno inflattivo si rileva l’eccesso di domanda in una fase di ripresa produttiva ancora limitata, il rincaro dei prezzi delle materie prime, l’aumento dei costi nel settore immobiliare e la prolungata carenza di forniture nelle economie avanzate. Secondo le previsioni del FMI, l’inflazione crescerà ancora nei prossimi mesi per poi ridursi a metà 2022 al 2%: “Le nostre previsioni sono per un picco dell’inflazione annuale nelle economie avanzate al 3,6% in media nei mesi finali di quest’anno, prima di regredire nella prima metà del 2022 al 2%, in linea con gli obiettivi delle banche centrali. I mercati emergenti vedranno aumenti più rapidi e l’inflazione raggiungerà il 6,8% in media, per poi scendere al 4%. Le proiezioni, però, sono accompagnate da una considerevole incertezza e l’inflazione potrebbe restare elevata più a lungo”. Da tali previsioni emergono però fondati motivi di incertezza riguardo agli sviluppi della crescita economica nel quadro globale. Il FMI rileva inoltre che i prezzi dei prodotti alimentari, aumentati con la pandemia del 40%, sono destinati ad incidere particolarmente nelle economie dei paesi in via di sviluppo, in cui la spesa alimentare costituisce la percentuale largamente maggioritaria dei consumi.
Questo repentino riaccendersi della spirale inflattiva è dunque assai preoccupante, per la sua incidenza su economie che non hanno ancora recuperato i livelli di Pil della pre – pandemia. Aggiungasi inoltre che l’economia europea già prima della pandemia non era riuscita a recuperare i livelli di crescita anteriori alla crisi del 2008.
L’emergere di una inflazione “non transitoria”, come affermato da Powell, richiederà dunque l’attenuarsi, se non la cessazione, delle misure espansive e si prospetta negli USA una accelerazione del “tapering”, la diminuzione progressiva cioè degli acquisti di titoli da parte della FED. Allo stato attuale nella UE, la BCE ha adottato un atteggiamento ispirato alla prudenza: si giudica prematuro il taglio dei sostegni fiscali in una fase economica di ripresa dominata dall’incertezza. Ma è comunque avvertito il rischio di una ondata inflattiva prolungata che potrebbe pregiudicare la ripresa. E’ altresì evidente che un taglio drastico delle misure espansive negli USA, accompagnato dall’aumento dei tassi di interesse, coinvolgerebbe anche l’Europa, data la interdipendenza delle economie su scala globale. E’ tuttavia prevedibile che le attuali leggi bilancio espansive non potranno essere replicate dal 2023 in poi, con il concreto rischio per la UE di un ritorno a politiche di austerity che avrebbero effetti devastanti su una ripresa ancora fragile.
L’aumento dei tassi determinerebbe infatti l’ulteriore espandersi del debito pubblico degli stati (in particolare dell’Italia, il cui debito è pari al 157% del Pil), già incrementatosi a dismisura nella fase pandemica. Una inflazione prolungata inoltre, comporterebbe la svalutazione dei fondi europei del Pnrr, i cui effetti sugli investimenti verrebbero gravemente compromessi.
In Italia non saranno certo gli sconti fiscali della recente riforma, né i fondi stanziati per far fronte al caro – bollette, a compensare la perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni che verrà decrementato dal rincaro di prezzi e tariffe. Afferma Luca Ricolfi in un articolo su “La repubblica” del 01/12/2021: “Per capire perché, dobbiamo fare i conti con il convitato di pietra del dibattito sulla legge di bilancio: l’inflazione. Se ne parla ancora poco, ma la realtà è che già oggi l’inflazione ha rialzato la testa (+3,8%, secondo le ultime stime dell’Istat) e nessuno sa ancora se il rialzo sarà temporaneo o permanente. Ma, a parità di altre condizioni (ossia: se i redditi nominali restano fermi), una inflazione anche solo del 3% significa una perdita di potere di acquisto di circa 30 miliardi, che assorbirebbe completamente gli 8 miliardi di sgravi promessi. Siamo come commensali che litigano sugli antipasti, senza accorgersi che qualcuno si sta portando via il resto del pranzo”.
Questa ondata di inflazione incombe peraltro su di un paese devastato, oltre che dalla pandemia, dalle sciagurate politiche deflattive dell’austerity, che hanno determinato l’accentuarsi progressivo delle diseguaglianze, la precarietà del lavoro, fratture sociali insanabili, tagli drastici del welfare.
Nonostante le politiche espansive messe in atto dalla BCE per far fronte alla crisi pandemica e le previsioni di crescita del Pil italiano per il 2021 del 6,3%, a novembre si è registrata una flessione dell’indice di fiducia dei consumatori, a causa del clima d’incertezza riguardo alle attese legate all’evolversi della situazione economico – sociale italiana. Permane dunque una percezione negativa nella popolazione riguardo al futuro dell’Italia. Tale orientamento, pessimistico nella sostanza, incide negativamente sulla propensione al consumo a sugli investimenti. Occorre tener conto peraltro che l’Italia è più povera rispetto al 2007 e la sfiducia induce a contenere i consumi, alimentando anche la propensione al risparmio (almeno per quella parte sempre più esigua della popolazione che dispone ancora di quote di reddito da destinare al risparmio). Sugli stessi investimenti incombe l’incertezza delle prospettive economiche. Per i mutui di nuova concessione si registra infatti l’incremento del tasso medio di interesse dall’1,25% del 2020 all’1,42% del 2021. Tale rialzo dei tassi è dovuto ad una politica bancaria volta a cautelarsi rispetto agli eventuali aumenti dei tassi che si verificherebbero qualora l’ondata inflattiva si protraesse nel tempo.
Gli aumenti delle tariffe non saranno certo temporanei. Infatti, al di là della crisi pandemica, si verificherà nel tempo un aumento progressivo del consumo di elettricità. Con la transizione ambientale, le auto elettriche sostituiranno quelle a diesel e benzina. E’ documentato che se oggi tutte le auto in circolazione a Milano fossero elettriche, non si sarebbe più in grado nemmeno di accendere un interruttore della luce. Occorrerà pertanto produrre grandi quantità di energia elettrica aggiuntiva. Ma al momento, non si sa come e a quale prezzo. La transizione ambientale verso le energie rinnovabili richiederà tempi lunghi e l’impiego di ingenti risorse pubbliche e private. Ma a quali costi, per una popolazione già depauperata da decenni di crisi economiche e pandemiche? Quanto potranno incidere i nuovi investimenti su una crescita economica oggi fragile e precaria? Domande allarmanti cui nessuno fornisce risposte adeguate.
L’inflazione tuttavia potrà incidere positivamente sul peso degli interessi del debito pubblico. A tal riguardo, così si esprime Luca Ricolfi nell’articolo de “La Repubblica” sopra citato: “La seconda ragione per cui ritengo verosimile, almeno nel breve periodo, il permanere di un’inflazione elevata, è che l’inflazione stessa è un formidabile strumento per alleggerire il peso del debito pubblico. L’inflazione, prima o poi, trascina con sé un aumento dei redditi monetari, che gonfia il Pil nominale e così contribuisce a ridurre il rapporto debito – Pil, da cui dipende la sostenibilità dei nostri conti pubblici”.
Occorre comunque rilevare che il costo dell’inflazione ricade sui cittadini, specie sulle fasce più deboli, che subiranno rilevanti decurtazioni su salari e risparmi. L’inflazione determina inoltre un incremento solo monetario dei redditi e pertanto può produrre, in termini reali, un aumento della pressione fiscale (fiscal drag), qualora non si provveda ad una costante rimodulazione delle aliquote fiscali. Un esempio paradigmatico del costo dell’inflazione sostenuto dai lavoratori ci viene fornito dagli effetti prodotti dalla soppressione della scala mobile avvenuta nel 1992 con il governo Amato. Fu infatti soppresso il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo, al fine di eliminare la spirale inflattiva. Ma al blocco delle retribuzioni non corrispose il congelamento dei prezzi e pertanto, furono solo i redditi dei lavoratori a subire l’erosione del potere d’acquisto delle retribuzioni determinato dall’inflazione.
L’incombere dell’ondata inflattiva metterà nuovamente in luce i guasti e le contraddizioni interne del sistema neoliberista. Dalla crisi del 2008 il sistema ha potuto perpetuarsi in virtù delle politiche di espansione illimitata della liquidità messe in atto dalle banche centrali e dei tassi a zero, se non in territorio negativo. Qualora per combattere l’inflazione si facesse ricorso a politiche di restrizione della liquidità con contemporaneo aumento dei tassi di interesse, potrebbero manifestarsi crisi strutturali non governabili.
Lo stesso aumento vorticoso delle materie prime e la crisi della produzione della componentistica, sono fenomeni legati alle catene di fornitura geograficamente assai estese (specie in Asia), in virtù della delocalizzazione industriale e alla scarsità di scorte imposta dalla logica di massimizzazione del profitto.
Nella stessa UE, la Germania, che già invocava il ripristino del patto di stabilità, potrebbe essere indotta, (sull’onda emotiva di una popolazione assai sensibile alla crescita dell’inflazione, dati i precedenti storici),  con il manifestarsi di una ondata inflattiva al 6% al ritorno alle politiche di austerity. Tuttavia, la crisi dei chip, che ha determinato un calo di produzione nel settore dell’auto del 18%, facendolo retrocedere ai livelli del 1975, potrebbe dar luogo ad una crisi destinata ad incidere sulla stabilità interna e dell’Europa stessa.
In un futuro dominato dalla incertezza, se non dal panico, prevedibili crisi e conflittualità vecchie e nuove, potrebbero verificarsi alla lunga trasformazioni strutturali di un sistema neoliberista, non in grado di generare nuove forme di sviluppo e già peraltro rivelatosi iniquo e fallimentare.

La colonizzazione economica subita e il recupero della sovranità monetaria

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Intervista molto interessante al ministro dell’Economia indicato da Salvini. Forse è per quello che dice, anche qui, che l’establishment lo vede come il fumo negli occhi? 

di Paolo Savona

La colonizzazione economica subita e il recupero della sovranità monetaria

Fonte: L’Antidiplomatico

“L’operazione Maastricht è stata all’epoca condotta politicamente e tecnicamente molto male. Le poche persone che la pensavano come me sono state emarginate”

di Alessandro Bianchi e Simone Nastasi

Paolo Savona. 
Ha insegnato economia nelle Università di Perugia, di Roma Tor Vergata, alla Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione e all’Università Guglielmo Marconi. Fondatore dell’ Open Economies Review e ex presidente di Assonebb, l’Associazione per l’Enciclopedia della Banca e della Borsa. Ministo del’industria (1993-1994). Autore nel 2012 di Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi. Il caso Italia 
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