Così morirono i crociati a Sidone

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Recenti analisi su scheletri rinvenuti a Sidone, in Libano, ci aiutano a comprendere meglio i crociati caduti nel XIII secolo per difendere la città. Il ruolo del re san Luigi nella loro sepoltura.
 
Uccisi a colpi di spada o d’ascia, decapitati, massacrati in massa, crivellati di frecce. Il destino dei crociati che combatterono per difendere Sidone, l’odierna Saida a sud di Beirut, a metà del XIII secolo fu senza dubbio qualcosa di brutale. Lo evidenziano i ricercatori dell’Università di Bournemouth, nel Regno Unito, in un comunicato stampa diffuso il 14 settembre per sintetizzare uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, con altri due ricercatori britannici.
 
L’équipe ha analizzato gli scheletri umani rinvenuti nel 2015 in due fosse comuni trovate nel fossato del castello di San Luigi (Qalat al-Muizz) a Sidone, porto strategico per i crociati per oltre un secolo. In piena guerra, mancando il tempo per officiare un rito funebre per ogni singolo crociato caduto, fu d’obbligo il ricorso alla fossa comune.
 
In base alla presenza nelle sepolture di monete d’argento della metà del XIII secolo e di fibbie in rame per cinture di foggia franca i resti umani oggetto dello studio sono stati identificati come appartenenti ad almeno 25 crociati.
 
Usando la datazione al radiocarbonio, i ricercatori stimano che i soldati probabilmente morirono nelle battaglie del 1253 o del 1260, quando Sidone, controllata dai cristiani, fu attaccata direttamente dalle truppe del sultanato mamelucco, nel 1253, e dai mongoli dell’Ilkhanato, nel 1260.
 
In armi con una violenza estrema
 
La scoperta è davvero rara, sottolineano i ricercatori perché le fosse comuni di questo periodo sono piuttosto introvabili. «Il numero minimo di 25 individui supera significativamente quello dell’unico altro luogo di sepoltura comune a noi noto d’epoca crociata», affermano gli autori dello studio, riferendosi agli scheletri di cinque uomini caduti al Guado di Giacobbe, situato tra l’Alta Galilea e le alture del Golan, che, il 23 agosto 1179, si scontrarono l’esercito ayyubide guidato da Saladino e le milizie del Regno di Gerusalemme.
 
Dopo aver analizzato gli scheletri di Sidone, gli esperti hanno raggiunto un’altra conclusione: appartenevano a uomini fatti e ad adolescenti. Quindi non c’erano donne o bambini sul campo di battaglia.
 
Alcuni degli scheletri «mostrano ferite di spada alla parte posteriore del corpo, suggerendo che i soldati siano stati attaccati da dietro, probabilmente in fuga nel momento in cui sono stati colpiti. Altri hanno ferite di spada alla nuca, il che indica che potrebbero essere stati prigionieri giustiziati per decapitazione dopo la battaglia», riassume il comunicato dell’Università di Bournemouth.
 
I segni rimasti sugli scheletri dimostrano quanto sia stato brutale il combattimento. La concentrazione di ferite alla testa e alle spalle di alcuni soldati sarebbe «coerente» con il fatto che probabilmente fronteggiavano a piedi dei nemici a cavallo.
 
Il contributo del re
 
L’analisi degli isotopi dentali e gli studi sul Dna hanno consentito anche di individuare le origini geografiche dei soldati. Alcuni erano nati in Europa, altri nel Vicino Oriente. Taluni erano di discendenza mista, probabilmente discendenti di crociati che si erano accoppiati con donne locali. Dati coerenti con la composizione sociale delle truppe crociati descritta dalle fonti storiche.
 
Secondo i documenti storici, Luigi IX di Francia, il sovrano – poi dichiarato santo – che guidò la settima crociata, era presente in Terra Santa al momento dell’attacco a Sidone nel 1253. Il re «andò in città dopo la battaglia e aiutò personalmente a seppellire i cadaveri in decomposizione in fosse comuni come queste», spiega nel comunicato del già citato ateneo britannico il dottor Piers Mitchell, dell’Università di Cambridge, che ha collaborato allo studio.
 
Le cronache di Jean de Joinville, cavaliere francese e biografo di san Luigi nonché testimone oculare della Settima crociata, riportano che «Egli (il re – ndr) aveva portato personalmente i corpi, tutti marci e maleodoranti, per deporli nelle fosse, senza mai turarsi il naso, come facevano gli altri». (c.l.)
 
 

La Madonna del Carmelo, che promette la salvezza a chiunque si farà «suo»

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Risultati immagini per La Vergine del Carmelodi Cristina Siccardi 

Il 16 luglio ricorre una festa mariana molto importante nella Tradizione della Chiesa: la Madonna del Carmelo, una delle devozioni più antiche e più amate dalla cristianità, legata alla storia e ai valori spirituali dell’Ordine dei frati della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo (Carmelitani). La festa liturgica fu istituita per commemorare l’apparizione del 16 luglio 1251 a san Simone Stock, all’epoca priore generale dell’ordine carmelitano, durante la quale la Madonna gli consegnò uno scapolare (dal latino scapula, spalla) in tessuto, rivelandogli notevoli privilegi connessi al suo culto.

Nel Primo Libro dei Re dell’Antico Testamento si racconta che il profeta Elia, che raccolse una comunità di uomini proprio sul monte Carmelo (in aramaico «giardino»), operò in difesa della purezza della fede in Dio, vincendo una sfida contro i sacerdoti del dio Baal. Qui, in seguito, si stabilirono delle comunità monastiche cristiane. I crociati, nell’XI secolo, trovarono in questo luogo dei religiosi, probabilmente di rito maronita, che si definivano eredi dei discepoli del profeta Elia e seguivano la regola di san Basilio. Nel 1154 circa si ritirò sul monte il nobile francese Bertoldo, giunto in Palestina con il cugino Aimerio di Limoges, patriarca di Antiochia, e venne deciso di riunire gli eremiti a vita cenobitica. I religiosi edificarono una chiesetta in mezzo alle loro celle, dedicandola alla Vergine e presero il nome di Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo. Il Carmelo acquisì, in tal modo, i suoi due elementi caratterizzanti: il riferimento ad Elia ed il legame a Maria Santissima. Continua a leggere

La clamorosa bufala delle cinture di castità

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Segnalazione Redazione BastaBugie
Non è vero che i Crociati obbligassero le loro mogli ad indossarle… le prime risalgono al 1800 (come giochi erotici o per evitare una violenza sessuale)
da Aleteia

(LETTURA AUTOMATICA)
L’uso delle cosiddette cinture di castità, fasce metalliche flessibili in grado di coprire i genitali e poi chiuse con lucchetti, risalirebbe ai tempi delle Crociate, quando i cavalieri in partenza per il Santo Sepolcro volevano assicurarsi la fedeltà delle proprie mogli durante la loro assenza. La cintura non è altro che un falso storico. Basta osservarle per capire come possano essere fonte di ferite e infezioni e abbiano serrature relativamente facili da aprire.
Come nota Focus (agosto 2014) prima di tutto, c’è un problema di igiene: anche se la classica cintura prevede piccole aperture per l’espletazione dei bisogni fisiologici, ferite, infezioni e di conseguenza la morte di chi le indossava sarebbero sopraggiunte in tempi molto rapidi.
Inoltre, è plausibile che prima di partire i cavalieri si accoppiassero con le proprie mogli, magari con la speranza di trovare un bambino al loro ritorno. È evidente che la presenza di una cintura di ferro avrebbe impedito il parto. Senza contare l’obiezione più semplice: qualunque serratura medievale poteva essere aperta da un fabbro in pochi secondi.

PUREZZA TEOLOGICA
Al di là di queste incongruenze logiche, c’è il fatto che non esistono autentiche cinture databili al Medioevo. L’idea di astinenza sessuale è certamente antichissima e lo stesso termine latino cingulum castitatis (traducibile appunto come cintura di castità) compare, a partire dal VI secolo, in alcuni testi di Papa Gregorio Magno, Alcuino di York, San Bernardo di Chiaravalle, fino a Giovanni Boccaccio. Ma in tutti questi casi è inteso come un simbolo di purezza teologica, non certo come un oggetto di dissuasione erotica. Continua a leggere