Dante di destra? È la pena del contrappasso

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di Marcello Veneziani

Ora che avete finito di sganasciarvi dalle risate di scherno e di superiorità per la boutade del ministro dei beni culturali, Gennaro Sangiuliano su Dante Alighieri fondatore del pensiero di destra, proviamo a dire qualcosa di serio.

Si può condividere in pieno, in parte o per niente la sua provocazione, come lui stesso l’ha definita, ma alla fine si è trattato di una ritorsione, ovvero Sangiuliano ha applicato in senso contrario una pratica assai diffusa, soprattutto a sinistra. Anzi, per usare una categoria dantesca, ha usato la pena del “contrappasso”.

Dunque, come si esprime il monopolio ideologico della sinistra sulla cultura quando affronta temi, opere e autori del passato? Lo schema prevalente è il riduzionismo, ovvero tutto viene riportato al presente. Parlano di Gesù Cristo come del primo rivoluzionario della storia, difensore degli ultimi. Parlano di Enea come del primo migrante e profugo di guerra, sbarcato clandestinamente. Parlano delle lotte tra patrizi e plebei come un esempio di lotta di classe. Parlano del tumulto dei ciompi come il debutto della Cgil nel medioevo… Parlano di san Francesco come un profeta dell’uguaglianza, un difensore dei poveri e un nemico delle gerarchie, e gli affiancano per rispettare le quote e la parità dei sessi, Santa Chiara, come se fosse una femminista ante litteram. Non c’è opera lirica o dramma teatrale che oggi non venga rappresentato con l’allusione all’oggi, travestito nel presente, su tematiche del politically correct di oggi: i migranti, i transgender, l’antifascismo. Ci sono nazisti pure nella tragedia greca. E nella lotta politica, nel 1948, i socialcomunisti trascinarono perfino Garibaldi come simbolo del Fronte popolare, loro che erano stalinisti e lui che difendeva al patria e la libertà.

Tutto viene ridotto al presente, o nei più colti diventa una metafora allusiva del presente. Dal ’68 in poi, a scuola e ovunque, per misurare il valore e la grandezza di un autore si pesa la sua attualità: ricordo menate indecorose proprio su Dante per tirarlo nell’attualità o per dannarlo col metro dell’inattualità. Dire che Dante sia il fondatore del pensiero di destra è l’applicazione coerente, e forse inconsapevole, di quello schema ideologico retroattivo.

Mi pare perfino ovvio obiettare che destra e sinistra sono categorie moderne, mentre Dante è in tutto medievale e i classici vanno preservati i dagli usi e gli abusi di chi li costringe nel letto di Procuste del presente. Ma se serve a denunciare l’immiserimento dei grandi nelle gabbiette del nostro tempo, allora il paragone è utile, anzi didattico. E poi, se è sbagliato abbassare il Sommo Poeta al nostro oggi, è invece lodevole tentare di innalzare la bassezza dell’oggi a una dignità superiore. Dopo tante ricerche affannose e ridicole dei pantheon d’autori, per rivendicare, dantescamente, “chi fuor li maggior tui” ovvero chi sono i padri nobiii a cui riferirsi, partire da Dante significa perlomeno guardare in alto. E liberare il pensiero di destra dal tentativo altrui di ricacciare le sue radici nel fascismo. Chi ama la tradizione viene da più lontano.

Mi sono occupato a lungo del pensiero di destra e a Dante ho dedicato vari scritti e un libro. Mai ho sostenuto che Dante fosse il padre della destra, l’ho definito “nostro padre” riferendomi a noi italiani. Per dirla in breve, in un suo intervento sul Corriere della sera, Sangiuliano citava dal mio libro questo passo: “La fonte principale, più alta e vera della nostra identità è Dante Alighieri. A lui dobbiamo la lingua, il racconto, la matrice, la visione. L’Italia intesa più che nazione, come civiltà”. La nostra identità, intendevo, di noi italiani.

Dante è trascinato nell’attualità da almeno due secoli. Anzi, la riscoperta di Dante la dobbiamo proprio all’uso di Dante nella vicenda risorgimentale. Dopo l’uso che ne fece il Risorgimento, Dante fu usato per dare un fondamento all’Italia unita, col pullulare di monumenti e toponimi danteschi e la nascita della società Dante Alighieri. Il fascismo fece largo uso della “vision de l’Alighieri”, come cantava Giovinezza nella versione fascista. Lo faceva avvalendosi di letture carducciane e dannunziane, dei saggi di Giovanni Gentile e di altri eminenti studiosi, che non trascinavano Dante nell’attualità ma elevavano il momento storico e l’idea fascista al rango dell’ispirazione dantesca. E Dante si prestava ai fascisti, ai carducciani, ai risorgimentali? Lui no, naturalmente, ma ciò che aveva detto e fatto poteva prestarsi a quella lettura, nel nome dell’amor patrio e della civiltà, della nostalgia del sacro romano impero, della passione per la romanità e per la fierezza, per l’avversione ai mercanti e all’usura, alla “gente nova e i subiti guadagni che orgoglio e dismisura han generato”. Per questo, citavo nel mio libro, Sanguineti lo reputò un reazionario e Umberto Eco lo definì “un intellettuale di destra”, sottolineando che predicava il ritorno all’Impero mentre fiorivano i liberi comuni. E Giorgio Almirante, appassionato di Dante, lo citava sempre in parlamento e nei comizi, a memoria, e a lui si richiamava più che a ogni altro autore o pensatore.

Dunque? Dante è universale e universale resta. Dante è eterno e non è di questo o di quel tempo. Dante è grandissimo poeta, ma anche pensatore e scrittore civile, e pur vivendo e scontando le sue passioni politiche, fino alla faziosità più sanguigna, non si può ridurre a questa o a quella fazione attuale. Però ora capite meglio che succede quando si piega la storia e la letteratura al nostro oggi. Perciò non atteggiatevi a superiori, voi danteggiatori di sinistra, perché ogni giorno tacete sulla forzata attualizzazione di storie e autori.

Quanto a Dante, non s’è crucciato, vede le cose da lontano e dall’alto per indignarsi. Ne ha passate troppe nei secoli per arrabbiarsi di un’innocua richiesta di affiliazione. I grandi autori sono come fontane aperte ai viandanti, notava Nietzsche ne la Gaia Scienza, ciascuno si abbevera come vuole, “i ragazzi la sporcano coi propri pastrocchi” e altri passanti la intorbidano, gettandovi la loro attualità; ma noi siamo profondi e “diventiamo di nuovo limpidi”.

La Verità – 18 gennaio 2023

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/dante-di-destra-e-la-pena-del-contrappasso/

L’insegnamento di Dante: é la donna che salva l’uomo (e anche l’umanità)

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di Ferdinando Bergamaschi

Il 2021 è stato l’anno delle celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante. Il Sommo Poeta, come tutti sanno, ha affrontato profondamente molti temi nella sua opera: da quello teologico a quello politico, da quello esoterico a quello poetico. Noi vogliamo però considerarne uno nello specifico: il tema della donna. In particolare esso è protagonista nella Vita Nova scritta tra il 1292 e il 1295. In questo scritto giovanile, che è una sorta di autobiografia, il Sommo Poeta definisce per la prima volta il suo concetto di donna in rapporto non solo all’amore ma alla sua funzione universale. La corrente spirituale, culturale e poetica del “Dolce stil novo” è quella che “informa” Dante in tutta la sua visione del mondo e della vita. In questa corrente la gentilezza, che è la nobiltà dell’anima e quindi la nobiltà spirituale, è il fondamento di tutto. Solo il cuore gentile può provare il vero, eterno amore. Tramite l’amore, ci spiega Dante, la donna può indurre la gentilezza nel cuore dell’uomo. Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia, Dante stesso e alcuni altri ci indicano la donna intesa come donna-angelo, la quale è lo strumento per rendere veramente “gentile” e quindi puro il cuore dell’uomo.  Come si vede vi è un ulteriore salto di qualità perfino rispetto all’ “amor cortese” della precedente poesia d’amore, nella quale ancora l’elemento passionale, per quanto sublimato e per quanto accostato all’idealizzazione della figura femminile, sussisteva. Come nell’amor cortese, comunque, anche nel Dolce stil novo siamo in una dimensione in cui non c’è in nessun modo la pretesa da parte dell’uomo di voler corrisposto il proprio amore. Si ama, e questo è tutto. La donna amata è lasciata libera, e questo atteggiamento liberale, che è amore per la libertà, non è una concessione (il che già di per sé tradirebbe una brama di fondo) ma è il presupposto stesso del vero amore. Questa concezione influenzerà qualche anno più tardi anche la visione di Francesco Petrarca il quale però dovrà scontrarsi contro l’eccesso di passione che caratterizzava il suo amore per Laura e che egli non seppe superare.

Nel Dolce stil novo la donna è l’oggetto della contemplazione, e in quanto la donna è donna-angelo o donna-miracolo questa contemplazione è contemplazione di bellezza. La donna è la vera e unica mediazione per poter accedere al divino: ella è l’angelo, appunto. L’uomo non ama più per avere qualcosa in cambio; l’amore è fine a se stesso e ciò che reca beatitudine è appunto la contemplazione della donna-miracolo. Questa contemplazione della donna è la salvezza dell’uomo. Come è stato fatto notare da molti studiosi la parola latina salus significa al tempo stesso “saluto” e “salvezza”; il saluto “gentile” di Beatrice a Dante, quindi, attesta il ruolo di lei come mediatrice della grazia divina. E’ significativo  che le  parole  del   saluto     sono   le  uniche   che Beatrice rivolge a Dante nella Vita Nova.

Nella Divina Commedia Dante sviluppa ulteriormente il suo rapporto con Beatrice, che ritroviamo con lui dapprima nell’Inferno (Canto II), poi nel Purgatorio (Canto XXX e XXXI) e infine nel Paradiso (Canto XXXI). Qui Beatrice, il cui intervento è sollecitato dalla Vergine Maria per mezzo di Santa Lucia, prende il posto  di Virgilio   come  guida  di  Dante.

Beatrice dapprima si  esprime con severità nei confronti di Dante per i peccati che egli ha commesso, ma mano a mano che i due salgono ella gli rivolge sorrisi beatifici; Beatrice infine perdona Dante, si toglie il velo e gli mostra tutta la sua bellezza.

E’ lei che lo conduce in Paradiso e lo lascerà nelle mani dell’ultima guida che avrà il Sommo Poeta: San Bernardo di Chiaravalle. Giunti alla candida rosa dei beati, infatti, Dante si volge verso Beatrice ma non la trova: al suo posto c’è il santo di Clairvaux, devoto alla Madonna.

L’ultimo sentimento che Dante rivolge a Beatrice è quello della gratitudine. Beatrice dunque ha la forza di destare in Dante il più puro dei sentimenti, quello della gratitudine appunto. Questo sentimento non conosce inimicizia, avversità, rancore: se si ha il cuore puro esso si prova anche e soprattutto nei confronti di coloro che ci hanno fatto del male. Purificato così da Beatrice Dante può avviarsi con San Bernardo alla contemplazione della Santa Vergine, alla quale il Sommo Poeta è stato condotto proprio in virtù della gentilezza del suo cuore.

E’ però importante far notare che la funzione di Beatrice nella Commedia è di tipo differente rispetto a quella definita nella Vita Nova. Nella Commedia infatti Dante si rivolge all’intera umanità e in nome di essa egli compie il suo viaggio, quel viaggio che Dio voleva che compisse. Si è dunque qui in una nuova dimensione, non più soltanto personale. Dante ha ora il compito di indicare a tutta quanta l’umanità la via che conduce alla salvezza. Ma tutto ciò non fa che trasportare su un piano universale  un evento personale: tanto la salvezza dell’umanità quanto la salvezza di Dante sono dovute alla donna.

È incredibile come quanto più siamo asserviti, tanto più presumiamo di essere liberi

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di Massimo Cacciari

Fonte: La Stampa

Da Platone all’”eretico” Dante, il percorso dell’uomo per affrancarsi da tutte le schiavitù

«Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate/ più conformato, e quel ch’ è più apprezza,/fu de la volontà la libertate» ( Paradiso, V,16-22). Dunque, nasciamo liberi?
Dunque, immediate da Dio siamo dotati, noi creature intelligenti, «tutte e sole», di «libero voler», capace di vincere la malizia di cui il mondo è «gravido e coverto» (Purgatorio, XVI,60)? Tra le «croci» che il pensiero è destinato a portare, questa, il problema della libertà, è forse la più tormentosa. Tutto ciò che esiste in qualche modo vuole. Non volere è impossibile. Ma noi soltanto tra tutti gli enti che riusciamo a conoscere saremmo capaci di orientare ad libitum la nostra volontà? E questo per la costituzione stessa della nostra natura?
Tutto ciò che vediamo in natura è determinato e condizionato, obbedisce a leggi che non si è certo dato e nella natura noi soli saremmo quegli enti straordinari che possono ciò che vogliono? Quale davvero stra-ordinaria presunzione, che l’esperienza quotidiana falsifica in tutti i modi! Non nasciamo liberi! Forse possiamo soltanto affermare che nella nostra natura è presente la possibilità di diventarlo.
Ed è appunto questo che l’esperienza epicamente e profeticamente rappresentata nella Divina Commedia vuole insegnare. Possiamo «trarci fuori» da servitù a libertà. Ma incatenati nasciamo, come quegli abitanti della caverna del mito di Platone, che ben protetti nella loro dimora passano la vita a vedere ombre, e magari goderne, evitando di fare i conti con la dura realtà. Libertà significa liberarsi: un itinerario drammatico, che comporta venire ai ferri corti con l’inferno della vita, risalire l’aspro monte della confessione delle proprie colpe, del pentimento sui propri errori, della radicale conversione al Bene – così nel Poeta per antonomasia.
Ma poi il dubbio resiste: è per le mie forze che questo itinerario potrebbe compiersi? E’ la mia libertà a determinarne i passi? O lo affermo soltanto perché ignoro quali siano le cause per cui procedo? Dante non avrebbe potuto liberarsi se altri, e altri lassù, non l’avessero, per amore assolutamente gratuito, voluto. Al più, possiamo dire che Dante ne ha assecondato l’amore. È incredibile come quanto più siamo asserviti a potenze e leggi di cui ignoriamo ragioni e fini, tanto più presumiamo di essere liberi.
Essere liberi è una mèta assolutamente problematica. Dimostrare di esserlo è impossibile. Soltanto qualche segno possiamo darne. E di questi segni, potenti, son fatte le opere come la Commedia. Saper resistere solitari, se la tua ragione ritiene che il mondo sia «diserto/ d’ogne vertute». Solitario, non ritirato nella Torre. Solitario in lotta con la «bestia» che impedisce la via alla libertà. Esser pronti a dare la vita per cercare di percorrerla – «libertà va cercando», infatti: chi potrebbe presumere di affermarsi perfettamente libero?
Significherebbe essere del tutto incondizionati. La libertà possiamo soltanto cercarla, quotidianamente, in lotta contro la «maledetta lupa», «che mai non empie la bramosa voglia,/ e dopo il pasto ha più fame che pria» (Inferno, I,97-99). È la bestia del volere per sé sempre di più, dell’insaziabile avarizia, che si «ammoglia» a invidia, a usura, a frode. Ma è anzitutto la bestia della nostra naturale servitù, del nostro istinto ad asservirci al possesso di beni finiti e a esigere che essi ci siano assicurati. Per Dante la libertà ha un solo, vero segno: capacità di donare e perdonare. Ciò che significa anche liberare. Non si è liberi se non si cerca di liberare chi è costretto nel bisogno, nella pena. Di più, non puoi dirti libero fino a quando un tuo simile è servo.
Essere liberi vorrebbe, allora, dire, cercare questo Impossibile? In qualche modo penso di sì. E di nuovo è così in Dante. Poiché tende, mente e corpo, all’Impossibile di «ficcar lo sguardo» negli arcana Dei, egli può vedere con disincanto e realismo questa «aiuola che ci fa tanto feroci», inveire contro i lupi che la dominano, invocare le forze che li possano eliminare. La nostra triste, costante consacrazione della finitezza è consacrazione del nostro dipendere da beni finiti, mète a portata di mano, da tutto ciò che abbiamo o crediamo di avere «a disposizione».
Nessun disprezzo per quei «possibili» che siamo costretti a perseguire per continuare a esistere, ma forse è vero che non di solo pane vive l’uomo, e che anche il necessario, quotidiano pane diventa difficile assicurare per tutti, quando ciascuno ha di mira esclusivamente la propria securitas, e di altro non vuole sentir parlare che di garanzie per sé e per ciò che possiede.
Il solitario Dante incalza il suo tempo, eretico contro tanti suoi dogmi, tante sue potenze, tanto cattivo senso comune. Nessun fatto ha per lui ragione in quanto fatto. Nessuna Giustizia abita il campo del vincitore perché vincitore. In questo soltanto può per lui mostrarsi un’immagine di libertà e forse di indistruttibilità della nostra anima.

Dove porta la guerra global ai classici

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Fonte: Marcello Veneziani

di Marcello Veneziani

Come spiegare la guerra ai “classics” che si allarga negli Stati Uniti e pure sull’altra sponda dell’Atlantico e trova oggi conforto e rinforzo con l’arrivo alla casa Bianca dei progressisti e antirazzisti Joe Biden e di Kamala Harris? È stata proprio la “sua università”, quella da cui proviene la vice nera di Biden, la Howard University di Washington, a fare da capofila nell’opera di demolizione e di epurazione dei classici dagli studi. Trattandosi di un’università simbolo degli afro-americani, assume un significato speciale. La cacciata dei classici dalle università, non solo dunque del “conquistatore” Cristoforo Colombo ma dei grandi poeti, pensatori e letterati della tradizione antica, greco-romana ed europea, è diventata ora il simbolo della lotta dei neri contro la “supremazia” dei bianchi. La cultura è vista come un segno di violenza, schiavismo e sottomissione coloniale che l’occidente avrebbe esercitato sulle popolazioni indigene di tutto il mondo. Anche i capolavori della letteratura vengono sottoposti alla censura postuma e vengono giudicati dai tribunali e dalle piazze, dai MeToo e dagli Antifa, e non più nelle sedi letterarie in ragione del loro valore. Il significato umanistico viene sottomesso al valore umanitario e sottoposto al Tribunale Permanente dei Diritti Umani Violati.

Sono lontani i tempi in cui un presidente negro e illuminato, come Leopold Senghor, poeta e alfiere della “negritudine”, esibiva il suo amore per i classici e per la lingua latina e spingeva gli studenti più bravi del suo paese, il Senegal, e di tutta l’Africa nerissima a integrarsi anche tramite la cultura e l’assimilazione dei classici e della lingua latina.

Ora il problema non è integrare i neri, i latinos e gli indiani nella civiltà euro-occidentale ma dis-integrare la nostra cultura sin dalle sue radici e contrapporre i temi dei diritti umani a ogni discorso culturale, storico e spirituale. L’appello si estende a tutti gli occidentali che devono ricusare il loro passato, vergognarsi delle loro origini e sostenere la battaglia contro i classici, che a esaminarli furono tutti, più o meno, “razzisti”, “schiavisti”, “omofobi”, “maschilisti”, e via dicendo. Via la vita spirituale, al più cantiamo gli spiritual.

Perfino gli schemi del pensiero rivoluzionario vengono capovolti: le classi subalterne, i proletari, non devono impossessarsi delle idee dominanti e della cultura egemone per rovesciare i rapporti di potere e sostituirsi al comando della società; ma devono disprezzare la loro cultura e cancellare le sue tracce. Verso dove si va in questo modo? Verso una forma di imbarbarimento planetario e di ripiegamento narcisistico nell’oggi contro tutti gli ieri e i sempre. Continua a leggere

IL GRANDE DANTE ALIGHIERI E LA MALAFEDE DI CHI LO VORREBBE CENSURARE

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di Matteo Castagna

Fanno riflettere le proposte di vietare lo studio di Dante nelle scuole, con il pretesto che il pensiero dantesco sarebbe omofobo, antisemita e persino islamofobo. È evidente che l’avversione per le opere dantesche celi qualcos’altro. Forse le parole di Dante danno fastidio perché scuotono ancora le coscienze, perché sollevano il velo dell’ipocrisia e dell’ignoranza, e perché si scagliano contro i falsi messaggi che attirano gli uomini con l’ingannevole prospettiva di farli essere pienamente liberi, ma dietro ai quali è in realtà occultato l’obiettivo di instillare nella società modelli di vita egoici e talora contrari alla natura umana.

Di fronte ai discorsi fatti da coloro che vorrebbero eliminare lo studio di Dante dai programmi scolastici (e questo vale in generale anche per tutte le valide espressioni della cultura) non è possibile reagire dicendo “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, perché quelle istanze ‒ che hanno il sapore di un moderno tentativo di censura ‒ vanno respinte con forza e al contempo devono sollecitare una profonda riflessione sull’omologazione di pensiero che da più parti si vorrebbe imporre. Gli attacchi alla cultura e soprattutto alle opere di alto valore morale, come insegna la storia, celano sempre obiettivi contrari alla legge divina e, per conseguenza, alla dignità umana. E, dunque, quale miglior conclusione lasciare a Dante, nel VII centenario dalla morte, come monito alla nostra gente: Avete il novo e l’l vecchio Testamento e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte… (V canto del Paradiso (74-81) )

Daniela Bianchini, del Centro Studi Livatino, analizza in maniera estremamente semplice e chiara la figura di Dante Alighieri, quale militante politico cattolico:

Egli puntò il dito con coraggio contro i mali della società, contro la degenerazione dei costumi e di una politica non orientata al bene comune, bensì al perseguimento di interessi personali. Attingendo alla morale naturale prima ancora che a quella cristiana, egli ebbe il merito di denunciare la corruzione dilagante, mostrandone le conseguenze infauste, in una visione comunitaria – di evidente ispirazione cristiana ‒ per cui la salvezza non può essere raggiunta attraverso un percorso solitario di redenzione, necessitando piuttosto dell’ impegno di tutti, nella consapevolezza della comune appartenenza a Dio, quali figli.

Nelle opere dantesche vi è l’esortazione a uscire dall’angusta prigione dell’egoismo per riscoprire la pienezza di una vita vissuta in pace e in armonia col prossimo, nell’interiorizzazione di quella che per i cristiani prende il nome di carità e che, per usare una categoria “laica”, è oggi più comunemente conosciuta come solidarietà. Dalle opere dell’Alighieri si coglie un aspetto rilevante della laicità: il suo stretto rapporto con l’impegno politico, a cui tutti i cristiani sono da Dio chiamati. Esso discende dall’essenza stessa del concetto di laicità, e nel corso dei secoli si è caricato di molti significati ed accezioni, non sempre correttamente riconducibili alle sue radici storiche. Nella visione dell’Alighieri, questo concetto viene sviluppato a partire dall’originario significato del termine, partendo dall’evangelico dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, ossia, da una parte, dalla necessaria distinzione fra la sfera temporale e quella spirituale e, dall’altra ‒ conseguentemente ‒ dalla limitazione dell’agire umano che, in quanto legato all’ambito temporale, non può superare certi confini. Esistono principi intoccabili del diritto naturale e divino che non possono essere oggetto di voto senza correre il rischio di sovvertire l’identità del popolo, che, in sè, è un atto inaccettabile. 

In Dante si trova la giusta consapevolezza che ogni uomo è peccatore e come tale è limitato e imperfetto: su queste basi si sviluppa il suo pensiero sul rapporto fra il potere temporale ed il potere spirituale, e sull’ importanza di non mostrarsi passivi – con un evidente richiamo al monito presente negli Atti degli Apostoli ‒ innanzi ai mali della società, come dimostra anche la condanna degli ignavi, di cui al canto III dell’Inferno (vv. 22-69).

L’Alighieri all’età di trent’anni iniziò la sua attività politica, caratterizzata dalla convinta difesa dell’autonomia comunale contro ogni tipo di ingerenza esterna. Egli ricoprì incarichi importanti, fu membro del Consiglio Speciale del Popolo, del Consiglio dei Savi per l’ elezione dei Priori e del Consiglio dei Cento (il più importante organo amministrativo del Comune), fino ad essere eletto Priore, la massima carica di governo della città. Tuttavia i suoi avversari politici, i Neri, per riprendere il potere in città lo accusarono ingiustamente di baratteria (per usare categorie attuali, di corruzione, truffa e peculato), e per questo egli subì due processi e fu condannato in contumacia.

Dante ha mostrato gli effetti disastrosi cui conduce una politica non incentrata sulla giustizia, destinata a decadere in demagogia. La mente corre a quella «nave sanza nocchiere in gran tempesta» del canto VI del Purgatorio (v. 76), che fa tuttora riflettere, dopo sette secoli, sui pericoli cui va incontro una società priva di una guida capace di governare nel rispetto di Dio, della libertà e dell’equità sociale. Egoismo, avidità, idolatria del potere e della ricchezza, sovvertimento dell’ordine naturale: sono questi i mali che finiscono con l’affliggere una società smarrita.

Laicità e partecipazione politica sono temi strettamente legati, come si ricava dall’episodio del tributo, dalla Lettera ai Romani o dalla Prima Lettera di Pietro, e interessanti spunti si ritrovano nella Divina Commedia.

Si pensi al canto III dell’Inferno, noto per il riferimento a colui che fece per viltade il gran rifiuto, espressione su cui molto è stato scritto, ma che in questa sede cede il passo agli altri protagonisti del canto: le anime degli ignavi, costrette, nell’applicazione di un rigoroso contrappasso, a inseguire un’insegna bianca priva di significato. Per queste anime, di cui nel mondo non è rimasto ricordo, Dante mostra un atteggiamento che va oltre il rimprovero e il disappunto morale, tanto che li colloca nell’Antinferno, non senza offrire al lettore un’esplicita motivazione. Gli ignavi, infatti, essendo vissuti sanza ‘nfamia e sanza lodo, insensibili a ogni forma di interesse politico o religioso, sono stati addirittura respinti dall’inferno, per timore che potessero diventare motivo di vanto e di compiacimento per gli altri dannati, così che, nel luogo loro assegnato dopo la morte, ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte (Inf.,III,v.48). Vien da chiedersi, oggi, quanti si siano definiti e definiscano “moderati” proprio perché, in realtà, ignavi?

Severo è dunque il giudizio dell’Alighieri per coloro che in vita si sono sottratti agli impegni e alle responsabilità naturalmente legate all’esistenza umana e al vivere sociale, disprezzando il grande dono del libero arbitrio fatto da Dio all’uomo quale più alta testimonianza del suo amore e della sua fedeltà.

Dante vede in una vita priva di slanci e di partecipazione, in una vita passiva incentrata sulla mera coltivazione dei propri interessi e del proprio comodo, il rifiuto e il disprezzo non solo di quel prezioso dono – fonte di tutte le libertà ‒ ma anche della stessa natura umana:fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”, dirà poi Dante per bocca di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno (vv. 119-120); a insistere sul fatto che l’uomo, dotato da Dio di libertà e di ragione, è tenuto a vivere pienamente e a mettere a frutto quanto ricevuto.

Come Dante ha più volte ribadito, non bisogna abituarsi alla corruzione, alle ingiustizie, ai soprusi come se fossero accessori naturali del vivere sociale: l’uomo ha il diritto di essere felice e per fare questo deve combattere contro la cupidigia, ossia contro tutti quei vizi e quei mali che affliggono la società ed ostacolano il cammino verso la felicità terrena e, cosa più importante, verso la beatitudine celeste. Una società fondata sull’egoismo e sull’individualismo non può portare buoni frutti, non può garantire un sano sviluppo di tutti e di ciascuno, ma può soltanto contribuire ad accrescere separazione ed indifferenza, ossia i germi dell’odio e dei conflitti.

Dante ha avuto il coraggio di dire a voce alta che esistono dei confini invalicabili che l’uomo non deve superare e che ogni sua azione determina una conseguenza, nel bene o nel male.

La sua attualità è legata soprattutto alla trasmissione dell’universale messaggio di fede, onestà e di giustizia che zampilla dalle sue opere e in particolare dalla Divina Commedia. In un mondo, quale quello attuale, con particolare riferimento al panorama europeo, dove vi è la tendenza sempre più forte alla superficialità, al consumismo, all’individualismo, dove le quotidiane relazioni umane sono sempre più spesso sostituite dalle relazioni “virtuali” – a testimonianza, non di rado, dell’incapacità di entrare veramente in relazione con l’altro ‒ è importante, soprattutto per i più giovani, tornare a leggere pagine cariche di valori, di umanità, di esortazione a non perdersi dietro false felicità e di non rinchiudersi nella gabbia dell’egoismo, ma di coltivare il rispetto per l’altro, nel perseguimento della pace e della giustizia nella verità, per essere sempre inclusivi in essa, ma divisivi nei confronti degli errori e dei peccati.