Soros si è arreso: addio all’Europa

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Il magnate cambia linea: “Stop ai finanziamenti per l’Ue”. Ecco quali saranno le mosse della sua fondazione internazionale

Ciao ciao Europa. È questo il messaggio lanciato dalla Open Society Foundations del magnate George Soros, che già a partire dal prossimo anno trasmetterà i finanziamenti fino ad oggi destinati al Vecchio Continente alla volta di altri Stati fuori dall’Ue. La ragione starebbe nel fatto che Bruxelles spende ormai da molto tempo denari a favore della tutela dei diritti umani, e che quindi l’azione della fondazione internazionale dovrebbe essere direzionata da altre parti.

Una motivazione, però, che ha sollevato più che dubbi anche tra le stesse Ong collaboratrici. Venerdì scorso, infatti, Soros ha inviato una lettera spiegando le motivazioni del proprio disimpegno, ma da qui si è scatenato un vero e proprio braccio di ferro con alcune associazioni. Tra queste, per esempio, incidono fortemente quelle ungheresi, secondo le quali la giustificazione addotta dal magnate sarebbe “un po’ contraddittoria”. E questo perché “il governo ungherese, ad esempio, non fa molto per le persone LGBTQ, anzi, in realtà è contro di loro. E per quanto riguarda la democrazia stessa, non solo in Ungheria, ma anche in altri Stati membri dell’Ue, non gode di ottima salute”.

Ma la vera svolta si è avuta qualche mese fa, quando al trono della OSF è arrivato il figlio Alex Soros, 37 anni, ora pronto a gestire il patrimonio da 25 miliardi di dollari del padre George. Fino a quel momento, come riportato sulle colonne del Domani, “i bilanci mostrano che nel 2016 erano indirizzati 143 milioni di dollari, nel 2017 oltre 154; nel 2019 ben 178, e 209 nel 2021”. Da giugno, invece, è arrivato il cambio di rotta.

Per approfondire:

La trasformazione è proprio legata all’erede nascente e studiante negli Usa, sempre più intenzionato a dirottare fondi ingenti verso le presidenziali 2024. Insomma, prima dell’Ue, conta più che mai la politica americana. Una scelta che per il cronista ungherese, Pál Dániel Rényi, comporterà licenziamenti massicci nel Paese governato da Orban. Tagli anche del 40 per cento della forza lavoro, che però alla famiglia Soros non sembrano più interessare.

Indignazione a comando

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di Antonio Catalano

Fonte: Antonio Catalano

Il pensiero neoliberale, nella versione progressista, quello oggi dominante, quello per capirci che esporta la sua democrazia nel mondo, con tutto l’apparato ideologico che l’accompagna, domina/forma la cosiddetta opinione; la quale, guarda caso, ritiene di essere libera, libera cioè di produrre un pensiero che nasce liberamente dal proprio cervello. E guai a far notare che non è proprio così: ma come, non vedi che da noi esiste una tale pluralità di punti di vista che ognuno può scegliere quello che più gli aggrada? un po’ come avere il telecomando e scegliere il programma preferito. E comunque, per quanto possano esserci delle imperfezioni, da noi la democrazia ci permette un grado di libertà che altrove neanche si sognano. E se provi a far capire, come diceva un tale, che l’ideologia dominante è quella della classe dominante, e che la nostra libertà è inscritta in un cerchio ben delimitato, e che se provi a uscirne son cavoli amari, se va bene sei messo ai margini se va male puoi fare la fine di Julian Assange, o addirittura quella di Enrico Mattei, o dei morti per stragi, o dei tanti altri che la lista sarebbe chissà di quante pagine…

La cosiddetta opinione pubblica – cosiddetta perché l’opinione pubblica è un’invenzione, essa è direttamente formata da chi detiene i mezzi del convincimento di massa, dalla tv ai social – emerge a comando, e perché sia stuzzicata bene necessita che vi siano dei “diritti umani” violati (dal bambino spiaggiato alla lapidazione di una donna). Il che non vuol dire che si debba rimanere indifferenti al bambino senza vita spiaggiato o alla donna lapidata, ci mancherebbe altro; no, vuol dire semplicemente che l’opinione pubblica è in balia di operazioni di strumentalizzazioni che filtrano di volta in volta il fatto da esecrare in funzione di quanto sia quel fatto capace di suscitare determinate emozioni, con le quali poi giustificare determinati interventi, che niente hanno a che fare né con i sentimenti né tanto meno con la giustizia.
E così il nostro occidente, tanto sensibile alle sorti dell’umanità, che quando decide che in una parte di essa, da qualche parte del mondo, c’è bisogno di democrazia, subito interviene, naturalmente per esportare i “diritti umani”; e se proprio non è possibile farlo direttamente ecco che scatena una campagna di riprovazione tesa a far capire all’ “opinione pubblica” che non si possono tollerare certe nefandezze. È inutile, il mondo occidentale, quello della democrazia liberale, non può sopportare che nel mondo vi siano aperte violazioni dei diritti… a meno che non sia egli stesso a compierle, ma allora si sa, è solo per il bene delle popolazioni sottoposte a simili attenzioni. Come è successo per le due bombe atomiche sganciate sul Giappone ormai a fine guerra, o per il criminale bombardamento di Dresda… o per il Vietnam, l’Iraq, l’Afghanistan, la Jugoslavia, la Libia, la Siria…

E veniamo all’attualità, a quanto sta accadendo in Iran. Un’opinione pubblica che non sa neanche dove si trovi l’Iran e che lingua si parli, esprime la sua indignazione per i diritti delle donne violate. E nessuno che si domandi perché proprio ora si scatena questa campagna contro l’Iran… che vi sia la volontà di destabilizzare un paese che non ha intenzione di sottomettersi alla geopolitica americana, e che per giunta ha buoni rapporti con la Russia del terribile Putin?
I bravi democratici – quelli in salsa progressista poi sono i migliori – in prima fila a denunciare i diritti delle donne violate in Iran, e se qualcuno mette in evidenza la strumentalità di questa campagna, vai col complottismo. Dimenticando – dimenticando? – costoro che nella stessa area vi sono paesi dove le condizioni delle donne sono le medesime se non peggiori, Arabia Saudita tanto per dire… o in quel Qatar, dove tra un mese si terranno i mondiali di calcio.

Antifascismo idiota

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L’EDITORIALE

di Matteo Castagna

IL PAESE DEI VOLTAGABBANA – CAMERATA DOVE SEI?

Le elezioni del 25 Settembre 2022 hanno sancito la vittoria schiacciante della destra. La volontà popolare, di cui la sinistra ha sempre fatto una bandiera ideologica, si è espressa liberamente, in modo inequivocabile. Nei giorni successivi al successo di Giorgia Meloni, tutti i soloni del Pensiero unico progressista si sono scatenati, chi più, chi meno, nel dimostrare rabbia, odio e livore antitaliano. Per Oliviero Toscani, chi ha votato Fratelli d’Italia sarebbe un “deficiente”. Saviano schiuma dalla bocca. Formigli e Mentana sembrano trasecolati. Alcuni Vip, anziché fare il loro discutibile mestiere, si spendono in giudizi politici offensivi. Per non parlare degli “influencer”, ossia i nullafacenti che guadagnano milioni sui “like” di Instagram. Il quotidiano La Repubblica, che da tempo, ha sostituito L’Unità, non ha risparmiato a Meloni neppure vigli attacchi personali. Il mantra dei radical chic arcobaleno è allarmare di un fantasioso quanto sciocco ritorno al Fascismo. Fiano, abbattuto democraticamente da Isabella Rauti, figlia di Pino, già segretario del MSI, si è giustificato dando la colpa agli italiani: “l’antifascismo non è una priorità in questo Paese”. Effettivamente, essendo trascorsi 80 anni dalla fine del Fascismo e con le enormi sfide che l’Italia (e non solo) deve affrontare, tra crisi economica ed energetica e guerra alle porte, appare almeno anacronistico, se non peggio, porre la “questione antifascista”, che risulta solo un totem di chi non ha argomenti, da usare come clava cavernicola, quando gli eredi di Marx o Stalin in salsa Mario Mieli perdono clamorosamente. Anche il buon Paolo Berizzi si sta rotolando in una delle più grottesche rosicate, sempre sbandierando sto’ antifascismo, di cui le nuove generazioni manco capiscono il significato.

La Gingko Edizioni di Verona, ha pubblicato nel 2021 un libro molto interessante, che si intitola “Camerata dove sei? Il Paese dei voltagabbana”. E’ un testo che rivela verità nascoste sui politici e giornalisti italiani nei riguardi del Fascismo, a dimostrazione di quanto siano assurde certe condanne preventive a persone che hanno un loro passato politico ed umano ben preciso e, poi, per mero opportunismo, hanno fatto il salto della quaglia. Come diceva Ennio Flaiano: “i fascisti si dividono in due categorie: fascisti e antifascisti. Gli italiani corrono sempre in soccorso dei vincitori”. I personaggi che seguono sgomitarono per salire e non seppero poi farsi da parte, cambiarono cappello e, rinnegando il proprio passato ma mai scusandosi per la gente comune che avevano ingannato o mandato a morire. Mussolini li definì “canguri giganti” perché provvisti di un largo marsupio da riempire e capaci di saltare di là dello schieramento. Invece che alla Storia, hanno preferito passare alla cassa.

Essi sono proprio i punti di riferimento degli inquisitori sinistri e democristiani di sinistra contemporanei. Sarà un caso? Vediamoli. Cesare Pavese (1908-1950) di cui parlò il quotidiano La Stampa l’8 agosto 1990, a seguito del ritrovamento del “Taccuino Fascista” del 1962, scoperto da Lorenzo Mondo fra le carte di Pavese, tenute da sua sorella. Italo Calvino rimase stupito dal contenuto, nutrito si simpatia e lodi per il Regime e consigliò di non pubblicarlo. L’originale, poi, sparì, ma ne fecero una fotocopia ( cfr. “Il Sorriso degli Dei” di Marco Borsacchi, Jouvance, Roma, 2005). Giorgio Bocca (1920-2011) si distinse per i suoi articoli apologetici del Duce, così come Indro Montanelli (1909-2001). Per non parlare di Gaetano Azzariti (1881-1961), ex presidente della Corte costituzionale, che fu anche capo del Tribunale della Razza e divenne comunista con la caduta del Fascismo. Palmiro Togliatti lo scelse come capo di gabinetto, subito dopo la caduta di Mussolini, ben sapendo chi era stato durante il periodo fascista e che sotto la sua direzione erano state create molte leggi fasciste. Dopo il 25 luglio 1943 fu nominato ministro della Giustizia nel primo governo Badoglio. La RSI gli diede una mano, condannandolo a morte in contumacia, come traditore, conferendogli così una patente da antifascista.

Antifascistissimo fu, a suo tempo, un esaltatore del regime fascista, Giulio Andreotti, che nell’ottobre del 1942 redasse per la Rivista del Lavoro (anno XI, n.7/8 ottobre-novembre 1942 – XXI) un articolo apologetico in coincidenza col ventennale del Regime. L’Italia era in guerra e questo fatto, sommato al ricordo della marcia su Roma suscitò in Giulio Andreotti uno stato di esaltazione. Michelangelo Antonioni, che rappresentò con visconti e Fellini il meglio del cinema italiano, per anni “compagno” di Monica Vitti, campione di progressismo era un camerata fedele e disciplinato, seguace di Italo Balbo, esordì nel 1935 sul “Corriere padano” esaltando la cinematografia “programmata e rivoluzionaria” “che agirà in profondità sull’anima del popolo e sarà per il Fascismo (la F maiuscola è di Antonioni!) un mezzo efficacissimo per affermarsi in tutto il mondo…”.Tra i voltagabbana annoveriamo anche Domenico Bartoli, autorevole e apprezzato giudice della democraticità altrui, estimatore stimatissimo di Ugo La Malfa e di Giovanni Malagodi; Arrigo Benedetti, che collaborò alle più note e fasciste riviste dell’epoca come il Saggiatore, Critica Fascista, Primato, Ottobre, Legioni e Falangi. Il personaggio in divisa di appartenente ai Gruppi Universitari Fascisti, ritratto sotto l’immagine gigantesca di Mussolini, è il comunista Rosario Bentivegna, medaglia d’oro della Resistenza, autore dell’attentato di via Rasella, a Roma, del 23/3/1944, che provocò la rappresaglia tedesca che uccise 335 persone alle Fosse Ardeatine. Ciò non impedì al Nostro di ricevere la medaglia e a sua moglie, Carla Capponi, compagna nell’ “eroica” impresa, di arrivare a Montecitorio e poi a Palazzo Madama nelle liste del PCI.

Alberto Mondadori, direttore di Tempo, era fascistissimo e i suoi giornalisti di punta erano i camerati di provata fede Ezio Maria Gray, Cesare Zavattini, Gian Gaspare Napolitano, Indro Montanelli nonché Carlo Bernari, che prima di diventare comunista era il corrispondente di guerra specializzato nelle esaltazioni dell’esercito e delle imprese belliche del Terzo Reich. Per il salto dall’altra parte ricordiamo altri beneficiati del regime fascista quali il Prof. Giacinto Bosco, poi Vicepresidente del CSM, Paolo Bufalini, Felice Chilanti, l’onnipresente onorevole democristiano Danilo De’ Cocci, avvocato e docente universitario. Convertito al comunismo nel 1945 ci fu Galvano della Volpe, docente dal 1938 all’Università di Messina, che giurò fedeltà al fascismo e scrisse articoli inequivocabili su Critica Fascista, L’Italiano, Primato, Prospettive e Vita Nova. Come dimenticare Amintore Fanfani, che pubblicò per l’Istituto Coloniale fascista di Milano un saggio dal titolo Cinquant’anni di preparazione all’Impero col quale proclamò spettare a Mussolini “la preveggente preparazione di forze nuove per superare la politica del piede di casa”. Poi Pietro Ingrao, ardente di fede in Mussolini espressa nel 1934 su Conquiste. Proseguiamo con Carlo Lizzani e Carlo Mazzarella, Milena Milani, Elsa Morante in ambito letterario e culturale.

Forse qualcuno resterà stupito del fatto che anche Aldo Moro fu fascista. Il 14 Aprile 1938 troviamo la prima citazione ufficiale della sua attività fascista in una cronaca dei “Littoriali della Cultura e dell’Arte”. Interventista, fascista fu Pietro Nenni. Quando i fascisti milanesi incendiarono la redazione de L’Avanti! Il Giornale del Mattino di bologna, diretto da Pietro Nenni, li difese con grande energia. Tra i beneficiati di Mussolini vale la pena citare Ferruccio Parri, presidente del Consiglio poi senatore a vita, impiegato alla Edison e “padre dei partigiani”. Nell’agosto del 1942 Pier Paolo Pasolini su Architrave, giornale dei Gruppi universitari fascisti di Bologna, dedicò un articolo entusiasta all’incontro culturale delle Giovane Europa Fascista. In altre parole, un “gemellaggio” fra le teorie fasciste e quelle naziste; una manifestazione alla quale furono ammessi i più fidati, i più sicuri fra i nuovi elementi dl regime. Pasolini parlava di “neoumanesimo” scaturito dalla “civiltà culturale veramente notevole” dell’Italia di quegli anni. Poi, le cose cambiarono, la guerra andò male e anche P.P.P. scoprì il neo-antifascismo.

Evidentemente, non poteva mancare Eugenio Scalfari, il trasformista, fondatore di Repubblica ove scrivono le penne più rosse d’Italia. Il 24 settembre 1942 in un articolo intitolato: “Volontà di potenza”, Scalfari sosteneva addirittura che non era più sufficiente limitarsi all'”Impero”, ma bisognava andare oltre, facendo leva su due elementi ben definiti: “il popolo” e “la razza”. Lo sapevi, Paolo Berizzi? Nel 1942, l’icona dell’antifascismo radical chic era fascista, imperialista e razzista e perché fosse ben chiaro il suo atteggiamento, egli scriveva articoli intitolati: “Necessità di credere” (11 giugno 1942) o ribadiva le sue tesi di fascista tutto d’un pezzo in un altro articolo, apparso il 1 ottobre 1942. Questo era Eugenio Scalfari prima che il Gran Consiglio rovesciasse Mussolini. Come redattore di Roma Fascista venne mandato a spasso con tutta la redazione direttamente dal Duce, che non apprezzò un articolo commemorativo del ventennale dalla Marcia su Roma. Il solo che, comunque, decise di continuare fu Eugenio Scalfari. Non fosse stato per il 25 luglio 1943, probabilmente sarebbe rimasto lì, a Roma fascista.

Giovanni Spadolini difese Mussolini e il fascismo anche dopo il 1943, con una serie di articoli apparsi nel 1944 sulla rivista fiorentina Italia e Civiltà. Spadolini difese la RSI e la guerra con fede fascista contro ogni avversità.

Fra le colpe del Fascismo, caro Saviano, indubbiamente non vi fu soltanto quella di aver allevato almeno tre quarti della classe dirigente politica di tutta la Prima Repubblica, ma anche quella di aver fatto da balia a coloro che, con una suggestiva quanto menzognera e “moderna” affermazione, potremmo definire i “tecnocrati” dell’attuale regime. Il nome di Gaetano Stammati, che fu una delle persone più influenti nella veste di Presidente della Banca Commerciale, durante il periodo universitario volle abbracciare il “credo corporativo”, plaudendo, in maniera eccessiva, alle conquiste sociali dell’Italia fascista. Fascista fu Paolo Emilio Taviani, così come Arturo Toffanelli.

Nell’agosto 1936 Palmiro Togliatti firmò assieme ad altri un “curioso” manifesto dal titolo: “Per la salvezza dell’Italia e la riconciliazione del popolo italiano”. In tutto il lunghissimo manifesto, il nome di Mussolini viene citato solo con la massima deferenza possibile. Sostanzialmente si trattava di un appello ai fascisti a lottare uniti ai comunisti per “fare l’Italia forte, libera, felice”, nell’ambito del regime fascista.

Anche il Segretario della Democrazia Cristiana eletto il 15 giugno 1975, Benigno Zaccagnini fu fascista. Il camerata Zaccagnini scrisse “Santa Milizia” sul periodico del Gruppo Universitario Fascista di Ravenna. Si trattava di un autentico articolo di denuncia dal titolo: “Problemi razziali: il meticciato”. E moltissimi altri politici, giornalisti, banchieri, economisti, insegnanti, medici vanno ad aggiungersi a questi nomi illustri.

Chi evoca lo spauracchio di un ritorno al fascismo, che è impossibile sul piano storico, economico, militare e sociale delle attuali circostanze geopolitiche, dovrebbe smetterla con la retorica perché un popolo di beneficiati voltagabbana ha costruito l’Italia nata dalla vittoria degli Alleati nel 1945, di cui i partigiani si sono appropriati, scrivendo pagine di racconti apologetici entusiasmanti, ma coprendo i crimini del dopoguerra e tacendo che molti dei “nuovi” potenti, troppi, erano camice nere che avevano tradito per interesse personale, trasformismo, sete di potere. Quindi, basta con la vostra bolsa retorica e basta con la vostra supponenza da professorini col ditino puntato. Il vostro pulpito, come quello dei vostri maestri e predecessori, non è credibile.

Anche se siete riusciti a tenerlo nascosto nelle foibe della memoria di chi non vuole e non può dimenticare.

 

 

 

 

La democrazia è nociva, abroghiamola!

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Cade la Dragocrazia, s’intravede malconcia la democrazia che torna con la politica e col popolo sovrano, con grave scorno dei poteri alti, di Mattarella e del Pd. Ma andiamo con ordine.

S’i fosse Drago arderei lo governo. Mettetevi nei panni, anzi nelle squame, di Mario Draghi: perché restare ancora al governo? Accettò di guidare un governo d’emergenza con la prospettiva finale di andare dopo un anno di graticola al Quirinale. Dove avrebbe potuto svolgere il suo ruolo extra partes e la sua missione umanitaria di rappresentare l’Italia nel mondo e tra i poteri che contano.
Un anno fa era acclamato dal Paese, ci liberava da un governo e un premier insopportabili, offriva una tregua politica a un paese lacerato, pur essendo riconosciuto come la longa manus dei Poteri Alti. Ora, invece, la situazione si è fatta difficile perché dopo essersi accollato le conseguenze della pandemia, Draghi è accorso ad accollarci le conseguenze della guerra in Ucraina, dove abbiamo fatto davvero poco per ribaltare le sorti del conflitto e neutralizzare Putin, ma abbiamo fatto davvero tanto per inguaiarci noi, indebitarci, veder schizzare l’inflazione e mettere a repentaglio le forniture energetiche.
I consensi nei confronti suoi e del suo governo erano calati molto con l’aria condizionata; tante ironie si sprecavano sul governo dei migliori e in autunno s’annunciava la catastrofe economico-energetico-sanitaria; era il momento giusto per tagliare la corda, e i grillini gliene stavano offrendo una mezza possibilità. Era anche un modo per restituire la pariglia a Mattarella, ai dem e ai loro soci di minoranza che non lo hanno voluto al Quirinale ma solo a tirare le castagne dal fuoco. Invece è partito il pressing mondiale, dal più grande leader al più piccolo sindaco, da Mattarella ai Dem, dalla grande finanza ai clochard, mancavano solo l’Onu e la Croce Rossa per bloccarlo a Palazzo Chigi. Perché un uomo di 75 anni, che ha già ottenuto i maggiori incarichi di potere, avrebbe dovuto lasciarsi friggere in padella e giocarsi il nome costruito in una vita? Il suo interesse era andarsene, ma non poteva, perché doveva rispondere a un’entità superiore che non è lo Stato, la Democrazia, l’Interesse generale, ma una cupola di poteri intrecciati che non passano dalle urne e che sono dietro la sua luminosa carriera.

E che consideravano un imperativo categorico restare a ogni prezzo al governo e non andare al voto. Allora Draghi ha deciso di andare avanti all’infinito, magari restando poi il Santo Protettore di un campo largo filodraghiano dopo l’inevitabile voto del ’23. O in alternativa, aspettarsi altri incarichi prestigiosi a livello internazionale, più la vigile attesa con tachipirina fino a che Mattarella lasci in un modo o nell’altro il Quirinale. Ma la strada di quest’autunno era tutta in salita e piena di burroni. Poi Draghi in Parlamento ha bistrattato i partiti, fingendo di lusingarli, ha maltrattato i grillini pur lanciando occhiate dolci, e ha chiesto un governo più suo, con più ampi poteri. E lì qualcosa si è interrotto, qualcosa è saltato. Salvini e Berlusconi che avevano compiuto l’errore madornale di mandare Mattarella anziché Draghi al Quirinale, accettando la linea del Pd, vista ora la deriva oligarchica che voleva imbrigliare il paese, si sono ricongiunti alla Meloni, anche per non dare solo a lei i consensi degli scontenti. Ed è venuto fuori il papocchio di ieri in Parlamento.
Per carità, sarà sbagliato andare di corsa a votare, è un salto nel buio, quando invece nel buio ci stavamo andando seduti nel treno guidato da Drago Draghi. Ma se è per questo tra un anno circa, diciamo tra nove mesi per essere ostetrici, quando cioè si doveva andare a votare per forza di scadenza, cosa sarebbe cambiato? Ci avrebbero detto ancora di non fare salti nel buio e qualcuno avrebbe ripetuto quel che dice oggi e diceva un anno fa: o Draghi o morte. Dopo aver ripetuto pochi mesi fa: o Mattarella o morte.

Ma come sono responsabili, loro, vogliono preservarci dall’avventurismo e dalle cadute nel buio… Faccio solo osservare, sommessamente, che quella catastrofe da voi prefigurata, quel precipizio tremendo che ci aspetta, un tempo si chiamava diversamente: il suo nome era democrazia, alternanza di governo, libertà di voto e sovranità di popolo. Ora voi direte: ma il rischio è troppo alto, e perciò vogliono tenerci ancora sotto tutela, come ai tempi della pandemia, come ai tempi di Berlusconi da cacciare, come ai tempi di Monti, Napolitano, Gentiloni, e via dicendo…
Nei prossimi manuali di scienza politica si definiranno ottimi i governi che non passano dal voto, pessimi quelli che ne scaturiscono; poi si definiranno responsabili i governi che contengono i dem, irresponsabili i governi senza di loro. E si aggiungerà che i migliori politici sono per definizione coloro che non lo sono, cioè i tecnici, gli oligarchi, i commissari internazionali.
Condivido tutte le riserve sull’armata brancaleone della politica e non nutro fiducia per nessuno di loro, sia esso tribuno della plebe o affiliato della Cupola. Però vi dico, a questo punto perché tenere ancora in vita la democrazia, pur nella forma ipocrita di democrazia delegata o parlamentare?

Perché non dichiarare ormai superata quella fase chiamata della sovranità popolare e libero voto in libero Stato? Non vediamo che o vincono i suddetti emissari della Cupola o la democrazia corre gravi pericoli, e martellanti campagne già si attrezzano per demolire in partenza governi con Meloni indigesti? E allora anziché cominciare prima con le campagne, poi con le intimidazioni, quindi con le minacce internazionali, gli assalti giudiziari e i ricatti economici, e infine boicottare i governi non allineati alla Cappa, perché non dichiarare ufficialmente che siamo nell’era delle oligarchie e dei governi calati dall’alto? Perché inventarsi un’emergenza dopo l’altra se possiamo più lealmente dichiarare che siamo passati a un’altra forma di governo e non sono più ammesse defezioni da parte del popolo sovrano alla linea imposta dai Grandi Poteri che contano? Avete anche un magnifico alibi a vostra portata, l’esempio disastroso dei grillini al governo e in parlamento, e dunque potete ben dire: vedete dove porta e come finisce il populismo e il voto sovrano?

Allora dichiarate che abbiamo eterno e infinito bisogno dei Draghi come dei Mattarella, e quel bisogno si abbrevia semplicemente in bis. Bene bravi bis, for ever. L’Italia senza di loro è una terra abitata solo da cinghiali, da incapaci e da dementi: per fortuna che abbiamo loro, Drag Queen e King Mattarel, i nostri sovrani a vita, come la Regina Elisabetta, ma loro non si sono limitati a regnare, come lei, ma sottogovernano con i poteri conferiti dalla Cupola internazionale. Mario per sempre, con Papa Sergio. Poi è arrivata la ventata di pazzia e ci siamo ritrovati, ma guarda un po’, in una situazione analoga a quella della Gran Bretagna: senza un governo in piena guerra, ancora in pandemia, in grave crisi economica ed energetica. Ma se cade Johnson eletto dal popolo sovrano è cosa buona e giusta, se cade Draghi, non eletto, è una tragedia. Salvo colpi di coda, si andrà a votare nel primo autunno. Torna malconcio e in vesti grottesche quel mostro chiamato democrazia, o perlomeno un suo parente o sosia.

(La Verità, 21 luglio 2022)

Ridateci il diritto di essere contro

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di Marcello Veneziani 

Fonte: Marcello Veneziani

Il diritto vale anche a rovescio; ossia tutela e garantisce anche chi dissente dal potere e diverge dall’opinione dominante. Ma da qualche tempo i diritti si vanno restringendo, le imposizioni crescono insieme al conformismo coatto. Prima con la pandemia, l’infinito strascico di restrizioni e obbligazioni, vaccini e green pass, sorveglianza e controllo; poi con la guerra in Ucraina e l’allineamento generale ai falchi della Nato e degli Stati Uniti. Ma ci sono anche altri precedenti e altre vicende collaterali che hanno spinto in quella direzione.
Ugo Mattei, giurista, ordinario di diritto civile, ha pubblicato un libro che già nel titolo contiene la sua tesi, Il diritto di essere contro (Piemme), dedicato al dissenso e alla resistenza nella società del controllo. Si comincia dai vaccini, dai controlli e dai pass, nel nome di una religione scientista, sanitaria e supponente, e si arriva a estenderli ad altri ambiti, fino a instaurare un bieco regime di sorveglianza.
Mattei è tra i firmatari del documento “Dupre” che esprime dubbi e preoccupazione sul regime sanitario e i suoi inquietanti sviluppi. Come lui sono firmatari anche l’oncologo e biologo Mariano Bizzarri e il filosofo Massimo Cacciari; il primo è autore di un recente, affilato pamphlet, Covid-19 un’epidemia da decodificare. Tra realtà e disinformazione (Byoblu edizioni), con un saggio di Cacciari che ne esalta il rigore scientifico e la libertà di giudizio. Per restare nella linea del dissenso è da segnalare un libro-dialogo tra Francesco Borgonovo e lo storico Luciano Canfora, che si occupa dell’altro versante scottante, La guerra in Europa, L’Occidente, la Russia e la Propaganda (Oaks editrice), offrendo una lettura divergente rispetto all’Informazione ufficiale e istituzionale.
A Mattei, Bizzarri, Cacciari, Canfora e Borgonovo, persone di diversa estrazione, non è negato il diritto di essere contro, i loro libri non saranno vietati. Neanche quelli di Alessandro Orsini e di Toni Capuozzo, di Giorgio Agamben e di Carlo Freccero (neanche i miei, se è per questo). Ma saranno ignorati, emarginati o disprezzati e derisi in coro dall’Intellettuale Collettivo. Chi è fuori dalla cappa o dalla cupola, costeggia ai bordi l’editoria, i social e magari si affaccia pure in tv; ma è fuori dal sistema che non ammette contraddittori al suo interno, ma solo ai margini, fuori. La linea divisoria tra insider e outsider è sempre più marcata, come un fossato.

E non si tratta di voci isolate, minoranze esigue in via d’estinzione; ma esprimono un pensiero, un sentire, un’opinione assai larga, forse perfino maggioritaria. Che emerge nei social, affiora nei sondaggi, si trasmette col passaparola. A volte attraversa anche categorie come i medici, i ricercatori, gli intellettuali, i diplomatici, i militari ma il timore di sanzioni, problemi alla carriera e gogna mediatica, li induce a confessare in privato opinioni, dubbi e preoccupazioni che in pubblico sono prudentemente nascoste o stemperate.
Con la scusa dell’emergenza ormai permanente, anche se mutano le sue ragioni, si instaura un regime. Mattei accusa Draghi e Mattarella, ma anche Monti e Napolitano, la magistratura compiacente, i piani scellerati di svendita pubblica e privatizzazione, il servilismo atlantista verso gli Stati Uniti, Big Pharma, i colossi della finanza e del capitalismo globale. Siamo entrati nell’era della Sottomissione, definizione fino a ieri riferita al fanatismo islamista (si pensi al libro omonimo di Michel Houellebecq). Secondo Mattei l’Italia è il luogo in cui l’Occidente sta sperimentando la sostituzione del diritto con l’antidiritto, una forma di controllo sociale sul tipo cinese o coreano, tramite ricatti, tracciamenti, algoritmi, censure. Stiamo arrivando tramite il neo-liberismo a una nuova forma di “dispotismo occidentale”.
Il limite dell’invettiva di Mattei è che da un verso non vede il ruolo parallelo e decisivo che ha avuto l’ideologia progressista e i suoi cascami, il politically correct, la cancel culture sulla distorsione della mentalità, la negazione della realtà e della varietà, i divieti e la fabbrica dell’intolleranza. E dall’altro si ostina a giudicare tutto questo come fascismo, contro cui auspica una nuova resistenza e un nuovo comitato di liberazione. Ora, dai residui ideologici che ne sono il sostrato, dagli interessi privati che si perseguono, dai modelli adottati (come quello cinese), tutto si può dire meno che sia un nuovo fascismo. E quando Mattei vede Draghi come il nuovo fascismo, asservito al capitalismo finanziario, all’atlantismo e all’apparato liberista, va del tutto fuori strada; il fascismo è agli antipodi. Sarebbe invece molto più proficuo interrogarsi sul perché il nuovo globalismo armato e sanitario, finanziario e tecnocratico, abbia trovato nei progressisti la loro guardia bianca, nei dem il loro partito-regime e i falchi nella salute, nella censura come nelle armi. Il regime si fonda sulla saldatura tra sinistra radical e capitalismo global, tra liberal e liberisti.
Il quadro che ne traccia è veritiero: in Occidente un oligopolio finanziario globale controlla i mass media, procede al gran reset, sfonda i confini tra il pubblico e il privato. E si accinge a imitare il modello cinese, abolendo il contante per sorvegliarci con la carta elettronica, inserendo la cittadinanza a punti, censurando il dissenso. Ma poi Mattei si lascia prendere la mano e confessa di preferire “un partito unico funzionale” come quello cinese, a “un finto pluralismo di pagliacci, nani e ballerine”. Allora si, che “il diritto di essere contro” verrebbe del tutto sradicato…

PENSIERI ERETICAMENTE CORRETTI SULLA GUERRA IN UCRAINA

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/05/02/pensieri-ereticamente-corretti-sulla-guerra-in-ucraina/

L’ASSOLUTA MANCANZA DI DIBATTITO IN MERITO ALLA GUERRA IN CORSO IN UCRAINA DIMOSTRA IL NOSTRO SCARSO LIVELLO DI DEMOCRAZIA…

Uno dei più preparati intellettuali italiani, Pietrangelo Buttafuoco, ha avuto modo di lamentare, dalle colonne del quotidiano La Verità del 25 aprile 2022, l’assoluta mancanza di dibattito in merito alla guerra in corso in Ucraina. «Tutto è destinato alla propaganda, alla malafede obbligata», ha affermato. E prosegue, sarcasticamente: «l’Italia, rispetto alla Nato, è come la Bielorussia per Putin».

Buttafuoco getta proprio ancora benzina sul fuoco: «Neppure la democrazia cristiana più cattocomunista dei Dossetti ha mai avuto un atteggiamento di tale sudditanza. Forse anche perché il pontificato dell’Italia di allora aveva un peso che l’attuale non ha. Oggi agli Stati Uniti non importa nulla del Vaticano, sono indifferenti e quasi sprezzanti. Non considerano questo Papa un interlocutore. Purtroppo siamo sempre costretti a ragionare in un ambito angusto: quando alziamo lo sguardo sulla scena internazionale non ci rendiamo conto di come all’estero considerino le vicende italiane».

Anche l’attuale centrosinistra, per alcuni veterocomunisti sorprendentemente ultra-atlantista, non sorprende l’opinionista siciliano, perché ne conosce l’ideologia: «quella di avere sempre uno Stato guida cui fare riferimento. È l’ortodossia togliattiana».

Oggi, per i sinistri d’ogni parrocchia, esso «è direttamente il “deep state” americano. D’altro canto, in una situazione come questa non possiamo pensare che sia Biden l’eminenza grigia, il cervello fondante. Semmai è la Cia e quelle strutture di sistema che costituiscono l’apparato di potere dell’Occidente».

Buttafuoco ha scritto, anche, che gli Stati Uniti vogliono trasformare la Russia nell’Unione Europea e, la sua riflessione, anche da questo punto di vista è molto interessante: «per l’Occidente la Russia è un nemico più ostile persino dell’Unione Sovietica, perché decenni di materialismo scientifico non sono riusciti a scalfirne l’identità e lo spirito. La Russia è la prima potenza cristiana sul continente europeo, ha solide tradizioni, a Dio i russi ci credono davvero. Tutto ciò appare preoccupante e odioso per chi guarda il mondo con gli occhi del laicismo e dello scientismo occidentale».

Il mondo politico ed economico del Paese – sostiene Buttafuoco – «anziché perdere tempo con la propaganda, dovrebbe riflettere su una guerra che mette in discussione la globalizzazione. Noi occidentali siamo convinti di avere la parola definitiva sugli eventi della storia, ma esiste un disegno globale dove potenze spiritualmente fortissime si sono incontrate: Cina, Russia, India, Pakistan».

Se, ad osservatori attenti alle questioni internazionali appare evidente che vincerà Vladimir Putin, vedremo i cortigiani della NATO, televisivi e della carta stampata, fare l’inchino al grande zar. Del resto, la storia si ripeterà semplicemente: noti uomini di cultura e giornalisti, “camerati” fino al 24 Aprile 1945, sono diventati gli scendiletto degli Alleati, il giorno dopo. Avverrà anche con la Russia. Già pregusto il Caffè di Gramellini corretto alla vodka, assieme a Buttafuoco e a numerosi amici che non hanno messo la testa sotto la sabbia e che non solo allineati alla propaganda mainstream.

Su “Ardire” del 2 Marzo 2022, il giornalista Javier André Ziosi scrive: «contrariamente a quanto si possa pensare, l’Ucraina è dominata da una potente loggia massonica di matrice ebraica, la B’nai B’rith, che fin dal 2014 ha soffiato sul fuoco della guerra, conducendo all’attuale conflitto. Poche ore dopo l’invasione russa dell’Ucraina (cominciata alle prime ore del 24 febbraio), la sezione inglese della loggia massonica ebraica B’nai B’rith – nota per influenzare la politica e i governi di tutto l’Occidente – ha emanato un significativo, seppur breve, comunicato di denuncia» dell’azione di guerra operata dalla Federazione Russa.

Anche il Primo Ministro d’Israele, Naftali Bennet (che, a ottobre 2021, aveva partecipato ad un incontro «caloroso e positivo» con Putin), si è espresso a favore del popolo ucraino e contro l’invasione russa: «come tutti gli altri, preghiamo per la pace e per la tranquillità in Ucraina».

Anche il giornalista Maurizio Blondet, ex del quotidiano Avvenire, va alla ricerca di un dibattito pubblico, seppur in termini differenti rispetto a quelli utilizzati da Buttafuoco. Il suo ragionamento mira a dimostrare che c’è una precisa regia dietro l’adesione acritica di massa alle politiche NATO: «che cosa unisce l’ebraismo militante e massonico, e con esso Israele, all’Ucraina e al suo presidente, l’ebreo Volodymyr Zelens’kyj? Esiste un legame occulto fra la B’nai B’rith e la nuova Ucraina europeista e filo-americana emersa dal “golpe” del 2014? Di chi sono le responsabilità del conflitto? Obiettivo della B’nai B’rith, in sintesi, fu quello di coinvolgere gli ebrei ucraini (e altre minoranze etniche, come i tatari) nelle proteste, convogliando tutte le forze anti-russe – compresa la destra radicale, composta dal partito Svoboda, dal Congresso Nazionalista e dal movimento Pravyj Sektor – in un unico, grande cartello europeista e filo-americano, in grado di condurre ad un radicale cambio di governo e svincolare così l’Ucraina dalle grinfie della Russia. Attraverso ONG e attivisti locali e stranieri, col consueto apporto dell’ebreo ungherese George Soros, la loggia B’nai B’rith soffiò sul fuoco del malcontento ucraino, portando ad una veloce escalation delle proteste e alla conseguente fuga di Yanukovych (febbraio 2014), che, come previsto, lasciò il Paese in mano alla cricca europeista e filo-sionista del nuovo presidente Petro Porošenko, il quale, un anno dopo, è già a Gerusalemme per stringere diversi accordi bilaterali, ammettendo: “L’Ucraina è con lo Stato di Israele».

La giornalista anti-russa Anne Applebaum, domandandosi il «perché l’Ucraina è diventata l’ossessione di Putin», ha risposto: «è una democrazia, e questo per [Putin] è un pericolo. Putin è spaventato all’idea che a Mosca possa ripetersi quello che è accaduto a Kiev nel 2014. Lo considera una minaccia personale. Ho sempre pensato che Putin fosse razionale, a modo suo. Non ha mai preso grossi rischi, in fondo. Era brutale, magari, ma non si è mai buttato in sfide che non potesse vincere. Oggi è diverso. L’invasione sembra un azzardo. […] Non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere».

Pertanto, sorge spontanea una domanda: è corretto, nel caso dell’invasione dell’Ucraina, da parte delle truppe russe, parlare di «denazificazione», quando invece i cosiddetti “nazisti” ucraini non possiedono alcun seggio in parlamento e il Paese è governato da un ebreo? «Dobbiamo concentrarci sui fatti», ha dichiarato il reporter Avi Yemini, «i russi hanno invaso perché l’Ucraina è nazista? No. Esiste un problema di estremismo in Ucraina? Sì, ma non è questa la ragione che spiega quello che sta accadendo».

La Russia, capofila di tutti i Paesi emergenti d’Oriente, soprattutto della Cina, pretende, perché ne ha la forza, un mondo multipolare, ove non esistano potenziali minacce ai confini costituite da basi militari o laboratori bio-chimici. Appare, dunque, poco lungimirante evitare di sedersi ad un tavolo diplomatico per addivenire, almeno, agli accordi sostanziali per la “nuova società” del Terzo Millennio. E mostrare i muscoli da parte di questo Occidente secolarizzato e debole, sembra davvero assurdo, perché l’UE passa per Tafazzi, assieme a tutta la combriccola NATO.

 

Perchè l’occidente odia la Russia e Putin

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di Fabrizio Marchi

Fonte: Fabrizio Marchi

Anche se può sembrare fantapolitico, specie per chi non si occupa di politica internazionale, è importante sottolineare che l’obiettivo strategico dell’offensiva globale americana (leggi, fra le altre cose, l’espansione della NATO ad est), è la Cina, non la Russia.
L’indebolimento o addirittura la destabilizzazione della Russia sul medio-lungo periodo è “solo” (con molte virgolette…) un passaggio intermedio, anche se di enorme importanza, al fine di isolare la Cina, il vero e più importante competitor degli americani. Che ciò sia possibile è tutto da verificare, naturalmente, ma a mio parere questa è l’intenzione.
Gli Stati Uniti puntano a prolungare quanto più possibile il conflitto in Ucraina se non a renderlo permanente. In questo modo sperano di dissanguare la Russia sia dal punto di vista militare che soprattutto economico, e di logorarla con il tempo anche sul piano psicologico, minando la coesione interna. Sul medio periodo la guerra potrebbe rafforzare e sta già rafforzando molto la leadership di Putin ma sul lungo potrebbe, forse, indebolirla. Del resto, restare impantanati in una guerra di lungo periodo può essere ed è stato destabilizzante per tutti. Pensiamo al Vietnam per gli USA e all’Afghanistan sia per l’America che per l’Unione Sovietica, solo per portare alcuni esempi noti. E per quanto la leadership di Putin sia molto solida, non possiamo escludere a priori nel tempo un suo indebolimento interno. Quanto e se ciò sia possibile, come dicevo, è altro discorso ma io credo che la strategia del Pentagono sia questa.

Subito dopo il crollo dell’URSS (ma il disfacimento era iniziato già da tempo) la Russia era ridotta ad una colonia, un paese con un enorme serbatoio di materie prime da saccheggiare e una grande massa di manodopera a bassissimo costo a disposizione per le multinazionali e le aziende occidentali, più un governo di affaristi senza scrupoli in combutta con la mafia e guidato da un fantoccio ubriacone al servizio degli USA. I quali erano ormai convinti di avere il mondo in pugno. E questo è stato il loro più grave errore. Un errore che per la verità hanno commesso spesso negli ultimi trent’anni. Sono rimasti letteralmente spiazzati dalla crescita economica impetuosa, se non portentosa, della Cina e non pensavano che la Russia potesse risollevarsi e ritrovare la sua forza, il suo baricentro, la sua identità, che è quella di un grande paese, con una grande storia, una grande cultura e un grande popolo che non può accettare di essere ridotto ad una colonia dell’Occidente.
Che ci piaccia o no (questo è del tutto indifferente al fine della comprensione delle cose) Putin è stato l’uomo che ha incarnato questa rinascita. Ed è proprio questo che l’Occidente non gli perdona. Perché gli ha tolto quel grande giocattolo che pensavano di avere ormai tra le mani e così facendo gli ha tolto il sogno – che sembrava ormai raggiunto – di poter dominare sull’intero pianeta.

Che poi la crociata antirussa sia all’insegna della difesa dei valori occidentali, della libertà, dei diritti civili e della democrazia, è ovviamente scontato, ma sono chiacchiere, propaganda delle più scontate, minestrine per ingenui (non voglio infierire…). L’Occidente fa e ha fatto affari, appoggiato, finanziato, armato e spesso creato di sana pianta le più feroci dittature in tutto il mondo (così come non esita oggi a nobilitare la peggiore feccia nazifascista mai vista in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale in poi), figuriamoci se il problema possono essere i diritti e la democrazia. Se Putin fosse al suo servizio potrebbe pure mangiarsi letteralmente i bambini a colazione che non gliene importerebbe assolutamente nulla e troverebbero anche il modo di occultarlo.
Indebolire, ridimensionare drasticamente o addirittura destabilizzare la Russia e insediare un governo compiacente, significherebbe, come dicevo, isolare la Cina. Pensiamo oggi all’India, un paese formalmente collocato nella sfera di influenza occidentale ma di fatto non ad esso omogeneo, per ovvie ragioni geografiche e quindi economiche e commerciali. Venendo meno la Russia, cioè l’altro principale bastione, oltre alla Cina, del blocco (euro)asiatico, l’India verrebbe inevitabilmente risucchiata nella sfera occidentale e forse anche il Pakistan, alleato fino a poco più di un anno o due anni fa degli Stati Uniti.

Si tratta ovviamente di una strategia e di un progetto ambiziosissimi che gli americani potrebbero giocarsi sul medio e lungo periodo. Del resto, se non riescono a spezzare in qualche modo il legame fra Russia e Cina, cioè l’asse centrale del (possibile ma non ancora del tutto omogeneo) blocco asiatico, per gli Stati Uniti e per il blocco occidentale le cose si potrebbero mettere molto male.
E’ per questo che la crisi in corso è sicuramente la più grave e inquietante dal termine della seconda guerra mondiale ad oggi. Una crisi di cui obiettivamente non siamo in grado di prevedere gli sviluppi e soprattutto gli esiti, potenzialmente drammatici.

Luca Palamara: Le verità nascoste sulle fughe di notizie

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NOTA STAMPA:

La problematica della fuga di notizie riservate dagli uffici della Procura della Repubblica, è spesso sminuita all’interno della magistratura da parte di chi sostiene:

• che la pubblicazione di atti e informazioni da qualificarsi segreti ai sensi del codice penale riguarda un numero minimo di casi;
• che in questi pochi casi le fughe di notizie sono, comunque, solamente “asserite”;
• che la rivelazione che precede tale pubblicazione è un reato grave, che ogni volta diventa oggetto di indagine;
• che è estremamente difficile individuarne gli autori considerando: il numero non limitato di soggetti a conoscenza del segreto; la possibilità per il giornalista di non rilevare la fonte; l’utilizzazione di chat segrete per inviare e/o ricevere gli atti.

Tuttavia, la realtà sembra dire altro:
non è vero che le fughe di notizie riguardano un numero limitato di casi. Infatti a partire da calciopoli del 2006, quando l’Espresso pubblicò il famoso “libro nero”, si sono moltiplicati i casi in cui atti e notizie secretati sono stati interamente pubblicati dagli organi di stampa. Tra i più eclatanti, basta ricordare: la diffusione dell’audio Berlusconi–Sacca’ nell’indagine sulla compravendita di voti a Napoli; l’intercettazione Fassino–Consorte nell’inchiesta Unipol; la diffusione delle telefonate Adinolfi–Renzi nell’inchiesta sulla CPL Concordia; la diffusione degli interrogatori nell’inchiesta Consip; la diffusione delle intercettazioni nell’inchiesta perugina sul CSM; la recente indagine sulla fondazione Open di Matteo Renzi. E gli esempi potrebbero tranquillamente continuare;

non è vero che le fughe di notizie sono “asserite”. Infatti quando i giornali pubblicano atti riservati, la fuga di notizie deve considerarsi “conclamata” e non “asserita”. Questo è quello che ad esempio è avvenuto nella vicenda della fondazione Open posto che i principali quotidiani nazionali hanno pubblicato atti coperti dal segreto dell’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze (si pensi ad esempio ai conti correnti, alle missive riservate, ai nominativi dei soggetti terzi da perquisire). Intervenendo nella trasmissione Piazza Pulita, il Cassese ha autorevolmente affermato che: “noi abbiamo una norma della Costituzione che dice che l’accusa va comunicata riservatamente al destinatario. È questa pubblicità che preoccupa soprattutto perché tra gli indagati il 75% risulta poi innocente. Invece nel caso di cui parliamo nessuno era indagato, eppure stanno subendo tutti un processo mediatico durissimo e ingiusto;

non è vero che le notizie riservate sono a disposizione di un numero non limitato di soggetti. In realtà la cerchia dei soggetti a conoscenza del segreto investigativo, soprattutto nella prima fase delle indagini, deve ritenersi limitata ai pubblici ministeri titolari delle indagini e agli ufficiali della polizia giudiziaria che hanno redatto l’informativa. Ciò si evince anche dalla lettura della sentenza n. 229 del 2018 della Corte Costituzionale, che annullando la norma che prevedeva la comunicazione di notizie riservate ai vertici di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, ha altresì precisato che: “nell’attuale sistema del codice di rito, il segreto investigativo deve assistere gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari… impedendo che sia conosciuto il contenuto di un atto d’indagine, il segreto investigativo, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 420 e n. 59 del 1995), si appalesa strumentale al più efficace esercizio dell’azione penale, al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini”. Vale la pena ricordare che nell’agosto del 2016 in concomitanza con l’entrata in vigore di questa norma, tanti magistrati, tra cui i capi delle più importanti procure italiane, avevano duramente protestato temendo che in questo modo potesse allargarsi la ristretta cerchia dei soggetti a conoscenza di indagini riservate. Oggi, che i giornali pubblicano quasi in tempo reale notizie riservate di inchieste in corso, si ode solo un silenzio assordante.

Quali allora le cause della mancata individuazione dei responsabili? È proprio lo stretto collegamento spesso esistente tra gli inquirenti e i giornalisti rende estremamente problematico l’accertamento della responsabilità penale nel caso in cui si verifica una rivelazione di segreto d’ufficio. Sul punto il Dott. Gratteri, in una recente intervista sul quotidiano La Verità, afferma con molto coraggio che: “ci sono troppi mostri sbattuti in prima pagina per un cattivo rapporto tra magistrati e giornalisti. Abbiamo bisogno di giornalisti che raccontano il lavoro del magistrato perché la criminalità si combatte anche informando con onestà l’opinione pubblica in modo che si rafforzi una coscienza civile. Ma i giornalisti non devono fare i piacioni vantando rapporti privilegiati con questa o quella toga, non devono innamorarsi dei pubblici ministeri: il giornalismo che fa il copia e incolla delle ordinanze della magistratura passando le ore nelle sale di attesa rende un pessimo servizio alle due professioni e al paese nel suo complesso”.
Si tratta di parole che scattano una fotografia impietosa ma vera della realtà perché c’è un momento dell’indagine penale in cui chi indaga ha necessità di rendere il procedimento penale oggetto di attenzione mediatica al fine di ottenere vantaggi in termini di notorietà e carriera. Quando questo accade a scrivere sono sempre gli stessi giornalisti individuati come affidabili dal punto di vista della credibilità personale e della testata che rappresentano da parte dei pubblici ministeri e/o della polizia giudiziaria.

Nel giugno del 2007 la Corte dei diritti dell’uomo, nel caso Dupuis, ha definito la stampa il cane da guardia della democrazia. Pertanto il giornalista che riceve e pubblica una notizia riservata non fa altro che esercitare il suo mestiere anche in considerazione del fatto che il reato di rivelazione di segreto di ufficio è un reato del pubblico ufficiale e il giornalista ne risponde solamente, in concorso, se ha istigato o determinato lo stesso pubblico ufficiale a commetterlo. A ciò si aggiunga che il codice di procedura penale non obbliga il giornalista a rivelare la fonte da cui ha appreso la notizia.
In questo quadro individuare il pubblico ufficiale che materialmente si è reso responsabile del reato di rivelazione di segreto di ufficio, magari utilizzando chat segrete, diventa estremamente problematico anche perché le indagini su questi reati vengono svolte dalla stessa Procura della Repubblica presso cui si è verificata la fuga di notizie, con il paradossale effetto per cui i pubblici ministeri dovrebbero indagare su se stessi o peggio ancora sugli ufficiali di polizia giudiziaria con i quali normalmente lavorano, salvi i casi in cui non scatta la competenza prevista dall’art. 11 del codice di procedura penale.
Perché allora a prescindere da ogni altra eventuale forma di responsabilità penale, il Consiglio Superiore della magistratura in occasione della procedura di conferma quadriennale non valuta il comportamento del dirigente anche sotto questo profilo ed in particolare sulla sua capacità di aver adottato tutti gli accorgimenti idonei ad evitare la pubblicazione di atti e notizie riservate? Infatti nel nostro ordinamento esistono delle norme che impongono una serie di obblighi a chi, come ad esempio il Procuratore della Repubblica, ha la titolarità di gestire atti e notizie riservate la cui inosservanza può essere foriera di una responsabilità sul piano civile, amministrativo e disciplinare.

Al riguardo l’art. 111 della Costituzione stabilisce che nel processo penale la legge assicura che la persona accusata di un reato sia nel più breve tempo possibile informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico.
Tale articolo riceve una pratica attuazione nel D.Lvo 106/06 nell’art. 1, secondo comma, del D.Lvo 106/06 a mente del quale il Procuratore della Repubblica è tenuto ad assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nonché il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio.
Più di recente il secondo comma dell’art. 89 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, norma introdotta dalla riforma Orlando per disciplinare la segretezza delle intercettazioni, ha ulteriormente responsabilizzato il ruolo del Procuratore della Repubblica stabilendo che: “l’archivio è gestito, anche con modalità informatiche, e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica, con modalità tali da assicurare la segretezza della documentazione custodita. Il Procuratore della Repubblica impartisce, con particolare riguardo alle modalità di accesso, le prescrizioni necessarie a garantire la tutela del segreto su quanto ivi custodito”.

A chiudere il sistema vi è infine l’art. 124 del codice di procedura penale il quale stabilisce che i magistrati i cancellieri e gli altri ausiliari del giudice, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a osservare le norme di questo codice anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale. Benché sfornita di una specifica sanzione, questa norma ulteriormente responsabilizza il ruolo del Procuratore della Repubblica implicando in caso di inosservanza una responsabilità civile, disciplinare e/o amministrativa.
In conclusione la credibilità del sistema giudiziario passa anche attraverso la capacità dei suoi protagonisti di coniugare il diritto all’informazione con la tutela della privacy delle persone coinvolte e soprattutto con la capacità di chi indaga, pubblici ministeri e polizia giudiziaria di riferimento, di evitare corsie e canali preferenziali con questa o quella testata giornalistica, strumentalizzando in questo modo la funzione del processo penale che non diventa più il luogo nel quale verificare i fatti e la rilevanza penale degli stessi, ma uno strumento per realizzare altri fini ed altri obiettivi totalmente estranei a quella funzione.

La Russia e la Cina sono più forti dell’Occidente?

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per www.informazionecattolica.it 

LA GUERRA IN UCRAINA STA DIMOSTRANDO L’INCONSISTENZA DELLE DEMOCRAZIE EUROPEE

La gestione dell’emergenza pandemica ha dimostrato l’impreparazione e, quindi, la debolezza delle democrazie europee, che hanno risposto con assurde restrizioni e grotteschi tentativi campione, malriusciti e ritirati. La guerra in Ucraina sta dimostrando, in più, l’inconsistenza delle democrazie europee e, in un certo senso, la debolezza degli Stati Uniti di Joe Biden, che si sono ritirati dall’Afghanistan in quel modo così disonorevole ed arrendevole da stupire la maggioranza degli osservatori internazionali. Perché la debolezza delle democrazie è data dal fatto che sono divenute plutocrazie, con la ricchezza in mano a pochi che comandano su molti. L’Enciclica di Pio XI Quadragesimo Anno (15 maggio 1931), nel condannare questo sistema, fu profetica quanto inascoltata.

Donald Trump ha rilasciato una dichiarazione che non lascia margini ad interpretazioni: “con la mia Presidenza non sarebbe accaduto niente. Abbiamo mantenuto sempre rapporti distesi e di collaborazione con la Russia“. Non solo: Trump ha previsto, anche, a ruota, l’invasione di Taiwan da parte della Cina, ovvero uno spostamento ad est dell’asse delle superpotenze, a scapito dell’Occidente, che, a furia di contar dollari sulla pelle dei popoli, non si è accorta dei cambiamenti in corso negli ultimi decenni, divenendo un autentico nano geopolitico.

Le dichiarazioni roboanti e le minacce di parte occidentale, capitanate dal Presidente Biden, dalla NATO e dall’ONU appaiono un modo per nascondere l’impossibilità di reagire alla Russia sia militarmente che attraverso una seria applicazione di sanzioni. Nessuno è disposto a morire per Kiev, così come nessuno è disposto a sacrificarsi per Taiwan. Costa troppo, sul piano economico e troppa è l’incertezza di finire in un altro Vietnam. Se Biden facesse applicare davvero pesanti sanzioni, si trasformerebbe nel nuovo Tafazzi, perché a pagarne il prezzo sarebbero i cittadini europei, a livello energetico. Chi si assume la responsabilità di far pagare 4.000 euro ogni 1.000 metri cubi di gas alle famiglie, come risposta alle sanzioni?

Il primo problema è la mancanza di indipendenza da parte dell’Europa, che, ora, può solo fare da scendiletto alla NATO, istituzione obsoleta, da sciogliere al più presto per ridare sovranità alle Nazioni europee e, quindi, libertà di scelta nelle politiche e nelle alleanze da seguire. Si nota come stranamente le sinistre riscoprano il valore della sovranità nazionale, se si tratta di difendere gli interessi americani in Ucraina, mentre la negano, in nome del globalismo, in ogni altro contesto. Il secondo problema, che è la diretta conseguenza del primo, è l’assoluta mancanza di una politica, anche militare, a livello europeo. L’Unione Europea appare esclusivamente un comitato d’affari dell’alta finanza internazionale, garante della moneta unica in una banca privata (BCE) che ha deciso di indebolire gradualmente il ceto medio di ogni Paese membro, producendo un generale aumento del costo della vita, sproporzionato rispetto al reddito e sbilanciato sull’età pensionabile. Tale impoverimento del ceto produttivo è una delle motivazioni della disaffezione elettorale, che, infatti, ha dato la maggioranza relativa al partito dell’astensionismo.

Di fronte a questo decadentismo, non possiamo dimenticare la dimensione religiosa. La secolarizzazione iniziata negli anni settanta, sta raggiungendo preoccupanti livelli di nichilismo dilaganti soprattutto nelle nuove generazioni. Un pensiero unico assai debole, ma largamente diffuso, accompagna il Vecchio Continente in un baratro di ignoranza, ipocrisie, cattiverie, relativismo ed egoismo che non hanno precedenti. La Russia e la Cina, al contrario, hanno mantenuto salde e forti le loro radici e le loro identità, divenendo grandi potenze economiche e militari globali.Dopo il 1991 il liberalismo ha vinto totalmente e si è affermato come la sola possibile ideologia politica su scala mondiale: oggi abbiamo un sistema politico ed economico liberale ed un sistema culturale e filosofico fondato sull’individualismo. Come ha detto Francis Fukuyama, “la storia del mondo è finita“, perché il liberalismo ha vinto, non ha più alternative e può quindi mostrare la sua natura totalitaria: questa è post-modernità. Il liberalismo, quindi, si afferma,  entro un “sistema chiuso”, come «l’emancipazione dell’individuo da tutti i legami con l’identità e con la collettività: è un processo che è iniziato con la “liberazione” dalle religioni, è proseguito con la “liberazione” dalla Nazione e poi dal genere sessuale ed, infine, verrà l’emancipazione dall’umanità stessa (transumanesimo postmoderno). Il liberalismo non è soltanto ideologia, ma anche l’essenza degli “oggetti”, il centro della realità, l’assenza di ogni trascendenza» (Alexander Gel’evic Dugin).

Che fine ha fatto la democrazia?

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Che ne è della democrazia nel nascente anno 2022? Il regime sanitario in cui viviamo ha spostato la sovranità sulla scienza, sulla medicina, sui poteri costituiti e sulle governance, indebolendo ulteriormente la sovranità popolare e la democrazia, già da tempo svuotate, vigilate e limitate da poteri tecnocratici, finanziari e sovranazionali, e dalle emergenze sanitarie, economiche, sociali. Cosa resta allora della democrazia? Il problema non riguarda solo i luoghi e gli ambiti della decisione, ma tocca gli spazi di partecipazione e dissenso, i diritti delle minoranze e le differenze d’opinione e non solo. La democrazia è in crisi, in pericolo o solo sospesa; comunque è fortemente sorvegliata e imbrigliata. La crescita dell’astensionismo è un’ulteriore conferma della democrazia svuotata: se perdi fiducia nell’effetto del voto, se ritieni che ci siano obblighi a cui ogni governo dovrà comunque ubbidire, e dunque il tuo voto non cambia le cose, sei poco motivato a votare. La democrazia muore pure d’anoressia.
Non c’è dubbio che l’ondata pandemica ha ridisegnato la mappa dei poteri nelle democrazie: in fondo, Trump negli Stati Uniti fu battuto dal covid prima che da Biden e dai presunti brogli elettorali. Il fronte sovranista in Europa si è scisso e frantumato nell’impatto con l’emergenza sanitaria e col relativo piano di ricostruzione dopo il disastro economico. In tutto il mondo i populisti hanno perso terreno e fascino da quando l’emergenza sanitaria ha ristretto i margini di dissenso e gli argini di agibilità politica: se prima la metà delle popolazioni era tentata dalla scorciatoia dei populismi variamente definiti e collocati, oggi il dissenso si è radicalizzato in una piccola minoranza populista che contesta il green pass e le strategie vaccinali e sanitarie; mentre una parte di populisti è rifluita su posizioni “realiste”, ha come stemperato e sospeso le ostilità davanti all’emergenza sanitaria ed economica che ne è derivata. In realtà non è andata in crisi solo la democrazia, ma più vastamente la politica. C’è stato un travaso di antipolitica dai populisti ai vigilanti tecnosanitari, eurocrati, virologi e apparati di controllo.
Il caso italiano è esemplare: il passaggio del premierato dal populista camaleontico Giuseppe Conte all’eurocrate della finanza Mario Draghi, con una maggioranza larga ed eterogenea, mostra perfettamente la parabola da un’antipolitica all’altra, dal grillismo al draghismo. Dall’antipolitica di piazza all’antipolitica di Palazzo.
Si è ristretta la democrazia al punto che non riusciamo a vedere un governo oltre Draghi e un Quirinale oltre Mattarella: è il trionfo dell’esistente, del vigente, il desiderio di fermarsi al punto in cui siamo o al più di avere continuatori, cloni, dei predetti; senza mai fuoruscire da quel contesto.
Non è solo in gioco l’idea di alternativa che dovrebbe costituire il sottofondo di ogni democrazia, ma anche la più modesta idea di alternanza. Chiunque vada al governo deve seguire strettamente i percorsi e le procedure segnate, senza mai deviare: è l’Europa che traccia il solco e dà le direttive, a cui attenersi scrupolosamente. Il range in cui muoversi è assai ristretto, quasi inesistente. Cosa è successo? Quel che a livello di politica sanitaria sono i protocolli: non la cura ad personam o affidata all’abilità del medico, alle sue capacità inventive, alle sue conoscenze e alle sue esperienze; nulla che sia legato alle specifiche condizioni del paziente. Ma un protocollo che vale per tutti, a cui attenersi, senza sgarrare. La stessa cosa succede ora in politica: chi verrà  dovrà comportarsi come Mattarella, seguire la via tracciata da Draghi, osservare le direttive europee. Di conseguenza, la percezione più diffusa, che produce sconforto e disaffezione politica ed elettorale, è che chiunque vinca non potrà sottrarsi a quegli imperativi. Vinca pure la destra o il centro-destra dovrà seguire il protocollo. Fine dell’alternanza, oltre che dell’alternativa, fine della democrazia e della libertà. Omogeneità, conformità. I partiti funzionano ormai come i vaccini; si può pure avere un richiamo diverso rispetto ai precedenti inoculati, ma nella stessa linea. Ancor prima della legittima, sacrosanta domanda sulle classi dirigenti dei partiti d’opposizione, sulla loro qualità e affidabilità, c’è questo test preliminare che li mette fuori gioco o fuori dal loro messaggio politico: il test di conformità alle linee indicate. L’elettore sa che dopo aver tuonato all’opposizione, poi una volta al governo dovrà adeguarsi per farsi accettare e per galleggiare. Nessuno ha spalle così forti da reggere l’impatto ostile…
Utile al riguardo è il numero monografico della rivista Il Pensiero storico a cura di Danilo Breschi sul tema Democrazia: così vicina, così lontana con i contributi di tanti studiosi tra cui Bedeschi, Cacciari, Cofrancesco, de Benoist, Galli (e chi scrive, l’intervista sulla democrazia è stata pubblicata sul sito).
Non siamo mai stati fanatici della democrazia, non abbiamo mai creduto al primato della quantità e all’uno vale uno. Sappiamo che non esistono governi del popolo ma solo governi dei pochi: una buona democrazia è un governo di pochi nell’interesse di molti, una cattiva democrazia è un governo di pochi nell’interesse di pochi. Non c’è democrazia senza élite dirigente, senza aristocrazia e senza orizzonte comunitario. Ma una democrazia senza vera alternanza e possibili alternative, senza circolazione delle élite, senza competizione tra programmi politici e sociali diversi, senza trasparenza e sovranità popolare e nazionale, non è una democrazia. Se l’ideale è una democrazia decisionista e comunitaria, ci siamo avviati sulla strada opposta, verso un’oligarchia irrevocabile e immunitaria.

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