Pubblica un video contro Israele: il calciatore del Nizza Youcef Atal condannato a 8 mesi di carcere

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Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/01/03/pubblica-un-video-contro-israele-il-calciatore-del-nizza-youcef-atal-condannato-a-8-mesi-di-carcere/7399904/

di F.Q.

Una multa di 45mila euro e 8 mesi di carcere (con sospensione della pena): questa la condanna del Tribunale di Nizza per Youcef Atal, calciatore della squadra locale e della Nazionale dell’Algeria. Atal è stato condannato per “provocazione all’odio a causa della religione” per aver condiviso un video sui social che invocava “una giornata nera per gli ebrei“. Il giocatore era già stato sospeso dal Nizza, che milita in Ligue 1, mentre la Federcalcio francese ha deciso di sospenderlo per 7 partite a partire dallo scorso 31 ottobre.

Atal, nell’ambito del conflitto tra Israele e Hamas, aveva rilanciato il video del predicatore palestinese Mahmoud al-Hasanat che chiedeva appunto a Dio una punizione contro Tel Aviv. Il Tribunale, oltre a condannarlo, ha stabilito che il calciatore algerino dovrà pubblicare a proprie spese la sentenza sul quotidiano Nice-Matin e su Le Monde. Non solo, la stessa sentenza dovrà essere pubblicata anche sul suo account Instagram – doveva aveva condiviso il video al centro del processo – e rimanerci per almeno un mese.

Atal gioca per il Nizza dal 2018 (è stato anche compagno di squadra di Mario Balotelli). Di ruolo terzino, conta quasi 100 presenze con la maglia dei rossoneri di Francia, ma in questa stagione l’ultima volta che è sceso in campo risale al primo ottobre. Con la Nazionale algerina invece ha vinto la Coppa d’Africa nel 2019 in Egitto.

Robot con la coscienza? L’ultima sfida dello scientismo contemporaneo

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/02/13/robot-con-la-coscienza-lultima-sfida-dello-scientismo-contemporaneo/

L’INGEGNERIA SOCIALE È UN PILASTRO ESSENZIALE DELLA METAPOLITICA DELL’OPEN SOCIETY DI GEORGE SOROS

Tutti concordano sul fatto che stiamo vivendo un periodo di cambiamenti epocali, sul piano economico e politico, ma soprattutto sul piano sociale ed antropologico. Non si tratta di mutamenti fisiologici, dovuti al progresso o a naturali processi di trasformazione delle abitudini e del sentire comune. E’ un progetto che viene prodotto nei circoli delle élites sovranazionali da persone che hanno un nome ed un cognome nonché un fine, che è fatto di arricchimento e potere. Tale programma ha un nome: “società aperta”. Il padre nobile è Karl Popper, che inizia ad elaborare il suo pensiero negli anni quaranta del secolo scorso.

Secondo Popper, nelle società aperte, si presume che il governo sia sensibile e tollerante, i meccanismi politici trasparenti e flessibili al cambiamento, permettendo a tutti di partecipare ai processi decisionali. Nella convinzione che l’ umanità non disponga di verità assolute, ma solo approssimazioni, la società dovrebbe dare così massima libertà di espressione ai suoi individui e l’autoritarismo non è giustificato. Egli sostenne che solo la democrazia liberale offrirebbe un meccanismo istituzionale per evolvere ed essere riformata o subire cambi di potere senza il bisogno di spargimenti di sangue.

Il miliardario e attivista politico George Soros, autodefinitosi discepolo di Popper, sostiene che l’uso sofisticato di tecniche persuasive ed ingannevoli come la moderna pubblicità e le scienze cognitive, attuato da politici come Frank Luntz e Karl Rove, ponga dubbi sulla originale concezione popperiana di società aperta. Poiché la percezione della realtà dell’elettorato può essere facilmente manipolata, il discorso politico democratico non porta necessariamente ad una migliore comprensione della realtà.

Soros sostiene che, oltre alla separazione dei poteri, libertà di espressione e di pensiero, è necessario anche rendere esplicita una forte devozione alla ricerca scientifica della verità. L’ingegneria sociale diviene un pilastro essenziale della metapolitica dell’Open Society di Soros, attraverso, soprattutto, l’influenza di Popper, dell’antropologo e psicologo Gregory Bateson, padre della cibernetica. Con essa si inseriscono il controllo mentale e la riprogrammazione psicosociale delle masse.

Lo scrittore Lucien Cerise diede questa definizione di ingegneria sociale: “è il nome dato ad un approccio interventista e meccanicista dei fenomeni sociali. Si tratta di lavorare alla trasformazione della società come se si trattasse di un edificio, di un’architettura, facendo ad esempio “demolizioni controllate”, o utilizzando una sorta di “caos controllato” per provocare cambiamenti che altrimenti non si produrrebbero da soli. […] L’ingegneria sociale è la trasformazione furtiva e metodica dei soggetti sociali (individui o gruppi).” Di fronte ad un programma così inquietante, che include l’intelligenza artificiale ed annulla l’anima con la religione, azzerando il pensiero e demandando tutto alle macchine, mi sono imbattuto in un articolo di Giorgia Audiello su l’Avanti.it del 10/02/2023, dal titolo: “Robot con la coscienza? L’ultima sfida del razionalismo scientista”.

Esordisce la giornalista: “Indagare, simulare e “creare” la coscienza attraverso la robotica: è l’ultima frontiera del culto del progresso tecno-scientifico materialista e meccanicista che pervade la modernità.

Tentare di conferire autocoscienza alle macchine è il paradosso più estremo del razionalismo positivista che vorrebbe ridurre il pensiero – compresi la creatività, le emozioni e la sensibilità – a mero processo meccanico attraverso l’uso di algoritmi e deep learning.

L’obiettivo è conferire alle macchine autocoscienza per mezzo di quella che viene chiamata auto-simulazione artificiale e arrivare utopisticamente alle “macchine coscienti”: una contraddizione in termini in quanto macchina e coscienza risultano di per se stesse incompatibili, essendo la prima materiale e programmata e la seconda – in quanto collegata al pensiero e all’anima – immateriale e, per questo, sommamente libera e non programmabile.

Se indagare i grandi misteri della vita, dell’universo e della coscienza è da sempre oggetto della filosofia, oggi è diventato soprattutto interesse dell’ingegneria, delle neuroscienze e della biochimica, poiché esse cercano il modo di riprodurre questi processi artificialmente in un impulso prometeico che porta l’uomo non solo a voler dominare la realtà, ma direttamente a crearla, nella velleitaria illusione di dimostrare – attraverso la tecno-scienza – che non vi sono “misteri” e che tutto è riducibile a leggi meccaniche e materiali, compresa la vita stessa.

È quanto afferma implicitamente Hod Lipson, ingegnere meccanico che dirige il Creative Machines Lab alla Columbia University con lo scopo di creare macchine dotate di autocoscienza. Con riferimento a quest’ultima, Lipson ha affermato che «è quasi una delle grandi domande senza risposta, al pari dell’origine della vita e dell’origine dell’universo. Cos’è la sensibilità, la creatività? Cosa sono le emozioni? Vogliamo capire cosa significa essere umani, ma vogliamo anche capire cosa serve per creare queste cose artificialmente».

Conclude, a ragione, la Audiello: “Se da un lato, dunque, si assiste sempre più al tentativo di snaturare l’uomo riducendolo a meri processi biochimici, dall’altro, paradossalmente, vi è la volontà di attribuire caratteristiche intrinsecamente umane come la coscienza alle macchine, nella vana illusione di elevare l’uomo al rango di “creatore”. Tuttavia, questa volontà di potenza che ha a che fare con l’orgoglio umano di imitare goffamente “Dio”, non solo rischia di allontanare sempre più l’uomo dalla comprensione di concetti che sono già stati indagati profondamente e magistralmente dalla filosofia antica, ma anche di alterare e mettere a rischio la libertà umana sempre più in balia del controllo digitale e dell’IA che può dare vita ad un vero e proprio reticolato di sorveglianza ineludibile, rendendo l’umano schiavo delle sue stesse “creazioni””.

IL DE CIVITATE DEI DI SANT’AGOSTINO

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A cura di Luigi Beretta per http://www.cassiciaco.it/navigazione/scriptorium/settimana/2010/beretta.html

PREMESSA

La città di Dio ovvero De Civitate Dei è un’opera famosissima che Agostino scrisse in ventidue volumi probabilmente tra il 412 e il 426. L’opera, che cercheremo di analizzare, si pone come il primo organico tentativo di costruire una visione della storia dal punto di vista cristiano, soprattutto per controbattere le accuse che la società pagana rivolgeva contro i cristiani. L’occasione fu il sacco di Roma del 410. Morto Stilicone, Alarico aveva capito che era giunto il momento di affondare la sua azione militare contro l’impero romano d’Occidente.

Con Stilicone, Alarico aveva finito sempre per accordarsi, ma questa volta l’umore del barbaro era cambiato. Alarico era stato spesso imbrigliato col pagamento di grosse somme in danaro ed ora tutti consigliavano l’imperatore a far pace col barbaro: Onorio però fu irremovibile e non volle. Le trattative con Alarico si erano arenate perché questi aveva ormai accresciute le sue pretese, chiedeva la Venezia, il Norico, la Dalmazia e pensava forse di costituirsi così un forte regno adriatico-balcanico.

Ma Onorio rifiutò. Del resto anche la situazione di Alarico era difficile. Da anni combatteva e concludeva tregue e alleanze. Vincitore, ma in paese nemico, la sua era pur sempre piuttosto una ribellione più che una guerra o una invasione vera e propria. Una sua spedizione inviata contro la ricca e prosperosa Africa era fallita miseramente e aveva dovuto togliere anche l’assedio di Ravenna, la città dell’imperatore. Alarico si era convinto che doveva concludere e presto il suo peregrinare per le terre d’Italia.

Per mostrare che faceva sul serio pensò di incutere un terrore infinitamente più grande di tutte le paure che aveva provocato nel passato. Decise di marciare su Roma e il 24 agosto del 410, per la porta Salaria, i Goti entravano nella città, che fu abbandonata per tre giorni al saccheggio. Il 27 Alarico la abbandonò per dirigersi verso l’Italia meridionale con l’intento di passare in Sicilia e forse di dirigersi in Africa. Distrutte le navi nello stretto di Messina dovette ritornare sui suoi passi, ma nel viaggio lo colse la morte. Il pericolo goto si stava dissolvendo, ma l’effetto psicologico e morale sarebbe sopravvissuto a lungo, uno spartiacque insanabile nella storia occidentale. Fin dal primo assedio di Roma e per tutti i mesi successivi fino al saccheggio della città, e anche dopo di questo, una folla di profughi aveva abbandonato l’Italia, dirigendosi verso l’Africa e verso l’Oriente. San Girolamo dovette dedicarsi completamente ai doveri dell’ospitalità, esercitata largamente da lui e dai suoi compagni in favore dei cristiani che s’erano rifugiati in Palestina.

Anche l’Africa accolse un buon numero di profughi membri spesso di famiglie nobili, che avevano in quei territori vasti possedimenti. Agostino aveva risentito, come tutti, il duro colpo delle calamità che si accanivano sui romani e in particolare della caduta e del sacco di Roma. In questo momento drammatico Agostino tuttavia profonde parole di conforto: al prete Vittoriano aveva scritto che non smarrisse la fede nella giustizia di Dio; a due coniugi, Armentario e Paolina raccomandò di non tardare a realizzare il loro proponimento di darsi a Dio, ora che il sacco di Roma dimostrava quanto fossero vani e passeggeri i beni del mondo. Scrisse anche ai fedeli d’Ippona per ammonirli a non tralasciare, in occasioni così tragiche, le loro abitudini caritatevoli.

Ma Agostino maturò l’idea che il suo compito, in quel momento, più che l’organizzare i soccorsi, era quello di elargire parole di fede e di conforto, capaci di rianimare gli spiriti abbattuti. Tanto più che ora i pagani rialzavano il capo e gridavano dovunque le loro lamentele contro i cristiani: nulla di simile, sostenevano, era mai accaduto quando Roma non aveva impedito la venerazione degli antichi dei. Agostino a Ippona sentiva le querimonie e soprattutto vedeva con i suoi occhi la leggerezza dei profughi pagani che, appena sbarcati in Africa, sentendosi al sicuro, avevano ripreso la loro vita spensierata, affollavano i teatri e andavano pazzi per giochi e attori. La parola di Agostino si levò alta: una parola che chiedeva fiducia in Dio e rivendicava la forza dei valori spirituali per la vita dei popoli.

Nel suo sermone 81 si ritrova un monito, una sicurezza e una forza morale, un guardare le cose in faccia, quali possono venire solo da una fede sicura di sé. “Ecco – dice Agostino – in tempi cristiani, Roma perisce. Forse Roma non perisce; forse é stata flagellata, ma non tolta di mezzo; forse é stata castigata, non distrutta, forse Roma non perisce, se non periscono i Romani. Ché non periranno, se loderanno Dio; periranno, se lo bestemmieranno. Che cos’é infatti Roma, se non i Romani? Giacché non si tratta di pietre o di legname, degli alti caseggiati o delle mura maestose. Tutto questo era stato fatto, perché un giorno crollasse. Quando l’uomo edificò tutto questo, pose pietra su pietra; quando lo distrusse, staccò pietra da pietra. L’uomo fece tutto questo, e l’uomo lo distrusse. Si fa forse un’offesa a Roma, perché si dice: cade? … Cielo e terra trapasseranno: che meraviglia, se un giorno una città avrà fine …”

Così parlava Agostino, nella previsione della caduta di Roma, che i cristiani non meno dei pagani credevano eterna e inviolabile. Agostino non poteva fare a meno di rispondere ai pagani che protestavano contro il cristianesimo e ripetevano le accuse di Simmaco che sosteneva che Roma era diventata grande venerando gli antichi dei e che ora, abbandonato l’antico culto a favore del cristianesimo, l’Impero decadeva e la città vittoriosa diventava preda dei barbari. Per Simmaco gli dei di Roma l’avevano aiutata, il nuovo invece trascurava persino di proteggerla. Ma per Agostino e per tutti i cristiani ristabilire il culto pagano era sostenere che gli déi veri erano quelli del politeismo, era negare la verità stessa del cristianesimo. Bisognava replicare, tuttavia la risposta di Agostino non venne subito, perché, se i Goti erano passati come una bufera assai rapida, la frattura donatista nella Chiesa africana non poteva attendere. Il 411 fu l’anno della conferenza con i donatisti, l’anno della controversia accanita e decisiva, durante il quale Agostino non si occupò d’altro, rimandando ogni cosa a tempo più opportuno. Così il De civitate Dei non fu iniziato prima del 412 e non dopo l’anno seguente perché Marcellino, al quale Agostino dedicò l’opera, fu decapitato il 13 di settembre del 413. Agostino si trovava a Cartagine e fece di tutto per salvare l’amico, ma ne fu impedito dalla condotta ambigua di un altro potente personaggio, il prefetto al pretorio Ceciliano.

Esordio dell’opera

Gli esordi sia del primo che del secondo libro ricordano Marcellino: con ogni probabilità furono dunque scritti e divulgati prima della sua morte: anche il terzo libro un prologo, dove però Marcellino non é più nominato. Parlando del De civitate Dei Agostino nelle Ritrattazioni (II, 43) accenna a un piano: “L’opera mi ha tenuto occupato per alcuni anni in quanto continuavano a frapporsi molte altre indilazionabili incombenze al cui disbrigo ero tenuto a dare la precedenza. Questa estesa opera su la Città di Dio finì col comprendere, una volta terminata, ben ventidue libri.

I primi cinque libri confutano coloro secondo i quali l’umana prosperità esigerebbe come condizione necessaria il culto dei molti dèi venerati dai pagani, mentre sarebbe la proibizione di tale culto a provocare l’insorgere e il moltiplicarsi di tanti mali. I successivi cinque libri sono rivolti contro coloro secondo i quali nella vita dei mortali questi mali non sono mai mancati in passato e non mancheranno mai in futuro e, ora grandi ora piccoli, variano a seconda del tempo, del luogo e delle persone. Ritengono però che il culto di molti dèi, con i sacrifici che comporta, sia utile ai fini della vita che verrà dopo la morte. I primi dieci libri, dunque, contengono la confutazione di queste due inconsistenti dottrine contrarie alla religione cristiana. Per evitare però l’accusa di criticare le teorie altrui senza esporre le nostre, abbiamo deputato a questo la seconda parte di quest’opera, che comprende dodici libri, benché anche nei precedenti ci sia capitato di esporre le nostre idee e di confutare nei dodici successivi quelle degli avversari. Di questi dodici libri i primi quattro trattano la nascita delle due città, quella di Dio e quella di questo mondo, i quattro successivi della loro evoluzione e del loro sviluppo, gli altri quattro, che sono anche gli ultimi, dei dovuti fini di ciascuna di esse. Tutti i ventidue libri, pertanto, pur trattando di entrambe le città, hanno mutuato il titolo dalla migliore, la Città di Dio.”

Fino dove questo piano sia stato prestabilito è difficile sapere. Agostino certamente iniziò a scrivere, sapendo bene quel che doveva dire, ma senza uno schema troppo rigido. Dal testo pare che fino a lavoro inoltrato egli non avesse maturato l’idea di quella suddivisione che sottolinea nelle Ritrattazioni a opera compiuta. Il carattere intrinseco del De Civitate Dei, ricco di molte digressioni, dove Agostino ama sfoggiare la sua erudizione e parla di tutto ciò che gli sta a cuore, è lì a dimostrare la costruzione dell’opera in itinere. Agostino spesso non esaurisce gli argomenti affrontati nelle digressioni, ma ritorna al tema principale e rimandando il lettore ad altre parti dell’opera.

Questo zigzagare controllato dimostra che una traccia Agostino doveva pure averla sotto gli occhi, ma essa non era, probabilmente, del tutto certa fin dall’inizio. Ragionevolmente non potrebbe essere altrimenti per un’opera che fu portata a termine in dodici o tredici anni. La sua menzione nelle Ritrattazioni, dove essa é indicata a ventiquattro opere dalla fine, costringe a fissarne il completamento intorno al 425 o al 426.

Libro 1

L’opera comincia con una introduzione, che cerca di chiarire cosa si propone l’autore. Agostino esprime la volontà di affrontare, con l’aiuto di Dio, il compito vasto e arduo di difendere la Città di Dio. Il suo proposito è giustificato dalla condizione di questa, sia in quanto, vivendo di fede, é ancora quasi pellegrina in questa vita, sia in quanto é destinata al trionfo e alla pace nei cieli. La sua difesa è contro coloro che al suo fondatore, il Cristo, preferiscono i molti déi del paganesimo. Agostino entra subito in argomento sottolineando che le atrocità commesse dai barbari nel sacco di Roma non furono poi tali e tante, da non trovar precedenti e giustificazione negli usi di guerra. Al contrario propria dei tempi cristiani é la clemenza, per cui anche i barbari rispettarono i templi e chi vi si era rifugiato. Una possibile obiezione spinge Agostino ad affrontare la questione dei beni temporali, che sono comuni a giusti e ingiusti: conclude che se ogni peccato fosse punito subito sulla terra non resterebbe materia per il giudizio finale, e se tutti restassero impuniti non si crederebbe più alla divina provvidenza. Come nel sacco di Roma e in altre calamità, buoni e cattivi sono colpiti insieme senza distinzioni: il problema della sofferenza dei buoni riconduce necessariamente a quello di Giobbe e alle afflizioni in generale che costituiscono una prova per i buoni. Perdendo i beni temporali, aggiunge Agostino, il cristiano non perde nulla. A proposito della prigionia, ricorda l’esempio di Attilio Regolo, che contraddice coloro che reputano unici beni veri quelli del mondo. Condanna senza appello la corruzione dei costumi a cui i pagani vorrebbero tornare e termina ammonendo il cittadino della Città di Dio di non essere troppo superbo né sicuro perché anche tra gli avversari possono esserci i suoi futuri concittadini. Anzi, a monito, ricorda che nella città di Dio si trovano ora, nel mondo, molti, che non conosceranno né i santi né la beatitudine dopo il giudizio. Le due città e i suoi abitanti sono infatti talmente intrecciate e mescolate insieme nel mondo, che non potranno essere distinte se non solo nel giudizio finale. Agostino promette di parlare del loro processo e dei loro ultimi fini.

Libro 2

Il secondo libro é tutto dedicato a dimostrare l’immoralità del culto pagano. Punto di partenza di tutto il ragionamento é l’assunto che i veri mali sono quelli morali. Il culto osceno della Magna Mater, così come tutti gli altri culti pagani e gli episodi della storia romana che, come il ratto delle Sabine, sono veri e propri delitti, forniscono ad Agostino ottimi motivi per condannare la decadenza dei costumi romani. E in questo ricorda di essere in buona compagnia con Cicerone e Sallustio.

I falsi déi sono per Agostino dei demoni: pur di ingannare gli uomini si lasciano insultare e proporre a esempio di azioni immorali, come nella famosa scena dell’Eunuco di Terenzio. In realtà gli déi romani non si sono mai curati di Roma né della decadenza morale della città: e poi, dov’erano quando Roma fu presa dai Galli? Il libro, dopo aver insistito con numerosi altri esempi sulla immoralità dei riti pagani, termina con una esortazione al popolo romano “progenie dei Regoli, degli Scevola, degli Scipioni, dei Fabrizi” affinché si converta alla verità cristiana e si decida a rifiutare l’esistenza tra gli déi di esseri che, per la loro immoralità, i romani stessi non vorrebbero avere come concittadini.

Libro 3

Agostino affronta l’argomento dei mali materiali. Dopo aver ricordato la caduta di Troia e l’adulterio di Paride, si prende facilmente gioco di tutta la mitologia antica. In particolare prende di mira gli déi di Roma ed esaminando la storia della città nei tempi più antichi, non accetta le lodi che la tradizione romana riservava loro. Inglorioso e addirittura immorale viene definito il loro intervento nella guerra tra Roma e Alba. Agostino con meticolosità passa quindi in rassegna tutte le sventure di Roma, le sconfitte, le stragi, le pestilenze, gli esempi di ingratitudine sociale, le carestie, le guerre civili, dal tempo dei re fino ad Augusto e aggiunge, in opposizione alle opinioni dei pagani, “di tanti mali accusino dunque i loro déi, quelli che sono ingrati a Cristo nostro per tanti benefici.”

Libro 4

Nel quarto libro Agostino pone l’interrogativo se, quando non ci si lascia sedurre dal vano suono di parole altisonanti come popoli o regni, valga veramente la pena di combattere tanto, per procurarsi un grande impero. Acutamente lo paragona ad un vaso di vetro, splendido ma fragile. E’, in altre parole, più felice un uomo tranquillo e di modesta agiatezza o il ricchissimo Creso sempre in angustie ? La risposta, per Agostino, é chiara: utile veramente, anche per i popoli sottomessi a Roma, é il vasto impero dei buoni. I buoni sono, s’intende, coloro che amano l’unico Dio vero e lo servono con timore e con i buoni costumi. «Tolta di mezzo la giustizia – grida Agostino con una affermazione socialmente dirompente – che cosa sono i regni se non grandi atti di brigantaggio e che sono gli atti di brigantaggio se non piccoli regni?».

Il portar dunque guerra ai vicini e poi procedere ad altre guerre per la sola ambizione di dominio; schiacciare e soggiogare popoli che non fanno male ad alcuno, che altro si può chiamare se non un brigantaggio in grande? Brutto desiderio, sottolinea Agostino, quello di avere chi odiare o chi temere, per giustificare l’esistenza di qualcuno da vincere. L’impero di Roma tuttavia ha un suo senso nel disegno divino, perché contro la volontà di Dio i Romani non avrebbero potuto fondarlo. Se si fossero accontentati di venerare lui, avrebbero ottenuto la medesima potenza politica e, dopo di questa, la partecipazione al regno eterno di Dio.

Libro 5

Non c’é infatti regno che non provenga da Dio, secondo l’ordine voluto dalla Provvidenza. La grandezza dell’Impero romano é stata dunque permessa e voluta da Dio. Agostino a questo punto difende l’azione libera della Provvidenza divina contro tutti i suoi avversari. Perciò parecchi capitoli vengono dedicati a combattere il determinismo, gli astrologi o comunque tutti i fatalisti. Proprio per l’intrinseca libertà della Provvidenza, Agostino aggiunge che leggi e consigli, esortazioni, lodi e rimproveri non sono inutili, come non sono inutili le preghiere per ottenere tutte quelle cose, che Dio sapeva già che avrebbe concesso ai preganti. Dimostrato che una Provvidenza esiste, Agostino si chiede perché i Romani hanno meritato la benevolenza di Dio. Comincia quindi l’elogio dei grandi Romani, che viene condotto sulla falsariga del celebre parallelo sallustiano tra Cesare e Catone.

Libro 6

Nella sua analisi giunge a occuparsi di quei filosofi che non chiedono agli dei i grossolani beni materiali. Nella sua confutazione Agostino mette a profitto le sue conoscenze di Varrone, i cui scritti avevano talmente screditato il paganesimo, che non c’era bisogno di aggiungere di più. Le favole dei poeti e la mitologia dell’antica religione cittadina forniscono ad Agostino l’occasione di fare sfoggio d’erudizione a buon mercato e di mettere in evidenza le contraddizioni, le puerilità, l’immoralità degli antichi miti.

Libro 7

Motivi evemeristici ritornano nelle pagine di questo libro, dedicato in gran parte alla categoria, stabilita da Varrone, degli dei selecti. Agostino confuta queste teorie per cui ad alcuni dei si attribuiscono funzioni assai più umili di quelle esercitate dai loro inferiori, i quali per di più non commettono le azioni vergognose dei primi. Tutta questa teologia varroniana non é che un tessuto di contraddizioni, che Agostino si diverte a sottolineare e a colorire con aneddoti, insistendo altresì sulla immoralità dei culti misterici.

Libro 8

Con questo libro si avvia un nuovo percorso in cui Agostino si mette a confronto con le teorie dei filosofi tra i quali egli sceglie, come superiori a tutti, i platonici. Platone, nota Agostino, era giunto a concepire l’unità del divino. Tuttavia ritenne, incoerentemente, che si dovessero venerare molti déi. Gli argomenti che seguono vengono destinati a confutare il conterraneo Apuleio, che aveva posto i démoni come intermediari tra l’uomo e il divino, poiché riteneva indegno che gli uomini potessero comunicare direttamente con gli déi. Gli ultimi capitoli del libro contengono citazioni dei celebri libri attribuiti a Ermete Trismegisto, contro i culti egiziani, e accolgono gli spunti evemeristici dove Agostino trova la confutazione della affermazione che i cristiani prestavano un vero culto ai loro martiri.

Libro 9

Tutta la trattazione é interamente dedicata a stabilire una distinzione tra le tipologie dei démoni. Agostino incomincia col discutere delle passioni umane e trova modo così di confutare la dottrina stoica, mostrando che nel cristiano ci sono passioni virtuose. Ma allo stesso tempo ravvede la necessità di un intermediario tra Dio e l’uomo e lo riconosce nel Cristo. Di lui e non di un essere come i démoni di Apuleio, ha bisogno l’uomo per giungere alla beatitudine.

Libro 10

Agostino avvia l’argomento incominciando dall’asserzione che, se beatitudine é, anche per i platonici, partecipazione di Dio, gli angeli, se ci amano e sono beati, devono volere che anche noi veneriamo Dio. Agostino pertanto respingere ogni culto reso invece a loro. A Dio solo é dovuto il sacrificio, che tuttavia non gli é necessario: vero sacrificio é ogni opera, grazie alla quale noi possiamo aderire a Dio mediante una unione santa. Il ricordo della promessa fatta ad Abramo conduce Agostino a parlare dei miracoli, quelli veri compiuti da Dio, anche per mezzo dégli angeli, e quelli falsi, opera dei démoni.

Da questo punto in poi l’argomento del libro diventa la purificazione dell’anima per riconoscersi in Dio e con l’affermazione dell’unità di Dio Agostino si apre la via a discorrere del Cristo. Solo in Cristo é la vera purificazione dell’anima, e soltanto per la fede che riposero in lui i giusti del tempo antico potettero vivere in modo puro e pio. Preannunciato anche dalla Sibilla pagana il Cristo é finalmente venuto a mostrare agli uomini la via maestra, la sola che conduce al regno. A questo punto Agostino ha ormai dedicato dieci libri alla confutazione di tutti quelli che vorrebbero ristabilire il paganesimo.

Libro 11

Esauriti gli argomenti polemici, Agostino affronta la questione delle origini, dello sviluppo e dei fini ultimi delle due città, che in questo mondo procedono intrecciate e mescolate insieme. Per trattare dell’origine della città di Dio, Agostino prende in esame tutta la storia della umanità e inizia dalla creazione del mondo e la fa con un nuovo commento ai primi capitoli del Genesi. Nella sua lettura il mondo é stato creato da Dio mediante il Verbo: ciò lo porta a discorrere della Trinità e delle sue azioni nel mondo, nella natura umana e di quella sensibilità interiore, ben superiore ai sensi corporei, per mezzo della quale sentiamo ciò che é giusto e ingiusto. Il giusto lo cogliamo mediante la sua bellezza intelligibile, l’ingiusto attraverso la privazione di questa.

Libro 12

Il libro dodicesimo continua la trattazione degli angeli. Una sola é la natura degli angeli sia buoni che dei malvagi, contrari non nella loro essenza quanto nelle loro volontà e tutto ciò perchè il male é un difetto, una negazione, una privazione. Il passo successivo è un discorso intorno alla creazione del genere umano e qui Agostino contrasta l’opinione sia di coloro che ritengono eterni il mondo e l’umanità, sia di coloro che sostengono le dottrine cicliche, parlando di un inesauribile ritorno delle cose dopo un certo periodo di tempo, forse secoli. Agostino è convinto che il genere umano discende da un solo progenitore. Se Adamo non avesse peccato, avrebbe ottenuto immediatamente l’immortalità e la beatitudine in compagnia degli angeli, invece, peccando, fu destinato alla morte e a una vita bestiale. Dio ha previsto la caduta dell’uomo, ma anche la redenzione delle persone pie attraverso la grazia. L’uomo fu creato a immagine di Dio e il lui erano già presenti, non in modo chiaro, ma secondo la prescienza di Dio, l’una e l’altra città: da Adamo discendono tutti gli uomini, sia quelli destinati a essere uniti con gli angeli ribelli, sia quelli destinati ad ottenere l’unione con gli angeli buoni.

Libri 13-14

I due libri che seguono contengono una corposa ed esauriente esposizione di tutta quanta la dottrina agostiniana del peccato originale. Le posizioni sostenute riprendono quelle tenute durante gli anni dell’aspra polemica contro Pelagio e Celestio, e trattano della condizione di Adamo ed Eva prima e dopo il peccato. Nel libro tredicesimo Agostino polemizza contro chi nega la risurrezione dei corpi, e vi dedica un approfondimento per spiegare quale sarà il corpo spirituale. Nel libro seguente avvia la trattazione spiegando che “vivere secondo la carne” si riferisce anche ai vizi dell’animo, perché non la carne, ma l’anima é quella che pecca. Si può affermare, analogamente, che esista un “vivere” secondo l’uomo e un vivere secondo Dio. La prima modalità coincide con un vivere secondo il demonio.

Ed ecco presentarsi le due città, distinte secondo le due volontà, i due amori: il peccato fu la disobbedienza a Dio, e fu preceduto da una volontà di male, suggerita dalla superbia, pertanto l’uomo, disubbidiente a Dio, fu punito dalla disubbidienza del suo corpo, viziato dalla libidine. Questa, e non l’unione coniugale o la procreazione della prole, é peccato. Le due città furono dunque generate da due diversi amori, la città terrena dall’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio, la celeste dall’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé. Il quattordicesimo libro, d’importanza fondamentale per la comprensione del De civitate Dei, segna una transizione netta, di carattere più teorico rispetto ai successivi, che sono destinati a illustrare il cammino percorso dalle due città nella storia dell’uomo.

Libro 15

Impostato negli argini fissati da Agostino nei libri precedenti, il discorso viene ora acquistando sempre più il carattere di un commento totale ed escatologico della Bibbia. Iniziatori e prototipi delle due città sono i figli di Adamo, Abele e Caino. Agostino traccia la storia della città celeste, non senza numerose digressioni e osservazioni di carattere esegetico e teorico, fino all’arca di Noé, che rappresenta simbolicamente la Chiesa.

Libri 16-17

Il libro sedicesimo conduce la narrazione biblica attraverso l’età dei patriarchi fino all’ingresso degli Ebrei in Palestina; il diciassettesimo giunge, fermandosi lungamente a parlare di Davide e delle profezie messianiche contenute nei Salmi, fino a Cristo.

Libro 18

Agostino affronta a questo punto la storia della città terrena. Più che una vera storia, tuttavia, egli espone una serie di sincronismi dedotti dalle cronache di Eusebio e Girolamo e da altre opere consimili. Agostino riferisce l’oracolo acrostico della Sibilla Eritrea intorno al Cristo, e, giunto a parlare dei profeti d’Israele, rammenta anche i loro vaticini messianici e ne esalta l’autorità. Questo lo invoglia anche a parlare del Cristo e delle profezie che si sono avverate in lui e nella Chiesa, che in questo mondo comprende, mescolati con i buoni, anche molti malvagi. Agostino sostiene quindi che la città di Dio è sostanzialmente sempre perseguitata in questo mondo. Quanto poi alla questione dell’epoca dell’ultima persecuzione e della venuta dell’Anticristo, non fa previsioni perché nessuno può dirlo. Agostino ricorda a tal proposito, per confutarlo, l’oracolo pagano secondo cui il culto di Cristo sarebbe durato 365 anni.

Libro 19

Per spiegare i fini delle due città, Agostino incomincia a chiedersi quali sono gli scopi assegnati alla vita umana dai filosofi. La Città di Dio, contro l’opinione di tutti i filosofi, afferma che sommo bene è la vita eterna, sommo male la morte eterna: in questo mondo pertanto nessuno può essere felice, perché tutti si trovano a combattere contro le passioni e nessuna virtù può sopprimere definitivamente il male che è in ogni uomo. La beatitudine dunque si raggiunge e si gode solo nella pace eterna. Ma tutto, quaggiù, aspira alla pace e l’inizio di ogni pace è per Agostino nell’amore di Dio. Dopo aver accennato alla schiavitù, alla vita politica, ai diversi ideali delle due città, dopo aver sostenuto che non esiste un vero popolo, né un vero Stato, dove non c’è giustizia, cioè la vera religione, Agostino conclude che dove non c’è religione non vi è neppure virtù autentica.

Libri 20-21

Il libro ventesimo tratta del giudizio. Non dei giudizi che Dio opera nel quotidiano, ma del giudizio finale, in cui si manifesterà pienamente la giustizia di Dio. Agostino descrive le testimonianze bibliche che richiamano il giudizio finale, specialmente quelle riferite nelle parole di Gesù. Ciò gli fornisce l’occasione per parlare delle due risurrezioni. Agostino ripudia decisamente il cosiddetto millenarismo e dà dei versetti biblici coinvolti una spiegazione che è praticamente identica alla interpretazione proposta da Ticonio nel suo commento all’Apocalisse. La prima risurrezione è il battesimo e i mille anni rappresentano, con una cifra simbolica, tutto il tempo, indeterminato, tra la passione del Cristo e il giudizio finale. E’ il periodo di tempo cioè nel quale si può compiere la prima risurrezione.

Ne consegue che il regno di Dio e il regno dei cieli è ora la Chiesa, nei suoi vivi e nei suoi morti. Ma non tutti coloro che ora sono nella Chiesa entreranno nel regno eterno di Cristo. Prima di quel giorno verrà la prova suprema, allorché, secondo l’Apocalisse, il diavolo sarà sciolto e combatterà coi cristiani. Agostino passa quindi all’esame dei numerosi testi dell’Antico e del Nuovo Testamento relativi al giudizio e alla resurrezione finali. Affronta una lunga discussione, che esamina anche alcuni passi di Malachia, concludendo con l’affermazione che nell’Antico Testamento, quando si parla del giudizio finale risulta abbastanza chiaro che giudice sarà il Cristo. Da ultimo vaglia le teorie sul giudizio finale tra cui l’opinione di Origene, che è contrario all’eternità delle pene, di coloro che si aspettano nel giudizio finale l’intercessione dei santi e anche di quanti sostengono che il battesimo basti ad assicurare la salvezza. A tutti costoro Agostino ha qualche cosa da obiettare.

Coglie l’occasione per far osservare che oggi la preghiera è necessaria, ma si prega soltanto per coloro che sono ancora suscettibili di pentimento, e che la Chiesa ora prega per tutti, solo perché non c’è certezza per la sorte di alcuno. La salvezza, chiarisce, è data dal mangiare il pane vivente disceso dal cielo (Giovanni, VI, 51): non v’è dunque salvezza fuori della Chiesa, pertanto solo chi è in essa e partecipa al sacramento dell’altare mangia e beve davvero il corpo e il sangue di Cristo. Quanto all’elemosina, crudamente ammonisce che essa non vale nulla senza la carità, cioè l’amore del prossimo e di Dio. Termina con l’esortazione che ciascuno dunque incominci col farla a sè stesso, amando Dio.

Libro 22

L’ultimo libro si apre con un capitolo riassuntivo d’importanza fondamentale. Poi Agostino riprende la polemica contro chi non ammette la risurrezione dei corpi. L’argomento che sostiene la certezza della risurrezione umana è quella del Cristo: anche il mondo credette agli apostoli che la predicarono, perché la verità della loro testimonianza era comprovata dai miracoli che essi fecero. Di miracoli ne avvengono ancora: Agostino ne racconta una lunga serie, che sono accaduta a Cartagine, in diverse località africane, e nella stessa Ippona, presso le memoriae che Agostino stesso aveva fatto erigere. Agostino, un uomo preciso, ordinato e amante della documentazione esauriente, aveva imposto che tutti coloro che ricevevano nella sua diocesi benefici soprannaturali dalla grazia divina lasciassero un resoconto circostanziato dell’episodio miracoloso. Questi libelli erano poi letti in chiesa a edificazione dei fedeli. In due anni Agostino ne ha raccolto già più di settanta.

Ma non bisogna dimenticare, ammonisce Agostino, che i miracoli sono compiuti nel nome di Cristo da martiri che hanno avuto fede in lui. Dopo questo excursus Agostino ritorna alle obiezioni sollevate contro la risurrezione in casi particolari o pietosi. Quanto agli aborti, Agostino non sa dare una risposta definitiva, ma è certo che se si possono considerare alla stregua dei morti, dovranno risorgere. Anche gli aborti per lui hanno un’anima e pensa che risorgeranno quali avrebbero potuto essere, secondo tutte le possibilità di sviluppo insite in loro. I corpi inoltre risorgeranno coi loro sessi, perché non nel sesso è il male, bensì nella concupiscenza della carne. Saremo dunque rifatti, e senza imperfezioni: le membra amputate verranno restituite e solo nei corpi dei martiri si vedranno le loro gloriose cicatrici. Questa rinnovata “carne spirituale” sarà sottomessa allo spirito, ma quale sarà tuttavia non possiamo dire. Infine sono descritte la beatitudine, la pace e la visione di Dio nella Gerusalemme celeste. Sottomessa la carne allo spirito, ciascuno avrà libera la volontà del bene, anzi non desidererà altro. Saremo noi stessi il sabato, benedetti e santificati da Dio, riposando in lui, conoscendolo, pieni di lui che sarà “tutto in tutti”.

Epilogo

Se consideriamo il De Civitate Dei nel suo insieme, comprendiamo ora le ragioni della sua grande popolarità per tutto il Medioevo e comprendiamo però che tanto citato e ricordato da tutti, il De civitate Dei è ora invece letto per intero da pochissimi. Un autore moderno che volesse esporre o dimostrare la stessa tesi di Agostino, probabilmente se la caverebbe con un saggio di un centinaio di pagine o poco più. Il De civitate Dei invece è un’opera immensa. Ma è anche fuor di dubbio che si riflette nell’opera la particolare propensione dell’ingegno di Agostino, la sua grande curiosità per ogni cosa, quel suo bisogno di veder chiaro in ogni questione che gli si presenta, anche se d’interesse secondario. Si riflette anche la tendenza all’enciclopedia, che pure è nello spirito e nella sensibilità culturale di Agostino, e in una certa misura, dei suoi contemporanei, ma assai più diffusa nei medievali.

Da questo punto di vista, Agostino adempì, all’inizio delle invasioni barbariche, a una funzione storica di altissima importanza e diede un esempio efficacissimo di salvaguardia della cultura antica. E si capisce altresì l’interesse per la critica moderna della ricerca, bene avviata ma tutt’altro che esaurita, delle fonti del De civitate Dei. Ma, pur valorizzando questi aspetti, non si rende ancora ad Agostino la dovuta giustizia. Gli eruditi medievali lessero il libro con straordinario interesse per tutte le notizie e le informazioni che vi trovavano sulla storia, la scienza e la superstizione degli antichi.

Ma nel contempo si nutrirono anche del suo pensiero agostiniano e questo operò nei loro cuori e nelle loro menti e si mantenne vivo a lungo. Inoltre è diventato quasi luogo comune il parlare del De civitate Dei come di una, o della prima, filosofia della storia, ma, anche qui, Agostino ha una visione incomparabilmente più vasta e più elevata degli accadimenti umani. Possiamo pure chiederci se questa visione, questa stessa filosofia della storia sono tutte ed esclusivamente frutto del pensiero e della ricerca di Agostino.

È chiaro, intanto, che Agostino deve moltissimo a Ticonio: la stessa concezione fondamentale delle due città, che si ritrova in tanti altri scritti agostiniani a cominciare almeno dal De catechizandis rudibus, nonché l’interpretazione del millennio e, si potrebbe dire, tutta l’escatologia del De civitate Dei derivano principalmente da Ticonio. Ma, per un fenomeno che è strano solo in apparenza, il laico Ticonio è, in tutti i suoi scritti che conosciamo, infinitamente più arido e più impregnato di tecnicismo esegetico che non il vescovo teologo. E poi le idee di Ticonio sono state assimilate da Agostino in maniera così piena e in seguito ad una esperienza personale così ricca, che si possono sicuramente considerarle sue. Solo Agostino in realtà ne comprese appieno il valore apologetico e edificativo, applicandolo sistematicamente alla storia, e saldò intimamente tra loro queste idee in una sintesi grandiosa e possiamo dire, imperitura.

E che cos’è, infine, questa Città di Dio? A volte, indubbiamente, per dichiarazione esplicita di Agostino, essa rappresenta la Chiesa; a volte sembra identificarsi invece con la Gerusalemme celeste; a volte comprende i santi dell’antico Testamento, a volte sembra restringersi, a volte farsi più accogliente. Nella realtà la Chiesa non si identifica né si risolve in assoluto nella Città di Dio, perché la Chiesa comprende accanto agli eletti anche i reprobi. Reciprocamente, anche tra i nemici della Chiesa possono trovarsi gli eletti di domani. Per delineare la posizione di Agostino conviene prendere le mosse da quel primo capitolo del libro ventiduesimo, che è fondamentale per la comprensione dell’intera opera. Lì scopriamo che nella visione agostiniana Dio ha creato in origine il mondo e, tra le tante cose buone, superiori a tutte, gli spiriti “ai quali diede l’intelligenza, e la capacità di contemplarlo: li strinse in una società, che noi chiamiamo la città santa, e superna, nella quale egli è la loro vita e il sostentamento della loro beatitudine.

A questi spiriti Dio concesse il libero arbitrio, in modo ch’essi potevano, volendo, abbandonar Dio, cioè la loro beatitudine, a patto però dell’immediata infelicità; e pur sapendo nella sua prescienza che alcuni di questi angeli, superbamente credendosi di bastare alla propria beatitudine, si sarebbero ribellati, tuttavia non tolse loro questa facoltà, ritenendo che fosse miglior cosa e maggior manifestazione della sua potenza trarre anche dal male il bene, che non permettere il male.

Il male è dunque – soggiunge subito Agostino – non creato, ma permesso da Dio, e in vista d’un bene. Fece poi l’uomo, dotato del medesimo libero arbitrio: animale terreno, ma degno del cielo, se fosse rimasto unito al suo Fattore, e invece sottoposto anch’egli a un’infelicità adatta alla sua natura, se l’avesse abbandonato; e neanche a Dio, pur sapendo che avrebbe peccato, tolse il libero arbitrio, sapendo anche in questo caso il bene ch’egli avrebbe ricavato da quel male.”

La Città di Dio è dunque, in realtà, costituita dagli angeli e dai predestinati; dei quali nessuno sa il numero. I predestinati sono coloro ai quali Dio concede e la grazia che cancella il peccato originale e la capacità di perseverare nel bene sino alla fine.

D’altra parte il peccato originale si cancella col battesimo, attraverso il quale si entra nella Chiesa: i predestinati vanno dunque cercati in essa. Tuttavia la grazia è un libero dono di Dio e può essere concessa a chiunque, anche a chi non fa attualmente parte della Chiesa, ai giusti dell’Antico Testamento, o a qualche giusto del mondo pagano. Ma è altrettanto certo che non si può parlare di salvezza, e nemmeno di autentica virtù, dove non sono la fede e l’amore di Dio. Questa fede e questo amore sono a loro volta un dono, che Dio fa all’uomo, di per sé incapace di credere in Dio e di amarlo. Agostino non afferma che l’Ecclesia peregrinans è la civitas Dei, ma piuttosto che l’Ecclesia è peregrinans in hoc saeculo in civitas Dei.

La Chiesa è anche il corpo di Cristo: in questo senso essa è veramente il popolo dei predestinati, la Città di Dio, unita con tutti coloro che si salvarono o si sono salvati, unita con gli angeli, la Gerusalemme celeste. Sulla terra, tuttavia, e fino al giudizio finale, il corpo di Cristo non è puro. Radicalmente opposta alla Città di Dio nell’origine, nelle aspirazioni e nei destini, ma nel nostro mondo frammista e confusa con essa vive la Città terrena, il corpo del demonio.

La separazione fra le due Città avverrà solo nel giudizio finale. Agostino rammenta che non è lecito conoscere a noi né la sorte né il numero dei predestinati. Ci è solo vietato di separarci da essi, di uscire dalla Chiesa, perché caratteristica della Città di Dio in questo mondo è l’unità, l’umiltà, il servizio reciproco: proprio in questo i capi della Chiesa si distinguono nettamente dai principi della Città terrena. Per Agostino, che ha affrontato con tenacia tante battaglie per estirpare l’eresia, lo staccarsi della Chiesa è una prova di superbia, una colpa anche maggiore di quelle dei malvagi di cui si è voluto evitare il contatto. Assieme a Cipriano, l’insigne vescovo africano testimone della fede cristiana, Agostino può ben dire che non v’è salvezza al di fuori della Chiesa.

Il piano grandioso della Provvidenza per la redenzione del genere umano è, per Agostino, una prova meravigliosa della bontà e della perfezione di quel Dio, ordinatore dell’universo, che sa trarre dal male il più grande bene.

A lui Agostino china il capo, china la sua intelligenza, grato della sua misericordia, persuaso della sua giustizia, qualunque sia la sorte che gli è stata riservata. Ormai è appagato dall’avere cercato di capire per poter credere, ed ora, assai di più, è desideroso di ricevere la fede che lo metta in grado di capire e di riposare il suo cuore inquieto nella pace eterna di Dio.

Il ritorno del padre e della madre

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di Marcello veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Con l’anno neonato verranno ripristinati il padre e la madre, rispetto alle loro controfigure fluide, genitore 1 e genitore 2, che ne avevano usurpato il posto per dare priorità alle coppie omosessuali. Per “includere” poche centinaia di coppie dello stesso sesso, con prole adottata, si voleva escludere dal gergo burocratico e di riflesso dal lessico “corretto”, il nome del padre e della madre. Sostituiti con quel grottesco e neutrale riferimento alla genitorialità, differenziata solo dal numeretto, come le file alla posta e dal salumiere: Genitore 1 e genitore 2, dove paradossalmente si faceva una peggiore discriminazione di genere, se assegnavi per esempio al padre il numero 1 e relegavi la madre nel ruolo secondario di numero 2; e lo stesse valeva se il criterio si fosse applicato all’inverso, comunque un’inaccettabile gerarchia ai fini della parità dei diritti.
Quella diversa designazione dei genitori sulla carta d’identità, applaudita dalla sinistra, aveva trovato conferma in una sentenza del tribunale di Roma che nello scorso novembre aveva riammesso la dicitura genitore 1/genitore 2, già propagata anche in altri ambiti “sensibili”, come le scuole, e ambiva sostituire in modo definitivo le denominazioni di sempre, padre e madre. Non più onora il padre e la madre, ma ometti il padre e la madre.
La definizione sostitutiva di genitore 1 e genitore 2 era stata già introdotta in precedenza. Un decreto Salvini del 2019, quando era Ministro dell’Interno, aveva ripristinato il riferimento al padre e alla madre. La sentenza recente aveva invece riportato la dicitura neutrale.
Ma il ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha annunciato che la dicitura corrente sulle carte d’identità e sui documenti pubblici, non si adeguerà a quella sentenza, che ha valore individuale, cioè vale solo per la singola coppia che ha fatto ricorso. Il sottinteso è che chiunque voglia rifiutare la denominazione tradizionale, tra le coppie dello stesso sesso, dovrà fare ricorso e ottenere il riconoscimento; ben sapendo che la decisione si applicherà solo nel suo caso, non farà giurisprudenza né sistema. Come è giusto, altrimenti il potere legislativo passerebbe definitivamente al potere giudiziario: le leggi sarebbero fatte o corrette dai giudici e non più dal Parlamento, espressione del popolo sovrano nel rispetto della separazione dei poteri, tra esecutivo, legislativo e giudiziario.
Le organizzazioni gay insorgono perché ricorrere ai giudici per ottenere la dizione neutra significherebbe perdere tempo e denaro; ma l’obiezione chiara ed elementare è che non si può cancellare la paternità o la maternità per riconoscere l’omogenitorialità. Anzi, l’ipotesi che si possa richiedere un diverso riconoscimento giuridico preserva la libertà dei singoli e sancisce un buon equilibrio tra diritti privati, individuali, e diritto pubblico e universale. Per semplificare, il diritto privato non può prevaricare sul diritto pubblico, modificarlo e imporre che il secondo si adegui al primo. Ma i movimenti omotrans annunciano class action e confidano nella Commissione Ue che sta approvando un regolamento filo-gay e anti-famiglia tradizionale a cui gli Stati nazionali dovrebbero conformarsi. E magari studiano in alternativa il ricorso alla Corte europea dei diritti umani, che come è noto e come dimostrano non pochi suoi pronunciamenti, svolge ormai una funzione di correzione ideologica nel segno del politically correct, scavalcando i tribunali e i canoni giuridici nazionali.
Insomma, la partita è aperta, e probabilmente assisteremo a conflitti, rovesciamenti, sballottamenti che alla fine non sono solo giuridici, formali, burocratici ma incidono sulla visione reale dei rapporti famigliari e genitoriali. Si fronteggiano due visioni opposte: una fondata sulla natura, la tradizione, la realtà di sempre; l’altra sull’ideologia, la correzione della realtà, il predominio di una sparuta minoranza sulla larga maggioranza delle famiglie.
Ma per una volta soffermiamoci sul significato simbolico di questo “ritorno del padre e della madre” seppure nel linguaggio formale della legge.
Certo, la crisi della famiglia, della figura paterna e materna, non vengono certo attenuate da un cambio di dizione formale; così come la dicitura imposta dalla legge di genitore 1 e genitore 2, non modificava certo l’uso nel linguaggio corrente del riferimento alla mamma e al papà. È inimmaginabile pensare che la prima parola pronunciata da un lattante non sia un monosillabo riferito alla mamma (o al babbo) ma un vago riferimento a genitore uno o due. Il linguaggio della natura, degli istinti e di una tradizione che si è fatta quasi corredo genetico, non può essere surrogato da un lessico finto, artificiale, burocratico. E penso che la stessa cosa valga anche per i bambini adottati dalle coppie omosessuali.
Resta però vero che per restituire vitalità al ruolo paterno e materno, da qualche parte bisogna pur cominciare. E riconoscere già la parola è comunque un primo segnale. Dopo le parole magari verranno i fatti. In ogni caso, è più difficile ripensare alla paternità e alla maternità se già la loro denominazione è cancellata, rimossa, negli atti pubblici, nei tribunali, negli uffici comunali e nelle scuole. Intanto Le Sezioni Unite della Cassazione, hanno ribadito in una sentenza che la maternità surrogata – anche laddove avvenga in forma gratuita ‒ è sempre da considerarsi una pratica “che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Una bella svolta.
Il sottinteso che il concepimento, la gravidanza e il parto, il legame di sangue, l’eredità genetica siano irrilevanti, è un’erosione progressiva e malefica del naturale e affettivo legame tra un padre, una madre, un figlio e una figlia, con tutto ciò che ne deriva.  Adeguiamo la legge e il suo linguaggio alla natura, alla civiltà e alla realtà di sempre.

La solidarietà verso gli immigrati non è un obbligo morale

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/11/14/la-solidarieta-verso-gli-immigrati-non-e-un-obbligo-morale/

LA “CIVILTÀ” DELLA SOLIDARIETÀ IMMIGRAZIONISTA DELLE SINISTRE, NON È ALTRO CHE IL COMPIMENTO DEL TERZO “VALORE” DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE, QUELLO PIÙ UTOPICO DELLA “FRATERNITÉ” SENZA IL CRISTIANESIMO

La parola solidarietà viene, spesso, abusata o utilizzata a sproposito per far apparire il Cattolicesimo come una grande O.N.G. (Organizzazione Non Governativa) col fine di favorire il mondialismo. Questa è la versione social-democratica del Magistero della Chiesa. L’interpretazione centrista è, altresì, ancor più incline ad un buonismo che afferisce all’umanesimo integrale, tanto sbandierato dai liberali, che non riconosce alcun ruolo a Dio, quanto ad un’etica materialista della comune famiglia globale.

La solidarietà come pseudo-virtù è un’invenzione del positivismo ottocentesco, e di August Comte in particolare, per il quale la solidarietà è “l’intrinseca e totale dipendenza di ogni uomo dalle precedenti generazioni” , in una prospettiva totalmente deterministica, che non gli riconosce alcuna libertà.

Il problema di entrambe le ideologie, che spesso hanno radici e caratteristiche che si incrociano, come, del resto, il progressismo marxista e il conservatorismo liberista, in tema di immigrazione di massa, è che dimenticano o rifiutano il destino soprannaturale degli esseri umani.

Il lavoro illuminista, fatto proprio dalle logge massoniche, è stato quello di convincere, nell’arco di almeno tre secoli, il mondo che vi possa essere una solidarietà senza carità, ossia la filantropia senza Dio, propria dei nemici di Cristo e della Chiesa. Questa confusione terminologica e fattuale è così intrinsecamente perversa da essere riuscita, nel tempo, a traghettare nel suo campo molti cattolici in buona fede.

Del resto, è risaputo che i figli del serpente sono più scaltri dei figli della Luce. Il grande G.K. Chesterton mise in guardia, a pieno titolo, dall’ambiguità, che porta sempre al male.

E’ per evitare spiacevoli equivoci che il Magistero ecclesiastico è intervenuto per fare chiarezza.Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge umana di solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dalla eguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della Croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice” (Pio XII, Lettera enciclica Summi pontificatus, n. 15).

Nella sfera sociale la carità è “un’amicizia tra Dio e l’uomo [che] suppone necessariamente la Grazia che ci fa figli di Dio ed eredi della gloria (Padre Antonio Royo Marìn, Teologia della perfezione cristiana, Edizioni Paoline, Torino 1987, p. 602).

Dopo Dio, occorre amare il bene spirituale dell’anima propria e di quella del prossimo, più che il nostro e altrui bene corporale. Solo se riferita al suo oggetto primo, cioè a Dio, la carità è veramente tale perché “senza la Fede è impossibile piacere a Dio” (San Paolo, Lettera agli Ebrei, II,6).

La solidarietà riguarda, dunque, i beni spirituali, molto di più di quelli materiali, come il venerabile Papa Pio XII spiega mirabilmente nella costituzione apostolica Exsul Familia del 1° agosto 1952.

Quanto alla carità sociale internazionale, quale principio della dottrina sociale della Chiesa enunciato dal Magistero di Pio XI, nella meravigliosa enciclica Quadragesimo anno (n. 87-88) rientra la “solidarietà delle nazioni”, per cui Pio XII giustifica il principio dell’intervento armato a difesa di un altro popolo ingiustamente aggredito, che non sia in grado di difendersi da solo. Ma, “nessuno Stato ha l’obbligo di assistere l’altro, se per questo deve andare in rovina o compiere sacrifici, sproporzionatamente gravi” (Padre Eberhard Welty o.p. vol. II, pag. 404).

Un popolo minacciato o già vittima di una ingiusta aggressione, se vuole pensare ed agire cristianamente, non può rimanere in una indifferenza passiva; tanto più la solidarietà della famiglia dei popoli interdice agli altri di comportarsi come semplici spettatori in un atteggiamento d’impassibile neutralità. […] Ciò è così vero, che né la sola considerazione dei dolori e dei mali derivanti dalla guerra, nè l’accurata dosatura dell’azione e del vantaggio valgono finalmente a determinare, se è moralmente lecito, od anche in talune circostanze concrete obbligatorio (sempre che vi sia probabilità fondata di buon successo) di respingere con la forza l’aggressore. […] La sicurezza che tale dovere non rimarrà inadempiuto, servirà a scoraggiare l’aggressore e quindi ad evitare la guerra, o almeno, nella peggiore ipotesi, ad abbreviarne le sofferenze” (Pio XII, Radiomessaggio natalizio 1948).

Secondo il prof. Roberto de Mattei la civiltà della solidarietà, cui si richiama la nuova sinistra, altro non sarebbe che il compimento del “terzo valore della Rivoluzione, quello più utopico della fraternité”, l’inveramento della triade giacobina di liberté, egalité e fraternité nella prospettiva naturalistica e totalmente secolarizzata della cosiddetta società multietnica e multireligiosa.

Questa solidarietà consisterebbe nella coscienza di una progressiva convergenza sociale dell’umanità verso un futuro unitario, verso un mondo caratterizzato dall’interdipendenza sempre più stretta dei rapporti sociali. […] L’etica della solidarietà, intesa come pura etica relazionale, porterebbe come conseguenza necessaria la realizzazione dell’uguaglianza assoluta e anche dell’assoluta libertà nel regno della fratellanza. […] Queste teorie ricevono conferma ideologica dalle sponde del progressismo cattolico, dove un teorico della solidarietà quale Josef Tischner ci presenta l’uomo non come persona individuata e distinta, ma come ente confuso in una “complessa rete relazionale” (1900-2000 Due sogni si succedono la costruzione la distruzioneEdizioni Fiducia, Roma 1990, pp. 121 e 122).

Oggi si tace il fatto che il Magistero della Chiesa pone dei limiti all’accoglienza verso gli stranieri ed al diritto naturale di emigrare, inteso come l’inalienabile volontà di interagire con altri popoli, secondo i principi di legalità e reciprocità di rispetto e dignità.

Nessuno parla mai del dovere di carità cristiana e solidarietà di comportamento nel cercare e rimuovere le cause che provocano la necessità di trasferirsi in massa in un nuovo Continente.Nessuno Stato, in forza del diritto di sovranità, può opporsi in modo assoluto a una tale circolazione, ma non gli è interdetto di sottoporre l’esodo degli emigranti o l’ammissione degli immigrati a determinate condizioni richieste dalla cura degli interessi, che è suo ufficio tutelare” (AA.VV., Codice di morale internazionale, La civiltà cattolica, Roma 1943, pp. 53-54).

Una politica di puro protezionismo o di egoismo nazionalistico o etnico non è invece ammissibile.Il Creatore dell’Universo, infatti, ha creato tutte le cose in primo luogo ad utilità di tutti; perciò il dominio delle singole nazioni, benché debba essere rispettato, non può venir tanto esagerato che, mentre in qualsivoglia luogo la terra offre abbondanza di nutrimento per tutti, per motivi non sufficienti e per cause non giuste ne venga impedito l’accesso a stranieri bisognosi ed onesti, salvo il caso di motivi di pubblica utilità da ponderare con la massima scrupolosità” (Pio XII, Lettera In fratres caritas all’Episcopato degli Stati Uniti, 24 dicembre 1948, in A. A. S. XXXXI, 1949, pag. 15 e seg.).

Padre Antonio Messineo S.J. sostiene che lo Stato di destinazione possa impedire che gli stranieri ”non rimangano a suo carico e non compromettano l’ordine e la sicurezza pubblica (sanità, istruzione, moralità, mezzi pecuniari ecc.), AA.VV. Codice di morale internazionale, cit., pag.55.

Infine, Papa Pio XII appare profetico, quanto dimenticato.

Rivolgendosi, in particolare, ai popoli africani e al Terzo Mondo in generale, li “avvertivamo […] a riconoscere all’Europa il merito del loro avanzamento; all’Europa, senza il cui influsso, esteso in tutti i campi, essi potrebbero essere trascinati da un cieco nazionalismo a precipitare nel caos o nella schiavitù. […] Non ignoriamo, infatti, che in molte regioni dell’Africa vengono diffusi i germi di turbolenza dai seguaci del materialismo ateo, i quali attizzano le passioni, eccitano l’odio di un popolo contro l’altro, sfruttano alcune tristi condizioni per sedurre gli spiriti con fallaci miraggi o per seminare la ribellione nei cuori” (Pio XII, Lettera enciclica, Fidei donum del 21 aprile 1957, nn. 6-7).

 

Matteo Castagna a La7: “Dio, Patria, Famiglia resta il miglior programma di governo!”

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INTERVISTA ESCLUSIVA

di Lucia Rezzonico

Ieri sera è proseguita la maratona mediatica d’ottobre del nostro Responsabile Nazionale Matteo Castagna, iniziata con Telenuovo l’11 e proseguita con il Corriere del Veneto, inserto del Corriere della Sera del 15, con l’intervista a “L’Aria che tira”, su La 7 alle 12.30 circa del 17, con La Zanzara su Radio24 il 18, con l’intervento a Piazzapulita condotta da Corrado Formigli, sempre su La7 in prima serata: https://www.la7.it/piazzapulita/video/dentro-il-mondo-ultracattolico-di-lorenzo-fontana-20-10-2022-456662 e che proseguirà con un articolo-intervista di Gad Lerner per il Fatto Quotidiano dei prossimi giorni. In studio erano presenti il Vicedirettore de La Verità Francesco Borgonovo, Laura Boldrini e Alessandro Zan, mentre in collegamento esterno c’era lo storico Franco Cardini. 

Impressioni a caldo. Stamattina, abbiamo voluto sentire il Responsabile Nazionale del Circolo Christus Rex-Traditio Matteo Castagna.

Matteo, ti aspettavi tutta questa attenzione mediatica? Sai che a livello nazionale, quando si parla dei tradizionalisti escono sempre fuori tre nomi, tra cui il tuo?

“Come tutti sanno, sono abituato da circa 25 anni a frequentare il mondo giornalistico, soprattutto locale. Dal 1996, solamente come uomo pubblico interpellato e dal 2012 anche come pubblicista e poi Comunicatore Pubblico certificato. Ciclicamente, è sempre accaduto che, in particolari occasioni, l’attenzione nazionale si focalizzasse sul Circolo Christus Rex-Traditio, che ho fondato ed ho l’onore e l’onere di rappresentare. E’ evidente che i media ti cerchino se hai qualcosa di interessante da dire, al di là delle opinioni differenti. Stavolta l’occasione è stata l’elezione di Lorenzo Fontana a Presidente della Camera dei Deputati, ovvero la terza carica dello Stato, che è per tutti i veronesi un fatto storico, perché nessun nostro concittadino era mai arrivato a ricoprire una carica così importante e prestigiosa nella storia repubblicana. La stampa arriva da me perché Lorenzo è un cattolico tradizionalista veronese, va alla Messa more antiquo, non è annoverabile tra i cattolici omologati alla secolarizzazione. Sui principi etici, quali il diritto alla Vita, dal concepimento alla fine naturale, il diritto alla libertà educativa e la Famiglia quale cellula fondamentale della nostra civiltà, formata da mamma, papà e figli è sempre stato una garanzia. Quanto al fatto del mio nome, che a livello religioso, politico e mediatico, venga tirato in ballo quando si tratta di Tradizione Cattolica, l’ho saputo ieri da un illustre esponente della categoria giornalistica. Credo sia perché il Circolo Christus Rex è una realtà viva, sempre sul pezzo e in vista, con una costanza che, magari, altri non hanno, e che perdura nel tempo, nonostante abbiano cercato in vari modi di distruggerci o metterci a tacere. Ce ne siamo fatti una ragione, abbiamo gli anticorpi e guardiamo sempre avanti per la Regalità Sociale di Cristo.

Ma questa ulteriore esposizione mediatica come la vive? (a lato Santa Messa tradizionale “non una cum” celebrata da un sacerdote dell’Istituto Mater Boni Consilii, in una chiesa di proprietà privata a Verona)

“Oggi ho il telefono bollente. Tanti sono rimasti soddisfatti della faccia incupita della Boldrini e delle paure (in realtà eccessive) espresse dall’On. Zan quando parlavo a Piazzapulita… Se fossi completamente in forma, probabilmente la vivrei con maggior serenità, ma alcuni problemi fisici fastidiosi, non mi aiutano. Comunque si fa tutto “ad maiorem Dei gloriam”, quindi sempre col sorriso e con la determinazione necessaria a far passare il Pensiero forte del Cattolicesimo romano, l’amore vero per il Papato, in un mondo dominato dal pensiero unico, che è forte solo numericamente ma è estremamente debole perché falso. Mi piace ricordare che non sono i numeri a fare la Verità. Basta Cristo, che è Via, Verità e Vita, che ci ha lasciato in questa valle di lacrime, da poveri peccatori, perché abbiamo aderito a troppi “non serviam” rispetto ai Suoi divini insegnamenti. Ora dobbiamo rimediare. Ci sforziamo di vivere da cattolici come Dio comanda, fruendo di tutti i mezzi di purificazione e santificazione che Egli ci ha donato tramite la Santa Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, a partire dai Sacramenti. Non accettiamo una dottrina adulterata, che ha rotto con la Tradizione, anche apostolica, a causa dell’invalidità degli ordini Sacri scaturiti dalle riforme del 1968-70′. Papa Pio XII non voleva indire un Concilio Ecumenico, perché sentiva un grave pericolo per la Chiesa. Conosceva l’infiltrazione modernista nei Sacri Palazzi, che già lavorava da almeno due secoli e che era stata duramente combattuta dai suoi predecessori, in particolare da San Pio X. Il suo successore, Roncalli, aprì porte e finestre al mondo ed al suo Principe indicendo il Conciliabolo Vaticano II (1962-1965). Là, avviene il colpo da maestro di Satana: sotto l’inganno della pastoralità, si approvano documenti che trasformano, annacquano o rendono ambiguo il dogma, soprattutto nella dichiarazione Nostra Aetate, ma anche nella Lumen Gentium, nella Unitatis Redintegratio, nella Gaudium et Spes, nella Dei Verbum, si mettono sullo stesso piano la verità ed errore e si nega la missione evangelizzatrice quale peculiarità dei successori di Pietro e degli Apostoli. Abbiamo assistito ad un’opera di sostituzione, in Vaticano e nelle diocesi. La Chiesa è stata cacciata dai Suoi luoghi sacri e sostituita da una “Contro-Chiesa” che opera al servizio dei nemici di Cristo e del Suo Corpo Mistico, abbracciando l’umanesimo, distruggendo il sacro, girando gli altari, rendendo ambigue le formule dei riti, Gradualmente, in questi sessant’anni si è tolto tutto ciò che è soprannaturale. La “Contro-Chiesa” si presenta come un Consiglio di Amministrazione, laddove il “papa” è il presidente dell’assemblea, assistito da un presidente emerito; il collegio cardinalizio è appunto il CdA, che ha come commissioni permanenti le Conferenze Episcopali, che danno le direttive ai comitati territoriali, che sarebbero le diocesi, ove giungono le indicazioni nelle parrocchie. Il denaro, il potere, la ricerca spasmodica di piacere al mondo e ai peggiori peccatori, ha fatto della Contro-Chiesa conciliare la nuova ideologia post-cattolica: buonista, immigrazionista, ecologista, pacifista, amica delle massonerie e delle lobby sovranazionali, a-morale e, a tratti, persino, immorale, ad esempio nel tollerare le benedizioni alle coppie omosessuali o le convivenze more uxorio, oppure nel dar la comunione ai pubblici peccatori”.

Dunque la Chiesa Cattolica dove si trova?

“Ovunque vi siano chierici ordinati o consacrati validamente con le formule ante-68′ che celebrino solo la Messa cattolica, cioè quella tridentina, detta di S. Pio V, che esprime in maniera certa e evidente la Fede cattolica ed esprime l’Eucarestia come rinnovamento incruento del Santo Sacrificio di Cristo, che è presente realmente, in corpo, anima e divinità, nell’ostia consacrata dal sacerdote, che è “alter Christus” non un assistente sociale. Nel diffondere la sana dottrina così come sempre insegnata in ogni luogo, sempre e a tutti prima del Conciliabolo, pur non avendo piena giurisdizione, perché non hanno vescovi residenziali ma di supplenza, fungono da Chiesa docente ai fedeli ed alle famiglie rimasti ancorati al Magistero Perenne, alla morale ed alla disciplina tradizionali. Gesù mantiene sempre le promesse. Quella del “non prevalebunt” è già in atto da decenni. L’indefettibilità della Sua Chiesa viene perpetuata da questi eroici vescovi e sacerdoti, dispersi nel mondo, cui non fa mancare la Sua Grazia, premiando la fedeltà con frutti meravigliosi in termini di vocazioni e conversioni. Certo, va aggiunto che nessuno di noi può leggere nei cuori, solo Dio lo può fare. Pertanto non me la sento di giudicare come di escludere dalla Chiesa tutti coloro che, pur non essendo legati alla Tradizione in maniera costante e perfetta, cercano la Verità. Credo che esistano tante vittime inconsapevoli di questa secolarizzazione e della “Contro-Chiesa”  e che Dio, nella sua infinita bontà, saprà usare la giusta misericordia con tutti, a seconda dei singoli casì. Non vorrei, però, essere nei panni della “Contro-Chiesa” cosciente e docente, perché porta volontariamente alla perdizione delle anime. Il Signore è stato chiarissimo nei confronti di costoro, novelli farisei, come coi mercanti nel Suo Tempio”.

Ci sono persone, anche ai massimi livelli che sostengono il “diritto all’aborto” e, allo stesso tempo si dichiarano “cattolici”…

“Mi pare che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sia tra costoro. Ha persino promesso che se vincerà le elezioni di metà mandato, l’aborto tornerà legale ovunque negli States. L’omicidio volontario legalizzato non può essere giustificato, soprattutto se effettuato nei confronti di soggetti innocenti, ancora nel grembo della madre. Senza concepimento, non inizia la Vita. Se si sopprime un ovulo fecondato si ammazza deliberatamente un essere umano. L’aborto è, per questo, forse il più grande genocidio della storia, che, peraltro continua, negli anni, perché consentito dalle leggi positive di Stati che non dovrebbero avere alcuna potestà su questi temi. Ne consegue che chi è abortista non possa essere anche cattolico, perché contravviene ad un Comandamento con pieno assenso e deliberato consenso. Visto come gli abortisti vengono accolti e giustificati dalla “Contro-Chiesa” modernista conciliare che occupa i Sacri Palazzi, possiamo dire che si può essere abortisti e conciliari. La recente nomina effettuata da Bergoglio di una scienziata italo-americana dichiaratamente abortista alla Pontificia Accademia per la Vita sembra andare, inequivocabilmente verso una direzione, che dovrebbe mettere in allarme chi ancora ritiene che a Roma sieda il legittimo Sovrano Pontefice”.

Cosa potrà fare Lorenzo Fontana per i principi cattolici?

“Conosco Lorenzo dal 1996. Abbiamo fatto un percorso assieme,  prima politico e dal 1999 anche spirituale nell’ambito della tradizione cattolica. Abbiamo partecipato agli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, assieme, nel 2000. L’anno dopo, portò il bouquet da sposa a casa di mia moglie, quando mi sposai in rito antico, con officiante don Giorgio Maffei. Siamo rimasti sempre amici perché ci accomuna anche la passione per l’Hellas Verona, che per anni siamo andati a vedere nello stesso luogo, in Curva. Poi abbiamo condiviso anche la militanza politica. Mia moglie fu sua vice, a Verona, nei Giovani Padani. Quando ero il più giovane Consigliere e capogruppo veronese in Terza Circoscrizione, nell’Amministrazione 1998-2002, abbiamo condotto tante battaglie insieme, soprattutto per la sicurezza e la vivibilità dei nostri amati quartieri. Ci divertivamo ad attaccare i manifesti, eravamo attivissimi coi gazebo e giovani idealisti. Successivamente al 2002 decidemmo di intraprendere strade differenti: Lorenzo scelse la carriera istituzionale, partendo dalla gavetta in Terza Circoscrizione e scalando tutti gli incarichi a livello locale, poi come eurodeputato, parlamentare, Ministro della Famiglia e poi agli Affari Esteri, vicepresidente della Camera e ora Presidente della Camera. Si è sempre espresso, in pubblico, coerentemente con i suoi principi religiosi, etici e personali, quindi saprà, vista anche l’esperienza maturata, svolgere al meglio il prestigioso ruolo di garanzia che gli è stato affidato. Credo anche, che potrà, nei contesti appropriati, far valere il suo credo, che, in buona parte, è anche il mio. Io, nel 2002 conobbi a Milano in Via Bellerio, l’On. Mario Borghezio, che con Max Bastoni, poi divenuto consigliere comunale e oggi al secondo mandato come consigliere regionale lombardo, mi lanciò nel mio primo comizio contro l’invasione islamica in Piazza Duomo. C’era anche l’On. Federico Bricolo. Quanta emozione per me… Borghezio è la figura cui debbo di più, in termini di insegnamenti in merito a come funziona la politica e come sono i meccanismi dell’Europarlamento e la presenza dei poteri forti. Mi nominò coordinatore di “Padania Cristiana” e mi fece condurre una trasmissione ogni venerdì in Radio (RPL) nello spazio dei suoi Volontari Verdi. Tante furono le conferenze, i volantinaggi, le presentazioni librarie, le trasmissioni televisive cui partecipai con entusiasmo e sempre tutto per l’idea dell’apostolato cattolico in questo mondo di tiepidi o anticrisi. Mettemmo per la prima volta il Presepe al Parlamento Europeo di Bruxelles nel 2008, scandalizzando non poche persone. La nostra stretta collaborazione durò 7 anni, fino al 2009, quando lasciai ogni incarico, riconsegnai la tessera e mi dedicai esclusivamente alla vita associativa, lavorativa e familiare. Ho letto i nomi degli eletti e ce ne sono parecchi, soprattutto in Fratelli d’Italia e nella Lega con cui ci conosciamo da tempo ed abbiamo valori comuni. Più di quanto mi aspettassi. In politica, l’impegno dei conservatori, del mondo pro-life, di donne e uomini da sempre schierati coraggiosamente a destra, coincide coi nostri principi e, quindi, come già accaduto con il ddl Zan, faremo un’unica rete d’intesa su scala nazionale, per aggiustare il possibile e frenare la Sovversione. Il ruolo dell’ ottimo amico Avv. Gianfranco Amato, Presidente dei Giuristi per la Vita, con cui abbiamo da poco scritto il libro “Patria e Identità” (ed. Solfanelli) sarà fondamentale in questo consesso”.

Quindi ti aspetti che il nuovo governo cambi le leggi sulle unioni civili e abroghi la legge 194?

“La mia formazione tomista mi fa essere molto realista. Salvo un miracolo, non credo vi siano le condizioni per abrogare la legge sulle unioni civili. I numeri ci dicono, comunque, che ad accedervi sono quattro gatti. Si trattò di una bandiera ideologica perché anche tra le coppie dello stesso sesso la legge Cirinnà è stata un flop. Accanirsi su una legge raramente applicata potrebbe esser preso come darle un’importanza che, nei fatti concreti, non ha. Ovviamente, se alzassero il tiro, pretendendo l’adozione dei bambini, saremo in prima linea con le barricate perché i bambini non si toccano, hanno per necessità naturale bisogno di mamma e papà e che non si azzardino a volerli indottrinare a poter cambiare sesso, a seconda di come gli gira al mattino, fin dall’asilo! Guai a chi scandalizza i piccoli – dice Gesù – e vale per tutti, in ogni contesto. I minori sono della famiglia, non dello Stato! Magari pensiamo a come riformare le leggi sulle adozioni, rendendole più semplici e snelle. Pensiamo ad incentivi per la natalità e per le nozze alle giovani coppie! Torniamo ad una generale cultura della Vita. Tocchiamo Caino, stando sempre dalla parte di Abele! Quanto alla 194, sebbene noi cattolici ripetiamo sempre che andrebbe abolita, non credo che questo sarà fatto da alcun governo, in queste circostanze. Ogni passo importante che fa la Sovversione chiamando bene il male e male il bene ovvero “diritti” i desideri, troppo spesso disordinati e peccaminosi, più passa il tempo e più sedimentano come acquisizioni indiscutibili. Sul fronte internazionale e sovranazionale stanno tutti dalla parte della Sovversione. Non credo che nell’attuale centrodestra vi siano tutti antiabortisti. Purtroppo non siamo in Ungheria. Se, sul piano dei numeri, la vedo molto dura, è anche vero che i parlamentari pro-life sono parecchi e la sensibilità di tutta la nostra area, per quanto variegata, non possa essere scontentata completamente. Spero che si riesca a salvare il maggior numero di vite possibile, attraverso il potenziamento e il miglioramento di ciò che già c’è. E che questo trovi il primo input in una mamma, come Giorgia Meloni. Ricordiamo anche che la storia l’hanno sempre fatta donne e uomini cosiddetti “divisivi” a partire da Gesù Cristo, che si definì “pietra angolare” tra Bene e Male, non minestrone ecumenista”.

E sul tema dell’accoglienza dei migranti?

“Mi aspetto il pugno di ferro contro le organizzazioni criminali che fanno dell’immigrazione un business sulla pelle degli immigrati. L’invasione va fermata. Chi scappa dalla guerra è profugo e va accolto nei modi e nei termini stabiliti dal diritto internazionale. La sostituzione etnica, finanziata dai Soros di turno, per destabilizzare l’Europa bianca e cristiana, dovrà essere una priorità da scardinare una volta per tutte. Fermare l’immigrazione e aiutare con trattati internazionali i bisognosi a casa loro, farà il bene degli extracomunitari e produrrà una pace sociale in Italia ed Europa, che mancano da troppi anni. Ricordo che Berlusconi fermò i barconi con un accordo con Gheddafi e, quindi, il Mediterraneo non fu più un cimitero di disperati della tratta d’esseri umani in mano alla criminalità organizzata o di altri enti solo apparentemente benefici, in realtà molto lucrativi. Per questo, quando leggo dell’insistenza con cui Bergoglio parla dell’accoglienza dei migranti a tutti i costi, mi chiedo il motivo di tanta ossessione. Risolviamo il problema alla radice. Nessun “migrante economico” deve più muoversi da casa sua e le coste siano presidiate con accordi internazionali. Gli italiani tornino a sposarsi e vengano messi in condizione di mantenere dignitosamente famiglie numerose. Questo è il bene comune del prossimo: aiutarlo in Patria a rendersi autonomo in una vita dignitosa. Ius soli, ius culturae, ius scholae  sono parte dell’ideologia mondialista massificatrice e distruttiva, che va completamente rigettata. Per “ius sanguinis” ciascuno è figlio della sua terra e dei suoi genitori”.

Sulla guerra in Ucraina vuoi dirci il tuo pensiero?   

“Sono molto preoccupato. Si stanno scontrando due mondi, che, a causa della Sovversione sinistra, esplicitata in mille modi, rischiano la guerra atomica pur di rifiutare la collaborazione multipolare. E’ una guerra economica, certo. L’Ucraina non è il motivo, ma la goccia che ha fatto traboccare un vaso che si stava riempiendo dal 2014, in Donbass. Credo che la questione fondamentale riguardi la Cina e gli USA ed il rapporto di forza che, eventualmente, dovranno equilibrare. Di certo stiamo assistendo al crollo della globalizzazione, come l’abbiamo conosciuta finora. Mi piacerebbe un’Italia protagonista in Europa, che faccia gli interessi nazionali, dunque che rifletta sulle sanzioni a Putin, se esse si ripercuotono tramite la speculazione sulle tasche degli italiani. Ci sono organizzazioni internazionali che, a mio avviso sono superate dalla storia. Come in Italia non darei più finanziamenti pubblici all’ANPI, dopo 80 anni dalla fine del fascismo, allo stesso modo rivedrei l’Alleanza atlantica. La NATO poteva essere utile dopo Yalta e fino al crollo del Muro di Berlino nel 1991. Oggi, andrebbe chiusa e ripensata, coinvolgendo le nuove realtà e, magari, cercando di includere la Russia, che è Europa, molto più della Turchia. Ma questi sono cambiamenti lenti, che vorrebbero, in primis un’Europa politica, un’Europa dei Popoli, che riscopra la comune identità classico-cristiana, non dell’alta finanza che schiaccia i popoli tramite una fetida usurocrazia, che parte dall’annullamento della sovranità monetaria. Mi pare semplicistico e proprio della mania di affrontare le problematiche tra opposte tifoserie, dividere la gente tra putiniani ed atlantisti. Occorre che la diplomazia faccia sintesi e nuovi accordi con l’Oriente del mondo, prima di rimanerne travolto”.

 

 

 

 

 

L’inarrestabile ascesa dell’ipocrita morale progressista

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Riceviamo per la pubblicazione questo articolo, che contiene spunti interessanti e di sicura attualità, coi nostri ringraziamenti all’autore (n.d.r.)

di Riccardo Sampaolo

Jean Gabin (1904 – 1976) è stato un grande attore francese, che non ha avuto difficoltà a giganteggiare in molti ruoli che gli sono stati conferiti.

Tra i suoi film è bene ricordare “Il clan degli uomini violenti”, datato 1970.

In tale film Gabin impersona un rude campagnolo, che nonostante una delle figlie gli ricordi che il mondo è cambiato, lui risponde lapidariamente: “Si, ma io no”.

L’uomo di campagna sopracitato, radicato in un suolo, che coltiva la terra  da cui ritrae gran parte del suo sostentamento, è un francese dalle convinzioni solide, pragmatico, poco influenzato, e quindi poco dipendente, dal mondo esterno in rapido aggiornamento.

La risposta più significativa il rude agricoltore la rivolge però a un magistrato, che nel chiedergli la professione, risponde senza esitazioni, proprietario, al che il magistrato sconcertato gli dice che “proprietario” non è una professione, e Gabin precisa, “per me si”; sta tutto qui il nemico attuale della odierna Unione Europea a sfondo progressista, l’uomo proprietario di un luogo e in larga misura autonomo; tale uomo è molto meno dipendente, rispetto ad altri, dallo Stato e dall’opinione pubblica e basa le sue convinzioni non su principi astratti, prima che vengano dimostrati, ma sulla solida esperienza di vita che lo fa diffidare delle mode passeggere del buonismo modaiolo della modernità.

L’ecologismo che fa frequentemente capolino dalle parti di Bruxelles è di matrice chiaramente urbana, ossia nasce nella mente degli uomini delle città, ed ha quasi sempre una profonda ostilità verso il mondo rurale, intriso di senso del sacro e  composta unità familiare. Non è un caso che l’ipotesi, circolata un po’ di tempo fa negli ambienti politici dell’UE, di mettere fuori mercato le abitazioni energeticamente dispendiose, avrebbe colpito prioritariamente i vecchi, ariosi e dimensionalmente generosi manufatti colonici agricoli, a favore delle piccole, anguste ed energeticamente efficienti anonime case cittadine.

L’ecologismo di moda negli ambienti progressisti europei a matrice urbana, punta alla colpevolizzazione dell’uomo e del suo operato, in uno stile fortemente antirurale che vede l’agricoltore come una figura marginale nella migliore delle ipotesi, e quindi non come un riferimento da cui poter ottenere il governo del territorio e cibi salutari; l’ambientalismo urbano e progressista è quindi in larga misura una serie di “buoni propositi” in cui gli adepti, dalle città vogliono intervenire su ciò che gli è esterno, dimenticando che l’urbanesimo è una delle principali cause del degrado ambientale, e il loro stile di vita è solo cosmeticamente allineato con gli elementi base della naturalità.

Mentre l’agricoltore vive sulla terra e della terra, ha come obiettivo il mantenimento della fertilità dei suoli nel corso del tempo, da cui ricava il proprio sostentamento, l’uomo delle città, irreligioso, cosmopolita, progressista, si limita a imporre al bifolco le sue certezze delle buone intenzioni, volendo difendere l’ambiente dal punto di vista delle città, ma non stringendo alcun reale rapporto con la natura, intesa come base da cui ritrarre l’utile per poter vivere. Il capitalismo internazionale dopo aver vinto sul marxismo, ne ha assorbito alcune componenti compatibili con esso, e non sono poche.

Ecco quindi che si fa strada anche grazie alla digitalizzazione, all’urbanesimo, alla liberalizzazione dei rapporti sessuali, al disfacimento della famiglia, un sotterraneo e subdolo attacco alla proprietà diffusa e all’uso dei contanti, per denudare l’individuo, privarlo di “area di protezione” e porlo indifeso alla mercé di uno Stato, che assume atteggiamenti di fastidio verso l’esistenza di un tessuto comunitario dotato di autonomie economiche e valoriali, che ostacolano la riduzione di un popolo a somma di individui standardizzati su cui applicare efficientemente leggi, continuamente sfornate, non tanto per migliorare la qualità della vita di un popolo, ma per orientarlo al perseguimento di principi astratti in linea con il bene del pianeta e dell’umanità; si fa strada in sostanza una dimensione messianica della politica, genericamente rivolta, più che a uno specifico popolo, con le sue caratteristiche, a una indistinta umanità, priva di radici e storia, ma proiettata a comportarsi secondo regole ritenute appropriate dalla elitaria classe dirigente.

La riduzione di un popolo a somma di liberi individui nudi di fronte allo Stato e alla Legge ,(che garantiscono l’efficienza del sistema anche grazie alla montante digitalizzazione dei processi, la quale se da un lato ha il merito di velocizzare e efficientare il sistema, dall’altro rischia di spersonalizzare e inaridire i rapporti umani), non può che passare attraverso l’ attacco alla famiglia, quella che un tempo era considerata la cellula fondamentale della società e oggi rischia di divenire un intralcio alla libera espressione degli individui, presi come sono, dal loro io ipertrofico a guardarsi l’ombelico, e a gareggiare nel mercato dei rapporti affettivi, sempre più votati all’efficienza prestazionale e sempre meno alla profondità relazionale. La famiglia preesiste allo Stato, e nel passato la struttura pubblica è sempre stata piuttosto discreta nell’intromettersi nelle questioni coniugali e affettive, salvo ovviamente i casi di rilevanza penale. Oggi non è più così e lo Stato moderno guarda con sospetto comunità che si autoregolano; gli attuali poteri pubblici anziché considerare la Legge come il perimetro all’interno del quale potersi muovere, tentano di alzare l’asticella, arrivando a concepire la Legge come l’unico strumento regolatore dei rapporti tra persone; da ciò ne deriva ovviamente un altro aspetto tipico della modernità ossia la normazione ossessiva in ambiti un tempo non presi in considerazione.

In Italia il partito più agguerrito nel normare gli aspetti più intimi della vita delle persone è sicuramente stato il Partito Radicale, i cui modesti risultati elettorali non hanno impedito l’imporsi delle sue tematiche anche grazie all’aiuto che ha sempre ricevuto dalle altre e più grandi formazioni politiche, soprattutto della sinistra.

I radicali hanno sempre messo in atto battaglie apparentemente per la liberazione dell’individuo, ma ad una analisi più attenta si evince che la liberazione è avvenuta dai legami comunitari e dalle sensibilità di chi ti stava più vicino, per sostituire ciò, con l’ ossessivo e continuo ricorso a tribunali e leggi sotto l’egida dello Stato.

Lo stesso Marco Cappato, esponente di punta di +Europa, nella sua considerevole esposizione mediatica, non si risparmia di certo nel ricorso ai tribunali per le sue iniziative politiche.

Il risultato di tali azioni porta progressivamente al ridimensionamento di tutti i legami umani intermedi tra la persona e la comunità, e il denudamento dell’individuo così indebolito di fronte allo Stato, definito “il più freddo di tutti i mostri” da Friedrich Wilhelm Nietzsche, per derimere le sue intime questioni, senza il filtro del “dialogo profondo” con i membri della sua comunità.

Una delle prime battaglie radicali, di cuii si può tentare un’analisi, data oramai la piena maturazione dei suoi amari frutti, è sicuramente quella sul divorzio, dato l’oltre mezzo secolo raggiunto di diffusa applicazione.

Orbene come precedentemente ricordato, la famiglia è antecedente alla nascita dello Stato, e questo è un elemento che “il più freddo di tutti i mostri”, nella definizione alla Nietzsche, ha dovuto tenere conto, evitando per molto tempo di mettersi al buco della serratura, se non giustamente, per motivazioni di carattere penale. Tuttavia ad un certo punto della Storia, la decadenza della comunità, l’inurbamento, il declino della religiosità, l’avanzare del femminismo e dell’individualismo, fecero si che i tempi fossero maturi per tentare un intervento dall’alto, su quella che era la cellula fondamentale della società e da lì a breve lo sarebbe stata sempre meno; ecco pronta a partire dunque la macchina divorzista, che si presentava come strumento di scioglimento dei rapporti problematici tra coniugi, ma in realtà si dimostrerà essere qualcosa di ben più sofisticato e deleterio.

Per prima cosa lo Stato e la Legge non si accontenteranno di mediare tra i coniugi, garantendo la parità di trattamento tra i genitori, ma attraverso l’ideazione di artifici giuridici che vanno dall’affido del minore al concetto di casa coniugale, tenderanno a “sostituirsi” ad uno dei genitori (nella maggior parte dei casi al padre), statalizzando di fatto questo ultimo, che a tutti gli effetti diventerà un “concorrente perdente per legge”, estromettendolo dalla piena genitorialità e dalla fruizione della propria abitazione, anche quando di sua esclusiva proprietà.

In cinquant’anni si è verificato in Italia, per mezzo dello Stato e della Legge un vero e proprio scippo della genitorialità maschile, con il colpevole silenzio dei principali media.

L’utilizzo del principio astratto dell’esclusivo/superiore interesse del minore, grondante ipocrisia a livelli altissimi, dato che il massimo interesse del minore è quello di mantenere rapporti con entrambi i genitori, è stato il grimaldello con cui poter giustificare l’opinabilissima disparità di trattamento tra i genitori, come se una persona fosse titolare non di pieni diritti ma residuali; tutto ovviamente perfettamente in linea con il montante femminismo rancoroso della modernità.

Il Sistema divorzista non è neanche scevro da palesi iniquità, grazie all’astuzia giuridica di disgiungere l’affido del minore dalla colpa del naufragio coniugale, facendo verificare l’aberrante  scenario, che il genitore a cui è attribuita la colpa del naufragio familiare possa comunque ottenere l’affido del minore e beneficiare dell’affidamento della casa, anche se proprietario è l’altro.

Nonostante in oltre 50 anni, il divorzismo abbia dimostrato una forte ostilità nei confronti del padre, portata avanti con un impegno degno di miglior causa, il Sistema non si preoccupa delle ombre misandriche che rischiano di calare su di esso, forse confortato dallo spirito femminista dei tempi e dal sostegno, piuttosto acritico dei media conformisti, ma è proprio per questo che le persone è ora che guardino al di là della maschera divorzista e inizino a decifrarne il vero volto, che non è particolarmente rassicurante, soprattutto se si è il genitore marginalizzato dall’Istituto giuridico dell’affido, che guarda caso è quasi sempre di sesso maschile.

Il personaggio impersonato da Jean Gabin, (depurato da tutti gli “eccessi cinematografici”, nel film “Il clan degli uomini violenti”), il padre, proprietario di un vecchio casale di campagna, è il nemico principale del modaiolo progressismo odierno, e nel contempo, una delle poche figure credibili, di quotidiana, ostinata e pervicace resistenza al Sistema Mondialista.

Riccardo Sampaolo per www.agerecontra.it 

L’Evoluzionismo

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di Carlo Maria Di Pietro

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Evoluzionismo è la teoria “scientifica” secondo la quale gli esseri viventi attuali sarebbero il risultato di una trasformazione progressiva di uno o più elementi primordiali. È detto anche Trasformismo.
Questa teoria nacque per opera del botanico francese Giovanni de Lamarck e più ancora dell’inglese Carlo Darwin, da cui prese il nome di Darwinismo.
L’Evoluzionismo materialistico ateo filosoficamente e teologicamente è tanto assurdo quanto il Materialismo e l’Ateismo. Ma c’è un Evoluzionismo teistico, che vorrebbe avere anche il battesimo di cristiano.
Scientificamente l’Evoluzionismo non ha alcunché di solide basi: gravi difficoltà si muovono contro di esso dalla sistematica, dalla geologia, dalla paleontologia, dall’embriologia, dalla genetica. La stabilità della specie è lo scoglio di tutto il sistema.
Filosoficamente, se si prescinde da un diretto intervento divino, l’Evoluzionismo urta contro il principio di causalità, che non tollera la derivazione di un effetto superiore da una causa inferiore.
Teologicamente si potrebbe per ipotesi (ammessa e non concessa) concedere un Evoluzionismo parziale subordinato all’influsso della Causa Prima, tanto nel regno vegetale quanto nel regno animale, escluso però l’uomo, che la Rivelazione dice creato da Dio nell’anima e plasmato da Dio nel corpo.

Ateismo e mondialismo sono dirette conseguenze di liberalismo, comunismo, illuminismo e massoneria

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/09/26/ateismo-e-mondialismo-sono-dirette-conseguenze-di-liberalismo-comunismo-illuminismo-e-massoneria/

GIUSTIZIA E PACE SONO DUE INTIME AMICHE

Il giornalista e scrittore cattolico francese Henri Lasserre (1828-1900) scrisse delle bellissime opere di filosofia politica, che andrebbero rilette e meditate, perché mantengono un’attualità formidabile, caratteristica tipica del pensiero cattolico tradizionale. “La giustizia e la pace sono due intime amiche” – scrisse Lasserre nell’esordio del suo Notre-Dame de Lourdes. Con entrambe, il nuovo governo dovrà confrontarsi, date le evidenti circostanze nazionali ed internazionali. L’assunto che, troppo spesso si dimentica, per interesse e/o mancanza di preparazione è che la giustizia sia la madre della pace. Dove regna la giustizia, la pace stabilisce la sua dimora. Allo stesso tempo, la pace fugge, quando è stata scacciata la giustizia.

Continua Lasserre: “La pace falsa e instabile dura talvolta per qualche tempo. L’abilità di una politica, la mano di ferro di un despota, le combinazioni ingegnose di una costituzione possono crearla. Resiste a questo o a quell’incidente, ma finisce sempre per accaderne uno che rovescia tutto. L’edificio era costruito sulla sabbia, sull’ intelligenza, sulla forza, vale a dire sull’uomo”.

Oggi, potremmo aggiungere che siffatto edificio sia costruito anche sull’ateismo di Stato, sul globalismo, sul mondialismo, che sono le dirette conseguenze del materialismo liberale e comunista, illuminista e massonico, nelle sue radici più profonde, giacobino nei metodi e soggettivista, ipocrita e buonista, intrinsecamente perverso nella morale e nell’ideologia che chiama bene il male e viceversa.

Il primato dell’economia sulla politica è figlio di queste idee malsane che erigono il loro Vitello d’Oro e vivono per adorarlo nelle loro stanze maledette da Dio, imponendo la tirannia dell’assolutismo del profitto come fine ultimo e principale della vita. Senza scrupoli. Col cinismo proprio dello psicopatico, alle volte. Sempre sulla pelle dei popoli. La tirannide dell’Alta Finanza globale è disumana o transumana, come scrive qualche intellettuale contemporaneo.

“La pace promessa alla giustizia è, al contrario, una pace stabile. Nulla la scuote nel suo interno, all’esterno nulla può rovesciarla. E’ edificata sulla roccia, sulla verità, su Dio […]” – scrive con lungimiranza, sempre Henri Lasserre, aggiungendo che “per averlo dimenticato ed avere confidato semplicemente nella loro abilità e nella loro forza, gli abili e i forti hanno perso il mondo. Sono i giusti che lo salveranno”.

Ecco perché il programma di governo “Dio, Patria e Famiglia” rischia di svuotare il loro sacro significato ideale e pratico se si sfuma su Dio e sul diritto naturale. Dai diritti di Dio discendono i doveri degli uomini. Non il contrario. Nel 1872 il filosofo cattolico Lasserre è turbato e preoccupato di fronte al suo popolo che doveva scegliere la Costituzione di cui dotarsi. Sappiamo come l’influsso delle idee sovversive dell’ordine naturale e divino fosse predominante, in quel tempo, e come si sia evoluto in forme sempre peggiori, fino ai giorni nostri. già allora, scrisse: “Il mondo sociale sarà rovesciato bruscamente e legalmente”.

Ma non finisce qui, enuncia parole drammatiche ma realistiche, che paiono scritte anche per questo secolo: “Quelli che hanno bisogno di essere governati, governeranno e governeranno soli. Quelli che avrebbero la capacità necessaria per governare non avranno più esistenza politica. Voteranno nelle elezioni; ma, essendo ovunque inferiori di numero, il loro voto non avrà alcun effetto da nessuna parte, non condurrà nessuno di loro nelle assemblee dirigenti. Saranno praticamente inesistenti. Scompariranno sotto le immense ondate dell’alta marea; saranno sommersi sotto le masse, come in fondo al mare i vascelli affondati”.

Quando si intraprende un’azione politica vedo solo due vie possibili: o ci si lascia trascinare dalla corrente dominante, cosa che garantisce grossi vantaggi personali, o, convinti dei pericoli verso i quali il politicamente corretto ed il Pensiero Unico progressista conducono la società, si decide di andare controcorrente e si tenta di invertire il corso. Ciò è sempre possibile. La Storia, infatti, cammina al passo degli uomini che la fanno. E inoltre, bisogna farlo.

Non basta, dunque, pensare la Storia, bisogna agire. D’accordo con la diplomazia. D’accordo con le enormi difficoltà che il Nemico di sempre pone di fronte all’umanità. Ma al governo che nascerà chiediamo coraggio per il bene comune. Noi, per quanto possibile, saremo sempre lì, vigili, propositivi ma inflessibili sui principi, perché è ora di invertire la rotta. O la barca affonda assieme all’inflazione economica, all’incapacità politica, all’immoralità dilagante, all’orrore del decadentismo post-moderno.

Dio, Patria e Famiglia: è il programma di governo che ci attendiamo da chi si dichiara cristiano

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/09/05/dio-patria-e-famiglia-e-il-programma-di-governo-che-ci-attendiamo-da-chi-si-dichiara-cristiano/

QUANDO LA CHIESA INTERVIENE SU QUESTIONI POLITICHE, I GRANDI MEDIA GRIDANO ALL’INDEBITA INGERENZA, ORA CHE TACE VORREBBERO CHE PARLASSE…

Il 21 Agosto scorso, il quotidiano La Repubblica titolava in prima pagina: “Voto, il silenzio della Chiesa“. Dunque, il più importante media d’area progressista pare lamentarsi del fatto che la Chiesa non intervenga nella campagna elettorale. Generalmente, quando la Chiesa interviene su questioni politiche, i titoloni gridano all’indebita ingerenza. Insomma a ‘sti laicisti non va mai bene niente! Se la Chiesa tace vorrebbero che parlasse per poterla accusare di intromettersi e, se parla, la aggrediscono perché si è pronunciata.

Non fa meraviglia che i nemici della Chiesa abbiano, in ogni tempo, osteggiato la sua missione, negandole le Sue divine prerogative e i suoi poteri. San Luca (19,14) scrive, riferendosi a Gesù Cristo, che contro di Lui si gridò: “Nolumus hunc regnare super nos!” (Non vogliamo che quest’uomo regni su di noi). Dal canto suo, la Chiesa replica nell’Ufficio dell’Epifania: “Non eripit mortalia qui regna dat caelestia” (“non usurpa i regni mortali chi li dà celesti” ).

Col timore di essere accusati di voler tornare al Medioevo, alcuni politici, intellettuali, scrittori, giornalisti temono di mantenere vive le posizioni dottrinali che sono state costantemente affermate nelle encicliche, come appartenenti alla vita e al diritto della Chiesa di ogni tempo. Sopravviene la logica del compromesso o quella del silenzio per non urtare le altrui sensibilità. In tal modo, viene meno l’azione dei cattolici in politica ed il campo è lasciato largo per tutti gli anticristi della Terra.

Leone XIII raccomanda espressamente la concordia e l’unità nel combattere l’errore stando “bene in guardia di non lasciarsi andare ad essere conniventi nell’errore, o ad opporgli più debole resistenza, che la verità non comporti” (Enciclica Immortale Dei, 1° novembre 1885).

Si tratta di Magistero Ordinario infallibile, che implica l’obbedienza dei cattolici. Papa Pecci del resto continua precisando che “gli Stati non possono, senza empietà, condursi come se Dio non fosse o passarsi della Religione come di cosa estranea e di nessuna importanza“. Tutta la Dottrina Sociale della Chiesa si basa su tale principio, indicando con estrema chiarezza quali siano le regole, i principi, le posizioni che, sull’esempio evangelico, devono essere messe in pratica nel governo di una Nazione.

Contro l’agnosticismo morale e religioso dello Stato e delle sue leggi, Pio XII ribadì il concetto dello Stato cristiano nella sua lettera per la XIX Settimana Sociale dei cattolici italiani del 19 ottobre 1945: “ben riflettendo sulle conseguenze deleterie, che una costituzione la quale, abbandonando la “pietra angolare” della concezione cristiana della vita, tentasse di fondarsi sull’agnosticismo morale e religioso, porterebbe in seno alla società e alla sua labile storia, ogni cattolico comprenderà facilmente come ora la questione che, a preferenza di ogni altra, deve attirare la sua attenzione e spronare la sua attività, consiste nell’assicurare alla generazione presente e alle future il bene di una legge fondamentale dello Stato, che non si opponga a sani principi religiosi e morali, ma ne tragga piuttosto, vigorosa ispirazione, e ne proclami e ne persegua sapientemente le alte finalità“.

Papa Pacelli si appella alla giustizia e alla ragione, perché non è giusto attribuire gli stessi diritti al bene e al male, alla verità e all’errore. Il primo diritto di un popolo è quello alla Verità nella fermezza dei principi, così come, sempre Papa Pio XII, illustra nell’Enciclica Mystici Corporis del 29 giugno 1943.

Ecco che il motto “Dio, Patria, Famiglia” è cristiano prima che mazziniano e poi fascista. E’ il programma di governo che ci attendiamo da chi si dichiara cristiano.

Marcello Veneziani scrisse un libro con analogo titolo e, a ben vedere, il commento che fa è sempre più attuale: “mi sono spinto a vedere oltre, ho scrutato dove conduceva il pensiero critico di voi “aggiornati” e non ho trovato nulla: ho trovato il Nulla. Criticato ogni esito storico, non ha preso corpo nulla di nuovo, perché dallo zero non nasce qualcosa, e “non riuscite a congedarvi dal vostro congedo”. Così ho notato che le ultime tracce di vita risalivano a quelle giacenti tra le rovine. Allora, per stare alla realtà, meglio partire da ciò che viveva, piuttosto che da ciò che non è mai nato e non accenna a nascere. È un solido punto di partenza, almeno, un punto vero da cui salpare, anche se non è un approdo o un punto di arrivo“.

Il noto giornalista e scrittore aggiungeva quindi: “la religione addomestica la morte e la vecchiaia, il dolore e la solitudine. La modernità atea, tramite la tecnica, li addormenta, li alleva e li protrae; e, tramite lo svago, simula, eccita e distrae. Non muta il verdetto ma il tipo di consolazione. […] Patria non è solo cannoni, bandiere e monumenti ai caduti. E non è solo un valore politico o militare. E non attiene solo alla cittadinanza, non è solo Costituzione e virtù repubblicana. Patria è nostalgia delle origini, dell’infanzia, dei sapori nostrani. Patria è dove ti senti a casa, dove i cinque sensi percepiscono il mondo come familiare. […] Famiglia è la comunità originaria più devastata in Occidente ma è l’unica struttura portante intorno a cui ruota la vita pubblica e privata e la principale mediazione tra l’individuo e la società“.

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