L’I.r.a. di Biden si abbatte sull’Europa

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di Luigi Tedeschi 

Fonte: Italicum

Nella tre giorni di Macron a Washington i temi di discussione nei colloqui con Biden erano due. La guerra in Ucraina e la legge anti – inflazione approvata in agosto da Biden, che prevede ampli sussidi all’industria americana per far fronte alla crisi economica e alla transizione ambientale.
Sulle prospettive di negoziato con la Russia, tale vertice non ha espresso risultati rilevanti. E’ infatti del tutto improbabile che la Russia accetti un ritiro entro confini del 2014, così come che si pervenga alla neutralità dell’Ucraina, che invece mira alla riconquista della Crimea e del Donbass. L’Occidente, sostenendo militarmente Kiev è parte in causa nella guerra contro la Russia e quindi non può assumere il ruolo di mediatore nel conflitto. Un tavolo per i negoziati era già stato peraltro istituito dalla Turchia di Erdogan, ma nei colloqui bilaterali è stato ignorato, a conferma del senso di superiorità che pervade l’Occidente e che costituisce l’ostacolo maggiore per una credibile trattativa di pace.
Maggiore interesse invero suscitano i timori europei riguardo al piano anti – inflazione americano. Gli USA hanno varato un pacchetto di aiuti per circa 400 miliardi di dollari a sostegno di famiglie ed imprese imperniato sulla transizione green. Trattasi dell’Inflation reduction act (Ira), che prevede crediti d’imposta di 7.500 dollari per l’acquisto di auto elettriche nuove di fabbricazione americana e di 4.000 dollari per auto usate. E’ evidente che la strategia protezionistica americana mira ad abbattere la concorrenza europea nel settore dell’auto elettrica.
In realtà l’Ira è un piano di investimenti di 738 miliardi di dollari, di cui 391 verranno destinati all’energia e alla transizione ambientale, 238 verranno utilizzati per il risanamento del deficit federale e la quota residua verrà impiegata nella sanità e nella riforma fiscale. Rilevanti finanziamenti verranno erogati per ridurre i costi energetici ed aumentare l’efficienza domestica, con crediti di imposta e sconti per i cittadini oltre che con agevolazioni nei confronti degli enti locali. Si prevede che entro il 2030 in America la riduzione del gas serra sarà del 50%. Si stima inoltre che l’Ira produrrà in America negli anni a venire un giro di affari di 15.000 miliardi di dollari dovuto agli investimenti nella green economy. Tale previsione è avvalorata dalle performance registrate nei mercati finanziari nel 2020, in cui gli attivi dei fondi sostenibili hanno raggiunto il livello record di 1,25 trilioni di dollari.
Le ragioni dell’allarme suscitato in Europa dalla politica di dumping industriale degli USA nel settore dell’energia green sono evidenti. Ma la UE si è dimostrata incapace ad affrontare la minaccia mortale americana per l’industria europea. Del resto, l’inefficienza della UE si era già resa evidente nella crisi energetica. E’ stato impossibile creare un fondo comune europeo per far fronte alla crisi energetica alla stregua del Recovery fund varato per la crisi pandemica. Le stesse misure adottate per la fissazione di un price cup al prezzo del gas si sono rivelate del tutto aleatorie. E’ nota infatti l’ostilità della Germania e dei paesi frugali riguardo alla implementazione di fondi costituiti a debito comune europeo. Di recente, la fissazione al prezzo a 60 euro al barile del greggio russo è stata rifiutata dalla Russia. Ulteriori sanzioni sono state varate per il commercio navale del petrolio russo, ma è ben noto che il traffico navale nel mondo è incontrollabile. Tali provvedimenti sortiranno l’effetto opposto a quello voluto, poiché si svilupperanno inevitabilmente mercati paralleli che comporteranno aumenti dei prezzi e incentiveranno la speculazione finanziaria.
Ma l’effetto più devastante che potrebbero produrre le misure contenute nel piano Ira di Biden è quello di dar luogo a delocalizzazioni negli Stati Uniti di grandi gruppi industriali europei. Infatti, la stessa Enel, che ha usufruito di un finanziamento UE di 600 milioni per la costruzione di un impianto fotovoltaico a Catania, che potrebbe generare nuova occupazione per circa 2.000 addetti, ha deciso di delocalizzare la produzione negli USA, dato che gli incentivi americani si sono rivelati maggiormente appetibili. Grandi gruppi europei hanno progettato piani di delocalizzazione industriale negli USA, quali la francese Solvay e la tedesca Basf (settore chimico), la francese Safran (freni al carbonio), la spagnola Iberdrola (energia) e la svedese Northvolt (batterie al litio).
La fuga di queste grandi imprese in America è un fenomeno che potrebbe dar luogo ad un processo di progressiva deindustrializzazione esteso a tutto il continente europeo. I fondi americani ammontano a circa il quadruplo rispetto a quelli disponibili in Europa. Si rileva inoltre che il prezzo del gas negli USA è di 5 volte inferiore a quello praticato in Europa. La delocalizzazione industriale europea negli USA potrebbe comportare un costo di 10 miliardi di investimenti e una perdita di posti di lavoro stimata in 10.000 unità nella sola Francia. Assai più gravi potrebbero essere le conseguenze per la Germania, che ha focalizzato la propria politica economica sull’export dell’innovazione green.
L’Europa è incapace di reagire dinanzi alla svolta aggressiva assunta dalla politica economica di Biden con il piano dell’Ira. Ulteriori penalizzazioni per l’economia europea sono emerse inoltre dalla crisi energetica scaturita dalla guerra russo – ucraina che ha determinato la fine dell’interdipendenza economica ed energetica tra la UE e la Russia. Si deve pertanto rilevare che l’importazione di gas americano in Europa per sostituire il gas russo ha comportato un notevole incremento dei costi energetici. L’Europa infatti è divenuta il maggiore mercato dell’export di gas statunitense, che dalla quota del 21% del 2021 è salito all’attuale 66%.
Gli USA dunque hanno tratto i maggiori profitti dalla guerra ucraina. Hanno incrementato vorticosamente sia nella quantità che nel prezzo le loro esportazioni di gas, hanno alimentato l’industria militare con le forniture di armamenti e soprattutto, mediante le loro politiche protezioniste nel campo dell’innovazione green, potrebbero determinare la destrutturazione industriale dell’Europa, che per gli USA è stata sempre una temibile potenza economica concorrente. Gli USA vogliono affermare il loro primato nel mondo come potenza industriale nella transizione ambientale, conseguito mediante il depotenziamento dell’Europa e il contenimento della Cina. Un primato, è evidente, affermato in nome della superiorità dei valori di libertà e democrazia dell’Occidente.
Un tragicomico paradosso è poi costituito dal fatto che gli USA intendono avvalersi della alleanza con l’Europa nella strategia di contenimento della Cina, ma nello stesso tempo stanno sabotando con provvedimenti quali l’Ira l’economia europea. La reazione europea si dimostra attualmente timida ed impotente, a causa della scelta filo – Nato effettuata dalla UE nella guerra russo – ucraina. Scelta che oggi preclude qualsiasi politica europea autonoma dagli USA. Macron ha invocato esenzioni simili a quelle concesse a Messico e Canada. Si verificherà dunque uno scontro tra USA ed Europa? A tal riguardo così si esprime Adriana Cerretelli sul “Sole 24Ore”: “l’Europa è disarmata: ha le ambizioni ma non si dà le risorse e nemmeno la coesione politica ed economica necessarie a realizzarle. Così rischia l’autolesionismo se scegliesse comunque lo scontro con l’America”. Infatti, data la interdipendenza economica tra USA e UE, dopo la rottura con la Russia, è impossibile che l’Europa sia in grado di sostenere una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Infatti, prosegue la Cerretelli, “Oltraggio alla sovranità europea? Sì. Dovevamo però pensarci prima”. La Nato si è rivelata una gabbia d’acciaio per l’Europa.
La Francia ha proposto in sede UE la creazione del Buy European Act, onde contrastare l’aggressività protezionista americana. Ma la Germania e i paesi frugali sono ostili a programmi europei di aiuti statali alle imprese. L’egoismo economico della Germania e dei suoi alleati – satelliti si traduce come sempre in autolesionismo politico per l’Europa. Ne è testimonianza l’impegno generico al negoziato con gli USA del commissario europeo Dombrovskis, che per ora esclude anche un ricorso al WTO contro gli USA per violazione delle norme internazionali sulla concorrenza. Si tratterebbe comunque di una azione del tutto pletorica. Si rammenti infatti che gli accordi sull’acciaio tra USA e UE sono tuttora sospesi.
L’Europa paga il prezzo della sua sciagurata scelta atlantica. E la Nato è una alleanza che si identifica con il dominio americano. Non si vede il perché gli USA dovrebbero scendere a patti con l’Europa sulle energie rinnovabili, dato il loro ruolo di potenza dominante in Occidente. Del resto, la finalità perseguita dagli USA nella guerra russo – ucraina consiste nel controllo dell’Europa, non certo nella vittoria dell’Ucraina. Quindi, l’obiettivo è stato raggiunto. La subalternità geopolitica europea nella Nato si ripropone coerentemente nella sfera economica, con l’imposizione da parte statunitense di una politica protezionista nei confronti dell’Europa, che condurrà la UE alla recessione e ad suo drastico ridimensionamento nel contesto geopolitico mondiale. Il declino della UE rappresenta per l’Europa il suo definitivo esodo dalla fase di letargo della post – storia in cui si era confinata. Ed il risveglio si presenta traumatico.
La politica estera di Biden si identifica con quella dell’ “America first” trumpiana, perseguita con altri mezzi, mediante cioè un protezionismo economico ampliato e diversificato e l’indiretto interventismo militare nel mondo. Aggiungasi inoltre che la strategia di deglobalizzazione economica in funzione anti cinese, iniziata in epoca trumpiana con la rilocalizzazione negli USA della industria manifatturiera americana, è perseguita con maggiore efficacia da Biden che anzi, ha reso gli USA una meta appetibile per la delocalizzazione industriale europea.
La guerra ucraina ha comportato anche il ridimensionamento della potenza economica tedesca, con la fine del modello dell’economia dell’export dominante in Europa. La crisi ha determinato anche una ridefinizione del ruolo della Germania in seno alla UE. La Germania di Scholz ha infatti intrapreso una linea politica unilateralista. In campo energetico si è opposta a qualsiasi progetto di politica comune europea. Il governo tedesco ha investito 200 miliardi di euro a sostegno di imprese e famiglie per far fronte la caro energia, con una misura unilaterale cioè, che costituisce una distorsione della concorrenza a danno degli altri paesi membri della UE, al pari dell’Ira varata dagli USA a discapito dell’economia europea. La Germania ha inoltre approvato un programma che prevede uno stanziamento di 100 miliardi di euro per la difesa, con l’acquisto di aerei F35 americani, venendo meno alle precedenti intese con Francia e Italia per la costruzione congiunta di aerei militari e sistemi di difesa aerea. Con il riarmo della Germania nell’ambito della Nato, viene meno qualunque speranza di autonomia strategica europea. La Germania, con il sostegno dei paesi frugali, ha respinto qualsiasi proposta di costituzione di fondi comuni europei e si è opposta anche ad ogni progetto di riforma del patto di stabilità.
L’europeismo tedesco ha sempre contrastato il sovranismo degli altri paesi, per affermare il proprio nazionalismo e creare, con il declino della UE, una nuova Europa centralizzata sulla potenza continentale tedesca. In realtà, al venir meno della potenza economica tedesca nel mondo, fa riscontro un rafforzamento del dominio continentale della Germania in Europa, che si impone con le stesse modalità strategiche del primato americano in Occidente.
Tale predominio tedesco non rimarrà tuttavia incontrastato in Europa. Si renderà necessaria una alleanza tra Francia, Spagna e Italia, al fine di contrastare l’aggressività dell’unilateralismo tedesco. Ma, data l’interdipendenza economica della Germania con tali paesi (specie l’Italia, in cui l’industria del nord – est è parte integrante della filiera tedesca), renderà difficile una efficace politica di contrasto alla Germania. Né sarà possibile, data la politica di ostilità economica aggressiva degli USA nei confronti dell’Europa, far leva sull’antieuropeismo americano per affrancarsi dal dominio tedesco.
Certo è che l’Europa sarà soggetta nel prossimo futuro a tensioni disgregative interne nella UE. Così come è in crisi la globalizzazione occidentale, allo stesso modo è in stato di avanzata decomposizione la UE, quale entità sovranazionale europea. La sovranità degli stati potrebbe riaffermarsi in Europa sulle orme dell’avvento di una nuova geopolitica mondiale imperniata sul multilateralismo.
Allo stato attuale gli USA, anche se potenza mondiale in declino, risultano essere gli unici vincitori ne conflitto russo – ucraino. L’Europa sarà presto investita da una crisi economica e politica anche dai risvolti esistenziali: si diffonderà una conflittualità politica interna imperniata sulle minacce alla propria sussistenza, che non dipendono davvero dall’aggressione russa all’Ucraina, ma dall’aggressività imperialista americana. Verrà dunque messa in discussione la stessa identità dell’Europa, quale provincia dell’Occidente o continente eurasiatico. Questa crisi potrebbe condurre, oltre che alla disgregazione della Ue, anche allo sfaldamento della Nato. Potrebbe quindi dar luogo alla ridefinizione degli equilibri geopolitici interni dell’Europa. La partita è aperta.

Juncker a capo della commissione sarà ricordata come l’inizio della fine dell’Ue

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di Giancarlo Perna per La Verità

Svegliandosi, il primo novembre del 2019, Jean Claude Juncker non sarà più presidente della Commissione Ue. Ci ha già fatto sapere che non si ricandiderà. Poteva evitarselo perché mai sarebbe rieletto. È scontato che a maggio dell’ anno prossimo, con le elezioni Ue, crollino popolari e socialisti su cui Juncker è appollaiato. Quando l’ intero scenario sarà cambiato, Jean Claude avrà 65 anni, sarà spaesato e mollerà tutto.

È cupo il crepuscolo di questo lussemburghese che da una vita si dedica all’ Ue. Oggi, è costretto a sentire i sordi rumori di sbriciolamento su ogni fronte. Dolorante per una sciatica, rattrappito dai postumi di un incidente stradale del 1989 in cui restò in coma per settimane, Juncker ricorre all’ alcool per lenire la delusione. Dei giorni si rinchiude solitario, in altri ha scoppi d’ ira. Quando entra barcollante nelle riunioni, suscitando le ironie di stampa e cancellerie europee, a me pare di udire un sottofondo di struggenti note wagneriane che accompagnano il finale della sua carriera. Continua a leggere