Transizione: ecologica o ideologica?

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Domenico Airoma

Friday for future o venerdì di passione? ‘Transizione ecologica’ è diventata espressione di uso così frequente da precludere l’esatta percezione della posta in gioco sul fronte ambientale, e del substrato ideologico di un così forte battage.

  1. La transizione ecologica è il nuovo imperativo etico, la nuova frontiera politica, la nuova norma fondamentale dell’intero assetto normativo euro-unitario. Essa rappresenta l’esito di un percorso avviato da tempo, soprattutto in ambito sovranazionale. L’ambiente è, infatti, il settore nel quale il legislatore comunitario si dimostra più prolifico; significativa è pure la frequenza – superiore a quella registrata negli altri settori di competenza legislativa concorrente – con la quale vengono inflitte sanzioni agli Stati membri per il mancato recepimento delle disposizioni comunitarie.
  2. La diretta incidenza negli ordinamenti interni delle scelte in materia ambientale e l’effettività dell’attuazione delle normative è presidiata da un rigoroso sistema sanzionatorio. Il settore ambientale è, infatti, quello in cui si è registrata l’erosione più profonda alla sovranità degli stati membri, colpita in una delle sue espressioni più significative: la potestà di sanzionare penalmente i comportamenti dei propri cittadini. Plurime e gravi sono le fattispecie incriminatrici nazionali il cui precetto viene riempito dalle statuizioni non di assemblee elettive ma da organismi comunitari composti da tecnici ed esperti.
  3. La centralità delle tematiche ambientali nelle politiche dell’Unione Europea è, peraltro, testimoniata dalla trasversalità degli interventi che, giustificati dalla suprema esigenza di salvaguardare la casa comune, finiscono per l’invadere ed incidere significativamente negli ambiti riservati ai diritti delle persone, delle famiglie e delle imprese, che vengono relativizzati in chiave ecologista, in modo da far apparire con sempre maggiore evidenza, più che il verde, l’arcobaleno come bandiera ideologica di riferimento.
  4. La cifra ideologica del riferimento all’ambiente discende, infatti, in modo evidente dalla strumentalizzazione che viene operata di esigenze, pur condivisibili, di salvaguardia dell’habitat naturale per introdurre vincoli e obiettivi tali da condizionare in modo significativo non solo le politiche nazionali, ma la stessa vita dei singoli e delle comunità; vincoli ed obiettivi che, spesso, vanno ben al di là della pur sacrosanta tutela dell’ambiente.
  5. Né è da trascurare, quale ulteriore dato di conferma, il rilievo che è stato attribuito all’adesione agli indirizzi ed alle normative in materia ambientali nel novero delle condizionalità che i Paesi candidati ad accedere all’Unione Europea sono tenuti a soddisfare pena il mancato ingresso nel consesso comunitario (con gli annessi benefici economico-finanziari).
  6. Non è un caso, pertanto, se, fin dall’inizio, gli interventi in materia ambientale hanno assunto la veste di programmi e piani di azione, quasi a riproporre la mistica della pianificazione delle passate esperienze del cosiddetto socialismo reale. Il primo “piano di azione quinquennale sull’ambiente” risale al 19 giugno 1973; l’ultimo, in ordine di tempo, ha lanciato, per il quinquennio 2019-2024, la nuova frontiera, il green deal europeo, destinato ad assorbire un terzo dell’intero pacchetto di risorse stanziate per il più imponente programma di finanziamento euro-unitario, noto come “Next Generation EU”.
  7. Non si tratta di interventi marginali, e non solo per quantità di stanziamenti. Gli ambiti interessati vanno dall’economia all’agricoltura, dai trasporti all’istruzione, fino a comprendere la “coesione, la resilienza, i valori”. Non si tratta, insomma, di passare semplicemente da una forma di energia ad un’altra, ma da una politica ad un’altra, da una cultura ad un’altra, da un uomo ad un altro uomo. Come è stato osservato: “La transizione ecologica non è politicamente neutra. Non è una questione ‘solamente’ tecnica, scientifica e tecnologica”. E’ una questione, in definitiva, antropologica.
  8. Non c’è da scandalizzarsi per questo. Bisogna, tuttavia, chiamare le cose con il loro nome. E’ evidente, infatti, che l’ecologia non è più intesa nel senso di studio e cura della casa, per tutelare innanzitutto chi la abita e chi la abiterà in futuro; spostando l’accento sulla transizione, la casa perde le sue fondamenta, diventa qualcosa di fluido, nelle mani di chi ne decide il movimento ed, in fin dei conti, la destinazione. E la transizione, il movimento è destinata a prevalere sulla casa e su chi la abita; anzi quest’ultimo è guardato sempre più con sospetto, come un fastidioso intralcio, perché legato magari a valori non più sostenibili. Non è un caso, peraltro, se i sostenitori di tale transizione siano anche fautori di una politica di controllo delle nascite e del riconoscimento di un diritto all’aborto.
  9. Forse è davvero un Friday, un Venerdì, quello che stiamo vivendo, ma di passione. Quello che pare certo è che siamo nel bel mezzo di una transizione ideologica, in cui gli uomini, le famiglie e le imprese non hanno voce. Il compito dei giuristi è anche quello di smascherare questa truffa di etichetta e invocare la centralità dell’uomo, che deve rimanere l’obiettivo ultimo di ogni politica autenticamente a difesa della natura.

Fonte: https://www.centrostudilivatino.it/transizione-ecologica-o-ideologica/

Legge Zan: colpire l’intenzione per criminalizzare il dissenso

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Fonte: Centro studi Livatino

Il 15 giugno 2021 Domenico Airoma, Procuratore della Repubblica di Avelino e vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino, ha svolto davanti alla Commissione Giustizia del Senato un’audizione sui “Disegni di legge n. 2005 e n. 2205, contrasto della discriminazione o violenza per sesso, genere o disabilità”, il c.d. d.d.l. Zan sull’omofobia. A seguire il testo della relazione, trasmessa agli atti della Commissione, centrata sui profili penalistici della nuova disciplina.

Onorevole Presidente,
Onorevoli Senatori,
vi ringrazio per l’invito.

Desidero sottoporre alla vostra attenzione alcune brevi riflessioni su un aspetto, in particolare, del disegno di legge recante il nr. 2005, già oggetto, per la verità, di condivisibili rilievi critici da parte di insigni esponenti della scienza penalistica: mi riferisco alla disposizione incriminatrice che andrebbe ad integrare l’art. 604 bis del codice penale.

L’indeterminatezza del precetto penale non è mera questione accademica, da puristi del diritto. Chi vi parla è un pratico del diritto, un tecnico che è chiamato ad interpretare la norma, a farla vivere nella concretezza delle relazioni personali. La mia, dunque, è la preoccupazione di chi cerca di capire quali saranno i possibili scenari applicativi, mostrando al legislatore come verosimilmente andrà a finire. Ed il finale, assai prevedibile, non tranquillizza. Cerco di spiegare in sintesi le principali ragioni di siffatta preoccupazione.
L’art. 2 del disegno di legge in questione non incrimina un fatto, una condotta che abbia una sua materialità, bensì l’istigazione, cioè una condotta di incitamento che è fatta di parole. Un incitamento, peraltro, non a commettere reati ma a compiere atti di discriminazione. Va pure evidenziato che abbiamo a che fare con discriminazioni sui generis, perché non si tratta di situazioni oggettivamente uguali trattate in modo disuguale (si pensi al razzismo, pure considerato dall’art. 604 bis c.p.), ma situazioni ritenute uguali secondo prospettazioni soggettive e, nel caso della cosiddetta identità di genere (come definita dall’art. 1 del medesimo d.d.l.), volutamente distoniche rispetto all’evidenza, oggettivamente percepibile, del corpo.
Come farà l’interprete a stabilire quando quelle parole di incitamento siano da considerare penalmente rilevanti? L’interprete è chiamato a stabilire, in buona sostanza, se quelle parole siano espressive di un hate speech, di un discorso di odio. E qui incontriamo la prima grande difficoltà.
Il pubblico ministero, prima, ed il giudice, poi, non sono psicologi; direi di più, non devono fare gli psicologi. L’indagine su una disposizione interiore non compete ai magistrati, è strutturalmente estranea alle aule di giustizia. Può esservi interesse ad accertare i motivi che hanno spinto a commettere un reato, certo! Ma il motivo, così come il movente, innervano la condotta; e dunque si rivestono di materialità. L’odio può essere al fondo del movente, ma è quest’ultimo che va provato, che può essere provato.
Nel caso dell’art. 2 del disegno di legge in questione, tuttavia, è proprio questo che si chiede all’interprete, soprattutto se lo si legge unitamente all’art. 4. Si chiede a chi dovrà applicare quel precetto di stabilire quando le parole di incitamento siano motivate da ragioni culturali, etiche o religiose, e quando, invece, da odio. Ed allora bisogna chiedersi quali potrebbero essere le strade, processualmente praticabili, che possono consentire di dimostrare che si è in presenza di un discorso di odio penalmente rilevante. Leggo, nelle relazioni di accompagnamento ai testi normativi poi unificati nel presente disegno di legge, che la differenza dipenderà dalle modalità di estrinsecazione del pensiero o da precedenti condotte dell’autore.E però questi sono indici che il diritto penale considera ai fini della graduazione della pena o della pericolosità sociale; oppure, come nel caso delle modalità espressive, quando siam dinanzi a parole che sono oggettivamente offensive. Ma quando si è dinanzi a chi sostiene -come ha fatto Luciana Piddiu, autodefinitasi femminista e comunista su Micromega del 26 aprile di quest’anno- che “la differenza sessuale, che piaccia o no, non è un’opinione. E’ ciò che ha consentito alla nostra specie di riprodursi e sopravvivere”; cioè dinanzi a chi incita a non obliterare l’evidenza del corpo, potrà dire l’interprete che quella frase è da ritenersi omofoba, che cioè è un discorso di odio, sol perché espressa in modo polemico?
Il pericolo è che, allora, la vaghezza del precetto finisca con l’attribuire all’interprete il compito di stabilire, egli, quando si è dinnanzi ad un discorso di odio; cioè quando un’opinione integra un crimine. Ed in una materia così delicata e controversa, terreno di scontri culturali accesi, assegnare il compito non di arbitro ma, per il contenuto etico che lo stigma omofobico porta con sé, il ruolo di vero e proprio scrittore delle tavole della nuova legge morale al giudice appare operazione rischiosa. Essendo questo uno dei risvolti, ed il peggiore, del cosiddetto panpenalismo, che altro non è, come avvertito da autorevoli giuristi, che la delega dell’etica pubblica alle aule giudiziarie.
Vi è, poi, un secondo aspetto sul quale desidero richiamare la vostra attenzione; anche questo tratto dalla mia esperienza professionale. Questa tecnica normativa fondata sulla individuazione dell’odiatore può condurre ad un effetto, certo non voluto, ma assai probabile, di aumentare, paradossalmente, la conflittualità su questi temi anziché attenuarla. Ed infatti, dal momento che si tratta di temi ad alto contenuto di contrapposizione culturale, direi antropologico, può manifestarsi la tentazione, una volta che si ha a disposizione l’arma della sanzione penale, di trasferire il confronto dal piano del confronto delle idee a quello del confronto nelle aule di giustizia, attraverso la denuncia penale dell’avversario. Denuncia che sarebbe agevolata proprio dalla vaghezza del precetto penale. Denuncia che porterebbe all’apertura di un procedimento penale, che, a prescindere dal suo esito, espone, di suo, chi lo subisce ad una pena, spesso dalla durata intollerabile.
Non solo: invocando l’intervento del giudice penale, si espone il denunciato allo stigma pubblico dell’odiatore omofobo, con tutto quel che ne consegue. E se consideriamo la vastità dei campi che possono essere interessati dal confronto su questi temi (dalla famiglia alla scuola, dagli ambienti religiosi a quelli più ampiamente sociali e politici), non sfugge quali e quante persone potrebbero ritrovarsi incasellati in questa categoria non proprio piacevole, al pari, appunto, di un razzista. Con ciò alimentando rancore, conflittualità, discordia.
Qualcuno ha detto che la legge penale di una generazione diventa la morale della generazione successiva: ecco, io non vorrei che passasse l’idea che l’indispensabile confronto culturale su temi importanti come la sessualità sia vissuto come una battaglia che si concluda con la criminalizzazione del dissenso. Usando la sanzione penale non più come extrema ratio, ma come, osservato dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, “come strumento primario di controllo sociale”.