Sulla validità e legittimità della Messa “tridentina”

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Sul blog di Aldo Maria Valli sono stati pubblicati alcuni interventi sulla questione dell’assistenza alla Messa di San Pio V: prima la lettera di un lettore, poi la risposta di don Nicola Bux e infine la replica del Distretto italiano della Fraternità Sacerdotale San Pio X.
Un lettore di Sodalitium ha chiesto a don Francesco Ricossa un parere sul contenuto degli interventi. Pubblichiamo prima la risposta di don Ricossa (breve e incisiva) e poi gli interventi precedenti.

Caro F.
su ‘monsignor’ Bux ho già scritto su Sodalitium n. 65 (l’articolo sui tre anelli): è un vero modernista adepto del dialogo interreligioso. Che sia creduto un conservatore o tradizionalista la dice lunga su come i modernisti stiano ‘gestendo l’opposizione’ mettendo loro esponenti a capo dell’opposizione tradizionalista.
Quanto alla Fraternità, essa è ancora più irritante. Da un lato invoca lo stato di necessità (che esiste certamente, ma che richiede che il Papa non ci sia o sia impedito ad agire), dall’altro obietta a Bux tutti i privilegi loro concessi da “Papa Francesco” e predecessori, che li regolarizza di fatto. Ma se la Chiesa è in stato di necessità in quanto governata da modernisti, come mai i modernisti dicono che la Fraternità è cattolica, e le danno il diritto di celebrare, confessare, benedire le nozze ecc. (cosa che non fanno con noi)? Con questi argomenti i sacerdoti della Fraternità si danno la zappa sui piedi.
Infine, paradossalmente, Bux ha ragione, seppur per il motivo sbagliato: le messe della Fraternità sono valide (se dette da sacerdoti ordinati col rito cattolico, da vescovi consacrati col rito cattolico, cosa che ormai nella Fraternità non è più scontata) ma sono illecite, anzi sacrileghe. Non perché sarebbero fuori dalla comunione con Bergoglio, come dice Bux, ma per il motivo opposto: perché sono in comunione con Bergoglio.
don Francesco Ricossa

1) “Ho scoperto la Messa tridentina. Ma quanti dubbi!” / Con una risposta di monsignor Nicola Bux

Caro Valli, sono stato alla Messa in rito tridentino nella chiesa di Santi Celso e Giuliano, a Roma. Il celebrante era un giovane sacerdote, mi sembra dell’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote.
Nella chiesa c’è una bella immagine di san Giovanni Paolo II (sono molto devoto a questo santo) e da tale particolare deduco che i sacerdoti lì non siano lefebvriani. Pertanto non rischio scomuniche latae sententiae se decido di andarci più spesso, giusto?
Del resto, lo stesso san Giovanni Paolo II era stato nella sostanza tollerante con i fedeli “tradizionalisti” a condizione che riconoscessero l’autorità del pontefice e la liceità delle Messe in volgare.
Inoltre, se non sbaglio, il motu proprio del 2007 emanato da Benedetto XVI ha comunque permesso a tutti i fedeli che ne abbiano il desiderio di partecipare a Messe in rito tridentino, purché celebrate da sacerdoti lecitamente ordinati e in comunione con Roma.
La Messa tridentina è considerata una forma straordinaria del rito romano, e di per sé non è mai stata bandita. La regola dovrebbe essere questa fintantoché non ci siano nuove decisioni di papa Bergoglio. Conferma?
Le confesso che, come tutti quelli della mia generazione (sono nato nel 1982), sono cresciuto con le Messe in rito ordinario e non ho per niente dimestichezza con la liturgia tridentina, ma ne sono attirato.
Tra le differenze più evidenti, noto l’assenza della preghiera dei fedeli e del segno della pace (come mi era stato raccontato dai miei genitori). Non so se il brano del Vangelo coincide con quello del rito ordinario.
Nel complesso, si ha la sensazione che Cristo sia davvero il protagonista della celebrazione e non l’assemblea o il suo “presidente”.
Non vi sono i canti (con chitarre annesse!) che in base alla mia personale esperienza in alcuni contesti sembrano essere diventati più centrali della celebrazione eucaristica stessa.
Inoltre, il testo del Padre nostro dovrebbe rimanere quello tradizionale (a sua volta corrispondente quasi perfettamente alla versione greca risalente alla fine del primo secolo), senza gli adattamenti leciti ma poco convincenti che entreranno in vigore a novembre. Ho capito bene?
Lo ripeto: riconosco di non essere abituato alla liturgia tridentina e mi ci vorrà un po’ di tempo per acquisire familiarità. Ma ora che l’ho scoperta non la lascerò.
Mi può consigliare qualche lettura per aiutarmi in tal senso?
Lettera firmata

2) Risponde monsignor Nicola Bux

Caro Valli, la chiesa romana dei Santi Celso e Giuliano era la parrocchia nella quale fu battezzato Eugenio Pacelli, ilvenerabile papa Pio XII.
L’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, a cui appartiene il celebrante della Messa di cui parla il lettore, è di diritto pontificio e quindi cattolico a pieno titolo. Esso celebra la Santa Messa nella forma straordinaria, chiamata comunemente tridentina.
È vero che in questa Messa risalta maggiormente la centralità di Cristo, perché il sacerdote appare davvero come ministro, servitore di Dio, decentrato rispetto all’altare e alla Croce.In questa Messa, poi, l’ordine delle letture è proprio, risalente a san Girolamo. Invece l’ordine delle letture della Messa nella forma ordinaria è stato confezionato dopo il Vaticano II.
L’Istituto di Cristo Re è uno degli istituti addetti a ciò. Invece la Fraternità Sacerdotale San Pio X, composta dai sacerdoti e fedeli che hanno seguito lo scisma dell’arcivescovo Lefebvre, non è rientrata nella comunione della Chiesa cattolica, nonostante l’atto di revoca delle scomuniche e la licenza del papa regnante riguardante la celebrazione dei sacramenti del matrimonio e della penitenza.
Quanto alla Santa Messa celebrata dai loro sacerdoti, valida anche se non legittima – appunto a motivo della perdurante non comunione – dovrebbe valere quanto stabilito dal Direttorio ecumenico per le confessioni separate da Roma; ossia, i fedeli che si trovano in regioni ove non fosse facile accedere a luoghi di culto cattolico possono supplire andando dagli ortodossi e appunto dai lefebvriani. Dove invece vi fossero chiese cattoliche, non dovrebbe esserci motivo per non andare alla Santa Messa celebrata da ministri in comunione con la Chiesa cattolica.
La ragione è che la legittima celebrazione dell’Eucaristia e la vera partecipazione ad essa, presuppongono come esistente la comunione ecclesiale, per consolidarla e portarla a perfezione(cfr Giovannni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 35). Tra comunione ecclesiale e comunione eucaristica c’è un nesso ineludibile.
Forse tutto ciò, nella confusione attuale, diventa difficile da comprendere. D’altronde se perdurasse lo scisma, e alla morte degli attuali vescovi della Fraternità subentrassero altri vescovi ordinati senza il mandato di Roma, costoro aprirebbero una successione di vescovi illegittimi analogamente a quanto avvenne per gli scismatici orientali ortodossi. E ciò è già avvenuto, in quanto monsignor Williamson, uno dei vescovi consacrati da monsignor Lefebvre, ha a sua volta consacrato altri due-tre vescovi. Le loro ordinazioni sarebbero valide, ma del tutto illegittime. Speriamo quindi che la FSSPX rientri nella comunione cattolica.
Sul Padre nostrorimando al recente libretto a più mani da lei curato, caro Valli: Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro” (Chorabooks, 2020).
Consiglio come letture utili: Claude Barthe, Storia del Messale tridentino, Solfanelli 2018. E, perdonando l’autocitazione: Nicola Bux, Come andare a Messa e non perdere la fede, II edizione, Il Giglio, 2016.
In Domino Iesu
Nicola Bux
https://www.aldomariavalli.it/2020/02/20/ho-scoperto-la-messa-tridentina-ma-quanti-dubbi-con-una-risposta-di-monsignor-nicola-bux/

3) “Valide ma illegittime”? Un intervento dei sacerdoti del Distretto italiano della Fraternità San Pio X

Nei giorni scorsi sul blog di Aldo Maria Valli è apparsa una risposta di monsignor Nicola Bux a una lettera, inviata da un lettore, che chiedeva maggiori lumi sulla Messa tridentina, dopo aver assistito ad una celebrazione dell’Istituto Cristo Re in una chiesa dell’Urbe.
Il sacerdote ne approfittava per spiegare diverse cose, tirando in ballo la Fraternità San Pio X, le cui Messe vengono definite “valide ma illegittime”, e che viene trattata alla stregua di una comunità non cattolica. Ne esce un discorso che, prima ancora di essere teologicamente e canonicamente lontano dalla realtà, è anche incoerente in sé stesso.
Monsignor Bux sostiene che la Fraternità San Pio X sia scismatica, mettendola al pari con le “chiese ortodosse” e dicendo che solo nel caso in cui non vi fosse altra possibilità, sarebbe lecito ricevere i sacramenti da noi (come dagli ortodossi). Facciamo solo notare che, anche da un punto di vista puramente legalistico (come è quello di mons. Bux), già nel 1994 (quindi nel pieno vigore delle cosiddette “scomuniche”) la Pontificia Commissione per l’Unità dei Cristiani, nella persona del cardinal E. Cassidy, rispondeva che la questione della Fraternità non era di sua competenza, essendo questa “una questione interna alla Chiesa cattolica”. Ugualmente, nel 2002 e 2003, la Pontificia Commissione Ecclesia Dei aveva precisato che l’assistenza alla Messa presso la Fraternità San Pio X poteva essere ammessa per soddisfare il precetto domenicale, e non solo in casi estremi. Le stesse concessioni del potere di confessare ovunque e di celebrare matrimoni e Messe nuziali, fatte da Papa Francesco ai preti della Fraternità (e citate dallo stesso mons. Bux), dovrebbero quantomeno fargli capire che il nostro caso non è considerato dalle “norme” alla stessa stregua di quello delle comunità separate. Quindi il parallelo fatto da mons. Bux è impietosamente smentito dai Papi stessi a cui fa riferimento; casomai è la Fraternità a chiedersi in che modo sia ancora cattolico chi ha alterato vistosamente le verità della fede per piacere al mondo, dal Concilio in poi. Per essere sacramentalmente uniti, infatti, ci vuole unità di governo, ma questa stessa è al servizio dell’unità nella vera fede, che mons. Bux nemmeno cita.
Mons. Nicola Bux ci dice che la comunione ecclesiale è essenziale per ricevere insieme la comunione sacramentale. Un principio bellissimo e giustissimo, smentito, però, da quella concessione di ricevere i sacramenti da membri di altre “chiese” da lui citata. A questa nuova dottrina del Vaticano II, contraria al Magistero di sempre, si oppone la Fraternità San Pio X, che appunto ritiene che la Chiesa sia Una. Proprio per opporsi a questa ed altre nuove dottrine, monsignor Lefebvre e la Fraternità sono incorsi in censure da noi sempre ritenute invalide. Mons. Bux, invece, contesta volentieri il Papa regnante, ma non ne assume alcuna conseguenza. Per lui, gravissime eresie possono essere diffuse nella Chiesa senza che questo renda lecita e necessaria una resistenza come quella che, coraggiosamente, intraprese monsignor Lefebvre.
Ma andiamo avanti: nella prima versione del testo, poi modificata (ma leggibile in copia cache e da noi salvata) mons. Bux scriveva quanto segue: «D’altronde se perdurasse lo scisma, e alla morte degli attuali vescovi della Fraternità subentrassero altri vescovi ordinati senza il mandato di Roma, costoro non sarebbero solo illegittimi come i primi, ma anche invalidi, e quindi le eventuali ordinazioni sacerdotali sarebbero nulle». Una tale enormità teologica, poi corretta perché, evidentemente, saltata agli occhi di qualcuno, non può essere scritta nemmeno per sbaglio da chi ha una conoscenza anche elementare della teologia sacramentaria, e fa il paio con quelli che dicono che se si nomina Papa Francesco nel canone la Messa diventa invalida. Mons. Bux aveva detto poco prima che si può andare a Messa dagli ortodossi in certi casi, perché la loro Messa è valida sacramentalmente: ma gli ortodossi ordinano vescovi senza mandato papale da mille anni, e nessuno dubita della validità di tali ordinazioni, che sono “solamente” illecite. Non solo: mons. Rangel, consacrato vescovo per L’Unione Sacerdotale San Giovanni Maria Vianey (Campos, Brasile) dai vescovi della Fraternità San Pio X nel 1991, si riconciliò con Roma nel 2001, e fu considerato (logicamente) dalla Santa Sede come validamente ordinato. Fortunatamente per lui, mons. Bux ha corretto un errore così grossolano; ma, intanto, ha lanciato il sasso e molti lettori possono essersi “bevuti” la prima versione.
Al lettore che ha scoperto la Messa tridentina, noi suggeriamo di andare ancora un po’ oltre: la sua «sensazione che Cristo sia davvero il protagonista della celebrazione e non l’assemblea o il suo “presidente”» è un ottimo punto di partenza per capire che, se i due riti esprimono concetti contraddittori, non possono convivere, ma si escludono. Non sono due versioni di uno stesso rito, ma due linguaggi per esprimere idee opposte su presenza reale, sacrificio della Messa e sacerdozio. Gli consigliamo anche noi delle letture: il Breve esame critico del Novus Ordo Missae, dei Cardinali Ottaviani e Bacci, facilmente reperibile in rete; il libro La Messa di sempre, di Mons. Lefebvre (disponibile presso le edizioni Piane); e anche, sempre di Mons. Lefebvre, Lo hanno detronizzato. Potrà, così, scoprire che, ad essere incompatibili, non sono solo i due riti, ma anche le due teologie, quella cattolica e quella modernista dei Papi del post concilio. Se vedrà che questo è vero, capirà anche le ragioni della resistenza della Fraternità San Pio X che, a differenza di alcuni contestatori dell’attuale Pontefice, non si è limitata a delle velleità, ma ha ritenuto la preservazione della Fede un bene fondamentale, più alto del diritto puramente positivo e da difendere ad ogni costo. Capirà che per poter avere dei preti che non vanno in un seminario dove devono accettare degli errori per essere ordinati, occorreva fare ciò che Monsignor Lefebvre ha fatto. Mons. Bux e alcuni prelati conservatori convengono che almeno in questo pontificato ci siano gravissimi errori, disseminati dalle più alte autorità della Chiesa. Possibile, allora, che questo per loro non sia importante, e che la professione della Fede non conti niente per loro? Un candidato al sacerdozio che si rende conto degli errori di Amoris laetitia o del Sinodo “amazzonico” dovrà fare lo gnorri per tutto il corso del suo seminario, fingendo di essere d’accordo? È questa una situazione accettabile per mons. Bux? O non è forse una situazione eccezionale, che rende leciti mezzi eccezionali, come quelli presi da mons. Lefebvre contro gli errori conciliari e post-conciliari?
Se il lettore seguirà la sua buona ispirazione, unirà la Messa tridentina alla Dottrina cattolica che la esprime e si troverà logicamente ad escludere gli errori: cioè entrerà nella realtà della Fede e non nello sterile legalismo. Non farà, cioè, come mons. Bux e scoprirà che la Messa tradizionale esprime delle verità che l’altro rito nega. In breve, sarà portato a fare una scelta di principio. Non di comodo.
A tutti quelli che volessero approfondire la questione, consigliamo le stesse letture, accompagnate anche da un buon manuale di teologia sacramentaria e da uno di ecclesiologia (magari il De Sacramentis di Padre Cappello, e il De Ecclesia di Billot o di Franzelin). Sulla situazione canonica della Fraternità potrebbe giovare il libro del Prof. Pasqualucci, La persecuzione dei “Lefebvriani”, Edizioni Solfanelli.
I Sacerdoti del Distretto italiano della Fraternità San Pio X

Don Ricossa scrive a Valli sul caso Gnocchi

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di Redazione

Interpellato sulla questione da più parti nel mondo della cosiddetta “tradizione cattolica” e non, il nostro Responsabile Nazionale Matteo Castagna ha così risposto: “Ho conosciuto Alessandro Gnocchi ai tempi in cui scriveva libri e teneva conferenze con Mario Palmaro. Le differenze dottrinali ci hanno sempre diviso, al di là della simpatia umana. Chi è “una cum” e comprende la critica necessaria alle presunte autorità romane, nel medio e lungo termine si trova in un conflitto interiore. Io l’ho risolto nel 2007, aderendo a quella che mi pare la soluzione che la Chiesa stessa propone a credere nei Suoi diversi atti: il sedevacantismo, per non incorrere nell’errore fallibilista, che fa molto male alle anime. Gnocchi ha compiuto un grave atto di apostasia, che mi ha sorpreso anche perché non credo che, oltre a Dio, il suo scrittore preferito, Giovannino Guareschi approverebbe. Mi dispiace e pregherò per lui, vittima di ambienti di dottrina ambigua, un po’ modernista, un po’ tradizionalista, fondamentalmente fallibilista. Nella sostanza quel “Centro che porta a sinistra” di cui è in libera vendita un ottimo libricino, dove la Fede diventa dialettica intellettualista”.

Dal sito di Sodalitium:

Don Francesco Ricossa è intervenuto sul blog di Aldo Maria Valli sul caso relativo al passaggio di Alessandro Gnocchi dal Cattolicesimo all’eterodossia moscovita.

Caro Valli,

 ho letto su Duc in altum la recensione del libro di Alessandro Gnocchi Ritorno alle sorgenti. Il mio pellegrinaggio a Oriente nel cuore dell’Ortodossia e sto seguendo il dibattito in corso nel blog, dibattito che reputo di una assoluta gravità. Non si può mettere infatti tra le questioni disputate l’appartenenza o meno alla Chiesa cattolica romana, fuori della quale non vi è salvezza.

La cosa più paradossale è che questa simpatia per l’“ortodossia” (uso le virgolette giacché i discepoli di Fozio e Michele Cerulario non sono ortodossi ma eterodossi, veri scismatici, senza virgolette, ed eretici), nasce tra cattolici stimati come più o meno “tradizionalisti”, e pertanto più o meno, in teoria, avversi al modernismo e agli errori del Vaticano II.

Da un lato, infatti, essi denunciano la protestantizzazione del “cattolicesimo” (scambiando erroneamente la Chiesa cattolica con i modernisti che l’hanno occupata e dei quali riconoscevano l’autorità), dall’altro ne sono degli esemplari rappresentanti.

Infatti, il Vaticano II promuove l’ecumenismo, in primis proprio con le “chiese ortodosse”, che da tempo fanno parte del Consiglio ecumenico delle Chiese; la riforma liturgica ha sistematicamente abbandonato la tradizione romana non solo in favore del protestantesimo, ma anche della tradizione liturgica orientale; ha cercato di mettere da parte il Primato papale e la monarchia pontificia, per sostituirla con un modello collegiale e sinodale di Chiesa simile al modello orientale; si orienta con Amoris laetitia all’accettazione del divorzio prendendo anche qui a modello la disciplina degli scismatici orientali, e potremo continuare a lungo con le similitudini tra le riforme conciliari e gli errori bizantini

È veramente paradossale che per disgusto del modernismo si cada in un’altra forma di modernismo, ignorando tra l’altro quanto la cosiddetta “ortodossia” sia influenzata dalla teologia protestante, in particolare anglicana. Nel suo articolo Gulisano esprime persino l’opinione che Lewis, che non entrò mai nella Chiesa cattolica ma che avrebbe appartenuto a un cristianesimo non confessionale, non sarebbe stato scismatico o eretico, quando la sua posizione assomiglia tanto agli esperimenti di Taizé.

Se poi ci si chiede come sia possibile che dei cattolici “tradizionalisti” abbiano potuto compiere questo passo o lo giustifichino, si deve rispondere che questi cattolici “tradizionalisti” non lo sono stati mai, ma sono piuttosto dei confusionari, influenzati nel contempo dal cattolicesimo modernista e dal Tradizionalismo fallibilista. 

In particolare a Paolo Gulisano, dopo aver letto la sua recensione, vorrei chiedere: ha aderito anche lui, come Gnocchi, alla “chiesa” moscovita (sempre pronta ad obbedire al padrone di turno, fosse anche Stalin)? E se non lo ha fatto, cosa lo trattiene dal farlo? Dal suo articolo, sinceramente, non lo capisco.

don Francesco Ricossa

https://www.aldomariavalli.it/2023/02/02/no-duc-in-altum-non-sostiene-la-religione-scismatica-come-potete-pensarlo/

Fonte: https://www.sodalitium.biz/don-ricossa-e-il-caso-gnocchi/

L’elezione del Papa

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di Redazione

Questo articolo di don Francesco Ricossa scrive cose di grande interesse ed attualità, soprattutto ora, che qualcuno si appresta a indire un “conclave”, dopo la morte del “non-papa” Benedetto XVI. Don francesco, con grande franchezza e carità, trae spunto da alcune affermazioni di Mons. Mark Pivarunas (del quale noi non siamo fedeli) per allargare una critica ai sedevacantisti simpliciter, quali noi siamo per la maggior parte. I vescovi residenziali nel 2022 non esistono più perché, come spiega don Anthony Cekada, il rito di consacrazione episcopale del 1968 è “del tutto invalido e assolutamente nullo” (Ed. Sodalitium). Sul piano strettamente personale (da dottori o semplici studiosi privati) riteniamo plausibile che il Concilio imperfetto composto da vescovi non residenziali possa eleggere un legittimo sovrano Pontefice, proprio per la motivazione addotta da don Francesco, ovvero la situazione di assoluta straordinarietà del momento presente. E’ chiaro che non è nostra intenzione rimbeccare il Superiore dell’Istituto al quale ci rivolgiamo come fedeli, ma semplicemente porre una nostra rispettosa osservazione, tra “non una cum”.   

di don Francesco Ricossa

Articolo pubblicato su Sodalitium n 55 (dicembre 2002)

Mons. Mark Pivarunas CMRI (un vescovo consacrato da Mons. Carmona) invia periodicamente ai suoi fedeli una lettera intitolata Pro grege (1). Quella del 19 marzo 2002 ha particolarmente attirato la mia attenzione. Il prelato statunitense – che segue la tesi della sede vacante – risponde (a pag. 5) a due obiezioni del locale superiore di distretto della Fraternità San Pio X, padre Peter Scott.

Scrive Padre Scott: “Ciononostante è assurdo dire, come fanno i sedevacantisti, che non c’è stato nessun Papa da almeno 40 anni, perché questo distruggerebbe la visibilità della Chiesa, e la possibilità stessa dell’elezione canonica di un futuro Papa”.

Le obiezioni non sono nuove (2); più interessante è la risposta di Mons. Pivarunas.

Quanto alla prima difficoltà (quella del prolungarsi della vacanza della sede apostolica) Mons. Pivarunas risponde allegando l’esempio storico del Grande Scisma d’Occidente. Padre Edmund James O’Really S.J. (3), nel suo libro, edito nel 1882, intitolato The Relations of the Church to Society, scriveva a questo proposito: “Possiamo ora smettere di indagare su che cosa è stato detto in quel tempo della posizione dei tre pretendenti e dei loro diritti riguardo al papato. In primo luogo c’era sempre, dalla morte di Gregorio XI nel 1378, un Papa – con l’eccezione naturalmente delle vacanze creatisi tra le morti e l’elezioni. C’era, penso, in ogni momento un Papa, realmente investito della dignità di Vicario di Cristo e Capo della Chiesa, sebbene opinioni diverse possano esistere circa la sua legittimità; non nel senso che un interregno che coprisse l’intero periodo sarebbe stato impossibile o inconciliabile con le promesse di Cristo, perché questo è evidente, ma che di fatto non ci fu questo interregno” (Pivarunas, p. 5).

La cosa appunto è talmente evidente che non vale la pena di insistere.

Più difficile è invece rispondere alla seconda difficoltà. Vediamo quanto scrive al proposito Mons. Pivarunas:

«Quanto alla seconda ‘difficoltà’ proposta dalla Fraternità San Pio X contro la posizione sedevacantista, in altre parole quella dell’impossibilità dell’elezione di un futuro Papa se la sede è vacante dal Vaticano II, si può leggere ne ‘La Chiesa del Verbo Incarnato’ di Mons. Charles Journet: “Durante la vacanza della sede apostolica, la Chiesa ed il Concilio non possono contravvenire alle disposizioni prese per determinare il modo valido dell’elezione (Card. Gaetano o.p., De comparata…, cap. XIII, n°202). Tuttavia, in caso di permesso, per esempio se il Papa non ha previsto niente che vi si opponga, o in caso di ambiguità, per esempio se si ignora quali siano i veri cardinali, o chi è vero Papa, com’è accaduto ai tempi del grande scisma, il potere di ‘applicare il papato a tale persona’ è devoluto alla Chiesa universale, alla Chiesa di Dio (ibid., n° 204)”» (4).

Con questa citazione Mons. Pivarunas pensa di aver sufficientemente risposto a Padre Scott: in assenza di cardinali – e solo in assenza di cardinali (5) – il Papa può essere eletto, per devoluzione (6), dalla Chiesa.

Ma in realtà la difficoltà cambia solamente di oggetto: cosa si intende, infatti, in questo contesto, per “Chiesa universale”?

Mons. Pivarunas, nella sua lettera, non lo precisa. Neppure lo precisa Journet nel luogo citato. Ma poiché Journet fa propria la posizione del Cardinal Gaetano (7), citando la sua opera De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii cum apologia eiusdem tractatus (8), possiamo facilmente stabilire il significato di questa espressione consultando il Gaetano stesso.

Il Card. Gaetano, col termine “Chiesa universale”, intende designare il Concilio generale

Abbiamo visto come, in casi straordinari, il Papa possa essere eletto, in assenza di cardinali, dalla “Chiesa universale”; ma cosa intende il Cardinale Gaetano con questo termine?

Basta sfogliare il De comparatione per trovare la risposta – indubitabile – al nostro quesito. Già il titolo lo indica: De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii, seu Ecclesiæ universalis (n° 5) (Sulla comparazione dell’autorità del Papa e del Concilio, ovvero della Chiesa universale): la Chiesa universale ed il Concilio sono tutt’uno. Ma è nel capitolo V (n° 56) che Gaetano procede ad un’esplicita definizione dei termini:

“Dopo aver esaminato la comparazione tra il potere del Papa e quello degli apostoli in ragione del loro apostolato, dobbiamo adesso comparare il potere del Papa e il potere della Chiesa universale, ovvero del Concilio universale, adesso da un punto di vista generale, in seguito, come abbiamo annunciato, in alcuni casi ed eventi (particolari). E poiché gli opposti, messi a confronto, diventano più chiari, apporterò prima di tutto le ragioni principali nelle quali si trova il valore (degli argomenti) con il quale è provato [dagli avversari, N.d.T.] che il Papa è sottomesso al giudizio della Chiesa, ovvero del Concilio universale. E affinché non capiti più spesso di mettere assieme Chiesa e Concilio [preciso che] sono presi come sinonimi, poiché si distinguono solo come chi rappresenta e chi è rappresentato” (9). Il contesto generale dell’opera, d’altronde, ci indica chiaramente che il Gaetano per “Chiesa universale” intende il Concilio generale; il De comparatione in effetti risponde alle obiezioni dei conciliaristi, secondo i quali il Papa è inferiore alla Chiesa, cioè al Concilio (9). Ma c’è di più. Proprio quando parla dell’elezione del Papa, il Gaetano usa promiscuamente i termini “Chiesa” e “Concilio”: “in Ecclesia autem seu Concilio” (n° 202). Anzi, quando si tratta di presentare il caso concreto di elezione straordinaria di un Papa, il Gaetano non parla tanto di “Chiesa universale” ma piuttosto di Concilio generale: “si Concilium generale cum pace Romanæ ecclesiæ eligeret in tali casu Papam, verus Papa esset ille qui electus sic esset” (n° 745) (“se in questo caso il Concilio generale eleggesse il Papa con la pace [l’accettazione pacifica] della Chiesa romana, chi fosse eletto in questo modo sarebbe un vero Papa”).

È evidente quindi che, per Mons. Journet ed il Cardinal Gaetano, è il Concilio generale imperfetto (10) che ha il compito, in assenza di cardinali, di eleggere il Sommo Pontefice.

I vescovi residenziali, in quanto membri di diritto di questo Concilio generale, potrebbero eleggere il Papa

Appurato che gli elettori straordinari del Papa (in assenza di cardinali) sono i membri del Concilio generale, resta da vedere chi possa partecipare, di diritto, al Concilio generale. Il Codice di diritto canonico – trattando del Concilio ecumenico – elenca i membri di diritto del Concilio con voto deliberativo, al canone 223:

§ 1. Sono chiamati al Concilio ed hanno in esso il diritto al voto deliberativo:

1° I Cardinali di Santa Romana Chiesa, anche se non sono Vescovi;

2° I Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi residenziali, anche se non consacrati;

3° Gli Abati o prelati nullius;

4° L’Abate Primate, gli Abati Superiori di Congregazioni monastiche, i Superiori generali delle congregazioni clericali esenti, ma non delle altre religioni, a meno che il decreto di convocazione non disponga diversamente;

§ 2. Anche i Vescovi titolari, chiamati al Concilio, ottengono il voto deliberativo, a meno che non sia previsto esplicitamente il contrario nella convocazione.

§ 3. I teologi e i canonisti, eventualmente invitati al Concilio, hanno solo un voto consultivo.

Questo canone non esprime solo il diritto positivo, ma anche la natura stessa delle cose. Notiamo infatti che i Vescovi titolari, privi di giurisdizione, possono non essere convocati al Concilio o non avere diritto di voto. Al contrario, i Cardinali, i Vescovi residenziali, gli Abati o i prelati nullius (11) anche se non consacrati vescovi partecipano di diritto al Concilio, perché hanno giurisdizione su di un territorio (12). Questo significa che di per sé il criterio per essere un membro del Concilio è quello di appartenere alla gerarchia in ragione della giurisdizione e non dell’ordine sacro (per questa distinzione, di diritto divino, vedi il can. 108§3).

Stando così le cose, ci sembra che Mons. Pivarunas (e con lui tutti i sedevacantisti simpliciter, quelli cioè che non seguono la tesi di padre Guérard des Lauriers) non abbia sufficientemente risposto alla difficoltà posta dalla Fraternità San Pio X. Infatti, in una posizione strettamente sedevacantista, non si vede dove siano i vescovi residenziali cattolici che possano e vogliano eleggere il Papa, giacché tutti i vescovi residenziali (ed altri prelati che avrebbero giurisdizione) o sono stati nominati invalidamente da degli antipapi o sono comunque formalmente eretici e fuori della Chiesa – aderendo agli errori del Vaticano II – o sono in ogni caso in comunione con Giovanni Paolo II, capo della nuova “Chiesa conciliare”. La Chiesa gerarchica insomma sarebbe totalmente scomparsa, non solo in atto e formalmente, ma anche in potenza e materialmente (13).

I Vescovi senza giurisdizione non possono eleggere il Papa

Abbiamo visto che l’elezione del Papa in circostanze anormali – secondo il pensiero dei teologi che hanno trattato della questione – spetta al Concilio generale imperfetto, ovverosia ai Vescovi ed ai prelati che godono, nella Chiesa stessa, di giurisdizione. Il Papa, infatti, è Vescovo della Chiesa universale: è quindi normale che eccezionalmente lo eleggano quei prelati della Chiesa universale che, con lui e sotto di lui, governano una porzione del gregge. Abbiamo visto altresì che per la natura stessa delle cose, ed in conseguenza di quanto detto, sono esclusi dal novero degli elettori per accidens del Papa i Vescovi titolari, Vescovi consacrati col mandato romano, ma privi di giurisdizione nella Chiesa.

A più forte ragione sono esclusi dal numero degli elettori – proprio perché esclusi dal Concilio generale – i Vescovi consacrati senza mandato romano nelle condizioni eccezionali dell’attuale vacanza (formale) della Sede Apostolica. Tali Vescovi, infatti, sono stati consacrati validamente e persino, a nostro parere – almeno in alcuni casi – lecitamente; tuttavia essi sono però – nel modo più assoluto – privi di giurisdizione, in quanto la giurisdizione del Vescovo deriva da Dio solo tramite la mediazione del Papa che, nel nostro caso, è esclusa (14). Poiché sono privi di giurisdizione, non appartengono alla Gerarchia della Chiesa secondo la giurisdizione, non sono perciò membri di diritto del Concilio e pertanto non sono abilitati ad eleggere validamente il Papa, neppure in casi straordinari.

Questo punto di dottrina, già assodato in sé stesso, è confermato dall’impossibilità pratica di eleggere un Papa certo e non dubbio seguendo questa via. Chi stabilirà in maniera certa, tra i molti Vescovi che sono stati e saranno ancora consacrati in questo modo, quelli che hanno diritto di partecipare all’elezione e quelli che non lo hanno? Chi ha il diritto di convocare il Conclave e chi no? Chi è da considerarsi legittimamente consacrato e chi no? Non essendoci un criterio di discernimento (il mandato romano, la sede residenziale) non vi è di per sé limite a queste consacrazioni né da parte di chi le può autorizzare (il Papa) né da parte della porzione di territorio da governare (la diocesi). Il numero degli elettori può quindi crescere a dismisura senza nessuna garanzia della loro cattolicità, come è avvenuto in concreto. E, di fatto, si è già proceduto a svariate elezioni che non hanno avuto alcun seguito, neppure tra i sostenitori del “conclavismo”, sempre pronti a “fare il passo”, ma solamente in teoria.

A maggior ragione, i laici non possono eleggere il Papa

Se i Vescovi titolari, pur nominati dal Papa non possono eleggere il Papa, se non lo possono neppure i Vescovi puramente consacrati, senza mandato romano, ancor meno lo potranno i semplici sacerdoti. In maniera ancora più radicale sono esclusi da ogni elezione ecclesiastica i laici.

Questa conclusione è confermata dal diritto positivo della Chiesa, sia per quanto riguarda ogni elezione ecclesiastica in genere, sia per quanto riguarda l’elezione del Papa.

A proposito di ogni elezione ecclesiastica, il canone 166 stipula che “se i laici, contro la canonica libertà, si fossero immischiati in qualunque modo in un’elezione ecclesiastica, l’elezione è invalida per il diritto stesso” (Si laici contra canonicam libertatem electioni ecclesiasticæ quoque modo sese immiscuerint, electio ipso iure invalida est).

A proposito dell’elezione papale, fa testo l’apposita costituzione Vacante Sede Apostolica promulgata da San Pio X il 25 dicembre 1904. Il principio generale è espresso al n. 27: “Il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ed esclusivamente (privative) ai Cardinali di Santa Romana Chiesa, essendo assolutamente escluso ed allontanato l’intervento di qualsiasi altra dignità ecclesiastica o laica potestà di qualunque grado e ordine”. Al numero 81, San Pio X rinnova la condanna già da lui sancita, con la Costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904, del cosiddetto diritto di Veto o di Esclusiva da parte del potere laico, concludendo: “Questa proibizione vogliamo sia estesa a qualunque intervento, intercessione o altro modo con il quale le autorità laiche di qualunque ordine e grado volessero immischiarsi nell’elezione del Pontefice”. Il Santo Papa fa riferimento a quanto accadde durante il Conclave che lo elesse al Sommo Pontificato, quando l’Imperatore Francesco Giuseppe, tramite il Cardinale Arcivescovo di Cracovia, pose il suo veto all’elezione del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, già segretario di Stato di Leone XIII. Nella Costituzione Commissum San Pio X afferma che questo presunto diritto di “Veto”, già condannato dai suoi predecessori Pio IV (In eligendis), Gregorio XV (Aeterni Patris), Clemente XII (Apostolatus officium) e Pio IX (In hac sublimi, Licet per Apostolicas e Consulturi) è contrario alla libertà della Chiesa. Il suo ufficio, scrive il Santo Pontefice, è quello di far sì che “la vita della Chiesa si svolga in modo del tutto libero, allontanato ogni intervento esterno, come volle che si svolgesse il suo Divino Fondatore, e come lo richiede assolutamente la sua eccelsa missione. Ora, se c’è una funzione nella vita della Chiesa che richiede più di ogni altra questa libertà, essa deve essere considerata senza dubbio quella che riguarda l’elezione del Romano Pontefice; in effetti ‘non si tratta di un membro, ma di tutto il corpo, quando si tratta del capo’ (Gregorio XV, Aeterni Patris)”. L’esclusione dell’intervento delle autorità civili include naturalmente quello di qualunque altro membro del laicato: “Stabiliamo che non è lecito ad alcuno, neppure ai capi di stato, sotto qualsiasi pretesto, interporsi o ingerirsi nella grave questione dell’elezione del Romano Pontefice”.

Come si vede, l’esclusione di ogni intervento laicale è considerato da San Pio X non come una disposizione transitoria, ma come assolutamente necessario perché la Chiesa sia come l’ha voluta il suo Fondatore, Cristo Gesù.

Quanto disposto dal Codice di diritto Canonico e da San Pio X è perfettamente conforme a tutta la tradizione. Il Codice stesso rinvia al Corpus iuris canonici (l’antico diritto ecclesiastico) ove le decretali di Gregorio IX (libro I, titolo VI, de electione et electi potestate) prevedono l’invalidità dell’elezione fatta dai laici: il cap. 43 cita il IV Concilio Lateransense del 1215 (Costituzione XXV: “Chiunque acconsentisse alla propria elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica, perda l’elezione e diventi ineleggibile…”); il cap. 56 cita un documento di Gregorio IX del 1226 col quale si dichiara invalida l’elezione di un vescovo fatta dai laici e dai canonici, secondo una consuetudine che è piuttosto chiamata una “corruttela”.

Potremmo citare altri documenti ecclesiastici al proposito, tra i quali vari Concili Ecumenici: il secondo di Nicea, dell’anno 787 (DS 604), il secondo di Costantinopoli dell’anno 870 (DS 659), il primo del Laterano, dell’anno 1123, contro le investiture dei laici (DS 712)…

Se nel passato la Chiesa doveva difendere la sua libertà dall’influenza dei Principi nelle elezioni, con la Rivoluzione dovette difenderla dalla pretesa democratica di far eleggere i Vescovi dal popolo. Fu così che Papa Pio VI condannò la Costituzione civile del clero votata dall’Assemblea Nazionale, con il Breve Quod aliquantulum del 10 marzo 1791. Non a caso, Papa Braschi collegava le decisioni in materia dei rivoluzionari francesi, coi più antichi errori di Wiclif, Marsilio da Padova, Jean de Jandun e Calvino (cf Insegnamenti Pontifici, La Chiesa, 81-82, e Pie VI, Ecrits sur la Révolution française, Ed. Pamphiliennes, pp. 16-20).

Qual è il valore, allora, della partecipazione popolare ad alcune antiche elezioni? Lo ricorda ancora il Journet: “Nei tempi passati hanno preso parte all’elezione, a titoli diversi: il clero romano (per un titolo che sembra primo e diretto), il popolo (ma nella misura in cui dava il suo consenso e la sua approvazione all’elezione fatta dal clero), i principi secolari (sia lecitamente, dando solamente il loro consenso e il loro appoggio all’eletto; sia in maniera abusiva vietando, come fece Giustiniano, che l’eletto fosse consacrato prima dell’approvazione dell’imperatore), infine i cardinali, che sono i primi tra i chierici romani, in sorta che è al clero romano che è di nuovo affidata, oggi, l’elezione del Papa” (op. cit., p. 977) (15).

Un voto solo consultivo o approvativo, quindi, quello del popolo fedele; e le cose stanno così per una esigenza dogmatica fondata sulla distinzione e subordinazione nella Chiesa tra clero e fedeli, distinzione che è di diritto divino. Lo ricorda, tra gli altri, il teologo romano Cardinal Mazzella: “In terzo luogo, dai medesimi documenti, ne segue sia la distinzione tra i Chierici e i Laici, sia il fatto che la gerarchia costituita nell’ordine clericale è di diritto divino; e quindi che per il medesimo diritto divino la forma democratica è esclusa dal governo della Chiesa. Questa forma democratica sussiste quando la suprema autorità si trova in tutta la moltitudine; non in quanto tutta la moltitudine comandi e governi in atto, il che sarebbe impossibile; ‘ma in quanto – come dice Bellarmino (de Rom. Pont. l. 1, c. 6) – dove vige il regime popolare, i magistrati sono costituiti dallo stesso popolo, e ricevono da esso la loro autorità; non potendo il popolo legiferare da se stesso, deve almeno costituire altri che lo facciano in suo nome’. Ma, supposta una gerarchia divinamente costituita nell’ordine clericale, è ad essa e non a tutto il popolo che l’autorità è stata comunicata da Cristo; e perciò per istituzione di Cristo non risiede nel popolo il diritto di costituire i governanti, e questi non reggono la Chiesa in nome del popolo. Per una migliore comprensione di quanto detto, osserviamo:

come dice Bellarmino (de mem. Eccles. l. 1 c. 2), ‘nella creazione dei Vescovi sono contenute tre cose: l’elezione, l’ordinazione e la vocazione o missione; l’elezione non è nient’altro che la designazione di una persona determinata alla prelatura ecclesiastica; l’ordinazione è una sacra cerimonia con la quale, mediante un rito determinato, viene unto e consacrato il futuro Vescovo; la missione o vocazione conferisce la giurisdizione, e per il fatto stesso fa il Pastore e il presule’

Per cui sono cose molto diverse l’eleggere, il chiedere e il rendere testimonianza. Infatti, chi rende testimonianza in favore di qualcuno o chiede che questi sia eletto, non gli conferisce un diritto a ottenere una dignità; ma svolge solo il ruolo di una persona che loda e che chiede. Colui invece che elegge, chiama canonicamente alla dignità, e conferisce un vero diritto a riceverla (…)” (16).

Riassumendo: nelle elezioni ecclesiastiche il popolo può rendere testimonianza delle qualità di un soggetto (testimonium reddere) e chiederne l’elezione (petere) ma non può assolutamente votare in una elezione canonica, e quindi eleggere un candidato a una carica ecclesiastica dandogli il diritto a ricevere – in quanto persona eletta – la medesima carica. E questa conclusione si fonda su di un principio che appartiene alla fede e alla volontà del Signore: il fatto cioè che la Chiesa non sia una società democratica, ma gerarchica (e persino monarchica) (17) fondata sulla distinzione – di diritto divino – tra il Clero e i Laici. I “tradizionalisti” che attribuiscono a persone che non fanno parte della gerarchia di giurisdizione, e persino a dei semplici fedeli, il potere di eleggere persino il Sommo Pontefice, sono paradossalmente inquinati dall’eresia di una Chiesa democratica così diffusa tra i “modernisti” stile “comunità di base” o “la Chiesa siamo noi”.

Il Clero romano e l’elezione del Papa

Abbiamo escluso dal potere di eleggere il Papa i laici ed i Vescovi senza giurisdizione (a maggior ragione i semplici sacerdoti). Ci resta da vedere un soggetto particolare del diritto di eleggere il Papa: il clero romano. Se “per natura delle cose, e quindi per diritto divino” – scrive Journet a p. 977 – “il potere di eleggere il Papa appartiene alla Chiesa presa assieme al suo capo, il modo concreto in cui si farà l’elezione, dice Giovanni di San Tommaso, non è stato determinato in qualche luogo della Scrittura: è il semplice diritto ecclesiastico che determinerà quali persone nella Chiesa potranno validamente procedere all’elezione”.

Il diritto ecclesiastico attuale (e questo a partire dal 1179) prevede che solo i Cardinali possono eleggere validamente il Papa. In questo modo si mantiene in fondo la più antica tradizione ecclesiastica, che vuole che il Vescovo sia eletto dal suo clero e dai Vescovi circostanti. I Cardinali infatti sono i membri principali del Clero romano (diaconi e sacerdoti), uniti ai Vescovi delle diocesi limitrofe, dette suburbicarie (anch’essi Cardinali). Il Gaetano scrive che è normale che il Papa sia eletto dalla sua chiesa, che è la chiesa Romana e la Chiesa universale, in quanto il Papa è il Vescovo di Roma ed il Vescovo della Chiesa Cattolica (n° 746). Anzi, Gaetano prevede che “morti tutti i Cardinali, succede in maniera immediata [nel potere di eleggere il Papa] la Chiesa Romana, dalla quale è stato eletto [il Papa San] Lino prima di ogni disposizione di diritto umano a noi conosciuto” (n° 745). “La Chiesa Romana” infatti “rappresenta la Chiesa universale nel potere elettivo” (n° 746). Come ci siamo chiesti a proposito della “Chiesa universale”, così ci dobbiamo chiedere chi sono i membri della “Chiesa Romana” che potrebbero eleggere il Papa in mancanza dei cardinali, che della Chiesa Romana sono i membri principali. Gaetano spiega (n° 202): che l’elezione spetti a tale o tale diacono o sacerdote delle chiese romane, detti Cardinali, e non ad altri (come ad esempio i canonici di San Pietro o di san Giovanni in Laterano), o a tale o tal altro Vescovo suburbicario, e non ad altri, è disposizione di diritto positivo ecclesiastico, e non di diritto divino. La Chiesa non può mutare queste disposizioni di diritto ecclesiastico (n° 202), ma in caso di scomparsa di tutti i Cardinali si può supporre che gli altri membri del clero romano potrebbero eleggere il proprio Vescovo. È evidente che per essere membri del clero romano non basta essere nati o risiedere a Roma! Occorre essere incardinati nella diocesi e probabilmente avere cura pastorale del popolo romano o delle diocesi vicine. È facile rendersi conto che anche in questo caso non si vede chi mai potrebbe, concretamente, potere o volere eleggere il papa dato che il clero romano (parroci, vescovi limitrofi, ecc.) è attualmente in comunione con Giovanni Paolo II.

Il Papa non può essere designato direttamente dal Cielo (perché Dio non lo vuole)

Di fronte alla situazione gravissima che sta vivendo la Chiesa, che ha portato alla privazione dell’Autorità, c’è chi ha pensato che la soluzione poteva solo venire da un intervento – eccezionale – di Dio. Questo pensiero si fonda su di una intuizione vera: la Storia e la Chiesa sono nella mani di Dio, e “nulla è impossibile a Dio” (Lc I, 37). Alcuni hanno pensato a un intervento di Enoch e Elia, identificati (a mio parere, a torto) nei due testimoni dell’Apocalisse. Altri hanno ipotizzato la sopravvivenza dell’Apostolo Giovanni. Altri ancora immaginano un’elezione papale fatta direttamente da Cristo e dagli Apostoli Pietro e Paolo (18). A questo proposito non sono mancati coloro che hanno pubblicato profezie di Santi in favore di questa opinione (19).

Mons. M.-L. Guérard des Lauriers, nella sua intervista a Sodalitium (n. 13, p. 20) affermava a proposito del sedevacantismo stretto: “La persona fisica o morale che ha, nella Chiesa, qualità per dichiarare la vacanza totale della Sede Apostolica è identica a quella che, nella Chiesa, ha qualità per provvedere alla provvisione della stessa Sede Apostolica. Chi dichiara attualmente: ‘Mons. Wojtyla non è affatto Papa [neanche materialiter] deve: o convocare il Conclave [!] o mostrare le credenziali che lo costituiscono direttamente ed immediatamente Legato di Nostro Signore Gesù Cristo [!!]”. Abbiamo finora dimostrato l’impossibilità, rebus sic stantibus, di convocare un Conclave; vediamo nel presente capitolo se è possibile a qualcuno presentarsi con le credenziali che lo costituirebbero Legato di Gesù Cristo o suo Vicario.

Al di là dell’improbabilità fattuale di un simile avvenimento, sottolineata dai due punti esclamativi apposti da Mons. Guérard dopo avere esposto questa ipotesi, mi sembra che riguardo alla possibilità teologica di questa ipotesi abbia correttamente risposto Mons. Sanborn:

“I sedevacantisti completi propongono una seconda soluzione alla crisi attuale: è Cristo stesso che designerà un successore, con un intervento miracoloso. Se Nostro Signore agisse in tal modo, e certamente lo potrebbe, l’uomo che sceglierebbe per essere Papa sarebbe certamente il suo vicario sulla terra, ma non sarebbe successore di san Pietro. Scomparirebbe l’apostolicità, perché quest’uomo non potrebbe risalire fino a san Pietro mediante una linea di successione legittima ininterrotta. Certo, come san Pietro sarebbe scelto da Cristo. Ma in realtà Nostro Signore creerebbe una nuova Chiesa.

D. Ma Nostro Signore non potrebbe essere un elettore legittimo? Perché non potrebbe scegliere un Papa che sarebbe anche successore di san Pietro?

R. Si, evidentemente Nostro Signore potrebbe scegliere un Papa, esattamente come ha scelto san Pietro. Ma un intervento divino come quello che immaginano i sedevacantisti completi equivarrebbe a una nuova rivelazione pubblica, il che è impossibile. La rivelazione pubblica è definitivamente chiusa con la morte dell’ultimo apostolo. È un articolo di fede. Tutte le rivelazioni che si sono svolte dopo la morte dell’ultimo Apostolo appartengono all’ambito delle rivelazioni private. Per i sedevacantisti completi quindi, è una rivelazione privata che rivelerebbe l’identità del Papa.

Non c’è bisogno di dire che una tale soluzione distrugge la visibilità e la legalità della Chiesa cattolica, e rende la sua stessa esistenza dipendente da dei veggenti. Non c’è bisogno di aggiungere neppure che essa abbandona il papato alle elucubrazioni degli apparizionisti.

La missione della Chiesa consiste nel far conoscere al mondo la divina rivelazione. Se la designazione del Papa – proprio colui che fa conoscere questa rivelazione – dipendesse da una rivelazione privata, crollerebbe l’intero sistema. La più alta autorità della Chiesa sarebbe allora il veggente, che potrebbe fare o disfare i Papi. Non ci sarebbe più alcun principio di autorità per poter determinare se il veggente è o non è un mistificatore. Ogni atto di fede dipenderebbe, alla fin fine, dall’onestà di un veggente.

La Chiesa cattolica, al contrario, è una società visibile ed ha una vita legale. Nostro Signore è il capo invisibile della Chiesa. La Chiesa non potrebbe più attribuirsi la visibilità se la sua gerarchia fosse designata da una persona [a noi] invisibile, fosse pure Nostro Signore in persona.

Anche ammettendo per un istante questa possibilità: la persona che Nostro Signore designerebbe in tal modo non sarebbe un successore legittimo di san Pietro. La successione è legittima solo se soddisfa le esigenze del diritto ecclesiatico o della consuetudine. Ma una successione per intervento divino non soddisfa alcuna di queste esigenze. Conseguentemente il Papa così designato non sarebbe il legittimo successore di san Pietro” (20).

Gesù potrebbe quindi (di “potenza assoluta”) scegliere nuovamente un Papa, ma non lo farà mai (21) (è impossibile di “potenza ordinata”) poiché Egli stesso ha stabilito che la Sua Chiesa, fondata su Pietro, sarebbe stata indefettibile: “le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. E questa verità dell’indefettibilità della Chiesa ci dà di già il motivo di fondo di quanto sosteniamo nel titolo del prossimo capitoletto.

La Chiesa non può restare totalmente priva di elettori del Papa

Il Concilio Vaticano I ha solennemente definito:

Se dunque qualcuno dirà che non è per istituzione dello stesso Cristo Signore ovvero per diritto divino che il Beato Pietro ha sempre dei successori nel primato della Chiesa universale; o che il Romano Pontefice non è il successore del Beato Pietro in questo primato, sia anatema” (D.S. 3058, Cost. dogmatica Pastor Aeternus, canone del capitolo 2).

È una verità di fede, pertanto, che “per sempre” vi sarà un Successore di Pietro: questa verità fa parte di quella concernente l’indefettibilità della Chiesa: se la Chiesa fosse priva di Papa, non esisterebbe più quale l’ha fondata Gesù. Per tornare al cardinal Gaetano, “Christus Dominus statuit Petrum in successoribus perpetuum: Cristo Signore ha stabilito (che) Pietro (sia reso) perpetuo nei suoi successori” (n. 746).

Naturalmente, questa definizione non può e non deve essere intesa nel senso che vi sarà sempre, in ogni istante, in atto, un Papa seduto sulla Cattedra di Pietro: durante la Sede vacante (ad esempio nel periodo che passa tra la morte di un Papa e l’elezione del suo successore). Ciò non conviene. In che senso dunque bisogna intendere la definizione vaticana?

Ce lo spiega ancora – per anticipazione – il Gaetano: “impossibile est Ecclesiam relinqui absque Papa et potestate electiva Papæ: è impossibile che la Chiesa sia lasciata senza Papa e senza il potere di eleggere il Papa” (n. 744). Durante la Sede vacante, pertanto, deve rimanere in qualche modo la persona morale che può eleggere il Papa: “papatus, secluso Papa, non est in Ecclesia nisi in potentia ministraliter electiva, quia scilicet potest, Sede vacante, Papam eligere, per Cardinales, vel per seipsam in casu: il Papato, tolto il Papa, si trova nella Chiesa solo in una potenza ministralmente elettiva, poiché essa può, durante la Sede vacante, eleggere il Papa mediante i Cardinali o, in un caso (accidentale) per mezzo di sé stessa” (n. 210).

È assolutamente necessario, pertanto, che – durante la Sede vacante – sussista ancora la possibilità di eleggere il Papa: lo esigono l’indefettibilità e l’apostolicità della Chiesa (22).

L’elezione del Papa nella situazione attuale della Chiesa

Era appunto questa l’obiezione mossa da Mons. Lefebvre ai sedevacantisti, e ripresa da don Scott contro Mons. Pivarunas. Certamente, una obiezione non può annullare una dimostrazione, e Mons. Pivarunas ha ragione – e don Scott torto – sul fatto che la Sede sia attualmente vacante. Abbiamo visto però che il sedevacantismo simpliciter, se è capace di dimostrare la vacanza della Sede, non è però capace di spiegare come sussista ancor oggi il potere di eleggere un successore. I vari tentativi di spiegazione, fin qui analizzati, risultano tutti inconcludenti: non possono eleggere il Papa i semplici fedeli, e neppure i semplici sacerdoti, e neanche i Vescovi non residenziali. D’altra parte, nella prospettiva strettamente sedevacantista, non sussisterebbero più attualmente dei cardinali o dei Vescovi residenziali cattolici, in quanto tutti quelli esistenti avrebbero aderito alla “Chiesa conciliare”, divenendo formalmente eretici.

L’unica soluzione possibile a questa difficoltà viene, ci sembra, dalla Tesi detta di Cassiciacum, esposta da Padre Guérard des Lauriers, Tesi che i sedevacantisti si ostinano a rifiutare senza rendersi conto che essa è l’unica che permetta di difendere veramente la tesi della Sede vacante.

Secondo questa Tesi, nella situazione attuale dell’autorità nella Chiesa, il potere di eleggere il Sommo Pontefice sussiste ancora nella Chiesa non in atto, formalmente, ma in potenza, materialmente, e questo è sufficiente per assicurare la continuità della Successione Apostolica e per garantire l’indefettibilità della Chiesa.

Un’elezione del Papa è per il momento impossibile sia perché la Sede è ancora occupata materialmente e legalmente da Giovanni Paolo II, sia perché, e lo abbiamo dimostrato in questo articolo, non vi sono, in atto, elettori capaci di procedere a questa elezione.

L’elezione è però possibile in potenza, sia perché in principio non può essere altrimenti, come abbiamo visto prima, sia perché di fatto, sussistono materialmente gli elettori canonicamente abilitati ad eleggere il Papa. Secondo la Tesi, infatti, i Cardinali creati dai “papi” materialiter conservano il potere di eleggere il Pontefice, come pure i Vescovi, nominati dai “papi” materialiter alle varie sedi episcopali, le occupano materialmente e potrebbero, ritornati alla pubblica ed integrale professione della Fede, essere elettori del Papa in assenza di Cardinali. Lo stesso “papa” che occupa solo materialmente la Sede potrebbe, anatematizzando tutti gli errori e professando integralmente la Fede, divenire a tutti gli effetti Papa anche formalmente. Come si vede, la Tesi di Cassiciacum risponde alle obiezioni sollevate dai “modernisti” e dai “lefebvriani” al sedevacantismo, mentre le altre tesi sedevacantiste non ne sono capaci. Per la dimostrazione di questo punto della Tesi, rimandiamo il lettore a quanto già scritto al proposito (23).

Il dovere dei cattolici

Giunti al termine di questa esposizione, naturalmente sommaria, della questione dell’elezione del Papa nella situazione attuale della Chiesa, possiamo tirare alcune conclusioni da quanto scritto.

Qual è il dovere dei cattolici, attualmente? Innanzitutto, conservare la fede. Questo dovere (conservare la fede) ne implica (di per sè) immediatamente un altro: quello di non riconoscere “l’autorità” di Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II. Riconoscere l’autorità di Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II implica, infatti, l’adesione al loro insegnamento che è – su alcuni punti – in contraddizione con la fede cattolica infallibilmente definita dalla Chiesa.

Il semplice cattolico però non può e non deve andare oltre. Non spetta al semplice fedele (e neppure ai sacerdoti e ai vescovi senza giurisdizione) dichiarare con autorità, ufficialmente e legalmente, la vacanza della Sede Apostolica e provvedere all’elezione di un autentico Pontefice. Il dovere del cattolico però è quello di pregare e lavorare, ciascuno al proprio posto e secondo le proprie competenze, affinché questa dichiarazione ufficiale – ad opera del collegio dei cardinali o del concilio generale imperfetto – divenga possibile. La tragedia dei nostri tempi – che detta la gravità della crisi presente – consiste proprio nel fatto che nessuno dei membri della gerarchia ha finora svolto questo ruolo. Attualmente, sembra impossibile che i Vescovi o i Cardinali giungano a condannare gli errori del Vaticano II e pongano l’occupante della Sede apostolica nella condizione di anatematizzare anch’egli questi errori, sotto pena di essere dichiarato formalmente eretico (e pertanto deposto, anche materialmente, dalla Sede); ma ciò che è impossibile agli uomini, ricordiamolo, è possibile a Dio. Ed in questo caso, sappiamo che Dio non può abbandonare la Sua Chiesa, perché le porte dell’inferno non prevarranno contro di Essa, ed Egli sarà con Essa fino alla fine del mondo.

Appendice

Esulano direttamente dalla nostra questione (la possibilità di eleggere un Papa allo stato attuale) due argomenti riguardanti pur sempre l’elezione del Papa: quello della certezza della validità dell’elezione papale a causa dell’accettazione pacifica di questa elezione da parte della Chiesa, e quello della santità dell’elezione. Di entrambi parla Journet nell’opera citata. Ne parlerò brevemente anch’io, poiché si tratta di due argomenti che possono servire da obiezione alla nostra posizione (la vacanza formale della Sede Apostolica).

L’accettazione pacifica come certezza della validità dell’elezione papale

Un’elezione, fosse anche l’elezione papale, può essere invalida o essere dubbia; lo ricorda lo stesso Journet, al seguito di Giovanni di San Tommaso (L’elezione del Papa. V. Validità e certezza dell’elezione). “La Chiesa – scrive Journet – possiede il diritto di eleggere il Papa, e quindi il diritto di conoscere con certezza l’eletto. Finché persiste il dubbio sull’elezione e che il consenso tacito della Chiesa universale non ha rimediato ai vizi possibili dell’elezione, non c’è il Papa, ‘Papa dubius, Papa nullus’. In effetti, fa notare Giovanni di San Tommaso, finché l’elezione pacifica e certa non è manifesta, è come se essa durasse ancora” (p. 978). Tuttavia, ogni incertezza sulla validità dell’elezione è dissipata dall’accettazione pacifica dell’elezione fatta dalla Chiesa universale: “l’accettazione pacifica della Chiesa universale, che si unisce attualmente a tale eletto come al capo al quale essa si sottomette, è un atto nel quale la Chiesa impegna il suo destino. E’ quindi di per sè un atto infallibile, ed è immediatamente conoscibile come tale. (Conseguentemente e mediatamente, risulterà che tutte le condizioni pre-richieste alla validità dell’elezione sono state realizzate)” (pp. 977-978). Quanto affermato da Journet si ritrova in quasi tutti i teologi.

Questa dottrina include un’obiezione gravissima contro ogni sedevacantismo (inclusa la nostra Tesi). L’abbé Lucien non nascondeva questa difficoltà, scrivendo: “Senza rispondere ai nostri argomenti, alcuni dichiarano che [la nostra tesi] è certamente falsa, poiché la sua conclusione, secondo loro, è contraria alla fede o almeno prossima all’eresia. Ricordano in effetti che la legittimità di un Papa è un fatto dogmatico, e aggiungono che il segno infallibile di questa legittimità è l’adesione della Chiesa universale. Ora, fanno notare, svariati anni dopo il 7 dicembre 1965 [data a partire della quale Paolo VI non era certamente più Papa formalmente] nessuno ha messo in causa, pubblicamente, nella Chiesa, la legittimità di Paolo VI. È quindi impossibile, concludono, che abbia cessato di essere papa legittimo in questa data, poiché la Chiesa universale continuava a riconoscerlo. Questi obbiettori affermano parimenti che ancor oggi la Chiesa universale aderisce a Giovanni Paolo II, poiché nessun membro della gerarchia di magistero lo ha ricusato: ora, questa gerarchia (l’insieme dei vescovi residenziali uniti al Papa) rappresenta autenticamente la Chiesa universale” (24). Rinvio il lettore alla magistrale risposta che dà l’abbé Lucien a questa obiezione. Da un lato, egli ricorda che la Costituzione Cum ex apostolatus di papa Paolo IV – che se non ha più valore giuridico è pur sempre un atto del magistero – insegna una dottrina contraria (la tesi dell’accettazione pacifica della Chiesa come prova certa della validità di una elezione è quindi solo un’opinione teologica). D’altro canto, sottolinea come questa opinione si fondi sul fatto che è impossibile che la Chiesa intera segua una falsa regola di fede aderendo ad un falso pontefice: ciò sarebbe in contraddizione con l’indefettibilità della Chiesa. Ora, nel nostro caso, tra coloro che riconoscono la legittimità di Paolo VI e Giovanni Paolo II, ve ne sono molti che non aderiscono alle novità del Vaticano II; essi, di fatto, non riconoscono Paolo VI e Giovanni Paolo II come regola della fede e quindi, sempre di fatto, non ne riconoscono la legittimità (cf pp. 108-111). Insomma, il fatto che molti cattolici, implicitamente o esplicitamente, non abbiano recepito il Vaticano II, toglie alla tesi dell’accettazione pacifica della Chiesa la sua forza dimostrativa quanto alla legittimità di chi il Concilio ha promulgato.

La santità dell’elezione

Se l’obiezione precedente è effettivamente importante, quella fondata sulla santità dell’elezione non lo è affatto; ma poiché molti fedeli me l’hanno citata, mi sembra opportuno rispondere con le parole stesse di Journet. Molte persone, infatti, credono a torto che sia lo Spirito Santo che garantisce l’elezione ispirando i cardinali, per cui l’eletto del Conclave sarebbe stato scelto direttamente da Dio. Journet ricorda che, quando si parla di santità dell’elezione papale, “non si vuol dire con queste parole che l’elezione del papa si compia sempre con una infallibile assistenza, poiché ci sono dei casi nei quali l’elezione è invalida, nei quali rimane dubbia, nei quali resta quindi in sospeso. Non si vuol neppure dire che sia scelto necessariamente il miglior soggetto. Si vuole solo dire che, se l’elezione è fatta validamente (il che, in sè, è sempre un bene) anche quando fosse il risultato di intrighi e di interventi spiacevoli (ma allora ciò che è peccato resterà peccato davanti a Dio), si è certi che lo Spirito Santo, il quale, al di là dei papi, veglia in modo speciale sulla sua Chiesa, utilizzando non solo il bene, ma anche il male che essi possono fare, non ha potuto volere o almeno permettere questa elezione che per dei fini spirituali la cui bontà si manifesterà a volte senza tardare nel corso della storia, oppure sarà conservata segreta fino alla rivelazione dell’ultimo giorno. Ma son questi misteri nei quali la fede sola può penetrare ” (pp. 978-979). Insomma, la divina Provvidenza veglia in maniera specialissima sulla Chiesa, ma non impedisce che a volte l’elezione papale possa essere nulla, dubbia, oppure, se valida, abbia per oggetto una persona meno degna di questa carica di un’altra. Negli ultimi conclavi quindi Dio ha potuto permettere, per motivi inscrutabili, che fossero eletti dei soggetti che non avevano oggettivamente la volontà abituale di procurare il bene ed il fine della Chiesa, e che pertanto, pur essendo gli eletti del Conclave (“papi” materialiter), hanno posto e pongono tuttora un ostacolo alla ricezione, da parte di Dio, dell’assistenza divina e dell’autorità pontificia (non sono “papi” formaliter) che, se non ci fosse quest’ostacolo sarebbe stata conferita all’eletto del conclave che accetta realmente l’elezione.

Note

1) La lettera Pro grege può essere richiesta al seguente indirizzo: Most Rev. Mark A. Pivarunas, Mater Dei Seminary, 7745 Military Avenue, Omaha, NE 68134-3356, U.S.A.
2) Peter Scott non fa altro che riprendere le due obiezioni già addotte da Mons. Lefebvre nel 1979: “la questione della visibilità della Chiesa è troppo necessaria alla sua esistenza perché Dio possa ometterla durante delle decadi. Il ragionamento di quanti affermano l’inesistenza del Papa mette la Chiesa in una situazione inestricabile. Chi ci dirà dov’è il futuro Papa? Come potrà essere designato, poiché non ci sono più cardinali?” (Fraternité Sacerdotale Saint Pie X, Position de Mgr Lefebvre sur la nouvelle messe et le pape, supplemento a Fideliter, 1980, p. 4).
3) Padre O’Really fu professore dell’Università cattolica di Dublino.
4) Mons. Pivarunas non dà i riferimenti della citazione di Journet. Si tratta dell’Excursus VIII, L’élection du pape dell’opera L’Eglise du Verbe Incarné, Vol. I La Hiérarchie apostolique, p. 976, Ed. Saint Augustin Saint Just-la-Pendue 1998. Il grassetto è di Mons. Pivarunas.
5) Pio IX, con la Costituzione apostolica Cum Romani Pontificibus del 4 dicembre 1869, avendo indetto il Concilio Vaticano I, si preoccupò di precisare le condizione dell’elezione pontificia, in caso di sua morte durante il Concilio. Sull’esempio di Giulio II (durante il quinto concilio lateransense) e di Paolo III e Pio IV (in occasione del concilio di Trento) stabilì che l’elezione era di spettanza esclusiva del Collegio dei Cardinali, con esplicita esclusione dei Padri Conciliari (Insegnamenti Pontifici, La Chiesa, n. 326). Questa prescrizione è stata ripresa da San Pio X (Vacante Sede Apostolica, n. 28) e da Pio XII (Vacantis Apostolicae Sedis, dell’otto dicembre 1945, n. 33). La prescrizione non è solo disciplinare, ma ha un fondamento nel rifiuto delle teorie conciliariste.
6) Spiega Journet: “Nel caso che le condizioni previste fossero divenute inapplicabili, il compito di determinarne di nuove spetterebbe alla Chiesa per devoluzione, prendendo questo termine, come nota Gaetano (Apologia de comparata auctoritate papæ et concilii, cap. XIII, n° 745), non in senso stretto (in senso stretto la devoluzione è in favore dell’autorità superiore in caso di incuria da parte dell’inferiore), ma in senso largo, per indicare ogni trasmissione, anche se fatta a un inferiore” (op.cit., pp. 975-976).
7) Tommaso de Vio, detto Gaetano dal luogo di nascita (Gaeta), visse dal 1468 al 1533. Religioso domenicano nel 1484 iniziò l’insegnamento nel 1493. Fu Maestro generale dell’ordine dal 1508 al 1518, partecipò al V Concilio del Laterano e fu nominato Cardinale nel 1517. Nel 1518 fu legato della Santa Sede per procedere contro Lutero, lavorando alla stesura della bolla di Leone X, Exurge Domine, contro l’eresiarca. Vescovo di Gaeta nel 1519 fu ancora legato in Ungheria dal 1523 al 1524. È sepolto a Roma nella chiesa di santa Maria Sopra Minerva. “Il Gaetano è celebre per i suoi classici commenti a tutta la Somma teologica di san Tommaso, ai quali rimane legato il suo nome e la sua fama più duratura… Particolarmente attaccato alla Sede Apostolica, il Gaetano ne difese con profondità e brio le prerogative nel celebre trattato De auctoritate Papae con relativa Apologia, che stroncò le velleità conciliaristiche di Pisa (1511) e preparò in anticipo la condanna dell’errore gallicano. (…) San Roberto Bellarmino lo definiva ‘uomo di sommo ingegno e di non minore pietà” (Enciclopedia Cattolica, voce De Vio).
8) “Il primo opuscolo, intitolato ‘De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii; fu composto dal Cardinal Gaetano – che lo finì il 12 ottobre 1511 – nell’arco di due mesi. Occasione di questo opuscolo era il Concilio scismatico di Pisa, indetto in quei tempi da alcuni cardinali contro Papa Giulio II; per cui l’Autore si impegna a confutare le tesi cosiddette Gallicane, sostenute fin dal XV secolo in occasione del Concilio di Costanza; innanzitutto la (tesi) di Occam e Gerson, che afferma la superiorità del Concilio sul Papa. Contro (questa tesi), Gaetano dimostra (…) che il Papa, in quanto successore di Pietro, gode del primato, ovvero della piena e suprema potestà ecclesiastica, con tutte le prerogative che gli sono annesse. Il Re di Francia Luigi XII sottopose quest’Opera all’esame dell’Università di Parigi, che affidò la difesa [della propria posizione] al giovane e facondo autore Jacques Almain. Poiché questi compose l’opuscolo ‘De auctoritate Ecclesiæ, seu sacrorum Conciliorum eam repraesentantem, contra Thomam de Vio, Dominicanum’ (Parigi, Jean Granjon, 1512), Gaetano rispose con un altro opuscolo, ovvero l’‘Apologia de comparata auctoritate Papæ et Concilii’, portato a termine il 29 novembre 1512” (nostra traduzione dal latino dell’introduzione di Padre Pollet, o.p., alla riedizione dei due opuscoli del Gaetano, fatta a cura dell’Angelicum, a Roma, nel 1936).
9) “Examinata comparatione potestatis Papæ ad Apostolos ratione sui apostolatus, comparanda modo est Papæ potestas Ecclesiæ universalis seu Concilii universalis potestati, nunc quidem absolute, postmodum vero in eventibus et casibus, ut promisimus. Et quoniam opposita iuxta se posita magis elucescunt, afferam primo rationes primarias in quibus consistit vis, quibus probatur Papam subesse Ecclesiæ seu Concilii universalis iudicio. Et ne contingat sæpius Ecclesiam et Concilium iungere, pro eodem sumantur, quoniam non nisi sicut repraesentans et repraesentatum distinguuntur”.
10) Diciamo “imperfetto” perché, in assenza del Papa, un Concilio generale è appunto imperfetto (cf De comparatione, n° 231, parlando del Concilio di Costanza che si riunì per l’elezione di Martino V), in quanto privo del suo Capo, il quale è il solo a potere convocare, dirigere e confermare un Concilio ecumenico (can. 222; Gaetano, op. cit., cap. XVI). Ricordiamo che – secondo il Gaetano – è lo stesso Concilio generale imperfetto che ha il compito di deporre il Papa eretico (n° 230).
11) “I prelati che sono a capo su di un proprio territorio separato da ogni diocesi,, con clero e popolo, sono detti Abati o Prelati ‘nullius’, cioè di nessuna diocesi…” (can. 319). I Prelati o Abati nullius devono avere le stesse qualità richieste nel vescovo (can. 320§2) ed hanno lo stesso potere ordinario e gli stessi obblighi del vescovo residenziale (can. 323§1) del quale portano l’abito e le insegne liturgiche (can. 325) anche se fossero privi del carattere episcopale.
12) Gli altri Abati ed i superiori delle religioni clericali esenti pur non avendo giurisdizione su di un territorio hanno giurisdizione su delle persone (i propri sudditi) indipendentemente dal Vescovo diocesano. Sono quindi degli Ordinari, anche se non degli Ordinari di luogo (can. 198). Anche in questo caso il criterio per partecipare al Concilio è la giurisdizione e non l’ordine episcopale.
13) Giacché questa posizione rifiuta la successione materiale sulle sedi episcopali, ammessa invece dal sedevacantismo ‘formaliter’ ma non ‘materialiter’ di padre Guérard des Lauriers.
14) Ho già provato altrove (F. Ricossa, Le consacrazioni Episcopali, C.L.S. Verrua Savoia 1997) come la Chiesa insegni che il Vescovo non riceve la giurisdizione da Dio mediante la Consacrazione, ma solo mediante il Papa, anche se il Vaticano II insegna il contrario. Contro questa dottrina insegnata ripetutamente dal magistero ordinario non serve obiettare con esempi storici di elezioni (e consacrazioni) episcopali durante la sede vacante. Queste elezioni dimostrano solo la non illiceità – in caso di sede vacante ad esempio – di consacrazioni episcopali, ma non dimostrano che gli eletti godessero della giurisdizione episcopale, che ricevettero solo, con la conferma della loro elezione canonica, dal nuovo Papa. Ciò non toglie che essi potessero credere in buona fede di avere giurisdizione ancor prima della conferma papale, giacché la dottrina che noi difendiamo (secondo la quale la giurisdizione episcopale viene dal Papa e non dalla consacrazione) è stata precisata dal magistero in periodi successivi a questi fatti storici, mentre era ancora discussa al Concilio di Trento. Segnalo tra l’altro come la dottrina di Gaetano a questo proposito – anche in questo fedele discepolo di san Tommaso – è quella che abbiamo ricordato (cf n°267).
15) Journet conclude rinviando al Dictionnaire de théologie catholique, alla voce Election des papes, per “un esposizione storica delle diverse condizioni nelle quali i papi sono stati eletti”. Ne approfitto per notare quanto sulla questione che stiamo trattando (e non è l’unico caso) il DTC sia deludente. L’estensore della voce “elezione dei papi” infatti si limita ad una esposizione storica omettendo invece il ben più importante punto di vista teologico e dommatico: un punto di vista che ha tratto in inganno – per omissione – non pochi lettori e studiosi.
16) Camillo Card. Mazzella, De Religione et Ecclesia, Praelectiones Scolastico-Dogmaticae,Roma, 1880. Ringrazio Mons. Sanborn, che anni fa mi ha segnalato questa citazione (mentre la colpa della traduzione è tutta mia).
17) Cf San Pio X, ep. Ex quo nono 26/12/111910, DS. 3555, ove viene condannato l’errore opposto professato dagli scismatici orientali. Recentemente invece Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha negato che la Chiesa fosse una monarchia.
18) È stato il caso – tra gli altri – del “veggente” del Palmar de Troya, Clemente Dominguez, che sarebbe stato eletto Papa direttamente dal Cielo dopo la morte di Paolo VI.
19) L’editore Delacroix, ad esempio, ha pubblicato le “Visions de la Vénérable Elisabeth Canori Mora sur l’intervention de Saint Pierre et Saint Paul à la fin des temps” presentando il libretto come una conferma delle conclusioni del libro di don Paladino, L’Eglise eclipsée?, libro pubblicato dal medesimo editore, dove si accenna (p. 274) a queste e altre profezie.
20) Per completezza, riporto la risposta che Mons. Sanborn dà ai sedevacantisti che – implicitamente o esplicitamente – ritengono possibile invece la soluzione del Conclave: “D. Perché il sedevacantismo completo non è una soluzione?
R. Perché priva la Chiesa della possibilità di eleggere un successore legittimo di san Pietro. Esso distrugge fondamentalmente l’apostolicità della Chiesa.
I sedevacantisti completi cercano di risolvere il problema della successione apostolica in due modi. Il primo è il conclavismo. Essi sostengono che la Chiesa è una società che ha il diritto intrinseco di eleggere i propri capi. Ne consegue che il piccolo resto dei fedeli potrebbe riunirsi e leggere un Papa.
Dato e non concesso che una simile impresa possa essere portata a compimento essa solleva alcuni problemi. Primo: chi sarebbe legalmente designato per votare? Come sarebbero designati legalemente questi elettori? Secondo: in nome di qual principio i cattolici potrebbero essere obbligati a riconoscere come legittimo successore di san Pietro colui che vincerebbe una simile elezione? Di fatto il conclavismo non è altro che un elegante eufemismo per designare il regno dell’anarchia dove vige la legge del più forte. La Chiesa cattolica, non è anarchia, ma una società divinamente costituita, retta dalle sue proprie regole e da leggi proprie. In terzo luogo, ed è il punto più importante, non è lecito passare dal diritto naturale che hanno gli uomini a scegliersi dei capi, al diritto di leggere un Papa. La Chiesa non è un istituto naturale allo stesso titolo di una società temporale. I membri della Chiesa cattolica non hanno alcun diritto a designare il Romano Pontefice. È Cristo stesso che all’origine ha scelto san Pietro per essere il romano pontefice ed in seguito le modalità di designazione sono state fissate legalmente”. Mons. Donald J. Sanborn, Explanation of the Thesis of Bishop Guérard des Lauriers, 29/06/2002. Presso l’autore: Most Holy Trinity Seminary 2850 Parent Warren, Michigan 48092 USA bpsanborn@catholicrestoration.org.
21) Quanto abbiamo affermato non è in contrasto con quanto scritto da Mons. Guérard des Lauriers nella medesima intervista pubblicata sul n. 13 di Sodalitium: “in mancanza di M. [ovvero della persona morale – i Vescovi residenziali – abilitati a convocare un Concilio generale imperfetto ove si porrebbero le monizioni canoniche a Giovanni Paolo II] non esiste una soluzione ‘canonica’! Gesù solo rimetterà la Chiesa in ordine, nel e col Trionfo di Sua Madre. Sarà allora evidente per tutti che la salvezza sarà venuta dall’Alto” (p. 30). Questo intervento divino, infatti, non sarà contrario alla divina costituzione della Chiesa quale è stata stabilita da Gesù stesso. Un ritorno dei Vescovi e/o del “papa” materialiter alla professione pubblica della Fede sarebbe (sarà) d’altra parte un miracolo di ordine morale talmente straordinario da eguagliare la conversione di San Paolo. In quali circostanze ciò avverrà, lo ignoriamo.
22) Al proposito il lettore potrà leggere con profitto quanto scritto da Padre Goupil s.j. (L’Eglise, quinta ed., 1946, Laval, pp. 48-49) ed il commento che ne fa B. Lucien (La situation actuelle de l’autorité dans l’Eglise, Bruxelles, 1985, p. 103, n. 132). Vedi anche F. Ricossa, Don Paladino e la Tesi di Cassiciacum, Verrua Savoia, pp. 12-22).
23) B. Lucien, La situation actuelle de l’autorité dans l’Eglise. La Thèse de Cassiciacum, Bruxelles, 1985, capitolo X. D. Sanborn, De Papatu materiali, Verrua Savoia, 2001. La rivista Le sel de la terre contesta, nel suo numero 41, la dimostrazione data da don Sanborn. Ritorneremo sulla questione nel prossimo numero.
24) Lucien, op. cit., p. 107.

Fonte: https://www.sodalitium.biz/lelezione-del-papa/

L’ermeneutica della continuità tra il giovane Ratzinger e l’anziano Benedetto XVI

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Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza

“Il cuore del problema: il modernismo agnostico”, lezione di don Francesco Ricossa al seminario di studi “Noi vogliamo Dio! 1962 – 2012: il Concilio contro la fede, i cattolici contro il Concilio” (Modena, 8/13/2012, VII giornata per la regalità sociale di Cristo):

https://youtu.be/F_g0YyzsmuQ

Foto: Julia Kristeva, la psicanalista e filosofa atea invitata da Benedetto XVI a tenere un discorso alla giornata di Assisi del 2011.

Carlisti… italiani

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Segnalazione del Centro Studi Federici

di don Francesco Ricossa

Nello scorso numero di Sodalitium abbiamo recensito molto positivamente il volume di Francesco Maurizio Di Giovine sugli Zuavi pontifici. Dello stesso autore, sempre con la prefazione del principe Sisto Enrico di Borbone, riceviamo una “Breve storia del Carlismo nella penisola italiana”. 
 
Avendo parlato in un’altra recensione di questo numero della “storia dei tradizionalisti”, intendendo con questo termine designare gli oppositori alle riforme del Vaticano II, possiamo qui aggiungere un capitoetto sul tradizionalismo legittimista, dalla Restaurazione ai giorni nostri, nella versione spagnola del Carlismo. 
 
Se la storia del tradizionalismo carlista e legittimista, anche in Italia, è storia condivisa dall’inizio del Carlismo (verso il 1830) fino alla Guerra di Spagna (1936-1939), tanto è vero che nella nostra biblioteca ben figurano la collezione completa della Voce della Verità e della Voce della Ragione (e questo malgrado le riserve sul tradizionalismo filosofico e religioso di quei tempi, inteso nel senso fideistico), non lo stesso si può dire dei nostri giorni. 
 
Ho vissuto personalmente il passaggio, descritto dall’autore che ne fu protagonista, nel seno del Fronte Monarchico Giovanile dalla monarchia liberale a quella tradizionale, sono stato abbonato e sostenitore dell’Alfiere, rivista tradizionalista napoletana, sono stato e sono fiero di esser stato amico di personaggi come Pino Tosca, o di aver conosciuto Elias de Tejada, ma non ho mai condiviso quel tradizionalismo che combatte, nei convegni storici, i liberali dell’Ottocento, e poi si dice in comunione coi liberali di oggi, quelli che hanno imposto la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanæ personæ, ad esempio. 
 
Il ricordo delle cerimonie di “beatificazione” di Carlo d’Asburgo e dei martiri spagnoli da parte di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI includono ad esempio una insanabile contraddizione. Mi viene alla mente come caso emblematico una fotografia pubblicata recentemente sui giornali in occasione della morte del principe Lillio Ruspoli, nella quale si vede il principe inginocchiato davanti a Benedetto XVI mentre due valletti in abito di corte donano a Ratzinger la bandiera degli Zuavi pontifici, mentre ripenso all’elogio che lo stesso Ratzinger ha fatto dei bersaglieri della Breccia di Porta Pia e alla fine del potere temporale del Papa. I modernisti odierni sono mille volte più ingiuriosi a Dio dei liberali di ieri, e noi dovremmo giustamente inveire contro dei nemici morti, e poi omaggiare quelli vivi? 
 
Fatte queste debite riserve, non posso che raccomandare il libro recensito, sempre ricco di informazioni e scritto con acribia, che aggiunge un tassello importante alla storia del tradizionalismo italiano. 
 
Un’ultima perplessità: nella quarta di copertina si legge: “La Spagna non conobbe la riforma protestante… La penisola italiana, al contrario, subì tutte le influenze della riforma protestante…”: Paolo IV, che di protestanti, alumbrados e marrani se ne intendeva, non sarebbe certo stato d’accordo, tanto più che le influenze protestanti in Italia venivano dallo “spagnolo” Juan de Valdès. Viva Filippo II, certo, ma ancor più: viva san Pio V! 
 
Francesco Maurizio Di Giovine, Breve storia del Carlismo nella penisola italiana, Solfanelli, 2022. 
 
 
Per cancellarsi dalla lista di distribuzione:

Strenne natalizie: il n. 73 della rivista Sodalitium

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Segnalazioni del Centro Studi Federici

Sodalitium n.73, dicembre 2022
Editoriale
 
Cari lettori, ci avviciniamo ormai al nuovo anno, anche se spero che questo nuovo numero di Sodalitium giungerà nelle vostre case prima del Santo Natale (non ci giurerei!). Abbiamo pensato di dedicare il nostro calendario bilingue per l’anno 2023 al papa Leone XIII, che morì nel 1903, e a cui successe sul trono di Pietro san Pio X.
 
Nel 2023 ricorrerà un altro anniversario, che riguarda più da vicino la nostra rivista: era il Natale del 1983 quando uscì il suo primo numero, per cui ci avviciniamo al quarantennale del nostro bollettino. Durante tutti questi anni, abbiamo constatato, purtroppo, il continuo aggravarsi della situazione nella Chiesa e nella società: la rivoluzione avanza, anche grazie al modernismo, il traditore della Chiesa. Abbiamo però anche vissuto e condiviso con voi tanti momenti di grazia – che forse non fanno rumore, ma che certamente hanno un maggior valore rispetto al male che ci circonda. Alcuni di voi mi hanno confidato che la prima rubrica che leggono nel bollettino è la “vita dell’Istituto”, e in fondo questo non mi dispiace, perché, al di là dell’elenco (che può sembrare freddo) di nomi, date e avvenimenti, vi è in realtà la traccia di tante grazie e dell’azione sovrannaturale di Dio nelle anime. 
 
Questo numero è un po’ particolare. Avevo promesso la pubblicazione di una risposta alla serie di 15 puntate di un confratello contro mons. Benigni e i cattolici integrali, e di questo studio avevo dato anche il sommario (provvisorio). Al di là del motivo occasionale dell’articolo, avevo colto la possibilità di tracciare un panorama dei primi trent’anni del Novecento nella storia della Chiesa, quando si posero le basi remote della crisi conciliare che mina la Chiesa dall’interno, portando tante anime alla rovina. Il lavoro, già corposo allora, è diventato ancora più impegnativo, per cui era proprio impossibile pubblicarlo in questo numero di Sodalitium. Mi riservo quindi di pubblicarlo a parte, o in un libro, o in un numero speciale della rivista interamente dedicato alla “difesa di mons. Benigni”.
 
Non mancano però anche nel presente numero di Sodalitium gli articoli sulla storia della Chiesa: uno più legato alla crisi attuale, di don Giugni, dedicato alla figura di Paolo VI; un altro di don Steenbergen per l’anniversario di papa Adriano VI, suo connazionale, che fu eletto nel 1522 e morì nel 1523, ultimo Papa (legittimo) non italiano, che sedette sulla Sede di Pietro in un periodo come il presente burrascoso e terribile per la Chiesa. Don Carandino nelle sue recensioni continua a presentarci la vita di tanti Santi piemontesi, e in questo numero ci presenta anche la vita religiosa com’è vissuta dai frati del nostro Istituto. Sodalitium annovera poi un nuovo collaboratore nella persona di don Coradello, che riceverà a Dio piacendo, l’ordinazione sacerdotale nel corso del 2023, ricordando il grande tesoro del Sacrificio della Messa e il modo di assistervi.
 
Spero che anche questo numero potrà essere di aiuto alle vostre anime e di sostegno alla vostra Fede, minacciata da tanti pericoli. La preparazione al Natale, la bella e cara festività della nascita del Signore, le feste che seguiranno fino all’Epifania, ci ricordano il cuore della nostra Fede cristiana: il mistero dell’Incarnazione, mistero al quale è inseparabilmente unita la Vergine Santissima, alla quale raccomando ciascuno di voi e le vostre famiglie.
 
Nella festa di Cristo Re
don Francesco Ricossa
 
 
 

Il latino unisce le diocesi di tutto il mondo alla Chiesa Romana e alla Sede di Pietro

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI 

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/11/28/il-latino-unisce-le-diocesi-di-tutto-il-mondo-alla-chiesa-romana-e-alla-sede-di-pietro/

PERCHÉ ANDARE ALLA MESSA IN LATINO

Anche se Paolo VI celebrò, per la prima volta, la Messa in italiano Domenica 7 Marzo 1965, la data dell’entrata in vigore del Novus Ordo Missae in tutte le parrocchie è quella della Prima Domenica di Avvento del 1969 ossia 52 anni fa, da ieri.

Dal Giovedì Santo dell’anno 33 d.C., giorno in cui Nostro Signore Gesù ha celebrato la prima Messa, insegnando agli Apostoli, ossia ai primi Vescovi, i fondamentali del mirabile Mistero della Transustanziazione, ovvero sulla trasformazione di pane e vino nel Suo corpo, sangue, anima e divinità, attraverso formule ben precise, che solo il sacerdote può realizzare, la Chiesa ha elaborato il rito romano aggiungendo, progressivamente, preghiere conformi al Dogma per arricchire la liturgia.

Questa Messa fu celebrata sempre e codificata da san Pio V, a seguito della Controriforma e del Concilio di Trento. Questo atto si rese necessario per ovviare alle eresie di Lutero. La Bolla Quo Primum Tempore servì da accompagnamento al Messale e stabilì l’indulto perpetuo per la Sua celebrazione, prevedendo l’anatema per chiunque ne avesse l’ardire di cambiare anche uno iota.

Una risposta magisteriale potente della Chiesa Cattolica che, dunque, estendeva a tutti, non solo a Lutero, il dovere di attenersi all’unico rito che esprimeva in maniera perfetta la Fede tramandata fin dai secoli precedenti.

La lingua propria della Chiesa Romana è la latina“, scrive san Pio X nella “Tra le sollecitudini” del 22 novembre 1903.

Leone XIII ha insegnato che “Gesù Cristo scelse per sé e consacrò la sola città romana. È qui che volle restasse in perpetuo la sede del suo Vicario“.

Papa Gelasio disse che “per mirabile disposizione di Cristo“, san Pietro scelse Roma come sede episcopale del Principe degli Apostoli. L’utilizzo della lingua latina unisce le diocesi di tutto il mondo alla Chiesa Romana e alla Sede di Pietro.

La Chiesa – scrisse Pio XI nell’Officiorum Omnium del 1° agosto 1922 – abbracciando nel suo seno tutte le Nazioni […] esige per la sua stessa natura una lingua universale“.

Al contrario, lo scisma orientale e la pseudo-riforma protestante rompendo l’unità cattolica, hanno creato “chiese” autocefale e nazionali.

Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947, attesta che l’uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, “è un chiaro e nobile segno di unità”, poiché l’unità si può fare solo nella Verità, non nella convivenza tra essa e l’errore.

Come possono rispondere oggi alla domanda “perché dite la Messa in latino?” i sacerdoti che lo fanno? In maniera succinta ma che dice tutto don Francesco Ricossa ha risposto così: “semplicemente perché così lo vuole la Chiesa Cattolica, nelle sue rubriche liturgiche e nelle sue leggi canoniche (can. 819 e 1257). Semplicemente, perché siamo Sacerdoti cattolici di rito latino“.

La domanda è stata posta recentemente anche al sottoscritto durante un dibattito sul canale televisivo nazionale La7. Ho replicato così: “andiamo alla Messa in latino perché siamo fedeli cattolici di rito romano; perché la Messa di San Pio V esprime in maniera perfetta la Fede che professiamo e non tolleriamo che la Tradizione venga adulterata, perché il Depositum Fidei non è ‘proprietà privata’ di nessuno, ma un tesoro da tramandare ed arricchire“.

Perciò non abbiamo alcuno scrupolo di coscienza nell’andare alla stessa Messa in cui si sono santificati tutti i più grandi santi della storia della Chiesa, da san Francesco d’Assisi a Padre Pio da Pietrelcina, da san Domenico a Massimiliano Kolbe e tanti altri.

I due che erano tre: don Ricossa scrive ad Aldo Maria Valli

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Segnalazione del Centro Studi Federici

“Con don Alberto e don Stefano c’era anche don Marco. Che ora collabora con l’Istituto Mater Boni Consilii”
 
Caro Valli,
 
leggo su Duc in altum vari articoli in difesa di “don Alberto e don Stefano” dai quali il loro vescovo esige, secondo il motu proprio Summorum Pontificum prima ancora che di Traditionis custodes, di riconoscere validità, legittimità e santità del nuovo rito, per poter ancora celebrare con l’antico.
 
Tutti si dimenticano che i due sacerdoti erano tre: con loro c’era anche don Marco. Dov’è finito don Marco? Proprio perché non riconosceva validità, legittimità e santità del nuovo rito, non si appoggia più al motu proprio Summorum Pontificum, non riconosce la legittimità di chi ha promulgato detto nuovo rito della messa, e anche quello dell’ordinazione sacerdotale, e ora collabora coll’Istituto Mater Boni Consilii.
 
Facciano così anche don Alberto e don Stefano, oppure accettino sinceramente le esigenze del Summorum Pontificum e di Traditionis custodes che, a loro parere, sono atti promulgati dal Vicario di Cristo.
 
Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, ovverosia far uso del suddetto motu proprio senza accettarne però le condizioni. Un’alternativa c’è, ed è quella abbracciata dal loro confratello, del quale tutti sembrano essersi dimenticati.
 
Un caro saluto
 
don Francesco Ricossa
 
 
 

Calendario Sodalitium 2023: Leone XIII e il suo magistero a 120 anni dalla morte

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Segnalazione del Centro Studi Federici

di don Francesco Ricossa

Leone XIII e il suo magistero a 120 anni dalla morte
 
Il 20 luglio 1903, 120 anni fa, moriva in Vaticano Papa Leone XIII; il 4 agosto successivo veniva eletto come suo successore il cardinale Sarto, che prese il nome di Pio X e veneriamo come nostro Santo protettore (assieme alla Madonna del Buon Consiglio, a san Giuseppe e a san Pio V). Nato nel 1810 a Carpineto Romano, e battezzato col nome di Vincenzo Gioachino Pecci, fu ordinato sacerdote nel 1837, nominato vescovo nel 1843 da Papa Gregorio XVI, creato cardinale da Pio IX nel 1853, ed eletto suo successore nel 1878. Prima della sua esaltazione al Sommo Pontificato servì la Santa Sede nella diplomazia (nunzio in Belgio), nell’amministrazione del potere temporale della Chiesa (delegato a Benevento, Spoleto e Perugia) e nel ministero episcopale (arcivescovo di Perugia).
 
Dedicandogli questo calendario, vogliamo rendere omaggio a un grande Pontefice che volle imitare un suo predecessore, l’illustre Innocenzo III, il quale riposò nella sua Perugia e di cui volle portare le spoglie a Roma.
Per ben comprendere il pontificato di Leone XIII e soprattutto il suo magistero, bisogna tener presente la sua fedeltà al Dottore comune, San Tommaso d’Aquino. Suo il grande, grandissimo merito di rimettere in onore la filosofia scolastica ed il pensiero del Dottore Angelico nell’enciclica Æterni Patris: tutto il suo insegnamento deve considerarsi come un’applicazione di questi grandi principi. A torto qualcuno ha visto nel suo pontificato una mano tesa al mondo moderno nato dalla Rivoluzione; al contrario, lo scopo del Pontefice era la restaurazione della Cristianità medioevale così ben rappresentata dal già citato Innocenzo III, erede di quella civiltà cristiana e romana ben incarnata dal patrono di Leone XIII, San Leone Magno. Contro il “diritto nuovo”, egli ricordò i grandi princìpi dello Stato e della Società cristiana, iniziando dal rammentare che la sovranità non viene dal basso, ma dall’alto, ovvero da Dio. Contro il falso concetto di libertà, ricordò, al seguito di San Tommaso, il vero e genuino concetto di libertà, che ha per oggetto il bene, e non il male. Riconobbe nella setta massonica l’opera tenebrosa di Lucifero e il nemico dichiarato della Chiesa: di tutti i Papi fu certamente il più attivo nel combattere il naturalismo massonico che oltraggiava la Chiesa in Roma stessa, col sindaco Nathan e il monumento a Giordano Bruno. Per questo fu convinto assertore dei diritti violati della Santa Sede anche quanto al potere temporale, ben conscio di come la setta massonica, attraverso la secolarizzazione della società laicizzata, l’attacco alla famiglia e l’ostacolo posto alla libertà e indipendenza del Sommo Pontefice, intendesse distruggere lo stesso Papato e con esso la Chiesa di Gesù Cristo, la rivelazione divina, la vita sovrannaturale.
 
Leone XIII ebbe modo anche di avvedersi dei prodromi della crisi che stava per manifestarsi all’interno della Chiesa stessa: per questo diede un duro colpo al movimento ecumenico con la dichiarazione sull’invalidità delle ordinazioni anglicane (Bolla Apostolicæ curaæ, 1896) e con l’enciclica sull’unità della Chiesa Satis cognitum. Diede anche le prime condanne al nascente modernismo, nel campo della spiritualità (condanna dell’americanismo con Testem benevolentiæ, 1899) come nel campo dell’attività politico-sociale (enciclica Graves de communi, 1901). Con l’enciclica Rerum novarum, sulla questione operaia, si opponeva sia al socialismo sia al liberalismo, rinnovando l’alleanza tra la Chiesa e il popolo e ponendo le basi di una società veramente cristiana. Affidò questo grande progetto alla protezione della Santissima Vergine: devotissimo alla Madonna del Buon Consiglio, Leone XIII raccomandò a tutti la recita del Santo Rosario in tante encicliche, ben sapendo come nella meditazione dei misteri dell’Incarnazione, della Passione e della Resurrezione del Signore, con gli occhi e i sentimenti della SS. Vergine, il popolo cristiano avrebbe mantenuto viva la Fede.
 
Durante il suo lungo pontificato non mancarono, è vero, anche gli insuccessi. Vana fu la sua attenzione all’Oriente, nella speranza di ricondurlo all’unità cattolica. Dura fu la persecuzione che dovette subire dai nemici della Chiesa un po’ ovunque durante l’Ottocento anticlericale, dal  tedesco, ai governi massonici in tutto il mondo, specie nelle vicine Italia e Francia. Soprattutto da quel paese vennero cocenti delusioni, e sarà il suo successore, san Pio X, che con coraggio intrepido e distacco da ogni bene terreno, con libertà evangelica, affronterà la separazione tra Stato e Chiesa, la cacciata dei religiosi, la confisca dei beni della Chiesa, facendo rinascere la Chiesa di Francia e condannando le false interpretazioni del magistero leonino (come quella del Sillon). Leone XIII vide anche la stringente necessità di sviluppare e ammodernare gli studi ecclesiastici, un programma pienamente condiviso dal giovane perugino Umberto Benigni; ma sulla fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si faceva già luce il tradimento di questo bel programma da parte dei modernisti: sarà san Pio X (nominato vescovo nel 1884 e creato cardinale nel 1893 proprio da Leone XIII) a dover affrontare il pericolo mortale, per “restaurare ogni cosa in Cristo”.
 
Ogni mese del nuovo anno può essere un’occasione per i nostri lettori di leggere una o più encicliche di questo grande Papa, che abbiamo scelto, in quest’occasione, di onorare.
 
Don Francesco Ricossa
 
 
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