Guerra aperta

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di Lorenzo Merlo

Ora che i contendenti non sono più occultabili, e così la posta in gioco – egemonia mondiale americana, sopravvivenza della Russia e suo spazio nel mondo – anche le armi finora tenute a freno potrebbero avere occasione di uscire dal cassetto e far risuonare la loro voce in campo aperto.

Finora era stata una guerra chiusa. Nel senso che, agli angoli del quadrato, c’erano i contendenti chiusi entro il dibattito delle reciproche ragioni. Diritto internazionale, stato sovrano e questione interna per l’Ucraina, Accordi di Kiev, armamenti sul confine e nazismo antirussofono per la Russia.

Tra gli sfidanti, sul tappeto del ring, si sono succeduti diversi arbitri che non sono riusciti a ridurre lo scontro fino ad un accordo di pace.

In platea, a guardare l’incontro, il resto del mondo: inizialmente apparentemente estraneo e poi accalcatosi in curve opposte. Chi dava sostegno all’Ucraina e chi no. Chi si univa intorno all’idea della multipolarità e chi sbraitava per non perdere l’egemonia mondiale che – credeva – gli spettasse di diritto divino.

Agli angoli, la squadra americana sosteneva il proprio combattente, nonostante fosse più volte sembrato sul punto di cedere. Dall’altro lato, sapevano delle sostanze proibite che venivano somministrare all’uomo giallo-azzurro.

Il combattimento procedeva, il sangue versato non contava niente. Fuori dallo stadio, il tifo si diffondeva a macchia d’olio sull’irrefrenabile onda delle emozioni. Gli altoparlanti rivolti al mondo potevano dire qualunque cosa tornasse funzionale ai loro interessi, certi che sarebbero stati ascoltati e creduti. Lo scontro, che era praticamente globale, pareva procedere su un riff nel quale danzava la speranza che qualcuno o qualcosa potesse trovare come ridurre il conflitto, accontentare i contendenti e cessare di temere il peggio per loro e soprattutto per noi.

Alla faccia di quella speranza, neri assi sono usciti dalle maniche e ora sono sul tavolo.

Le corde che contenevano il ring hanno ceduto. Il campo che era chiuso ora è aperto. Le regole che valevano – o, per meglio dire, che erano presenti – non contano più nulla. Vale tutto.

I referendum delle repubbliche russofone – Crimea a parte, in quanto già consumato – e il sabotaggio dei gasdotti sono colpi sotto la cintola di uno scontro senza più spazio per alcun arbitro.

La mossa di Putin impone la legalizzazione del referendum per l’indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008, finora ritenuto inaccettabile dalla Serbia, dalla Russia, dalla Cina e da molti altri paesi, europei e non (1). Permette, in linea teorica e legittima, un eventuale referendum per l’indipendenza di Taiwan e del Kurdistan, turco e non solo. Praticamente nuovi macelli potrebbero prendere la scena sul palco della storia.

Non a caso, Erdogan ha preso le distanze dalla scelta di Putin e Xin Pi: in stile confuciano, si è astenuto dal proferire parole a sostegno del presidente della Federazione russa.

Chi, a questo punto, volesse riconoscere i nuovi confini stabiliti dai referendum plebiscitari, contemporaneamente accenderebbe una miccia che altri popoli potrebbero raccogliere per dar fuoco alle loro polveri di autodeterminazione.

Dal lato opposto, i sabotaggi dei gasdotti non sono altro che un’azione già messa in conto dagli americani – chi storce il naso, spieghi bene cosa volessero dire le esplicite affermazioni del Sottosegretario di stato per gli affari politici Victoria Nuland e del presidente Biden (2) – per sparigliare la partita.

Questa, come la stampaccia di regime ha sempre negato, lasciando ai “miserabili del web” (3), antesignani inclusi (4), il dovere di farlo presente fin da subito, non è tra Ucraina e Russia. Riguarda l’egemonia sul mondo. Riguarda gli americani che, alla faccia delle critiche morali, hanno saputo elaborare e attuare una strategia di provocazioni a vario livello che, al momento, pare ancora valida.

Chi aveva pensato fin da subito che nei loro progetti, oltre all’indebolimento della Russia, c’era anche quello dell’Europa, forza industriale germanica in primis?

Un’Europa rivolta a Est non era mai stata così sconveniente per quella ontologica lotta egemonica a cui, fin dal Destino manifesto (5), gli americani non potevano rinunciare. Meglio prenderla al lazo.

Rompere i tubi a che altro potrebbe servire?

Note

(1)   Su 193 paesi facenti parte dell’ONU, 98 hanno formalmente riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. A questi si aggiungono Taiwan, le Isole Cook e il Niue, non membri dell’ONU. Hanno, invece, esteso e poi ritirato il loro riconoscimento i seguenti paesi: Suriname, Burundi, Papua Nuova Guinea, Lesotho, Comore, Dominica, Grenada, Isole Salomone, Madagascar, Palau, Togo, Repubblica Centrafricana, Ghana, Nauru, Sierra Leone.

Fra i 27 paesi dell’Unione Europea, 22 hanno riconosciuto l’indipendenza. Vi si oppongono ancora Spagna, Cipro, Grecia, Romania e Slovacchia.

(In caso di referendum che non dovessero ottenere l’indipendenza, il sostegno alla consultazione popolare da parte di stati terzi potrebbe sparigliare comunque il castello di carta dell’equilibrio geopolitico).

(2)   Nuland, 27 gennaio 2022: “Vorrei dire francamente: se la Russia invaderà l’Ucraina, in ogni caso, il Nord Stream 2 non funzionerà”. https://piccolenote.ilgiornale.it/mondo/il-sabotaggio-ai-gasdotti-e-la-profezia-della-nuland

https://www.youtube.com/shorts/igAfB8LdZaE

Biden, 7 febbraio 2022: “Se la Russia invade l’Ucraina, stop al gasdotto Nord Stream 2”.

https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/usa-biden-incontra-scholz-se-la-russia-invade-l-ucraina-stop-a-nord-stream-2_45480743-202202k.shtml

https://www.youtube.com/watch?v=b3fUd8hmgy8  https://www.youtube.com/watch?v=-pbMqY8xzfA

(3)   https://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/guerra-di-bombe-e-di-propaganda-otto-e-mezzo-puntata-del-1632022-16-03-2022-429219 min. 5.21.

(4)   Giulietto Chiesa: Telegram, https://t.me/nonsiamoinvisibilicanale, 30/09/2022, h. 12.59.

(5)   Stephanson Anders, Destino manifesto – L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli, 2004

L’incombente nuovo ordine mondiale sfida il potere degli Stati Uniti

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di James O’Neill 

Fonte: controinformazione

Moltissimi giornali online sostengono che la guerra in Ucraina sta segnando la fine dell’era dominata dal potere occidentale. Ci sono affermazioni che sostengono che il conflitto militare è stato uno spartiacque che ha segnato una rottura con il passato e l’inizio di una nuova realtà geopolitica.
È questa una tesi che vale la pena di approfondire un po’ perché, se vera, segna la fine di un lungo periodo di dominio occidentale dell’ordine mondiale.

Il conflitto in Ucraina è molto più ampio di una disputa relativamente stretta tra due vicini. L’origine della controversia è completamente trascurata nei resoconti occidentali del conflitto. Otto anni fa, il governo legittimamente eletto dell’Ucraina è stato rovesciato con un colpo di stato sostenuto dagli americani. Il suo presidente fu costretto all’esilio e sostituito da un regime francamente di natura totalitaria e cooptato da gruppi neonazisti.

Questa situazione non è stata accettata né dalla penisola di Crimea né dalle due province orientali del Donbass. La Crimea ha tenuto una votazione e la stragrande maggioranza della popolazione ha deciso di lasciare l’Ucraina e ritornare in Russia. La parola “ritorno” è la chiave. La Crimea fu donata dall’ex presidente sovietico Krusciov nel 1954, senza che i desideri della popolazione venissero consultati. La Crimea ha fatto parte della Russia per centinaia di anni. Gli inglesi (e gli austriaci) vi avevano combattuto una guerra negli anni ’50 dell’Ottocento.

La guerra di Crimea era una guerra contro la Russia e nessuno la considerava diversamente. Il ritorno della Crimea in Russia ha fatto seguito a un voto democratico che non è mai stato accettato dall’Occidente. Il confronto tra quanto accaduto in Crimea e quanto accaduto nel territorio separatista del Kosovo dalla Serbia è molto eloquente. Quest’ultimo è stato accettato dalle potenze occidentali e il Kosovo è ora una delle principali basi militari degli Stati Uniti.

Allo stesso modo è trascurato dai media occidentali che la rottura del Donbass non è mai stata accettata dal governo ucraino. Hanno combattuto una guerra contro le due regioni separatiste negli ultimi otto anni. Almeno 16.000 persone sono state uccise e più di un milione sono state costrette all’esilio.

Questa storia è completamente ignorata dai media occidentali che trattano l’intervento russo nel febbraio 2022 come una “invasione” piuttosto che come un intervento che ha fermato un’invasione ucraina pianificata che senza dubbio ne avrebbe uccisi altre migliaia.

La reazione occidentale all’intervento russo nella guerra è molto rivelatrice. Nonostante tutta la loro fede dichiarata nell ‘”ordine internazionale basato sulle regole”, questo non ha impedito alle potenze occidentali di sequestrare 300 miliardi di dollari di attività russe detenute all’estero. Non hanno intenzione di restituire mai questi soldi.

Le questioni più grandi in gioco sollevate dall’intervento russo nel Donbass sono state evidenziate dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov in un’intervista rilasciata ai media russi la scorsa settimana. Lavrov ha affermato che “l’operazione militare speciale mira a porre fine alle espansioni illimitate e al corso illimitato verso il dominio totale degli Stati Uniti e degli altri stati occidentali sotto le frontiere russe e sull’arena internazionale”.

Lavrov ha anche richiamato l’attenzione sul fatto che gli Stati Uniti hanno sviluppato armi biologiche e laboratori militari in più basi in Ucraina. È impossibile concepire una spiegazione innocente per queste basi. Questi laboratori avevano chiaramente lo scopo di sviluppare armi biologiche da usare contro la Russia. Eppure l’esistenza di queste strutture è stata completamente ignorata dai media occidentali.
Al contrario, hanno promosso la mitica paura che la Russia possa usare armi chimiche nel suo conflitto con l’Ucraina. L’ipocrisia in questa affermazione è mozzafiato.

I media occidentali ignorano anche il fatto che la Russia non è sola nelle sue preoccupazioni. È sostenuto non solo dalla Cina e dall’India, ma dalla grande maggioranza del cosiddetto mondo in via di sviluppo che rifiuta di accettare che l’Occidente debba continuare il suo ruolo di determinare ciò che è giusto e sbagliato nel mondo intero.

Quello a cui stiamo effettivamente assistendo ora è un rifiuto da parte del maggior numero delle nazioni del mondo dell’era del dominio degli Stati Uniti. Parte di questo rifiuto si manifesta in un uso crescente di valute diverse dal dollaro statunitense per il commercio internazionale. Questo è estremamente significativo.
Gli Stati Uniti hanno utilizzato il ruolo del dollaro come veicolo principale per il controllo delle nazioni. Quell’era sta rapidamente volgendo al termine.

Guerra valutaria contro il dollaro

Il taglio dei legami dell’Europa con la Russia è un esempio di un esercizio completamente controproducente. L’Europa fa affidamento sulla Russia per almeno il 40% del suo fabbisogno energetico. Quanto durerà l’antipatia europea nei confronti della Russia, quando le loro industrie chiuderanno e i loro cittadini si congeleranno dal freddo, questa è una questione aperta. Alcuni paesi europei come l’Ungheria hanno rifiutato questa politica manifestamente egoistica e hanno rafforzato le loro relazioni con la Russia. Altri, come la Polonia, persistono nel loro modo manifestamente autolesionista.

Il cambiamento tettonico che sta avvenendo nelle relazioni della Russia con l’Occidente è stato recentemente delineato in un’intervista rilasciata dall’economista dell’EAEU Sergey Glazyev. In quell’intervista recentemente rilasciata al giornalista Pepe Escobar da Glazyev, questi ha delineato l’evoluzione di un nuovo ordine finanziario globale che sta sostituendo il sistema basato sul dollaro degli Stati Uniti.

Glazyev chiarisce che il nuovo sistema di pagamenti non basati sul dollaro ha lo scopo esplicito di porre fine al ruolo del dollaro nel sostenere l’imperialismo valutario occidentale. La guerra in Ucraina accelererà questi sviluppi. È improbabile che gli Stati Uniti accettino passivamente la minimizzazione del ruolo del dollaro e la loro reazione a questo sviluppo pone ulteriori minacce al mondo.

 

 

 

Summit dei BRICS con Erdogan osservatore

Che la Russia sia profondamente consapevole dei rischi è stato chiarito nel lungo discorso di Putin del 21 febbraio 2022. Quel discorso ha riconosciuto la realtà esposta da Fyodor Lukyanov in un importante articolo che ha scritto il 13 aprile 2022 “Il vecchio pensiero per il nostro paese e il mondo ” e pubblicato su Russian Global Affairs. Lukyanov ha detto: “ dobbiamo sottolineare che l’attuale crisi mondiale non è stata promossa dall’operazione militare speciale in Ucraina. Questa crisi è stata generata molto tempo fa dall’ostinata riluttanza dei leader dell’ordine liberale a rinunciare ai privilegi che hanno ottenuto dopo la Guerra Fredda”.

È questo mondo che ora sta cambiando e molto rapidamente. I BRICS e la SCO stanno guidando questi cambiamenti. La domanda è se la transizione può essere raggiunta pacificamente, o gli Stati Uniti inizieranno un’altra guerra nel vano tentativo di riconquistare il proprio ruolo di potenza dominante del mondo.

James O’Neill, un ex avvocato con sede in Australia, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook” .

I migranti al confine polacco e le scelte della Ue: due pesi e due misure?

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di Ferdinando Bergamaschi

Migranti al confine tra Bielorussia e Polonia: chi sono? Probabilmente iracheni e più in generale mediorientali. Ma soprattutto: è questa una migrazione spontanea o indotta? Tutto fa pensare che non vi sia nulla di naturale in questo fenomeno. Dai protagonisti che sono coinvolti in questa situazione, al tempismo degli eventi, alle implicazioni geopolitiche: tutto sembra rimandare a una lettura di una situazione forzata e forse pianificata. 

Partiamo dai fatti: martedì scorso la Polonia ha annunciato di aver arrestato oltre 50 migranti al confine con la Bielorussia, e precisamente vicino a Bialowieza. In  mattinata il ministro della Difesa polacco, Mariusz Baszczak, ha reso noto che erano stati fatti molti tentativi di violare il confine con la Bielorussia nella notte. E ha aggiunto di aver aumentato a 15.000 il numero dei soldati dell’esercito polacco alla frontiera. A pressare sul confine ci sono infatti centinaia di migranti. Uomini e donne che pagano dai 5.000 ai 15.000 dollari per giungere in Europa. E sono stati illusi dal governo di Minsk di poterlo fare.  

Il gioco della Bielorussia 

Secondo il Guardian, i migranti sarebbero stati attirati dalla Bielorussia, che avrebbe concesso il visto e offerto loro voli per raggiungere Minsk, la capitale del Paese, promettendo poi di portarli nell’Unione europea. Una volta raggiunto il confine, però, i migranti non sono riusciti a entrare in Polonia perché il Governo di Varsavia da giorni presidia con le sue truppe le frontiere con la Bielorussia. 

Per questo il presidente polacco Mateusz Morawiecki ha affermato che è necessario bloccare i voli dal Medio Oriente per la Bielorussia e concordare con la Ue nuove sanzioni contro il regime di Aleksandr Lukashenko. Il premier polacco, in conferenza stampa congiunta con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha parlato di “terrorismo di Stato” da parte di Minsk. 

Due pese e due misure

In questo contesto Michel ha aperto alla possibilità di finanziare muri a protezione dei confini polacchi: “È legalmente possibile nell’ambito del quadro legale attuale, finanziare infrastrutture per la protezione dei confini dell’Ue”. E poi ha insistito proprio sul concetto che difendere i confini polacchi, così come quelli lituani significhi proteggere i confini della Ue. Una posizione che ha spiazzato molti, anche in virtù della forte polemica che lo scorso anno l’Unione Europea aveva portato avanti contro la linea di Donald Trump che voleva proseguire la costruzione del muro al confine col Messico.

In più, la solerzia con cui Bruxelles si è mossa per salvaguardare i confini orientali dell’Unione europea è quantomeno sospetta, guardando all’inerzia con la quale affronta il fenomeno migratorio ai suoi confini meridionali. Come se ci fossero due pesi e due misure: quando la rotta punta alla Germania, l’atteggiamento dell’Europa è ben diverso rispetto a quando punta all’Italia. 

Nuove sanzioni

Intanto l’asse tra Ue e Usa si è mosso prontamente. Al termine dell’incontro a Washington con il presidente americano Joe Biden, la presidente della Commissione Ue  Ursula von der Leyen ha affermato: “Estenderemo le nostre sanzioni contro la Bielorussia all’inizio della prossima settimana; e gli Stati Uniti prepareranno sanzioni che saranno in vigore da inizio dicembre”. Aggiungendo che “con il presidente americano guarderemo alla possibilità di sanzionare quelle compagnie aeree che facilitano il traffico di esseri umani verso Minsk e il confine tra Bielorussia e Ue”. 

Sanzioni di per sé ineccepibili, ma anche in questo caso non si può non notare una grande incongruenza. Infatti quando era Erdogan a minacciare di far entrare in Europa due milioni di profughi siriani, Bruxelles aveva concesso sei miliardi di euro al Governo turco per la gestione della situazione migratoria. 

Il ruolo di Mosca 

Molti analisti sostengono che dietro alla “guerra ibrida” di Lukashenko vi sia la Russia. La Bielorussia infatti è una stretta alleata di Mosca. E non è difficile immaginare che Vladimir Putin abbia tutto l’interesse ad indebolire e dividere l’Unione europea, che tra l’altro ha visto al suo interno uno scontro recente proprio con la Polonia per l’applicazione dei suoi dettami costituzionali rispetto alle norme dell’Unione. La stessa Ue ha poi sanzionato la Russia e recentemente è arrivata ai ferri corti con il Cremlino per l’aumento dei prezzi del gas. 

Mosca comunque ha respinto le accuse di chi, come il premier Morawiecki, ritiene ci sia il Cremlino dietro la crisi migratoria al confine con la Bielorussia. Il portavoce del Governo, Dmitry Peskov, ha affermato di considerare “del tutto irresponsabili e inaccettabili le dichiarazioni del primo ministro polacco secondo cui la Russia è responsabile di questa situazione”. Dal canto suo il presidente Putin ha rincarato la dose puntando il dito su Bruxelles: “Le organizzazioni criminali impegnate nel traffico di esseri umani hanno sede in Europa”, ha detto. “È dunque compito della Ue gestire il problema”. 

Comunque stiano le cose, Angela Merkel ha voluto telefonare al presidente russo. Nel colloquio la cancelliera tedesca gli ha chiesto di intervenire ed esercitare la sua influenza su Lukashenko, definendo “disumana e del tutto inaccettabile” la strumentalizzazione dei migranti a cui stiamo assistendo.

L’alba di un nuovo Medio Oriente

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Segnalazione di Redazione Il Faro sul Mondo

di Salvo Ardizzone

Il radicale ribaltamento della situazione in Medio Oriente, già in corso da tempo e reso più celere dall’accordo sul nucleare iraniano, ha subito una nuova brusca accelerazione con la scesa in campo della Russia. Per comprendere la portata di eventi destinati a ridisegnare tutta l’area, ed avere ripercussioni globali, occorre fare un passo indietro alle radici degli equilibri di forza che hanno cristallizzato per un tempo lunghissimo quel quadrante a beneficio, più che di Stati, di centri di potere che ne hanno tratto utili immensi.

Il legame stretto che ha unito le enormi riserve energetiche del Golfo alle Major Usa del petrolio, ha determinato un interesse primario delle Amministrazioni che si sono succedute a Washington a tutelare quei petrostati, e più d’ogni altro l’Arabia Saudita. Un legame antico, reso “speciale” dai colossali interessi che ha coinvolto, creatosi oltre sessant’anni fa.

Allora, dopo aver espulso la tradizionale influenza inglese, tutta l’area era sotto il controllo Usa, che con un colpo di Stato, nel ’53, si erano liberati dallo scomodo primo ministro iraniano Mossadeq, reinsediando Reza Pahalavi e facendone il proprio gendarme nel Golfo.

Sembrava una situazione destinata a durare in eterno, ma la Rivoluzione Islamica del ’79 segnò la rottura di quegli equilibri consolidati, segnando la nascita di un forte polo di resistenza all’imperialismo Usa e di contrapposizione alla corrotta dinastia saudita.

Aggressioni in Medio Oriente

Gli eventi che nei decenni successivi si sono succeduti (l’aggressione dell’Iraq all’Iran, la prima e la seconda guerra del Golfo solo per rimanere ai più eclatanti), sono tutti figli del tentativo di mantenere l’assoggettamento dell’area da parte di Washington e Riyadh, eliminando l’unico vero ostacolo, appunto la Rivoluzione Islamica. E quando tutti sono falliti, si è pensato di colpirla con le sanzioni, per indebolirla e isolarla.

Ma la Storia non rimane ferma e le situazioni maturano: l’Amministrazione Obama, portatrice di interessi diversi da quelli dei centri di potere che sostenevano le precedenti, s’è mostrata assai meno incline ad assecondare Riyadh e le lobby ad essa legate. Per il Presidente americano il Medio Oriente era un pantano da cui gli Usa avevano ben poco da guadagnare e già nella campagna elettorale del 2007 si era dato l’obiettivo di districarsi da Iraq e Afghanistan.

Era ed è più che mai convinto che le sorti di potenza globale per gli Usa si decidano nel Pacifico, nella contrapposizione con la Cina. Praticamente una bestemmia per Riyadh, che ha visto nel progressivo allontanamento di Washington e nell’attenuarsi del suo ombrello protettivo un pericolo mortale, in questo pienamente accomunata da Tel Aviv.

Di qui le contromisure: scalzare Governi scomodi o comunque non allineati sostituendoli con altri manovrabili e spezzare quell’area di naturale collaborazione che si stava consolidando dall’Iran al Libano, attraverso Iraq e Siria. Ecco nascere il fenomeno delle “Primavere”, subito cavalcate e indirizzate; di qui il fiorire di conflitti per procura in quelle aree, sia per destabilizzare Stati considerati ostili o comunque non “amici”, che per suscitare zone di crisi in cui invischiare gli Usa impedendone il disimpegno.

Avvento delle Primavere

Ma le cose non sono andate così; dopo anni durissimi (ormai sta scorrendo il quinto), malgrado tutti gli sforzi per sviarla, la Storia ha continuato la sua strada. A parte il destino delle “Primavere”, che meritano un discorso tutto a parte, gli Stati sotto attacco non sono affatto caduti. Inoltre, presa in un pantano irrisolvibile e con in testa altre priorità, l’Amministrazione di Washington s’è mostrata sempre più svogliata nel sostenere il gioco via via più pesante dei suoi storici “alleati” locali: Arabia Saudita, appunto, ma anche Israele.

Quest’ultimo, con cieca arroganza e totale ottusità politica, non ha mancato occasione per scontrarsi con Obama (che, gli piacesse o no, era alla guida del suo tradizionale protettore d’oltre Atlantico) e compattare i suoi nemici, moltiplicando le provocazioni, le aggressioni, i crimini. Un insperato e stupefacente capolavoro politico per i suoi avversari.

È in questo clima che è maturato e ha preso il via l’accordo sul nucleare iraniano, evento di rilevanza storica perché infrange il muro dietro cui si voleva isolare Teheran, e per questo fino all’ultimo avversato invano da sauditi e israeliani.

L’accordo fortemente voluto da Washington non deve stupire. In esso non c’è nessuna resipiscenza per 40 anni di aggressioni ed ingiustizie, quanto il calcolo che l’Iran è indispensabile per la stabilizzazione del Medio Oriente, evitando il completo ed irreversibile collasso delle aree di crisi, come auspicato dagli “alleati” (Turchia, Arabia Saudita ed Israele), che le hanno create per spartirsene le spoglie. Nell’ottica dell’Amministrazione Obama, rinunciato ad un’egemonia Usa sulla regione (ormai impossibile), voleva però impedire che un’unica altra potenza la controlli.

Il disegno Usa in Medio Oriente

Da questo disegno discende tutta l’ambiguità e la contraddizione dell’operato Usa, soprattutto nei confronti dell’Isis, creato a tavolino per destabilizzare l’area e poi ingigantitosi e sfuggito al controllo. Washington sa bene che, spazzato via quel “nemico” tutt’altro che irresistibile (malgrado l’immagine che continuano a darne i media), si otterrebbe la stabilizzazione dell’Iraq ed a seguire della Siria; ma in questo modo si favorirebbe l’unità di un’area di collaborazione da Iran a Libano cementata ora da anni di lotte comuni; proprio quella che, quand’era ancora in embrione, è stata il bersaglio della destabilizzazione del Golfo.

Ed ecco la ridicola attività simbolica della coalizione internazionale a guida Usa che dovrebbe combatterlo, una forza che a volerlo avrebbe potuto incenerirlo in poche settimane, e che da più d’un anno fa poco o nulla. Di qui le resistenze a fornire ciò che serve all’Iraq per difendersi e il malumore nel constatare che quello Stato, un tempo un semplice vassallo, comincia a far da sé con gli aiuti (veri) di Teheran e di Mosca.

Ed ecco tutte le contraddittorie ambiguità sulla Siria, che è e resta il nodo dei problemi in Medio Oriente. In quel pantano sanguinoso, nella distorta logica avvalorata dai media, s’è giunti al paradosso di voler distinguere fra i tagliagole dell’Isis, cattivi perché sfuggiti al controllo di chi li manovrava, e quelli di Al-Nusra, ufficialmente affiliati ad Al-Qaeda ma “buoni” perché controllati da Riyadh. Secondo questa logica distorta, che Arabia Saudita, Turchia e Qatar, col pieno avallo e appoggio degli Usa, armino, finanzino ed aiutino in ogni modo bande di assassini ufficialmente prezzolati, perché destabilizzino uno Stato sovrano per poi spartirlo, sarebbe lecito quanto giusto.

Inserimento della Russia

Il fatto è che la posizione ambigua tenuta da Washington ha generato un colossale vuoto di potere, ed in quel vuoto s’è inserita la Russia, che è una storica alleata della Siria e di interessi in Medio Oriente ne ha eccome. La base navale di Tartus, i nuovi legami con l’Iran, il ruolo nella ricostruzione dell’area che diverrà il terminale della Via della Seta cinese, sono solo alcuni. Poi la possibilità di avere carte in mano da scambiare con Washington nell’altra area di crisi che a Mosca sta a cuore: l’Ucraina. Un intervento che ha sparigliato le carte, suscitando le inviperire reazioni di chi ha visto il proprio gioco irrimediabilmente compromesso, perché, in nome di un ulteriore paradosso sostenuto da tanti osservatori interessati, il fatto che un Governo legittimo sotto attacco chieda sostegno ad un alleato farebbe scandalo, quello che non c’è ad armare i terroristi che lo attaccano.

Sia come sia Putin ha rotto gli indugi e sta dando l’assistenza chiesta da Damasco. In buona sostanza sta fornendo cospicui aiuti militari e con l’aviazione sta colpendo le bande di assassini senza fare quelle distinzioni comprensibili solo alla luce degli interessi di chi la Siria voleva distruggerla per poi spartirsela.

L’intervento ha dato una fortissima accelerazione alla risoluzione delle crisi (peraltro già avviata); malgrado le strenue proteste dei sauditi e degli Stati nel loro libro paga (Francia in testa), non passerà molto che le famigerate bande del “califfo” verranno distrutte e con loro gli altri tagliagole che infestano Siria ed Iraq.

La completa sconfitta Usa

Anche Washington ha protestato con forza, ma nella realtà l’intervento di Putin ali Usa sta bene. Il Medio Oriente era già perduto per gli Usa e neanche considerato più prioritario; così i tempi sono stati solo accelerati. E piuttosto che esserne completamente esclusa, a Washington fa comodo che al centro ci sia la Russia, con cui ha molto da scambiare per la soluzione del problema ucraino e per le sanzioni inferte per la Crimea.

Per Riyadh è il crollo totale del disegno di mantenere potere e privilegi come sempre, in cui tanto aveva investito. È l’ennesimo fallimento che s’aggiunge a una pericolosa crisi finanziaria ed alla sciagurata aggressione allo Yemen, che si sta trasformando in un disastro; insieme potrebbero minare le stesse fondamenta del Regno.

La Turchia, frustrata nei sogni megalomani di Erdogan e con una guerra civile ritrovata con il Pkk che rischia di internazionalizzarsi, coinvolgendo le altre formazioni curde.

Israele è completamente solo, attorniato da nemici che lui stesso ha compattato; adesso può attendere solamente che la soluzione delle crisi che ha contribuito largamente ad attizzare indirizzi su di lui tutte le forze della Resistenza.

È un Medio Oriente allargato assai diverso che sta emergendo rapidamente. Un’area finalmente liberata da antichi imperialismi oppressivi: quello Usa, quello sionista e quello del Golfo. Un’area che dopo anni e anni di lotte sta conquistando il suo autonomo cammino di sviluppo.

In tutto questo spicca la totale assenza dell’Europa, che pure tanti interessi avrebbe ad essere presente, anche solo politicamente. L’ennesima dimostrazione d’inconsistenza, di pochezza e d’inutilità, di Istituzioni tali solo sulla carta. È l’ennesima manifestazione di totale sudditanza di Stati privi di sovranità o, più semplicemente, di una politica che non sia miope egoismo o totale asservimento.

Fonte: https://ilfarosulmondo.it/lalba-di-un-nuovo-medio-oriente/

Assad contro l’Europa: “Ha sostenuto il terrorismo”

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“Dobbiamo iniziare con una semplice domanda: chi ha creato questo problema? Perché ci sono rifugiati in Europa? È una domanda semplice: a causa del terrorismo sostenuto dall’Europa – e ovviamente dagli Stati Uniti, dalla Turchia e da altri – ma l’Europa è stata il principale attore nella creazione del caos in Siria. Quindi, quello che viene fatto torna indietro”. Il presidente siriano, Bashar al Assad, risponde così a una domanda di Monica Maggioni sulla questione migratoria che investe l’Europa e che è riconducibile alla crisi siriana. L’intervista è stata trasmessa sui canali social della presidenza siriana e in serata è stata disponibile su RaiPlay“. Continua a leggere

Il genocidio dei cristiani armeni riconosciuto dagli Usa, non senza polemiche turche e fake news

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L’EDITORIALE DEL VENERDI

di Matteo Orlando

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha riconosciuto ilgenocidio armeno. Attraverso una votazione storica l’organo
rappresentativo nordamericano ha approvato una risoluzione che riconosce uno dei più gravi genocidi della storia, perpetrato dai musulmani turchi nei confronti dei cristiani armeni.
La risoluzione, approvata con 405 voti a favore e 11 contrari, prevede la “commemorazione del genocidio armeno” e “il rifiuto dei tentativi (…) di associare il governo degli Stati Uniti alla negazione del genocidio armeno”.
Il governo turco ha reagito con rabbia. Il ministro degli Esteri, Mevlut Çavusoglu, ha assicurato che “è una vendetta per aver rovinato i piani americani in Siria “. E ha aggiunto che “questa vergognosa decisione di sfruttare la storia per scopi politici è nulla per il nostro governo e il nostro popolo”. Il presidente-sultano turco Erdogan, da parte sua, ha affermato che “l’accusa è un grande insulto”.
Già nell’aprile 2015 il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione che chiedeva alle autorità turche di riconoscere il genocidio armeno. Continua a leggere

Sì, Erdogan è brutto e cattivo. Ma vi spiego perché noi europei siamo ancora peggio

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Di Adriano Scianca

Roma, 15 ott – Di Recep Tayyip Erdogan è giusto pensare tutto il male possibile: ha preso un Paese plasmato dalla rivoluzione nazionalista e laica di Kemal e l’ha trasformato in un focolaio di integralismo; ha costantemente destabilizzato un’area delicatissima, facendo il doppio e il triplo gioco con un cinismo senza eguali; ha appoggiato le peggiori realtà del terrorismo islamico; ha regolarmente contrastato la Siria laica di Assad; ha utilizzato gli immigrati come arma di ricatto, aprendo e chiudendo i rubinetti dei flussi a piacimento e arrivando a lanciare appelli in favore della sostituzione etnica. Continua a leggere

Il crollo turco è un argomento contro il globalismo

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Perché non siamo la Turchia. E il crollo turco è un argomento contro il globalismo.

Perché non siamo la Turchia. E il crollo turco è un argomento contro il globalismo.

Sapete qual è il debito pubblico della Turchia? Il 30% sul PIL. Un paese modello secondo la dogmatica dell’ordoliberismo. E il deficit pubblico? 1.5% sul PIL. Per i dogmatici del “Restiamo nell’euro perché noi abbiamo un debito pubblico del 130%”,  il bassissimo debito pubblico turco sarebbe stato una “garanzia contro la speculazione”, e  “l’attacco dei mercati”: Invece la Turchia è stata …

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