La grande trasformazione. L’uomo massa non pensante

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di Roberto Pecchioli tramite Arianna Editrice

Fonte: EreticaMente

Fine agosto; potere della televisione e della comunicazione predittiva. Stampa e media sono categorici: “bollino nero” su strade, autostrade, stazioni per un numero impressionante di vacanzieri – la qualifica stagionale dei consumatori compulsivi di ferie e risparmi – di ritorno a casa con traghetti, treni, automobili, aerei. Numeri impressionanti, come impressionante è la capacità di sopportare disagi, calura, spese iperboliche, ritardi, folla , code persino per il gelato , in cambio di pochi giorni di vacanza, parolina magica che significa assenza, mancanza.

L’uomo massa accorre, disciplinato, sottomesso al gradito obbligo sociale, con un sorriso sciocco stampato sul volto, carte di credito alla mano e l’ app per mostrare biglietti e prenotazioni, consultare orari, sapere tutto. App-crazia soddisfatta. E’ convinto di essere felice: si è “divertito”, qualsiasi cosa significhi. Soprattutto, è persuaso di avere scelto liberamente . Altro scenario, stesso giorno. Una piazza solitamente affollata di un popoloso quartiere di città in cui convivono varie classi sociali. Deserto sconcertante: non sono le vacanze ad averla svuotata, ma le previsioni meteorologiche. Allerta arancione, piogge copiose in arrivo. Non piove, ma la gente è già chiusa in casa. La potenza predittiva in cui crediamo ciecamente convince a rinserrarsi tra quattro mura per paura di un temporale estivo, probabilmente simile a quelli che abbiamo sempre vissuto. In agosto, la pioggia rinfresca il “costo”, la verdura in dialetto.

Niente di nuovo: nuova è la paura, la convinzione diramata a reti unificate che il nubifragio sarà terribile, inusitato.  Asserragliato sul divano, l’uomo-massa attende l’ora del fortunale, annunciata con ammirata precisione dall’informazione meteorologica. Ancora un volta è serenamente certo di avere deciso tutto da sé e considera l’adesione pressoché generale alla sua condotta la prova migliore della bontà della sua “scelta”. Qualche chilometro più in là, al porto, una folla sterminata di ex vacanzieri prende la via del ritorno, assaltando stazione marittima e ferroviaria, in colonna, molti dopo aver affrontato la prima coda per raggiungere l’auto con famiglia e bagagli sul traghetto, la seconda per sbarcare, e a seguire la tangenziale, l’autostrada e via sino al meritato premio del ritorno a casa incolonnati, un esercito disciplinato che risale le valli che aveva disceso, qualche settimana prima, con orgogliosa sicurezza e uguale affollamento.

L’uomo massa ha le tasche – o meglio le carte di credito – svuotate , una stanchezza profonda ( è finita la vacanza, tornano le consuete code cittadine, la ressa da pendolari, non più da vacanzieri) e un rancore sordo nei confronti di tutti gli altri, la cui colpa è avere avuto i suoi stessi pensieri e gusti, prendendo le medesime decisioni eterodirette. Come si permettono di essere tutti qui, e tornare a casa nello stesso momento in cui lo faccio io? Nei giorni precedenti aveva avuto pensieri simili sulla spiaggia affollata, sul sentiero montano che sembrava il corso cittadino al sabato pomeriggio, nella vana ricerca del parcheggio, nella coda per tutto, anche per i servizi igienici.

Tuttavia, nulla lo ha indotto a rinunciare al suo sacrosanto “diritto” di consumare ferie di massa in luoghi di massa in mezzo alla massa. Si potrebbero riempire manuali di sociologia descrivendo il suo comportamento nelle spiagge, nelle località di montagna più conosciute e l’adesione acritica, la conformità alle prescrizioni, previsioni, condotte calate dall’alto dall’ultima trinità ammessa e creduta, scienza, tecnica, propaganda. Ogni pagina, tuttavia, potrebbe ridursi a poche osservazioni banali: la riduzione a massa docile , sottomessa, scioccamente felice, dell’uomo massa – il tronfio titolare di diritti ridotto a consumatore compulsivo – nonché la sorprendente assenza di pensiero della maggioranza.

E’ terribilmente facile , per il potere che possiede tutto, fare del suddito-consumatore ciò che vuole, una massa plastica capace di credere e fare qualsiasi cosa, dipendente da ogni moda. Convince in un attimo – per potenza comunicativa, coazione a ripetere, imitazione – ad adottare idee, comportamenti, stili di vita voluti dal ceto dominante. L’uomo moderno è un essere gregario quanto e più dei suoi antenati, persuaso dal mito del progresso: più di ieri, meno di domani. Meglio dimenticare il buio passato e sguazzare nel presente, rimuovendo memoria, confronti, giudizi. La nuova verità scende dall’alto, ma sembra avvolgere, pervadere, sgorgare da ogni lato. E’ la suprema, sopraffina abilità di chi ci ha resi uomini massa, docili greggi , servi volontari certi di non avere altro padrone che il nostro io.
Sappiamo di offendere l’amor proprio della maggioranza, certa di essere consapevole, libera, riflessiva. Ma è il contrario, “ dai fatti occorre trarre significazione”. Qualcuno deve pur gridare, come il bimbo della fiaba di Andersen, che il re è nudo. Scrivevamo che il mondo è invertito prima del generale Vannacci. Benvenuto, generale. Le sue parole vengono fatte passare obliquamente per discorso di odio dal presidente della repubblica italiana, che parla alla suocera affinché intenda la nuora.

La Costituzione non ammette l’odio, ha detto, riferendosi per allusioni al pensiero di Vannacci. Ma no – si indigna a comando l’ uomo massa non pensante – il presidente parla in termini generali, il suo è un monito illuminato, salutare. Intanto apre la via a vietare ciò che non piace alla gente che piace, bollando come odio pensieri, convincimenti, principi sgraditi alla dittatura dei padroni del presente. La cosa più triste è che, al netto delle polemiche da curve contrapposte nello stadio mediatico, alla maggioranza non importa nulla di nulla: contano le vacanze, il consumo, l’interesse immediato. Il problema non è che cosa si pensa, ma che non si pensa. Niente di più estraneo all’uomo-massa, che ama parlare di ciò che non sa, ricoprendo della sua logorrea le reti sociali in cerca di seguaci ( mi piace, pollice alzato) almeno quanto detesta ragionare, distinguere. Del resto, distinguere – gli hanno detto e ci ha creduto – equivale a discriminare, uno dei peccati capitali della postmodernità. Il mondo capovolto è per definizione civiltà e progresso, luoghi comuni ammantati da un alone di sacralità al tempo dell’abolizione del sacro. Civiltà e progresso fanno sempre più a meno della libertà, principio ridotto al diritto universale di fare ciò che più aggrada senza limiti.

Stanno smontando la libertà pezzo per pezzo: dal 25 agosto è operativo un occhiuto controllo censorio promosso dall’ UE ( ce lo chiede l’Europa!) con tanto di blocco dei contenuti e dei contributi economici privati a siti, media, pensieri sgraditi a chi comanda. Ne avete sentito parlare, uomini-massa , vacanzieri in coda, cittadini orgogliosi dei vostri diritti, sulla “libera “ stampa, proprietà – come tutto il resto – dei padroni del vapore? Certo che no, tutt’al più vi hanno rassicurato: è un benefico filtro contro le falsità e l’odio. Messaggio ricevuto, come si usa dire nelle serie televisive. Così è detto, così è; la folla obbediente alla voce del padrone annuisce, inserisce l’informazione nella memoria a breve termine, in attesa della menzogna, pardon news, successiva. Del merito se ne stropiccia: l’uomo massa si limita ad appropriarsi di parole d’ordine altrui facendole proprie con ridicola convinzione. Già la grancassa progressista lancia la nuova crociata: non tutte le idee possono circolare, perbacco. Solo quelle con il bollino arcobaleno. Il resto, vietato, censurato, catalogato come falso o discorso di odio. Il cerchio si chiude. Tu che ragioni diversamente, tu che ti ostini a pensare, non hai nemmeno più torto: sei cattivo, animato dal peggiore dei sentimenti. Sia tolta la parola, la cittadinanza, il lavoro, la libertà ai malvagi: il mondo è dei Buoni. Che producono, consumano, rivendicano diritti e poi silenziosamente crepano allo schiocco delle dita del padrone. Perché pensare ? Ecco quel che resta del pensiero occidentale. Presto sarà anche peggio, al dilagare dell’intelligenza artificiale. Il dislivello tra la macchina e l’uomo sarà tale che riflettere, obiettare, diventerà peccato di lesa maestà della tecnologia. Consumeremo dati, cose, persone, noi stessi senza pensare, finendo per odiare la nostra singolarità, che considereremo miserabile: consumatori compulsivi eterodiretti, non più persone. Il servo arbitrio.

La trappola in cui siamo caduti è credere che la battaglia sia tra libertà di espressione e censura. L’avversario ha condotto le sue campagne invocando libertà di parola. Affermavano di essere i difensori della libertà , ma lo facevano per distruggere i vecchi standard, le norme, i tabù, i meccanismi di autodifesa di una società “normale”, giacché tutti gli stati e le società hanno necessariamente regole, limiti, interdetti. La guerra che stiamo perdendo è la sfida mortale tra sistemi di valori incompatibili. Ad esempio, nel passato si poteva insegnare la Bibbia nelle scuole, ma non la pornografia. Oggi puoi diffondere nelle scuole la pornografia, la teoria gender , la sessualità queer, far credere che non esiste la natura, ma il costrutto sociale.
E’ un’estensione o una restrizione della libertà di espressione? Nessuno dei due, è “solo” il cambio di paradigma secondo l’ideologia di chi dirige la società. Ci siamo preoccupati delle regole, di difendere un’impossibile neutralità delle procedure e delle istituzioni, cadendo nella trappola liberale. Abbiamo perduto da ogni lato: le regole sono stabilite da un nuovo autoritarismo simil moralistico ammantato di “ diritti”, in procinto di trasformarsi in totalitarismo. Democratura, la forma della democrazia nell’involucro della dittatura. In cambio, possiamo sposarci tra congeneri, affittare l’utero, uccidere nel ventre materno, sopprimere noi stessi, i malati, i poveri, i depressi, osservare e praticare violenza e oscenità con un semplice clic e un conveniente piano tariffario.

Sono i “diritti”; hanno sostituito l’onore, la famiglia, la dignità, Dio, la patria, la giustizia sociale. Abbiamo perduto su tutta la linea perché il nemico ha capito prima di noi che la libertà di espressione non significa nulla per chi non ha niente da pensare. Il gregge non deve neppure più pascolare: ci pensa il padrone. Al calduccio nello stabbio, a ore stabilite è distribuito il pasto. Con il muso nella greppia, soddisfatti nelle pulsioni e nei bisogni elementari, a che servono il libero pensiero, la parola dissidente? Tanto più che qualcuno – c’è sempre un ribelle, un bastian contrario, un piantagrane – potrebbe insinuare alla maggioranza addomesticata che il pastore tiene il gregge ben nutrito soltanto per venderlo a miglior prezzo al mattatoio.

Pensieri in libertà, sfoghi impotenti, il fastidio di chi non capisce e non si adegua. L’illusione che qualcosa o qualcuno sveglierà il gregge che sbadiglia e digerisce. Come è potuto accadere che la civiltà con più possibilità, più mezzi materiali, più conoscenza di ogni tempo, diventasse la schiava ubbidiente di una libertà falsa come l’oro di Bologna? La mistica dei diritti, il mito del progresso , l’aridità spirituale spiegano molto, non tutto. La Grande Macchina della trasformazione che ha generato il mondo al contrario lavora instancabilmente da alcuni secoli.

Vale la pena, nella seconda parte, analizzare modi, idee, tappe, meccanismi e protagonisti della grande trasformazione della “scimmia nuda” in macchina desiderante non pensante. Diventato fluido, liquido, l’uomo nuovo prende la forma del recipiente in cui è versato: gli importa solo che il design del contenitore sia accattivante, alla moda, a prova di pollice alzato. Homo consumens ex sapiens.

 

Memento vivere

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di Livio Cadè

Fonte: EreticaMente

“Aspirate alle cose di lassù e non a quelle che sono sulla terra”

La vita è sogno?

“Ogni causa si decida sulla parola di due o tre testimoni”, prescrive il Deuteronomio. Anche un solo testimone, secondo Crisostomo, è però sufficiente, se è degno di fede e se testimonia non di materia estranea ma di ciò che ha in sé. Poniamo dunque che mille persone, senza rapporto tra loro, mi dicano d’aver visto uno strano animale, e tutti concordino nel descriverne le dimensioni, la forma, i colori, il modo di muoversi ecc.. È più logico credere che quell’animale esista o che tutti costoro stiano mentendo, o che siano tutti vittime di un’allucinazione? Credo che concedere un assenso preliminare sarebbe la soluzione più intelligente.

Mi appoggio a questa premessa in relazione alle testimonianze di coloro – ormai migliaia –  che (come quell’Er di cui narra Platone) hanno avuto un’esperienza di morte e l’hanno potuta raccontare. Si parla, in questi casi, di premorte, di prossimità al morire, convenzionalmente NDE, acronimo di Near Death Experiences. Espressioni incongrue, visto che si tratta di persone clinicamente morte per alcuni minuti, alcune ore, in certi casi addirittura alcuni giorni. Ma l’ambiguità terminologica vorrebbe lasciare uno spiraglio alle spiegazioni razionali. Di fatto, alcuni di questi soggetti sembrano misteriosamente resuscitare. Altri, tornando dal regno dei morti, si trovano inspiegabilmente guariti da patologie gravissime. I medici, che non credono ai miracoli, attribuiscono tali eventi straordinari al ricorrere di minime probabilità statistiche.

Questi casi, un tempo rarissimi, stanno diventando grazie alle moderne tecniche di rianimazione sempre più frequenti. L’aspetto singolare è che alcuni dei soggetti riportati in vita non riemergono da uno stato di assenza mentale (che sembrerebbe ovvio, vista la mancanza di attività cerebrale), ma dicono d’aver vissuto esperienze meravigliose, stati di coscienza straordinari. Di solito ne parlano dopo lunghe reticenze, temendo d’esser presi per pazzi. La ‘scienza’ cerca di darne una spiegazione in termini fisiologici (carenza d’ossigeno, accumulo di anidride carbonica nel sangue, scompigli neuronali) o psicologici (fantasie, immagini che il cervello elaborerebbe in extremis per rimuovere l’idea della morte). Questo è coerente con una neurologia che assimila la mente al sistema nervoso (come se un Corale di Bach stesse nelle corde di budello d’un violino) e con una psicologia che rinnega la psiche, ossia con i dogmi di scienze ostili a ogni prospettiva metafisica.

Tali esorcismi razionalistici hanno qualcosa di assurdo e insieme di maligno. Sembrano ispirati dalla volontà di negare ogni trascendenza, ogni realtà dello spirito, come se evocare Dio o l’anima minacciasse la Weltanschauung bio-meccanicista e la sua trionfale marcia verso il futuro. Sintomi di una follia, che vorrebbe dimostrare e misurare l’essere con strumenti scientifici. V’è però chi cerca di conciliare le NDE con le nuove prospettive della fisica, magari usando “informazione quantistica” invece di termini compromettenti come anima o spirito. Ma anche dietro questa apparente apertura è chiara l’intenzione di rimettere il problema all’onnipotente Dea Ragione.

V’è poi chi relega le testimonianze di premorte – insieme ad avvistamenti Ufo, sedute medianiche, fantasmi e altri fenomeni detti ‘paranormali’ – in una sub-cultura indegna di rientrare negli interessi di una mente colta e razionale. Alcuni anzi sembrano avere come missione nella vita il dimostrare l’inconsistenza o la falsità di tutto ciò che non può addurre ‘prove scientifiche’ o che esce dalle maglie del sedicente ‘metodo scientifico’ (creando di fatto una nuova superstizione).

Sulla scorta della mia premessa, io parto invece dal presupposto che la NDE sia un’esperienza spirituale, come afferma chi l’ha vissuta. Certo è probabile che esistano narrazioni contraffatte, ma le persone coinvolte mi sembrano in genere degne di fede  e sicuramente non parlano di materia estranea ma di qualcosa che hanno in sé (non c’è niente che ci è più nostro della nostra anima, dice Aristotele). Gli scettici diranno che dar peso a questi racconti è una forma d’escapismo, di fuga dalla realtà  (la loro idea di realtà) o un credere ai sogni. Ma può un morto sognare? O non è al contrario la morte un ridestarsi? I protagonisti della NDE affermano proprio questo: il morire induce in loro ex abrupto la sensazione di un risveglio, una consapevolezza più vivida e convincente di ogni altra. Come quando si apron gli occhi al mattino e si sa d’aver dormito, così l’anima, uscendo dal garbuglio delle vicende terrene, capisce che la vita era un sogno.

Mentre i sogni son guazzabugli d’immagini diverse per ciascun dormiente, le NDE presentano una uniformità, una coerenza interna e una vasta serie di concordanze. Non hanno affatto l’aria di allucinazioni prodotte da un soggettivo disordine cerebrale. Sembrano piuttosto il resoconto obiettivo di un viaggio in uno stesso luogo. Raccogliendone i contenuti, si potrebbe organizzare una sorta di scienza tanatologica. Inoltre, a differenza di esperienze prodotte da droghe e da farmaci, la NDE induce quasi sempre nel soggetto una riforma spirituale. Molti riscoprono il valore della preghiera, del meditare, dell’aiutare gli altri. Se ci accostiamo a queste narrazioni senza pregiudizi, potremmo di fatto trovarvi conferme empiriche di un viaggio iniziatico e di una philosophia perennis. E chi non può credervi, la prenda come una ricca allegoria dell’ignoto.

Indistruttibilità dell’essere

La morte è un argomento difficile, specie per una cultura come la nostra, che fa della morte un mero decesso biologico, che spinge a evacuarne il senso, ad alienare l’uomo dal suo morire. Ognuno si pone di fronte alla morte come evento limite e teorico, che non lo riguarda personalmente. Sa razionalmente d’esser mortale, ma intimamente lo nega. La morte è qualcosa che riguarda gli altri. Solo gli altri muoiono – io non sono un altro – io non muoio. Questo rifiuto istintivo toglie valore alla vita stessa, diviene il viatico di un’esistenza banale e dimentica. Ma è in fondo il riflesso, lontano e deformato d’una verità. Perché v’è un altro sillogismo, latente nel profondo d’ogni uomo, che dice: l’essere non può morire – io sono – quindi io non posso morire. Del resto, sarebbe strano essere anime eterne e non saperlo.

Questo io sono è un’evidenza segreta e indimostrabile. Non ci serve la testimonianza di nessuno. Se rientrassimo in noi stessi – nuotando contro la corrente del pensiero dominante – vedremmo che la vita è il tocco dell’essere e che il corpo è solo lo strumento con cui il sé si esprime, un mezzo e insieme un limite che comprime la coscienza entro strutture biologiche. Tutto ciò che esiste occupa uno spazio. Ma non è difficile capire che questa coscienza non è in nessun luogo. E dunque, come dell’anima di cui parla Eraclito, non possiamo trovarne i confini. Tuttavia, la coscienza è sempre associata a organi e funzioni. Quindi, finché dimora in un corpo terreno, può percepire la realtà solo per quel tanto che un cervello umano ne può cogliere. Non è perciò impossibile che, svincolata dai suoi limiti fisici, faccia esperienza di un aldilà, forse attraverso gli organi di un corpo più sottile.

Qualcuno ha sottolineato le coincidenze delle NDE col Bardo Thodol, Libro Tibetano dei morti, dove la casistica del dopo-morte è ampiamente trattata. Ma anche nella storia occidentale, fin dall’antichità, abbiamo testimonianze di mistici che escono dal proprio corpo (“l’anima, spogliatasi della carne, cominciò a contemplare il suo corpo che giaceva immoto sul letto”, scrive Alpais di Cudot, mistica del XII secolo) e comunicano con esseri ultraterreni, vedono cose sorprendenti, attingono a una conoscenza divina. Rapiti in cielo, assorbiti in una luce e in un amore ineffabili. Come se il mistico anticipasse, nella sua estasi, l’esperienza della morte.

Sappiamo che da sempre la dimensione mistica si scontra con l’impotenza delle parole. Così, anche chi ha una NDE incontra difficoltà nel tradurla in concetti umani. Si svolge in un regno dove non valgono più le nostre leggi di tempo e di spazio né i nostri automatismi logici, dove l’intelligenza si allarga, i sensi sembrano acuirsi e intensificarsi. Così, alcuni narrano di indicibili policromie e iridescenze, profumi inebrianti, musiche celestiali, giardini e paesaggi meravigliosi, sorta di Campi Elisi. Tutto si direbbe circonfuso di un’aura primaverile, di dolci brezze. La coscienza è colpita da una bellezza oltremondana che appaga il suo senso estetico più pienamente di ogni bellezza terrena. Ogni cosa sembra emanare un fluido risanante e riparatore. Il buono e il bello si fondono in uno stato di grazia. Anche la sete di conoscenza sembra abbeverarsi in solenni edifici simili a scuole o biblioteche in cui è raccolta ogni forma di scibile. Alcuni  contemplano l’universo, con le sue stelle, le sue galassie, le sue strutture matematiche, ne intuiscono la fonte soprannaturale. A volte hanno premonizioni o rivelazioni sul futuro, visitano epoche remote, vedono antiche civiltà (“l’anima mia si eleva fino all’altezza del firmamento, in aure mutevoli e diverse, e si estende a popolazioni molteplici, in spazi e paesi amplissimi e lontani da me” scrive Hildegard).

La stessa sfera affettiva pare dilatarsi. L’anima non solo ritrova coloro che ha amato (“è impossibile che la morte cancelli dal cuore quello che l’amore vi ha impresso” diceva Angela da Foligno) ma fa anche conoscenza di esseri luminosi – sorta di tutori e maestri che qualcuno definisce angeli o spiriti guida – che la accolgono e la accompagnano, figure sprigionanti amore e comprensione. Fin qui, tutto coincide con ciò che diremmo ‘paradisiaco’. Più rare, ma non meno significative, sono le visioni di ripugnanti figure demoniache, laghi di fuoco, abissi spaventosi in cui brulicano anime cieche e straziate, o altre situazioni ‘infernali’.

È facile supporre che queste descrizioni riflettano gli sfondi culturali, religiosi e immaginativi dei soggetti coinvolti. Se vediamo qualcosa di anomalo o di incomprensibile siamo infatti inclini a ricondurlo entro modelli a noi noti. Come potrebbe un uomo primitivo che vedesse un aereo o un computer descriverli ai suoi simili? Il confine tra un ‘fatto obiettivo’ e la sua ‘interpretazione’ è labile. Questa non è un’obiezione alla sincerità di tali esperienze. È però plausibile che tali rappresentazioni siano trasposizioni su un piano corporeo di realtà immateriali e forse intraducibili, e non vadano prese rigidamente alla lettera.

Un identico cielo può apparire diverso a molteplici occhi. Come dice Dionigi, “è impossibile che il raggio divino brilli per noi altrimenti che avvolto da molteplici veli”. Non sappiamo quali di questi veli la morte sollevi e se altri ne cali su di noi. E la memoria, una volta rientrata nella coscienza fisica e rimessi i suoi vecchi abiti, potrebbe anche alterare involontariamente i dati della sua esperienza nell’aldilà. Tuttavia, questi argomenti han poco peso di fronte alla massiccia sistematicità dei racconti e alle loro regolari consonanze.

Invariabili del morire

Volendo tracciare un canovaccio delle NDE e dei suoi elementi costanti, occorre senz’altro partire dall’uscita dell’io dal corpo fisico al momento della morte (“come una mano si sfila dal guanto” dice la Bhagavad Gita). L’anima – o ‘corpo eterico’ – si ritrova a fluttuare nell’aria, vede e ode le altre persone, percepisce i loro pensieri, le loro emozioni, cerca di comunicare con loro, ma esse non vedono e non sentono lei. Scopre di possedere una forma eterea, che può attraversare i solidi, volare, muoversi nello spazio alla velocità del pensiero. Questa separazione dello psichico dal fisico sembra confermare il sostanziale dualismo sostenuto anche da alcuni studiosi del cervello, cioè l’idea che corpo e mente sono entità distinte, benché connesse, e che la coscienza non è materia neurologica.

Ricorrente è anche l’esperienza di un tunnel attraverso il quale l’anima pare scivolare rapidamente dalla dimensione terrena a quella ultraterrena e al fondo del quale brilla una luce. Secondo gli scettici, il tunnel sarebbe una reviviscenza postuma dell’utero materno da cui si esce al momento della nascita, o effetto di una contrazione pupillare. La luce lontana dipenderebbe invece dall’illuminazione dell’ambiente, lampade, riflessi ecc. Direi che possiamo tranquillamente ignorare simili farfugliamenti (una volta esisteva una scienza ermetica, oggi purtroppo ve n’è una emetica).

Alcuni, non molti, vengono attirati in una zona grigia, desolante e angosciosa, in cui vedono frotte di ombre trascinarsi in un’esistenza larvale, incombere come immateriali vampiri sui corpi viventi, assetate ancora di esperienze terrene, in preda a parossismi di disperazione e di collera per l’incapacità di godere di quei piaceri di cui la morte li ha privati. Succede talvolta che tali spettri sfoghino la loro impotenza maligna sul nuovo arrivato o cerchino di aggregarlo alla loro compagnia di sventura. Risolutivo, in questi casi, sembra essere il potere della preghiera o l’intervento di entità benigne, forti e protettive, che disperdono i fantasmi e conducono l’anima nella sua vera dimora.

Un leit-motiv frequente, e assai più rasserenante, è il senso di ritorno a casa provocato dal morire. “I fiumi ritornano al luogo da dove sono nati”. Così, l’anima, alla morte del corpo, par ritrovare il suo habitat naturale, rientrare in patria dopo un esilio più o meno lungo. Alcuni, pur restando consapevoli, godono di uno sperdimento cullante, assoluta pace vuota di immagini. Altri si sentono beatamente sospesi in una tenebra divina (“vidi Dio in una tenebra … perché egli è un bene più grande di quanto si possa pensare o capire” dice ancora Angela da Foligno) o godono di visioni beatifiche. Ognuno secondo le sue possibilità attinge qualcosa di eterno e infinito.

È una sensazione di totale benessere e libertà, tanto che nessuno vorrebbe più regredire alla claustrofobica dimensione terrena. Anche il ricordo dei figli, del coniuge, delle persone più care, sembra scivolare nella dimenticanza, senza far nascere alcuna nostalgia. Rientrare nel corpo non è quasi mai una scelta spontanea, ma l’adempimento di un dovere, obbedienza a un’autorità tenera e inflessibile insieme. Tutti descrivono la rianimazione, l’esser trascinati indietro, come un’esperienza penosa. Questo però non implica una svalutazione gnostica della fisicità. Il corpo non è visto come prigione dell’anima. Non è neppure il “frate asino”, da bastonare e mortificare. Appare piuttosto lo strumento di cui l’anima dispone per compiere il suo viaggio terreno, sorta di interfaccia tra lo spirito e il mondo, riflesso psicosomatico di entrambi.

Bisognerà dunque vedere cosa l’anima ha fatto di questo strumento, quali suoni ne ha tratto. E difatti la maggioranza delle NDE riferisce di una sorta di anamnesi rituale, prammatico esame della vita passata, cui bisogna sottoporsi par quasi per burocratica necessità, come nel Libro egiziano dei morti si pesa il cuore del defunto. L’anima rivede fatti, pensieri, sentimenti spesso completamente dimenticati, e diviene consapevole delle loro conseguenze. Ancor più, prova in sé quello che i suoi comportamenti hanno causato in altre creature viventi. Quindi, se ha fatto del male a qualcuno ne sentirà la sofferenza, anzi la avvertirà in forma immensamente amplificata, perché è nuda, spogliata di ogni armatura protettiva. Per alcuni è un momento di grande sofferenza, di interiori lacerazioni.

Questo giudizio postumo che l’anima dà di sé stessa pone una questione cruciale. Noi pensiamo che l’universo sia retto da leggi fisiche. Qui invece ci vien detto che non solo la nostra vita ma lo svolgersi dell’intera vicenda cosmica è regolata da un’etica trascendente, e da un sistema retributivo – lo si chiami karma, contrappasso, giudizio divino – che ripaga ognuno con la sua stessa moneta. Ogni nostro minimo atto ci ritorna come un’eco, moltiplicato. Saremmo quindi particelle di un universo morale, alla cui base non v’è una rotazione di protoni e di elettroni ma una fisica del bene e del male.

Una questione controversa riguarda la metempsicosi, concetto naturale per una mente orientale ma che mal si concilia coi dogmi della nostra educazione religiosa. Durante la NDE alcuni hanno visioni delle loro vite passate, anche remote, e viene loro mostrato come l’anima debba passare attraverso varie nascite, morti e rinascite, in un incessante processo di apprendimento e purificazione. Il tunnel che si attraversa dopo la morte è detto esser lo stesso che si ripercorrerà in senso contrario per rientrare in un utero materno. E pare sia l’anima stessa a decidere, prima di reincarnarsi, quale sarà la sua missione, il suo compito nella vita, a definire una sorta di progetto esistenziale che spesso verrà drammaticamente dimenticato e tradito.

La reincarnazione è una dottrina basilare in molte culture, benché nelle stesse filosofie orientali  l’idea di una continuità personale tra vita e vita presenti aspetti controversi. Questa difficoltà è ovviamente inevitabile in quelle dottrine che negano l’esistenza di un sé personale, o atman. La NDE sembra tuttavia avvalorare un concetto popolare di trasmigrazione, dimostrando come l’anima sia un’entità distinta dal corpo fisico, dal quale può sia uscire che entrare. È dunque plausibile che, a tempo debito, l’anima si possa introdurre in un nuovo embrione e rinascere. Secondo le antiche teorie buddhiste, è l’atto sessuale che attira e trascina l’anima nel grembo femminile. Francamente, non so come questa idea si possa armonizzare con lo sviluppo delle nuove tecnologie fecondative, con feti prodotti in laboratorio, magari congelati e impiantati artificialmente in un utero (che forse diventerà meccanico).

Accettare la reincarnazione significa dissolvere il nostro senso di una costante identità corporea (o forse dovremmo definirlo il nostro miraggio, dato che le cellule del corpo muoiono e rinascono in continuazione). Potremmo però ammettere la continuità di un “corpo spirituale”, per usare l’espressione paolina. L’ipotesi di un progetto vitale che l’anima elaborerebbe prima di riprendere forme fisiche, assommato all’influsso delle sue esistenze pregresse, con il loro retaggio karmico, spiegherebbe ciò che comunemente chiamiamo ‘destino’ o casualità. Non saremmo costretti ad attribuire disuguaglianze di vario tipo all’arbitrio di una natura ingiusta o di una cieca fortuna. Ma forse è meglio dubitarne. Chissà che il dubbio non sia una regola del gioco.

La luce vivificante

Il ogni caso, cuore delle NDE mi pare l’incontro con la Luce, da tutti descritto come esperienza di immersione beatifica in un amore incondizionato (“son così posta e sommersa nella fonte del suo immenso amore”, dice Caterina da Genova delle sue estasi). Questo splendore caldo, avvolgente, assume a volte forma umana, a volte quella di globo o caligine, nube lucente. In certi casi ha natura particolare, come nel caso dei cosiddetti angeli, in altri è un oceano luminoso, un Sole spirituale. Ogni cosa, dall’atomo alla stella, ogni realtà fisica o spirituale, sembra una sua emanazione. Si ha qui l’impressione di toccare il ne plus ultra di ogni possibile conoscenza.

Qual è la natura propria di questa luce? Una volta ancora si è costretti a parlar per metafore e approssimazioni. È “abisso della chiarità” nel quale l’anima è inghiottita, per usare le parole dello Pseudo-Agostino. Per Dionigi è “raggio sovrannaturale”. Non è una luce fisica, ci vien detto. È viva, pulsante, intelligente, e non ha altra fonte che sé stessa. “La luce è una sola, e quella luce è coscienza … ed è la vera natura di Shiva. Quella luce nel suo splendore non dipende da null’altro che da sé stessa”, scrive Abhinavagupta, filosofo tantrico del X secolo.

La dialettica tra la Luce e lo sguardo varia nelle NDE secondo i casi. La luminosità è ora sentita come una realtà esterna e indipendente dal soggetto, ora come un’effusione della sua interiorità. Nel primo caso permane una separazione, nel secondo il soggetto confluisce nella luce, in una crasi ontologica. Alcuni sembrerebbero convalidare la formula di Meister Eckhart, secondo cui “l‘occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede”. Vedere Dio ed essere Dio coincidono. Altri ricordano il Prologo di Giovanni: “la luce risplende nelle tenebre”. La tenebra è complemento della luce come l’ignoranza lo è della sapienza, è infatti il buio a permettere che la luce brilli. Questa necessaria oscurità è secondo me la superficie opaca dell’io, che riceve la luce e ne viene illuminata. Questa rifrazione produce un’espansione della coscienza individuale, la rischiara. L’io, tuttavia, è libero di non accogliere la luce, di chiudersi nella sua natura oscura, infera.

Un altro aspetto essenziale è l’identità tra Luce e verità. Essa è quindi una via di conoscenza e di perfezione intellettuale. Ma è anche forza da cui emana spontaneamente e incessantemente il tutto, matrice e cibo della vita. Alcuni identificano questo bagliore immateriale col Cristo, col mistero trinitario, col Logos. Ma, più che farne argomento metafisico, coloro che contemplano la Luce la vivono in sé come esperienza di amore assoluto, un abbraccio che li colma di ineffabile pace e felicità. Direbbe Agostino che “esperimentano la dolcezza delle cose divine”.

Presi nell’amplesso spirituale, vedono che la vita non nasce da una serie di casuali reazioni fisico-chimiche ma da questo amore sorgivo, il cui fine è la beatitudine. “Vi dico queste cose perché la vostra gioia sia completa”. Ma non può esservi gioia dove non c’è amore, né gioia completa dove non vi sia un amore perfetto. Dio è Colui che ti cerca e che vuol essere amato. Perciò Gesù incalza Pietro: “tu mi ami?”, “tu mi ami?”. Il verbo che usa, agapáō, è la traduzione greca di un ebraico‘ahàv, dall’aramaico chàv che significa “accendersi, prendere fuoco”. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco” dice Cristo nel vangelo di Tommaso. L’intero cosmo, immensa sfera pulsante di indistruttibile coscienza, appare dunque il fiammeggiare di un impulso creativo in cui conoscenza e amore sono inseparabili, come luce e calore nel fuoco.

Si può pensare che identificare la Luce con Dio, con tutto ciò che questo termine comporta, soddisfi un preconcetto religioso. Anche ‘amore’ è un termine ambiguo, che evoca un ampio, eterogeneo spettro di associazioni. Potremmo forse tradurlo con ‘compassione’ o ‘empatia’, emarginando quegli aspetti erotici e sessuali che non sempre implicano cura e affetto dell’altro.  È ancora una volta un problema di parole. In realtà, la luce rappresenta un Mistero incomunicabile, “al di là dell’essere, del divino, del bene”, citando Dionigi. La si potrebbe credere nella sua essenza incomprensibile, e pensare che si riveli ad alcuni come Persona, ad altri come Idea, Forza o Vuoto fecondo, secondo le loro inclinazioni soggettive.

Ma in sostanza, indipendentemente dal fatto che prima della NDE fosse ateo, agnostico o bigotto, ognuno sperimenta in Sua presenza un puro, illimitato, indefettibile Amore. In Lei non v’è né giudizio né condanna. Non si acciglia di fronte alle debolezze umane ma le comprende, a volte ne sorride. Questo Oltre-divino che tutto perdona, tutto ama, anche i peggiori criminali, può deludere chi crede in un Dio maestoso e terribile, Dio degli eserciti, vendicativo e giustiziere. Inoltre, come conciliare tale infinita misericordia con le moltitudini di anime che vediamo scontare nell’aldilà pene spaventose? Alcuni credono che siano tormentate dalle loro stesse passioni, condannate dal loro rifiuto dell’amore divino. Del resto, se si ammette che certe patologie del corpo fisico, anche gravi, dolorose e mortali, abbiano origine in inconsci conflitti, a maggior ragione è concepibile che coscienze incorporee si auto-torturino, ostinate nel male, recalcitranti davanti alla medicina del perdono.

Carattere epifanico della morte

Dice Hildegard di Bingen che la visione mistica non insegna a parlar da filosofi. Le parole ispirate non sono umane, ma somiglianti “a una fiamma che oscilla”. Qualcuno cerca nelle NDE risposte teologiche o la conferma di posizioni confessionali o dogmatiche. Volendo vi potremmo trovare un’escatologia comune, un’apologetica dell’amore come destino ultimo dell’universo. Ma in una prospettiva ultraterrena pare non esistano religioni migliori di altre. Vengono considerate vie per avvicinarsi a Dio, alla Verità. Hanno valore strumentale, come la zattera usata per traghettarsi all’altra riva e poi abbandonata, secondo la nota metafora buddhista. Questo può certo dispiacere a chi trova nell’essere cristiano, induista o maomettano motivo di distinzione e superiorità.

Le NDE presentano una sorta di trascendente unità delle religioni, distillazione e semplificazione delle varie dottrine. Il loro messaggio ce ne dà una sintesi, un promemoria: siamo esseri liberi, spirituali ed eterni, la cui essenza è amore. Non siamo macchine o prodotti di un’evoluzione senz’anima; ogni forma secolare deve intonarsi alla volontà divina; scopo della vita non è sopravvivere, fare carriera o arricchirsi ma coltivare compassione e saggezza. E la morte non esiste. Cose già dette, che già sapevamo, ma che il mondo ci fa dimenticare.

Perciò i casi di NDE sembrano costituire un’aurorale epifania dello spirito. Invitano l’uomo a uscire dal suo soffocante immanentismo e riaprire un dialogo vivente con Dio, con l’oltremondano. Son parte di quei segni per ora minimi, seminali, quasi inavvertibili, dell’avvicinarsi di un’alba che dissiperà la tenebra del vecchio mondo. L’uomo di oggi ha bisogno d’una nuova rivelazione, di una metanoia che lo salvi dalle sue febbri vaneggianti, dalla totale alienazione e dall’autodistruzione. Lo spirito cerca dunque di parlargli ancora, di ricordargli antiche verità, ma la nostra epoca non favorisce certo il nascere di maestri e di profeti. Quindi si serve di morti, persone portate di là, istruite e rimandate di qua come stupefatti protagonisti di una abduction metafisica.

È forse un tentativo di curare le nostre follie. Forse ci vuol dire che il transumano verso cui tendere non è fatto di mostri bio-meccanici, dei deliri del Metaverso o della polisessualità, ma è un umano che realizza la sua interiore trascendenza. Insegnare che in ognuno di noi c’è un valore che tende all’infinito, che vuol esprimersi in forme sempre più compiute. Perciò non addita nel morire una fine ma uno sconfinato procedere. Non v’è alcun “essere per la morte”. Nulla può morire, ovvero, solo il nulla può cessare d’esistere, come svanisce un miraggio. Nascita e morte sono solo il battere e il levare di una vibrazione ritmica, sistole e diastole di un incessante flusso vitale. Un ampliarsi e un rinnovarsi inesauribile della visione, una tensione fra l’abisso luminoso che è in noi e le zone buie della nostra immanenza, attrito da cui sprizza ogni fiamma creativa. Ora l’essere si restringe in una forma corporea, si fa nervi e sangue, ora si dilata nel respiro dell’anima liberata dalla carne. È un’alternanza di contrazioni ed espansioni, ruota samsarica che attende forse un definitivo nirvana, quella dissoluzione d’ogni vincolo che rende la meditazione della morte meditazione della libertà.

Esiste dunque un’inscindibile solidarietà tra cose ultime e cose prime. E questo legame si manifesta nel pensiero rammemorante dell’essere. L’uomo non può chiudersi in un orizzonte finito senza perdere la sua umanità. Si è detto che la civiltà contemporanea congiura contro il silenzio e il raccoglimento. È vero, ma io direi anche che tesse trame oscure a danno della memoria. Non intendo semplicemente la memoria storica dei fatti, ma il ricordo di sé. La società produce in noi un’esiziale amnesia dell’essere, impigliandoci in una rete di apparenze, di realtà esteriori. Allora, solo morendo puoi ricordare. Il memento mori diventa un memento vivere. Non perché un retorico sensus finis ci permetta di godere più voluttuosamente dei piaceri della vita. Non v’è alcun bisogno di stimolare un simile edonismo. È piuttosto un richiamo alla serietà della vita: ricordati che sei eterno e che devi vivere secondo la dignità del tuo spirito.

L’uomo contemporaneo, tecnologico, è condannato a un vivere nella dimenticanza, a un’esistere la cui memoria è delegata ad algoritmi, a processori elettronici o a meccaniche informazioni neuronali. Ma i ricordi non sono semplici archivi, sono pulsazioni di una coscienza vivente, messaggeri di immortalità. L’anima accoglie in sé fatti mortali e li impregna di una sostanza ideale, immune al morire. Così, tutto – volti, affetti, dolori –  sopravvive in lei. Non è solo flusso di rievocazioni coscienti, è il formarsi di un centro, di un cuore che è continuità personale di memorie e di attese. “Io sono stato – io sono – io sarò”, certezza silenziosa che si incarna in Questo, ma affonda le sue radici in Quello da cui eternamente rinasce.

 

Il girone dei Filantropi

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di Livio Cadè

Fonte: EreticaMente

Dice un antico proverbio arabo che quando il povero parla nessuno lo ascolta, ma se il ricco fa un peto la gente esclama: “che profumo sublime!”. Oggi non è diverso. Le persone più ricche del mondo ammorbano il pianeta con le loro flatulenze, ma la gente annusa con reverente ammirazione. Questo ha prodotto un generale discredito della filosofia. Il nesso tra i due fenomeni può non essere evidente, ma diventa chiaro non appena si consideri la fondamentale incompatibilità tra l’esser filosofi e l’esser enormemente ricchi.

Il filosofo, anche se non è un Diogene, dovrebbe guardare con un certo disincanto al denaro. L’uomo occupato ad accumulare ricchezze materiali vede invece la filosofia come una perdita di tempo, quindi di denaro. Il filosofo è uomo di astrazioni. Il capitalista è uomo pratico, d’azione, il suo cervello è nutrito con principi rigidamente utilitaristici. Non utilitarismo speculativo, fatto di concetti filosofici, ma istintivo, come quello di un predatore. Il suo pensiero non ammette astrazioni, a parte il calcolo di profitti e interessi.

Viviamo ormai in un’epoca in cui il vero e più influente maître à penser è il grande capitalista. E il prestigio di cui gode il suo magistero è pari al capitale di cui dispone. Il sistema capitalistico, con le sue regole, i suoi valori, i suoi obiettivi, è diventato più o meno consciamente modello di vita, profezia di progresso sociale, tutore di un’Umanità dipendente in tutto dal denaro. Poiché è dunque il pensiero delle persone più ricche, per le quali ‘speculazione’ ha un significato esclusivamente finanziario, a determinare i generali processi sociali, si produce nella società un vuoto culturale e umanistico.

Tuttavia, alcuni miliardari refrattari alle consolazioni della filosofia sembrano nobilitarsi oggi con l’esser filantropi, preoccupandosi attivamente del benessere dell’Umanità. Tale filantropia ovviamente non si nutre di ideali filosofici, e il benessere che si prefigge di ottenere non implica piaceri intellettuali o spirituali.

Secondo il Filantropo-capitalismo l’uomo non ha bisogno di metafisici, santi o filosofi, ma di banchieri, medici, tecnici, ingegneri. Non gli servono relazioni umane appaganti, libertà, armonia interiore, ma tecnologie più efficienti e sistemi di produzione più razionali. Che solo i beni monetizzabili favoriscano un vero progresso umano appare una verità lapalissiana, che non serve argomentare.

È sufficiente convincere l’Umanità che la sua felicità non è legata a fruizioni immateriali come l’amore, la saggezza etc. ma alla disponibilità di cibo, di denaro, di protocolli sanitari. Naturalmente nessuno nega che vi siano nella vita necessità pratiche da soddisfare. Un tempo si diceva primum vivere deinde philosophari. Ma secondo i nuovi Filantropi solo i bisogni materiali sono essenziali e non differibili. Il resto – arte, filosofia, religione etc. – rappresenta un accessorio superfluo, diversivo cui eventualmente dedicarsi per soprammercato.

Si potrebbe obiettare che anche l’ammucchiar denaro è un gioco e non risponde ad alcuna reale esigenza umana; che macchine sempre più sofisticate o connessioni sempre più veloci non hanno una diretta relazione con la felicità; che i sedicenti progressi della medicina sono contraddetti da un’Umanità sempre più malata o malaticcia, afflitta da patologie croniche, terrorizzata da pandemie, dipendente dai farmaci; che una Filantropia materialista non ha certo mitigato il problema della fame del mondo etc.

Sollevare queste obiezioni significa però mettere in discussione alcuni postulati fondamentali, minacciando il collasso di un’intera visione del mondo. Come per l’uomo del Medioevo era inconcepibile mettere in dubbio l’esistenza di Dio, dell’inferno o del paradiso, oggi è impossibile non credere che la salvezza dell’uomo dipenda dal denaro, dai farmaci, dalle macchine. Anche la politica, ormai convertita alla Filantropia, non si interessa più di temi astratti come la giustizia o la libertà, ma di aumentare la disponibilità di computer e vaccini, di trovare ogni giorno nuovi pericoli da cui proteggere l’Umanità per poi “metterla in sicurezza”.

Su questo esubero di buone volontà nutro però vari dubbi. Ho detto infatti che alcuni moderni plutocrati sono filantropi – ossia persone che amano il genere umano – ma insieme disprezzano la filosofia, che è amore della sapienza. V’è dunque in loro un certo philèin – termine greco per amare – che ne escluderebbe un altro. Non è questa una contraddizione? Infatti ciò che più distingue l’uomo nel vasto insieme delle forme naturali è la sua ricerca del sapere. Disprezzare tale anelito comporta un disprezzo per l’Umanità che mal si concilia con l’amore.

Riconosco però che spregiare la filosofia può essere un ottimo esercizio filosofico. E d’altro canto, gli stessi Filantropi che detestano il filosofare amano il sapere che serve, ad esempio, per produrre un vaccino o un’antenna 5G, e che può tradursi in un sostanzioso guadagno. Quindi, potremmo considerarli esponenti di una filosofia sui generis, positivista, pragmatica, utilitaristica, forse poco accademica ma in grado di produrre notevoli effetti.

La mia perplessità più profonda è però un’altra. Di fatto, da quando questi grandi Benefattori se ne prendono cura, le condizioni generali dell’Umanità sono drammaticamente peggiorate. Come dice Solone, «in ogni cosa bisogna indagare la fine». E se era intenzione dei Filantropi applicare una terapia ai mali del mondo, il rimedio sembra alla fine aver prodotto più danni che benefici. Mi sono perciò convinto che il peggior male sia proprio la Filantropia. Penso vivremmo molto più serenamente senza questa opprimente sollecitudine per il nostro bene, senza chi si preoccupa così assiduamente della nostra salute, della sicurezza, del clima, dell’ambiente etc., imponendoci (per il nostro bene) sempre più oneri e austerità, restrizioni e impedimenti. Ci fossero più misantropi al mondo, penso saremmo tutti più liberi e felici.

E se osservo lo scempio della nostra civiltà, la sua devastazione interna ed esterna, mi viene il sospetto che i Filantropi amino l’Umanità come Gilles de Rais amava i bambini. Mi riferisco storicamente alla figura del Barone che emerge dagli atti del processo a suo carico. In realtà, non credo che quel virile uomo d’armi si abbandonasse alle efferatezze, ai rituali satanici e agli abomini di cui si dichiarò colpevole sotto tortura e per cui l’Inquisizione lo impiccò.

Viceversa, mi pare che i cosiddetti Filantropi nascondano, sotto una dichiarazione di sentimenti umanitari, una melma di desideri perversi, stupri mostruosi e commerci diabolici. Capisco che un’accusa tanto grave andrebbe provata. Ma è assurdo aspettarsi che una moderna Inquisizione sottoponga a processo i Filantropi e li torturi per indurli a una confessione. Ogni struttura inquisitoria oggi operante – politica, giuridica o mediatica – è infatti sotto il loro controllo.

Purtroppo questa malefica filantropia si è diffusa ovunque, contagiando gran parte dell’Umanità. Dall’alto di una piramide gerarchica, scendendone i vari gradi, i suoi vischiosi sentimenti son colati giù verso gli strati inferiori, fino alla base dell’edificio, appiccicandosi alla gente comune. Nessuno può sfuggire a questo  filantropismo coatto, sottrarsi ai doveri e al senso di responsabilità verso il genere umano senza avvertire un senso di colpa e di indegnità. Tutti siamo chiamati a combattere i grandi nemici dell’uomo: virus, batteri, raggi solari, anidride carbonica etc.

L’opinione pubblica non sa quanto i Filantropo-capitalisti guadagneranno da questa guerra, né di quanto costerà alla povera gente. Nessuno osa contestare il fatto che la soluzione di grandi problemi umanitari richieda grandi quantità di soldi, di sforzi e sacrifici economici. Chiunque provasse a suggerire altri approcci, meno venali e più spirituali, verrebbe preso per pazzo o considerato un ingenuo sognatore. Sembra che l’amore dell’Umanità, senza denaro, debba restare lettera morta, come una fede senz’opere. Par dunque si debba esser grati ai grandi Filantropi che investono in settori cruciali per il benessere dell’uomo e la sua sopravvivenza, come la bio-tecnologia, la vaccinazione di massa, i flussi migratori, l’economia green etc.

È possibile cogliere qui un’altra peculiarità della Filantropia moderna, intendo la lontananza. Il suo amore si rivolge non al prossimo ma a soggetti lontani nel tempo e nello spazio, persone che non possiamo né vedere né toccare, la cui esistenza resta per noi un valore astratto. Veniamo mobilitati per rispetto verso qualcuno mai conosciuto, oppure verso le future generazioni, entità inesistenti cui bisogna lasciare in eredità un mondo migliore. È necessario far continue spese e rinunce, mettere pesanti ipoteche sul presente a favore di un ipotetico domani.

Alcuni potrebbero pensare che le donazioni dei Filantropi siano destinate a sollevare le condizioni dei poveri e dei bisognosi. In realtà son elargite a Governi, Società, Organizzazioni, perché ne facciano uso filantropico. Questi Governi etc. trasferiscono una parte del lascito ad altri filantropi e questi ad altri ancora. Della somma elargita beneficia dunque un circolo chiuso di filantropi i quali ne usano secondo le necessità umanitarie per loro più urgenti (oggi in genere farmaci, dispositivi elettronici, sistemi di sorveglianza etc.). Nessun soldo finisce mai nelle tasche dei non abbienti. Ma è proprio così che il Filantropo conta di aumentare la ricchezza e il benessere complessivo dell’Umanità.

La sua intenzione è far sì che la ricchezza e il benessere che si creano nel mondo restino al 99% proprietà dei Filantropi. La ragione di ciò è che i piani per la salvezza dell’Umanità sono immensi, e quindi solo persone immensamente ricche se ne possono far carico. Se la ricchezza totale fosse distribuita in maniera equa, si disperderebbe in una moltitudine di rivoli senza forza, senza coesione. Il Filantropo prende dunque su di sé le ricchezze dell’Umanità come una missione (non oso dire una croce) per poterla amare più efficacemente. Questo stabilisce un legame necessario tra Filantropia e plutofilia. Non si diventa infatti immensamente ricchi senza amare il denaro.

Buddha o Cristo non potevano certo esser Filantropi. Né un san Francesco, che proibiva ai suoi frati di maneggiar denaro, “merda del diavolo” (solo dopo la sua morte i francescani, liberati da quel rifiuto intransigente, poterono arricchirsi e diventar filantropi). E non poteva esser Filantropo il beato Cottolengo, che di giorno raccoglieva offerte per sfamare i suoi poveri malati e la sera, con irrazionale fiducia nella Provvidenza, gettava dalla finestra i soldi avanzati.

Il vero Filantropo capitalizza, accumula, sa che l’uomo è ciò che possiede. Il suo motto potrebbe essere “io ho quel che ho donato, più gli interessi”. E non bisogna immaginare in ciò interessi di natura morale, come la soddisfazione e la consapevolezza di aver fatto del bene. Piuttosto il compiacimento del buon seminatore, cui i raccolti «fruttano il trenta, il sessanta e il cento per uno». Di fatto, non si può interpretare correttamente il fenomeno della Filantropia moderna se non rovesciando i nostri tradizionali concetti di amore, altruismo, fratellanza, solidarietà etc.,  ancora legati a una vecchia etica religiosa.

Solo così ci apparirà perfettamente logico il progetto filantropico di una drastica riduzione della popolazione umana. Razionalmente non è infatti possibile conciliare l’amore per l’Umanità con un crimine contro l’Umanità. Se però accettiamo la prospettiva del Filantropo vedremo che la contraddizione è solo apparente. Il Filantropo ama infatti l’Umanità ma non i singoli uomini, che di solito disprezza. Perciò elabora e sostiene ogni programma che, pur danneggiando le persone reali, favorisca un’ottimizzazione ideale della società secondo criteri più razionali e produttivi. Dal suo punto di vista, il depopolamento globale è giustificato da ragioni superiori che lo rendono, per così dire, una ‘strage umanitaria’.

Dovremmo per questo considerare il ricco Filantropo un assassino? O sospettare di lui solo perché, come dice Balzac, “dietro ogni grande fortuna c’è un crimine”? Per la gente semplice è molto difficile comprendere i moventi dei Grandi Filantropi, i valori che li ispirano. Anch’io forse ne parlo muovendomi più sul piano della fantasia che della cognizione di causa. Ammetto che per me sono esseri sconosciuti, entità misteriose, quasi metafisiche, di cui posso supporre l’esistenza solo attraverso deduzioni di natura teologica. Ad esempio argomentando che vi sia una Causa Prima o un primum movens che determini una catena di movimenti ed effetti filantropici.

Se fisso lo sguardo verso l’Olimpo dei Filantropi non vedo nulla, se non la luminosa caligine che l’avvolge. Più sotto divengono man mano visibili filantropi di livello inferiore – uomini d’affari, politici, giornalisti, medici etc. – investiti della missione di informarci e ammonirci, sorvegliarci e correggerci. Ma i gradi più sublimi restano arroccati su altezze inaccessibili, nascosti alla vista dei mortali. Non credo però che tale ritrosia sia dettata dall’umiltà. La mia teoria è che serva a nascondere gli effetti più ripugnanti e deformi della Filantropia.

Il passaggio dall’antropos al filantropos implica infatti delle mutazioni genetiche. Basta essere afflitti da una lieve sintomatologia filantropica per mostrare i segni di un’incipiente metamorfosi. Modificazioni quasi impercettibili per un occhio inesperto. Se però esaminiamo fasi più avanzate del processo – come appaiono in certi giornalisti, politici, scienziati etc. – diventa più facile cogliere nel volto, nella mimica, nel tono della voce, i sintomi di una degenerazione psico-somatica.

E salendo verso filantropi di grado ancor più elevato vedremo la corruzione interiore riflettersi in modo progressivo e sempre più evidente nei tratti esteriori. Come se un demone prendesse graduale possesso del loro corpo e ne alterasse le espressioni naturali. Faccio dunque l’ipotesi che chi sta all’apice dell’Ordine Filantropico, ormai integralmente posseduto dal demone, abbia sembianze e comportamenti non più umani.

La mia teoria coincide in parte con quanto si legge nel Canto XXXIII dell’Inferno dantesco. Giunto nella zona Tolomea, dove stanno i traditori degli ospiti, Dante rimane infatti sconcertato nel trovarvi due dannati – frate Alberigo e Branca Doria – che sa essere ancora vivi. Quegli uomini camminano ancora sulla terra, si chiede, quindi come possono essere qui? Gli viene spiegato che nel loro corpo è entrato un demone che ne guida i movimenti, simulando un’apparenza di vita, benché la loro anima sia da tempo precipitata tra le pene eterne.

Quindi, anche i corpi dei grandi Filantropi potrebbero essere involucri disanimati, abitati da una forza infera. Compiono i normali gesti della vita pur essendo interiormente già morti. Parole, pensieri, atti, tutto proviene dal demone che li abita. Questo spiegherebbe il fatto che nei loro programmi filantropici venga esclusa ogni preoccupazione per l’anima e la sua immortalità. È naturale invece che progettino forme di tecno-vita, cioè di non-vita, in cui proiettano un’immagine di sé stessi, della loro natura di automi disumanizzati. E provano uno sterile piacere nel privare gli altri di essenziali prerogative vitali come la libertà, la ricerca della felicità, l’amore, persino il respiro.

Si può dunque presumere che il Filantropo sia solo un simulacro biologico la cui anima è già ospite della zona Tolomea, rinserrata in un lago di ghiaccio che raggela le sue stesse lacrime. Questa congettura sarebbe suffragata da una tradizionale esegesi secondo cui la colpa lì punita è quella di chi “servendo tradisce il servito”; di chi, fingendo di beneficare, tradisce il beneficato. E appunto questo è l’intento reale, il volto vero della Filantropia.

Non possiamo tuttavia sapere chi, tra quelli che oggi dicono di agire per il bene dell’Umanità, sia ancora umano e chi sia già uno spettro, un golem maligno. Questo pone un fondamentale problema etico, cui Dante forse non pensò. Infatti, se accettassimo la sua teoria, uccidendo alcune persone non commetteremmo un reale omicidio, dato che sono già morte. Dovremmo tuttavia aver la completa certezza che la loro anima sia già all’inferno. Nel dubbio, ci si offre questa alternativa: adottare il metodo dell’abate Amaury – “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi” – o più prudentemente astenerci, lasciando tale incombenza al tempo e alla natura.

Apologia della capra

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QUINTA COLONNA

di Livio Cadè

Fonte: Ereticamente

I. Elogio dell’ignoranza

“Getta il sapere e non avrai tristezza“.

Si suol dire “ignorante come una capra”. Credo che alla capra poco o nulla importi di questo stupido pregiudizio. Ma a coloro che vi credono va ricordato un episodio della Patrologia Latina ove si narra della capra che salvò un santo eremita del deserto. Costui, non sapendo distinguere le erbe buone da quelle velenose, sarebbe morto se una capra, che per antico istinto sapeva riconoscere le piante non mangiabili, brucando in silenzio non gli avesse insegnato a riconoscerle. Il sant’uomo fu dunque soccorso dalla sapienza di una capra.

La nostra civiltà vive nel culto del sapere. Ma il nostro sapere è a volte nemico di una naturale saggezza e di una vera sapienza. Quella che chiamiamo conoscenza è spesso ignoranza, e viceversa. In tal senso Lao-Tze dice: “rinnega la conoscenza e il popolo cento volte ne trarrà giovamento”, massima che troverebbe oggi ben pochi seguaci. Tutti sembran infatti d’accordo nel dire che l’ignoranza è un male. Tuttavia è chiaro che siamo tutti ignoranti, in quanto ogni conoscere ha dei limiti e i campi del conoscere sono infiniti.

Parlando di sapere, oggi si intende di solito la competenza scientifica, conoscenza del mondo par excellence, ritenuta ormai motore imprescindibile dell’evoluzione sociale. Sono invece svalutate altre forme di conoscenza: saperi tradizionali, saggezza popolare, intuizione spirituale ecc. A questi saperi stabili, abbarbicati nel profondo dell’esperienza umana, si è sostituita una conoscenza priva di radici, di carattere incerto e volatile.

Tale conoscenza, essendo amministrata da una ristretta cerchia di esperti, lascia l’uomo medio in uno stato di perenne minorità e lo consegna alla tutela di un nuovo clero scientifico. Ma mentre il pensiero della Chiesa poggiava su basi ferme, quello della scienza, da Galileo in poi, ha sempre mostrato natura provvisoria. Nel suo tendere verso un progresso infinito determina una continua precarietà, e ci costringe a spingere i massi del sapere come in un supplizio di Sisifo.

Guardando alla storia, si può dubitare che questa conoscenza abbia contribuito alla nostra felicità e alla creazione di un mondo migliore. Si potrebbe anzi credere il contrario. I più tuttavia sostengono l’innocenza e la verginità della scienza. Sembrano ignorare che oggi la conoscenza non è, come poteva essere per i greci, pura teoria e contemplazione intellettuale ma, sulla traccia di Bacone,  ricerca del potere che nasce dal sapere, strumento di dominio sulle cose. Una conoscenza che fosse disinteressata comprensione del reale, filosofica meditazione sul senso della vita, ci sembrerebbe una perdita di tempo. Il sapere deve essere finalizzato a scopi pratici, tradursi in una tecnica, generare un profitto. Perciò il tempio della scienza si è riempito di mercanti e prostitute. Continua a leggere

Alice nel paese delle mascherine

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di Livio Cadè 

Fonte: Ereticamente

«Chi vuole ingannare gli uomini, deve prima di ogni altra cosa rendere plausibile l’assurdo».
(Johann Wolfgang Goethe)

Alice si presentò alla festa della sua amica Titti con una bellissima maschera da gatto. Il suo amico Tommy indossava una maschera da topo e Alice si mise a inseguirlo fingendo di volerlo afferrare. Titti, mascherata da cane mastino, li rincorse abbaiando. Corsero a perdifiato finché Alice, esausta, si levò la maschera che le toglieva il respiro e si lasciò cadere sulla grande poltrona del salotto. “Alice, sei una bambina sciocca!” si rimproverò da sola “non dovevi mangiare tre fette di torta!”. Così, mentre si riposava vide passare un buffo ometto. Portava una maschera da coniglio e ripeteva “È terribile, è terribile!”.

“Scusate signore” chiese educatamente Alice “che cosa è terribile?”

“Non ho alcun sintomo. Neanche uno! È terribile! Il Re mi chiuderà in gabbia. O mi farà mozzare la testa!”

“Neppure io ho sintomi, signore, e non mi pare così terribile” disse Alice cercando di rassicurare il coniglio, visibilmente angosciato.

“Dovevi dire ‘nemmeno io’ e ‘non mi sembra’! Non ti hanno insegnato il risfetto degli altri?” “Cosa vuol dire risfetto?” chiese Alice, ma quello corse via ripetendo “è terribile, terribile!”.

Alice, incuriosita, decise di seguirlo. “Aspetti!” gridò. I muri risposero “asfetti… asfetti”. “Che strana eco! Ha un difetto di pronuncia”. Come Titti, che diceva ‘cavamella’ e ‘fiovellino’. Rincorrendo il coniglio, che si infilava ora in una porta ora in un’altra, Alice si perse in un dedalo di corridoi sconosciuti. “E ora come farò a tornare a casa?” pensò. “Dovrei chiedere consiglio a qualcuno ma non c’è anima viva!” Vide una porta su cui stava scritto ‘residenza del consiglio’. “È proprio quello che cercavo!” si disse. Bussò, ma nessuno le aprì. Così si fece coraggio ed entrò. “Forse ho sbagliato a leggere” pensò “forse c’era scritto residenza del coniglio”. Si ritrovò in un salone pieno di persone mascherate sedute a un lungo tavolo che discutevano animatamente. Nessuno sembrò accorgersi di lei. Alice diede due piccoli colpi di tosse. Nessuno la sentì. Provò allora a tossire un po’ più forte. Tutti si girarono verso di lei. Continua a leggere

Bibbiano. Le uova del drago

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di Roberto Pecchioli

Fonte: Ereticamente

La vicenda dei bambini strappati ai genitori naturali nella provincia emiliana, con il coinvolgimento del sindaco PD dI Bibbiano, l’indagine a carico di operatori sociali, psicologi e sanitari ha squarciato il velo su un sistema che è troppo facile liquidare come la repubblica degli orchi. Gli orchi esistono e sono forti, qualcuno forse è anche a Bibbiano, ma la realtà è più seria. Parafrasando un romanzo di Pietrangelo Buttafuoco che fu un caso letterario nel 2005, potremmo affermare che si sono dischiuse le uova del drago. Una lunga incubazione ha fatto di tesi assurde, estreme, patrimonio di pochi allucinati, l’orizzonte dell’Occidente postmoderno. La morte di Dio, l’oblio della comunità e la tenace lotta contro la famiglia, legate dal filo della prevalenza degli “esperti” e del disprezzo della natura non potevano che rendere possibile al drago di imporsi in una società priva di anticorpi. Continua a leggere

Il padre della propaganda: Edward Bernays

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di Ilaria Bifarini

Fonte: EreticaMente

“L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”

Annoverato dall’autorevole rivista americana Life tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi.

Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni. La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi.
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“Teoria del mondo multipolare”. Verso un nuovo Nomos della Terra

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di Aleksandr Dugin

Fonte: Ereticamente

Presentiamo, per gentile concessione dell’editore, un ampio estratto del libro del filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin “Teoria del Mondo Multipolare”, recentemente pubblicato per i tipi diAGA Editricee ordinabile al seguente indirizzo:http://www.orionlibri.net/negozio/teoria-del-mondo-multpolare/.Traduzione di: Donato Mancuso. Curatore dell’opera: Maurizio Murelli.

Dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta della Germania nazista e delle potenze dell’Asse, si è sviluppato unsistema bipolaredi relazioni internazionali chiamato «sistema di Yalta». Giuridicamente, il diritto internazionale ha continuato a riconoscere la sovranità assoluta di tutti gli Stati nazionali ma nei fatti le decisioni fondamentali sulle questioni centrali relative all’ordine mondiale e alla politica mondiale venivano prese unicamente in due luoghi: a Washington e a Mosca. […]

IL MOMENTO UNIPOLARE

Con il crollo di uno dei due poli (l’Unione Sovietica crollò nel 1991), anche il sistema bipolare è crollato. […] Pur riconoscendode jurela sovranità, il mondo di Yalta erade factocostruito sul principio dell’equilibrio di due egemoni simmetrici e relativamente uguali. Con l’uscita di scena di uno degli egemoni, l’intero sistema ha cessato di esistere. […] Da questo momento, l’intera struttura dell’ordine mondiale è cambiata qualitativamente e in modo irreversibile. Il polo guidato dagli Stati Uniti e basato sull’ideologia liberale, democratica e capitalista, è un fenomeno tuttora in essere che negli anni ha continuato a diffondere, su scala mondiale, il proprio sistema socioeconomico fondato sulla democrazia, sul mercato e sull’ideologia dei diritti umani. Ci troviamo dunque di fronte ad un fenomeno che possiamo identificare precisamente comemondo, e ordine mondiale, unipolare. In seno al mondo unipolare vi è un unico centro decisionale riguardante le grandi questioni globali. L’Occidente e il suo nucleo, la comunità euroatlantica guidata dagli Stati Uniti, assume il ruolo di unica potenza egemonica. […]

Negli anni ’90 il mondo unipolare sembrava essere una realtà definitivamente consolidata, e alcuni analisti statunitensi hanno elaborato, su questa base, la tesi della «fine della storia» (Fukuyama). Questa tesi consisteva nell’idea che il mondo sarebbe diventato completamente omogeneo ideologicamente, politicamente, economicamente e socialmente, e che d’ora innanzi tutti i processi che avrebbero avuto luogo, non sarebbero stati più un dramma storico basato sullo scontro di idee e di interessi, ma piuttosto una competizione economica (e relativamente pacifica) tra attori del mercato, in modo simile a come viene costruita la politica interna dei regimi liberaldemocratici. Così, la democrazia diventa mondiale. Sul pianeta vi è solo l’Occidente e la sua periferia, composta dai paesi che gradualmente si integrano in esso. […] Pertanto, secondo Fukuyama, il tempo degli Stati nazionali è finito e il mondo è prossimo a un’integrazione completa e definitiva. L’umanità si sta trasformando in una società civile globale, la politica lascia il posto all’economia, la guerra lascia il posto al commercio, l’ideologia liberale diviene lo standard indiscusso e universalmente riconosciuto, e tutti i popoli e le culture si mescolano in un unicocrogiolocosmopolita. […]

LA CIVILTÀ COME ATTORE

Huntington obietta a questi punti da una posizione pessimistica. Secondo lui la fine del mondo bipolare non conduce automaticamente alla creazione di un ordine mondiale liberaldemocratico globale e omogeneo e, quindi, la storia non è finita ed è prematuro parlare della fine di conflitti e guerre. Il mondo ha cessato di essere bipolare, ma non è diventato né globale né unipolare. Esso ha una configurazione completamente nuova caratterizzata da nuove collisioni e scontri, tensioni e conflitti. Qui, Huntington arriva al punto più importante del suo ragionamento: egli avanza un’ipotesi del tutto valida e ancora oggi sottovalutata suchi sarà l’attore, il principale personaggio di questo mondo futuro. Egli chiama tale attorela civiltà.

Questo passo concettuale potrebbe essere considerato l’inizio di una teoria completamente nuova: lateoria del mondo multipolare. Huntington mette in luce un elemento centrale: identifica un nuovo attore, la civiltà, e al tempo stesso parla della molteplicità di questi attori, usando al plurale questa parola nel titolo del suo libro –Lo scontro«delle civiltà». […] Grazie a Huntington, otteniamo in prima approssimazione un quadro di una nuova teoria, la quale postula un modello in seno al quale coesistono diversi centri decisionali a livello globale nel campo delle relazioni internazionali, e ad ognuno di essi vi corrisponde una civiltà. Continua a leggere

Con Notre-Dame brucia l’Europa

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di Umberto Bianchi

Brucia, brucia e brucia ancora…mai, a memoria d’uomo, incendio si era visto così forte e resistente alle umane tecnologie…Eppure si sussurra che, in quel di Francia, come anche (almeno così dovrebbe essere…sic!) in San Pietro o al Duomo meneghino, siano in funzione dei quasi-infallibili sistemi di sicurezza; veri e propri micro-apparati con tanto di sensori collegati a centrali di pronto intervento…Ma di pronto qui sembra non esservi proprio nulla, salvo che un incendio bell’e scoppiato da ore ed ore ed inspiegabilmente indomabile. Media che profetizzano a voce bassa la distruzione di uno dei più bei gioielli architettonici del mondo, mentre qualcuno ci dice che questo già fu distrutto da un precedente incendio un secolo e passa fa ed abilmente ricostruito, come se questo fosse una consolazione tardiva a quello che, ora più che mai, sta assurgendo a simbolo del falò di un Occidente e di un’Europa profondamente malati. Malati della più insidiosa e schifosa forma di sifilide che una civiltà possa conoscere: quella del buonismo. Malati di una religiosità che tale non è più, oramai ridotta a puro e semplice fenomeno massmediatico, infarcito di belle parole, buone intenzioni e null’altro più, che non sia molle adeguamento ai ritmi vitali di un imperante materialismo economicista. Continua a leggere

Denatalità, il problema cruciale

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di Roberto Pecchioli

Denatalità, il problema cruciale

Fonte: Ereticamente
Se chiediamo a un campione di cittadini mediamente informati e di buona istruzione quale sia il problema più grave dell’Italia, otterremo una notevole varietà di risposte. Alcuni parleranno dell’immigrazione, moltissimi della disoccupazione, altri della perdita dei diritti sociali, qualcuno del declino dei principi morali, della corruzione e così via. La nostra tesi è diversa: la questione più rilevante è la denatalità. Un popolo che non fa figli è destinato a finire per consunzione biologica. Si trascina nell’egoismo, nella sfiducia del futuro, nella chiusura mentale, nel rifiuto stesso della vita. Poiché la natura ha orrore del vuoto e altrove la pressione demografica è immensa, qualcuno, fatalmente, ci sostituirà. La civiltà in cui siamo nati sparirà e l’Italia diventerà un concetto del passato. La studieranno sui libri di storia. Il presente intervento si pone un obiettivo: affermare che le culle vuote sono il problema più grave e urgente della nazione e le difficoltà economiche, finanziarie e sociali nelle quali ci dibattiamo hanno tra le cause scatenanti l’invecchiamento e la conseguente diminuzione della popolazione. Forse non è del tutto vero, come pensava Benito Mussolini, che il numero è potenza, ma certamente, in un tempo che aspira alla crescita infinita, perdere popolazione è un elemento di profonda debolezza, il segnale visibile del declino. Nel presente, solo gli argomenti legati all’economia o agli interessi riescono a convincere. Per questo rinunciamo alla mozione dei sentimenti, all’appello in favore della nostra civiltà, al patriottismo, alla necessità di salvare dall’estinzione la nostra nazione. La nostra tesi è che la continuità biologica del popolo italiano conviene, è il migliore investimento per il futuro, un grosso affare per tutti e per ognuno. Continua a leggere

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