Il mondo questa settimana

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dettaglio_putin_potere_820Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale clicca qui

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: il mandato di cattura contro Putin, la risposta della Cina al patto Aukus, il piano Ue per la decarbonizzazione e le materie prime, la riforma delle pensioni in Francia, il nuovo accordo tra Argentina e Fmi, le elezioni in Nigeria…

MANDATO DI CATTURA PER PUTIN [di Mirko Mussetti]

La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il suo commissario per i diritti dei bambini Marija L’vova-Belova per deportazione illegale di minori ucraini. Secondo i giudici istruttori, vi sono «ragionevoli motivi per ritenere che i sospettati siano responsabili del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a danno dei fanciulli ucraini». Si stima che i bambini ucraini deportati dall’inizio dell’invasione russa siano circa 6 mila. I giudici hanno preso in considerazione l’emissione di un mandato segreto, ma infine hanno optato per il mandato pubblico per «contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di reati».

Il mandato di cattura spiccato contro Putin avviene a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che non classifica le azioni belliche della Russia come “genocidio”. La commissione indipendente dell’Onu conferma però la commissione di reati da parte delle forze di occupazione e definisce il trasferimento illegale di bambini al di fuori dell’Ucraina come “crimine di guerra”.

Mosca ha immediatamente bollato come insignificante la decisione della Corte. Infatti, al pari degli Stati Uniti (e della stessa Ucraina), la Russia non riconosce la giurisdizione della Cpi, non avendo mai ratificato lo statuto di Roma del 1998. Per questo genere di questioni, Mosca ritiene preminente la Corte internazionale di giustizia (Cig), che è organismo delle Nazioni Unite con sede anch’esso all’Aia (Paesi Bassi). L’atto ha valore simbolico ma è poco significativo in concreto. Tanto per cominciare, il presidente Putin dovrebbe essere catturato. Cosa piuttosto improbabile vista la sua riluttanza a uscire dai confini della Federazione. Inoltre anche in Russia è radicata la convinzione che a stabilire ciò che è crimine di guerra non sia un giudice terzo, bensì il vincitore. Ecco perché il Cremlino non se ne cura: la storia è scritta dai vincitori e la Russia confida nella vittoria definitiva in Ucraina. Le autorità ucraine hanno comunque salutato con favore la decisione della Cpi, che oltre a complicare i viaggi all’estero di Putin conferma la rottura diplomatica/istituzionale tra Occidente e Russkij Mir (mondo russo).

Non deve stupire il basso profilo adottato dagli Stati Uniti sulla questione. Il dipartimento della Difesa si è mostrato riluttante a condividere le prove di possibili crimini di guerra russi con la Cpi e il presidente Joe Biden non ha agito per risolvere le controversie che contrappongono il Pentagono ad altre agenzie, dipartimento di Stato in primis. Washington vuole infatti evitare di contribuire a creare un precedente. Un domani la stessa America potrebbe essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nelle guerre condotte negli ultimi trent’anni.


🎨 Carta inedita della settimana: La rotta del grano


LA CINA CONTRO AUKUS [di Giorgio Cuscito]

L’aspra replica del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese all’ufficializzazione dei dettagli dell’accordo tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia sui sottomarini a propulsione nucleare (il patto Aukus) conferma l’apprensione di Pechino circa il consolidamento della tattica di contenimento americano nell’Indo-Pacifico.

Contenimento che il governo di Xi Jinping vorrebbe scardinare tramite il presidio dei Mari Cinesi, il controllo di Taiwan (se necessario da conseguire manu militari), la penetrazione in Oceania con investimenti infrastrutturali nell’ambito delle nuove vie della seta e accordi securitari come quello concluso con le Isole Salomone.

Aukus mina questo progetto perché contribuisce alla proiezione militare dell’Australia in direzione della Repubblica Popolare (poco conta il fatto che i cinesi abbiano rimosso le restrizioni alle importazioni di carbone australiano) e getta le basi per nuove collaborazioni tra Canberra, Washington e Londra. Basti pensare al possibile sviluppo congiunto di missili ipersonici, vettore che Pechino sta testando da alcuni anni. Oppure alle molteplici iniziative militari e accademiche promosse da Usa, Australia, Giappone e India per allacciare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) alla Nato e favorire la collaborazione tecnologica tra rivali della Repubblica Popolare.

Il consolidamento del fronte anticinese in tale ambito – che coinvolge pure Taiwan – è una delle ragioni che nel 2023 spingerà Pechino a intensificare gli sforzi per perseguire la cosiddetta “autosufficienza” nel campo dei semiconduttori, cruciali a loro volta per il potenziamento del proprio arsenale militare. Non a caso i due obiettivi sono stati messi per iscritto durante le riunioni plenarie del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Cioè le “due sessioni” che hanno confermato Xi Jinping capo di Stato per la terza volta.


IL PIANO UE PER LA DECARBONIZZAZIONE [di Fabrizio Maronta] Net Zero Industry Act. Questo il nome del piano, presentato giovedì dalla Commissione europea, per incentivare e rafforzare le industrie europee a impatto carbonico neutro (cioè compensato, oltre che ridotto in partenza). Il piano, afferma Bruxelles, mira a “rendere il nostro sistema energetico più sicuro e sostenibile”, facendo sì che “le tecnologie a impatto carbonico neutro raggiungano almeno il 40% della capacità manifatturiera europea entro il 2030”. Ciò senza compromettere, anzi incentivando, “competitività, impieghi di qualità, indipendenza energetica”.
Il pregio del piano, o almeno delle sue intenzioni, è mettere da subito in chiaro il nesso ormai inscindibile tra problematica ambientale e suoi risvolti sociali e geopolitici. Sull’onda di Covid-19, guerra in Ucraina e scontro tecnologico Usa-Cina, perseguire la transizione energetica senza tener conto del contesto strategico e dei costi socioeconomici implica gettare alle ortiche la tanto decantata “sostenibilità”, relegando la decarbonizzazione al novero delle occasioni mancate.
Un assaggio del problema, meglio dei suoi possibili esiti si è avuto recentemente con l’iniziativa tedesco-italiana volta a ritardare la messa al bando dei motori endotermici, per comprare tempo a un’industria dell’auto che deve ripensare completamente filiere e tecnologie.
Due i nodi principali del piano europeo. Primo: i soldi. La Commissione europea stima in 400 miliardi di euro all’anno i costi per raggiungere i propri obbiettivi di decarbonizzazione entro il 2050. Ma tutto questo denaro nel piano non c’è, anche perché l’Ue manca di capacità fiscale propria. E in molti dubitano che i capitali privati possano mobilitare un simile volume d’investimenti per un periodo così ampio.
Il paragone immediato è con l’America, che gioca la sua partita di reindustrializzazione/decarbonizzazione a suon di incentivi pubblici: il Chips and Science Act stanzia 280 miliardi di dollari per promuovere ricerca e produzione interne dei semiconduttori; l’Inflation Reduction Act ne destina 369 all’energia pulita; il precedente Build Back Better mette sul piatto mille miliardi per rinnovare le infrastrutture nazionali. Non abbastanza, ma molto più di noi.
Il secondo problema sono le materie prime. La recente scoperta, nell’Artico svedese, di un grande deposito di terre rare da parte della società mineraria Lkab ha fatto il giro del mondo. Ma ci vorranno anni e – di nuovo – investimenti enormi per approssimare un’autosufficienza europea in questo settore critico per le tecnologie elettriche e informatiche. L’estrazione è solo il primo passo di una filiera (raffinazione, riciclo) su cui l’Europa è molto indietro. Al pari dell’America, certo, ma senza gli spazi fisici di questa dove ospitare siti vasti, altamente energivori ed ecologicamente impattanti.
Cruciale sarà poi capire quanto questo sforzo economico sia compatibile con l’aiuto alla ricostruzione ucraina, che sia annuncia tremendamente oneroso. Non stupirebbe se i paesi europei giungessero alla conclusione che i due compiti si elidono a vicenda, optando per concentrarsi (quasi) esclusivamente sul primo. Con quali conseguenze sulla stabilità ucraina e sulla relazione transatlantica, sarebbe tutto da vedere.

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


IL 49.3 CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO [di Agnese Rossi]

In Francia, il ricorso all’articolo 49.3 della costituzione ha permesso a Emmanuel Macron di far passare l’impopolare disegno di legge sulla riforma del sistema pensionistico senza discussione parlamentare. Il presidente, che non dispone di una maggioranza assoluta in Assemblea nazionale (la camera bassa del parlamento), ha preferito non esporre il progetto al voto, dunque al rischio di una bocciatura. I deputati hanno accolto l’annuncio della premier Élisabeth Borne fischiando e intonando la Marsigliese. Le forze di opposizione hanno quindi depositato venerdì una mozione di sfiducia transpartisan sottoscritta da 91 deputati di cinque gruppi politici che potrebbe portare allo scioglimento del governo (verrà esaminata lunedì). Nel pomeriggio di giovedì e nella notte seguente si sono registrati violenti focolai di protesta in diverse città della Francia, a partire da quello nella capitale in Place de la Concorde, la stessa che ha ospitato la ghigliottina nella stagione rivoluzionaria aperta dal 1789 e che ieri è stata teatro di aspri scontri tra le forze di polizia e migliaia di manifestanti.

La partecipazione popolare ampia e trasversale di ieri e delle precedenti giornate di mobilitazione rivela in primo luogo il valore simbolico e identitario che lega i cittadini della République al proprio sistema di protezione sociale, che fissa l’età pensionabile a 62 anni – una delle più basse in Europa – contro i 64 previsti dalla riforma. Ma anche una diffusa disponibilità alla violenza al fine di preservarlo nella forma attuale. Il sistema pensionistico dell’Esagono, cui viene tributato il 14,5% del pil, è in effetti uno dei più dispendiosi: il suo impianto generale risale al secondo dopoguerra, quando solo un terzo della popolazione viveva fino all’età della pensione. Le aspettative di vita sono negli anni gradualmente aumentate, ragion per cui tutti i presidenti da Mitterand in poi l’hanno riformato. Neanche il ricorso all’articolo 49.3 è di per sé inedito: si calcola che sia stato impiegato 100 volte nella storia della Quinta repubblica, l’ultima in ottobre per far passare la legge di bilancio. Inusitata è stata in proporzione la rabbia sociale manifestata dai cittadini francesi, alimentata dal rifiuto di Macron di confrontarsi con i sindacati. L’impopolarità del piano si comprende meglio alla luce del preesistente scontento nei confronti dell’inquilino dell’Eliseo, che ha fatto della riforma una missione personale.

Il secondo mandato è infatti per il presidente francese l’ultima occasione per consolidare la propria eredità politica. In questa chiave va letta non solo la riforma delle pensioni ma anche la parallela e altrettanto contestata riforma della diplomazia, su cui proprio ieri – nel mezzo del tumulto – Macron è tornato a insistere e che lo scorso giugno ha portato al raro spettacolo di uno sciopero al Quai d’Orsay (il ministero degli Esteri transalpino). Se Macron verrà ricordato come un abile riformatore o come un Giove distante e sordo alle esigenze reali del paese dipende anche dalle evoluzioni di questa vicenda. Che sembra comunque aver compromesso parte della sua legittimazione politica e popolare, aprendo allo spettro di una nuova ondata di malcontento.


L’ARGENTINA TRA FMI ED ECUADOR [di Federico Larsen]

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Argentina hanno raggiunto un nuovo accordo di revisione degli obiettivi pattuiti nel 2022 per il piano sul debito da 45 miliardi di dollari contratto da Buenos Aires nel 2018. Si tratta dell’aiuto più consistente mai elargito nella storia del Fmi, criticato dallo stesso staff tecnico del Fondo in un documento di revisione nel dicembre 2021: secondo quel rapporto, il supporto elargito è evidentemente troppo oneroso per essere restituito nei tempi pattuiti e buona parte dei fondi sono stati usati per sostenere artificiosamente il tipo di cambio col dollaro, invece di puntellare la debole economia argentina. Un mea culpa che spiega in parte certa flessibilità mostrata dall’organismo durante le negoziazioni con Buenos Aires e la disposizione a rivedere gli obiettivi stabiliti due anni fa, tenuto conto dei drastici cambiamenti del panorama economico mondiale e locale.
Ritoccati gli obiettivi sull’accumulo delle riserve dai 9,8 miliardi di dollari previsti originalmente per il 2024 a solamente 2 miliardi, l’Fmi rilascerà un nuovo pacchetto da 5,3 miliardi per coprire una tranche del debito del fallito piano di salvataggio dell’allora presidente Mauricio Macri, ma in cambio di nuovi tagli ai sussidi sull’energia e del raggiungimento della meta fiscale già accordata, che prevede di non sforare il 1,9% di deficit per quest’anno. Un traguardo che la maggior parte degli esperti in Argentina considera irraggiungibile. Solo nei mesi di gennaio e febbraio la siccità ha causato riduzioni nelle esportazioni agricole che significheranno una perdita di 15 miliardi di dollari per il fisco, mentre l’inflazione su base annua ha ormai superato il 100%, obbligando il governo a rivedere anche gli accordi salariali con i dipendenti pubblici e quindi ad aumentare le spese più del previsto.
Debito, inflazione e crisi sociale stanno facendo sfumare le già poche speranze di rielezione per l’attuale coalizione di governo e si moltiplicano le voci che propongono la dichiarazione di un nuovo default (bancarotta). Tra le soluzioni al drastico tracollo argentino si torna a parlare di Brics+: se hanno mantenuto gli scambi commerciali con la Russia nel pieno delle sanzioni per la guerra in Ucraina, perché non sostenerli con un’Argentina in bancarotta e tagliata fuori dal sistema di Bretton Woods?
Nemmeno le relazioni diplomatiche sembrano attraversare un momento del tutto positivo. Mercoledì il governo dell’Ecuador ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore argentino dopo che si è scoperto che l’ex ministra dei Trasporti – María de los Ángeles Duarte, condannata in patria a otto anni di prigione per corruzione e rifugiatasi nell’ambasciata argentina a Quito – era riuscita a raggiungere Caracas, dove ha chiesto lo status di rifugiata alla locale sede diplomatica argentina. Il governo di Guillermo Lasso accusa Buenos Aires di aver permesso la fuga di Duarte, che aggirando tutti i controlli delle autorità ecuadoriane ha messo in ridicolo l’esecutivo. Il presidente dell’Ecuador ripropone la vecchia dicotomia tra liberali e populisti in America Latina per alleviare le proprie responsabilità: così il suo omologo argentino Alberto Fernandez sarebbe complice dell’ex presidente della sinistra ecuadoriana Rafael Correa nel garantire l’impunità a Duarte d’accordo con il presidente venezuelano Nicolás Maduro.
Un intreccio degno forse del passato protagonismo continentale dell’Argentina, che oggi sembra davvero molto lontano.


ELEZIONI IN NIGERIA [di Luciano Pollichieni]

Entrambi i partiti sconfitti alle elezioni presidenziali in Nigeria hanno annunciato di voler fare ricorso contro i risultati delle votazioni che hanno sancito la vittoria di Bola Tinubu.
Lo svolgimento delle elezioni in Nigeria non è stato lineare. Del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti? Con le regioni del nord-est oggetto delle scorribande di gruppi criminali, quelle nordoccidentali colpite dall’insurrezione dello Stato Islamico e violenze politiche diffuse, nessuno può biasimare la commissione elettorale indipendente (Inec) per non aver mantenuto gli standard garantiti. In secondo luogo, paradossalmente i ricorsi annunciati da Atiku Abubakar (candidato del People’s Democratic Party che ha raccolto il 29% dei voti) e da Peter Obi (Labour Party, 25,40% dei voti) non sono altro che il proseguimento per via giudiziaria di quella frammentazione geopolitica e identitaria che il processo elettorale ha semplicemente messo in luce.
Salvo colpi di scena, sempre dietro l’angolo nella politica nigeriana, sembra difficile che la Corte suprema possa ribaltare il risultato delle urne per almeno due motivi: primo, le obiezioni da parte degli sconfitti sono poco chiare, contraddittorie o molto generiche, come nel caso di Obi che ha denunciato un complotto ordito contro il suo partito senza spiegare da chi; secondo, l’imminenza delle prossime elezioni regionali. La Nigeria è chiamata sabato 18 marzo a eleggere 28 dei 36 governatori federali, incluso quello dello Stato di Lagos – feudo del presidente eletto Tinubu – e una pronuncia contro il risultato elettorale potrebbe generare una pericolosa reazione a catena di ricorsi anche nell’ambito delle regionali che getterebbero il paese nello stallo istituzionale, polarizzando ulteriormente l’elettorato.
Tra le numerose crisi interne e la richiesta ad Abuja da parte dei partners regionali e globali di un ruolo più proattivo nella geopolitica continentale e dell’Africa Occidentale, l’idea di un paese paralizzato per un mese in vista della pronuncia della Corte suprema non appare incoraggiante. Le elezioni vanno avanti, ma della nuova classe dirigente non c’è ancora traccia.

Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


ALTRE NOTIZIE DELLA SETTIMANA

Fonte: https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-putin-cpi-ue-terre-rare-francia-cina-aukus-argentina-fmi-nigeria/131529

 

Lo stato dell’economia Usa: verso il punto di non ritorno?

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di Giacomo Gabellini

Fonte: L’Antidiplomatico

Gli Stati Uniti hanno un serio problema di statistiche, specialmente in materia di rilevazione della disoccupazione. Nonostante le autorità di Washington e i mezzi informativi continuino a parlare di “miracolo occupazionale”, i dati indicano che su una popolazione di circa 332 milioni di persone e una forza lavoro che alla fine di gennaio annoverava 265,92 milioni di individui, ben 100,130 milioni di adulti risultavano inoccupati. Il tasso di partecipazione della forza lavoro alla crescita economica oscilla ormai da anni tra il 62 e il 63%, attestandosi ai livelli più bassi dalla fine degli anni ’70, quando ancora si avvertiva pesantemente l’impatto generato dallo sganciamento del dollaro dall’oro e dagli shock petroliferi.

L’economista e statistico John Williams ha richiamato l’attenzione sull’inadeguatezza dei metodi di rilevazione impiegati dalle autorità nazionali, evidenziando che il tasso ufficiale di disoccupazione (U-3) adoperato dalla Federal Reserve tiene conto soltanto del totale dei disoccupati in percentuale rispetto alla forza lavoro. Il Bureau of Labor Statistics (Bls) prende invece in esame un bacino più ampio (U-6), ricavabile dalla sommatoria tra il numero dei disoccupati e l’ammontare complessivo degli individui impiegati con contratti part-time ma anelanti a lavorare a tempo pieno, oltre al computo delle persone che hanno lavorato per un certo periodo negli ultimi 12 mesi ma che al momento non lavorano né sono alla ricerca di un’occupazione e soffrono di questa condizione di disagio dovuta al particolare stato del mercato del lavoro. Nell’ottica di Williams, una statistica capace di riflettere il reale stato occupazionale del Paese deve tassativamente ricomprendere tanto il tasso U-6 quanto i lavoratori scoraggiati di lungo termine.

Qualora Federal Reserve e Bls applicassero un simile metodo di rilevazione, il tasso di disoccupazione effettivo lambirebbe attualmente la soglia critica del 24,5%. Una percentuale di ben sette volte superiore al tasso ufficiale stimato dalla Fed (3,4%), che ridicolizza la narrazione dominante propugnata da istituzioni e organi di stampa circa il “rivoluzionamento” del mercato del lavoro statunitense, asseritamente passato dall’offrire appena un posto di lavoro per ogni 3,1 disoccupati nel dicembre 2012 a garantire due posti di lavoro per ogni disoccupato nel dicembre 2022. Il rapporto tra disoccupati e posti di lavoro disponibili rappresenta un indicatore tutt’altro che affidabile, perché si presta a una serie di distorsioni particolarmente insidiose. Tanto per cominciare, non tiene conto dei criteri di accessibilità, né del fatto che molti statunitensi svolgono due o addirittura tre lavori simultaneamente.

Allo stesso tempo, l’entità del dato concreto relativo alla disoccupazione ridimensiona enormemente la spinta equilibratrice prodotta dai fenomeni in forte crescita della sindacalizzazione – giunta a coinvolgere gli impiegati presso colossi quali Amazon, Alphabet, Microsoft e Starbucks – e degli scioperi. Il marxiano “esercito di riserva” del capitale rimane assai cospicuo, e continua a fungere – a dispetto della ostentata crescita dei salari reali registrata nel 2022 – da calmieratore delle retribuzioni. L’ostentata crescita dei salari nominali registrata nel 2022 è infatti stata ampiamente compensata dall’aumento vertiginoso dei prezzi al consumo, delle bollette elettriche, delle auto (sia nuove che usate), del carburante e dei generi alimentari verificatosi entro lo stesso arco temporale. Si parla di un crollo dei salari reali pari all’1,7% su base annua, tradottosi non in un proporzionale e concomitante decremento dei consumi, ma in un colossale ridimensionamento degli “accantonamenti prudenziali”.

Combinandosi alla penalizzazione del consumo prodotta dai provvedimenti governativi atti a limitare la diffusione del virus Covid-19, le misure straordinarie a sostegno di famiglie e imprese approvate in seguito allo scoppio della crisi pandemica dall’amministrazione Biden in accordo con il Congresso hanno agevolato un ingente accumulo di risparmi da parte della popolazione statunitense che tendevano ad assottigliarsi in coincidenza con ogni singola riapertura. Lo si evince dai dati, attestanti la sincronia tra le chiusure e i maggiori incrementi della percentuale di risparmio rispetto al reddito. All’aumento dall’8,7 al 26,4% tra il quarto trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2020 fece seguito un crollo al 13,7% al quarto trimestre dello stesso anno. Si verificò quindi una risalita al 20,4% al primo trimestre 2021, anticipatrice di una caduta rovinosa e costante che ha ridotto la disponibilità di risparmi rispetto al reddito ad un “misero” 2,9% alla fine del quarto trimestre 2022.

All’aumento incontrollato dell’inflazione, alimentata dalla doppia spinta esercitata dai sostegni straordinari alla popolazione erogati dal governo e da una bulimia di consumo non compensata da produzione autoctona, la Federal Reserve reagì intraprendendo un processo di “normalizzazione monetaria” implicante l’aumento graduale dei tassi di interesse associato a una brusca stretta creditizia.

Per i nuclei famigliari che avevano beneficiato dei sussidi pubblici e dei tassi a zero applicati in epoca pandemica dalla Federal Reserve per contrarre mutui immobiliari, la manovra della Fed si è tradotta in un vero e proprio bagno di sangue, perché ha comportato un drastico aumento degli oneri debitori a carico di nuclei familiari con disponibilità di risparmio già falcidiate dall’inflazione. La situazione appare enormemente problematica, specialmente alla luce dei dati emersi da un recente sondaggio condotto da Lending Club secondo cui il 64% dei consumatori statunitensi — circa 166 milioni di persone — si vede costretto ad operare sistematici razionamenti alle proprie spese, e il 51% dei cittadini statunitensi (contro il 42% registrato lo scorso anno) che percepisce un reddito annuo pari o superiore ai 100.000 dollari non riesce ad accantonare il becco di un dollaro.

All’atto pratico, più che a placare le fiammate inflazionistiche e le rivendicazioni salariali, l’incremento tendenziale dei tassi varato dalla Federal Reserve sembra rispondere alla necessità tassativa che gli Usa hanno di richiamare capitali dall’estero per finanziare i loro squilibri strutturali. Gli Stati Uniti hanno chiuso il 2022 con un disavanzo commerciale pari a 1.181 miliardi di dollari, un deficit di bilancio pari a 1.400 miliardi di dollari e un debito federale pari a 31.420 miliardi di dollari. Ma non è tutto. Dopo esser migliorata, passando da 18.124,293 a 16.285,837 miliardi di dollari di passivo (-1.838,456 miliardi) tra il quarto trimestre del 2021 e il secondo trimestre del 2022, la loro posizione finanziaria netta è tornata a peggiorare rapidamente, giungendo a 16.710,798 miliardi di dollari di passivo nel terzo trimestre 2022 (+424,961 miliardi), nonostante l’immane deflusso di capitali dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico verificatosi in seguito alla degenerazione del conflitto russo-ucraino.

I dati indicano che, tra il settembre e l’ottobre 2022, l’esposizione in Treasury Bond statunitensi del Giappone era diminuita da 1.120,2 a 1.064,4 miliardi di dollari; quella della Repubblica Popolare Cinese, da 933,6 a 877,8 miliardi; quella del Regno Unito, da 664,8 a 641,3 miliardi; quella delle Isole Cayman, da 301,5 a 291,5 miliardi; quella del Lussemburgo, da 299,6 a 298,1 miliardi; quella della Svizzera, da 277,7 a 258,4 miliardi; quella dell’Irlanda, da 265,4 a 244,9 miliardi; quella del Brasile, da 226,4 a 220,1 miliardi; quella di Taiwan, da 216,9 a 214,6 miliardi; quella di Singapore, 177,5 a 175,8 miliardi; quella della Corea del Sud, da 105,3 a 98,7 miliardi; quella della Norvegia, da 99,6 a 95,7 miliardi. Complessivamente, il volume delle detenzioni internazionali di Treasury Bond statunitensi era diminuito tra settembre e ottobre di ben 170,9 miliardi di dollari (da 7.302,6 a 7.131,7 miliardi di dollari), che andavano a sommarsi ai 243 miliardi di dollari (da 7.545,6 a 7.302,6 miliardi) di passivo registrati il mese precedente, nonostante la Federal Reserve avesse portato i tassi di interesse dallo 0,25 al 2,5% tra marzo e settembre. Posta di fronte all’evidenza, la Banca Centrale Usa ha quindi impresso una ulteriore accelerata al processo di “normalizzazione monetaria”, con ben sei correzioni che hanno portato i tassi al 4,75% al febbraio 2023 e il volume complessivo degli investimenti internazionali in Treasury Bond a quota 7.273,6 miliardi di dollari ad ottobre. Un incremento su base mensile (141,9 miliardi) piuttosto modesto se rapportato allo sforzo profuso dagli Usa per accumularlo (una stretta creditizia potenzialmente letale per milioni di cittadini statunitensi), che certifica per di più le crescenti difficoltà in cui Washington va imbattendosi nel tentativo di perpetuare il funzionamento del sistema parassitario instaurato con il ripudio degli Accordi di Bretton Woods ad opera dell’amministrazione Nixon.

Specie a fronte delle allarmanti statistiche fornite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che in un rapporto redatto nel marzo 2022 parlò esplicitamente di «erosione del dominio del dollaro» in riferimento al netto ridimensionamento (dal 71 al 59% tra il 2000 e il 2021) della quota di riserve valutarie mondiali espresse in valuta statunitense dovuto a una migrazione generalizzata verso monete alternative alle tradizionali “big four” (dollaro, euro, sterlina e yen). Da un altro documento datato dicembre 2022 emergeva che il volume dei crediti espressi in dollari detenuti dalla rete bancaria globale era calato da 7.092,31 a 6.441,65 miliardi di dollari tra il terzo trimestre del 2021 e il terzo trimestre 2022.

Usa in recessione, prevedono Burry e Fmi. Ma non andrà meglio in Ue

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di Mariangela Tessa

Il 2023 si preannuncia come un anno nero sul fronte macroeconomico con un terzo dell’economia globale, che sarà colpita dalla recessione. Lo prevedono Michael Burry, fondatore di Scion Asset Management e la direttrice generale del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva.

Le previsioni di Burry

Burry in un tweet di stamane ha affermato che l’inflazione, pur avendo raggiunto il picco massimo, è destinata a risalire in risposta agli stimoli governativi.

“Gli Stati Uniti sono in recessione per qualsiasi definizione. La Fed taglierà e il governo stimolerà. E avremo un altro picco di inflazione”.

A settembre, Burry aveva avvertito di ulteriori cali per il mercato azionario, affermando che “non abbiamo ancora toccato il fondo”. Nel secondo trimestre dell’anno scorso, la sua società ha scaricato tutta la sua esposizione azionaria, a parte una società.

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Anche l’Fmi prevede la recessione

Dal canto suo la direttrice dell’Fmi Georgieva, durante un’intervista alla Cbs, ha spiegato che tutte e tre le tre grandi economie (Usa, Ue, Cina), stanno rallentando contemporaneamente.

“Per la maggior parte dell’economia mondiale questo sarà un anno duro, più duro di quello che ci lasciamo alle spalle. Gli Stati Uniti sono i più resilienti e potrebbero evitare la recessione”. Negli Usa “vediamo che il mercato del lavoro rimane abbastanza forte. Questa è, tuttavia, una benedizione a metà, perché se il mercato del lavoro è molto forte, la Fed potrebbe dover mantenere le strette sui tassi più a lungo per far scendere l’inflazione“.

Unione europea: metà sarà in recessione

Quanto all’Unione europea, l’Fmi si attende che “la metà dei Paesi dell’Ue sarà in recessione nel corso dell’anno”, ha detto Georgieva. L’istituzione di Washington ha già rivisto al ribasso lo scorso ottobre le previsioni di crescita per il 2023, frenate in particolare dalle pressioni inflazionistiche e dai conseguenti rialzi dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. Ma le affermazioni di ieri, primo gennaio, di Georgieva potrebbero preludere a un ulteriore taglio delle previsioni nel prossimo aggiornamento, atteso al World Economic Forum di Davos di questo mese.

Cina: per prima volta in 40 anni crescerà meno del Pil mondiale

La Cina infine è vista in ulteriore rallentamento quest’anno. Per la prima volta da 40 anni a questa parte, ha evidenziato la direttrice dell’Fmi, la crescita annuale della Cina sarà probabilmente alla pari se non al di sotto del livello di crescita globale. E questo avrà riflessi negativi a livello globale. “Quando guardiamo ai mercati emergenti nelle economie in via di sviluppo, lì il quadro è ancora più fosco. Perché oltre a tutto il resto, vengono colpiti dagli alti tassi di interesse e dall’apprezzamento del dollaro”, conclude Georgieva.

Vale la pena ricordare che nel suo ultimo World Economic Outlook pubblicato ad aprile 2022, il Fondo monetario internazionale prevedeva una crescita globale del 3,6% nel 2022 e nel 2023, al ribasso rispetto al 4,4% e del 3,8% del report di gennaio dello stesso anno.

Come il dollaro forte accresce la fame in Africa

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di Samuel Obedgiu

Al culmine della caduta del sistema monetario di Bretton Woods, ormai defunto, l’ex segretario al Tesoro del presidente americano Richard Nixon, John Connally, disse: “Il dollaro è la nostra moneta, ma è un vostro problema”. L’attuale rafforzamento del dollaro ha reso questa affermazione di nuovo attuale, manifestandosi con l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari.

In soli sei mesi, il dollaro americano si è rafforzato rispetto a molte delle principali valute. Ma proprio mentre il dollaro mostra quanto può diventare forte, l’inflazione è in aumento e sta devastando il continente. L’indice dei prezzi al consumo (CPI) dell’Uganda per settembre 2022 indica che abbiamo finalmente raggiunto un’inflazione a due cifre.

In Kenya, l’Associazione dei produttori ha dichiarato a giugno di quest’anno che gli importatori in Kenya e in tutta l’Africa orientale stanno lottando per importare materie prime perché non possono accedere ai dollari al tasso ufficiale (116 scellini) per elaborare le importazioni. Se ben ricordate, in Uganda un sacco di cemento ha raggiunto i 40.000 scellini da 25.000 scellini. Il motivo? Le materie prime per la lavorazione del cemento sono diventate costose.

Molti hanno attribuito l’aumento dei prezzi delle materie prime all’imperversare della guerra tra Russia e Ucraina. Non sono del tutto d’accordo. Abbiamo iniziato a sentire l’impatto dell’aumento dei prezzi già nel novembre 2021, molto prima della guerra. Semmai, la guerra tra Russia e Ucraina ha solo peggiorato il dolore, ma non l’ha certamente causato.

A causa del dollaro forte, il consiglio di amministrazione dell’Autorità di regolamentazione per l’energia elettrica ha presentato una proposta che consente di trasferire ai consumatori finali i crescenti costi di produzione derivanti dalle fluttuazioni del tasso di cambio, dall’inflazione e dai prezzi del carburante. Il tasso di cambio del dollaro è il fattore più importante nel calcolo della tariffa elettrica in Uganda. Perché? Gli investimenti nel settore elettrico e le operazioni sono valutati in dollari.

Nel 2010, un rapporto delle Nazioni Unite ha chiesto di abbandonare il dollaro come principale valuta di riserva e di scambio globale. “Il dollaro ha dimostrato di non essere una riserva di valore stabile, requisito necessario per una valuta di riserva stabile”, si legge nel World Economic and Social Survey 2010 delle Nazioni Unite. Questo rapporto è stato pubblicato all’apice della crisi finanziaria globale del 2008, quando la banca centrale statunitense stava intraprendendo la sua politica economica non convenzionale di quantitative easing.

In parole povere, il Quantitative Easing aumenta l’offerta di moneta dal nulla per risolvere un problema.  È bene ricordare che durante il Quantitative Easing (QE2) del 2010, i prezzi dei generi alimentari a livello mondiale sono aumentati del 60%, creando un disastro umanitario per i 2 miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno a causa del rafforzamento del dollaro (fonte “Dollar crisis” Richard Duncan, ex consulente dell’FMI e della Banca Mondiale). Con il senno di poi, non dovrebbe sorprendere che la causa principale della primavera araba del 2011 sia stata l’aumento dei prezzi del grano che ha creato instabilità politica in Nord Africa.

Il motivo per cui un dollaro forte può creare scompiglio in Uganda è che l’80% del commercio globale è denominato in dollari. Il rafforzamento del dollaro rispetto allo scellino è problematico perché l’Uganda è un importatore netto di beni fondamentali. Quando le materie prime globali sono prezzate in dollari e questi dollari diventano più costosi per gli importatori rispetto al passato, ci vorranno più scellini per acquistare la stessa quantità di merci, con conseguente inflazione da esportazione.

In tempi di incertezza, la gente vede il dollaro come un porto sicuro, perché molti lo richiedono, il che ne aumenta il valore. Questo, a sua volta, fa aumentare il valore del debito in dollari africani. Il denaro che i governi avrebbero speso per la produzione alimentare viene sempre più destinato al rimborso del debito.

La soluzione a lungo termine a questa crisi è che i diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale dovrebbero avere un ruolo maggiore nella finanza globale come valuta neutrale di riserva e di scambio. È difficile per la Banca Centrale Americana bilanciare le proprie esigenze di politica interna con quelle dell’economia globale. Non c’è da stupirsi che un recente rapporto delle Nazioni Unite abbia chiesto alla banca centrale americana di smettere di aumentare i tassi di interesse.

Già nel 1944, durante le conferenze di Bretton Woods, l’economista John M. Keynes aveva sostenuto la necessità di un “bancor” come valuta di riserva neutrale. Ma gli americani rifiutarono questa idea. Il sistema monetario globale malato deve essere riformato.

Traduzione a cura di Costantino Ceoldo

Foto: Idee&Azione Fonte: https://www.ideeazione.com/come-il-dollaro-forte-accresce-la-fame-in-africa/ 25 ottobre 2022

Draghi: riforma o dissoluzione dello stato?

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

Con l’avvento di Draghi, l’Italia si è scoperta paese leader in Europa e potenza geopolitica mondiale. Con la fine dell’era Merkel ed un Macron probabilmente prossimo al congedo, emerge Draghi, quale demiurgo mediatico della nuova Europa. Questa immagine virtuale è del tutto falsa e perfino tragicomica, ma è tuttavia idonea a legittimare nella politica italiana il processo riformatore messo in atto da una ristretta cabina di regia presieduta da Draghi, leader di un governo acquiescente, in virtù della espropriazione delle funzioni del Parlamento.

Il G20 di Roma, come tutti quelli che lo hanno preceduto, si è risolto in una scenografia mediatica senza alcuna decisione rilevante tra i grandi della terra. L’unico fatto politico degno di nota emerso dal G20, è la riaffermazione del primato americano sull’Occidente e la ricompattazione degli alleati europei nel contesto del multilateralismo geopolitico a guida americana. Biden ha infatti dichiarato nel suo colloquio con Draghi: “Stai facendo un lavoro straordinario qui! Dobbiamo dimostrare che le democrazie possono funzionare e che possiamo produrre un nuovo modello economico. Ci stai riuscendo”.

Draghi è dunque delegato da Biden a realizzare un nuovo modello di sviluppo neoliberista in Italia e in Europa. L’impianto delle riforme da attuare in Italia, in base alle condizionalità poste dalla UE con il varo del NGEU ne è la conferma.

Giustizia: una riforma lesiva dello stato di diritto

La prima riforma messa in atto dal governo Draghi è stata quella della giustizia. Una riforma della giustizia penale destinata ad incidere sulla struttura del sistema giudiziario, che tuttavia non ha suscitato dibattiti e contrapposizioni di rilievo in una politica ufficiale, ormai estranea alla realtà del paese e omologata alle direttive di una elite tecnocratica eurodiretta.

Sono note le inefficienze della giustizia italiana, specie riguardo alla durata dei procedimenti. Pertanto, nell’intento di velocizzare i processi, è stata introdotta come causa di improcedibilità il superamento dei termini di durata massima dei procedimenti penali. L’improcedibilità scatta qualora il giudizio d’appello non si concluda entro 2 anni e quello di cassazione entro 1 anno. Tali termini possono essere prorogati rispettivamente di 1 anno per l’appello e di 6 mesi per la cassazione, per gravi delitti e giudizi complessi. Ulteriori proroghe sono stabilite nei procedimenti per delitti riguardanti il terrorismo, eversione dell’ordinamento costituzionale, associazione mafiosa e altri reati di particolare gravità. Vengono inoltre ampliate le possibilità di accedere a riti alternativi, quali il patteggiamento e il giudizio abbreviato.

Si vuole istituire una giustizia rapida, spesso a discapito dei diritti fondamentali dei cittadini, quali il diritto alla difesa, con rilevanti lesioni ai principi dello stato di diritto.

La riforma Cartabia inoltre delega al Parlamento l’indicazione delle priorità dei reati da perseguire. Questa norma fa venir meno nei fatti l’obbligatorietà dell’azione penale, principio fondamentale nel nostro ordinamento. Vi è la concreta possibilità che l’orientamento politico di un governo possa prevaricare l’indipendenza della magistratura. Nulla esclude poi che in futuro una maggioranza governativa possa servirsi dell’arma giudiziaria a fini repressivi, allo scopo cioè di tacitare, se non di criminalizzare le opposizioni scomode.

Una giustizia rapida, secondo l’orientamento del governo Draghi e conformemente alle direttive della UE, avrebbe l’obiettivo di favorire gli investimenti e la crescita. L’ispirazione ideologica della riforma è evidente: la ragione economica, in un sistema neoliberista, prevale sui principi dello stato di diritto.

Riforma fiscale: verso l’imposizione patrimoniale

La legge di bilancio ha stanziato un fondo di 8 miliardi all’anno per ridurre la pressione fiscale. Sono state messe in campo 3 opzioni: ridurre le aliquote IRPEF relative al “cuneo fiscale nel lavoro e le aliquote marginali effettive”, agire sul sistema delle detrazioni per i redditi di lavoro dipendente, ridurre l’IRAP per i redditi d’impresa.

Secondo l’indirizzo seguito dalla Commissione finanze, la riduzione delle aliquote riguarderebbe il ceto medio, quei redditi cioè che si attestano tra i 28.000 e i 55.000 euro, lo scaglione oggi corrispondente all’aliquota del 38%, che potrebbe essere ridotta fino al 34%. Beneficerebbero quindi del taglio IRPEF i redditi medio – alti che costituiscono il 21,2% della platea dei contribuenti. Resterebbero pertanto esclusi dai benefici i redditi medio – bassi fino a 28.000 euro. L’iniquità di tale misura è evidente, in quanto l’effetto del beneficio sarebbe di maggiore consistenza per i redditi più alti. Infatti, mentre i contribuenti con reddito pari a 41.000 euro usufruirebbero di uno sconto di 500 euro, coloro che si collocano oltre i 75.000 euro godrebbero di una riduzione di 1.000 euro.

E’ stato più volte ribadito che il sistema fiscale debba ispirarsi al principio della progressività. Occorre però rilevare che l’imposta progressiva oggi grava esclusivamente sui redditi da lavoro, sia dipendente che autonomo. Redditi da capitale, imposta societaria (IRES), redditi fondiari, sono invece assoggettati ad imposte proporzionali, che nell’ultimo decennio hanno beneficiato di cospicue riduzioni di aliquote. Pertanto, si deve dedurre che il carico fiscale è stato sopportato in misura sempre più gravosa dai lavoratori, a vantaggio delle classi più abbienti, che hanno usufruito di benefici fiscali assai rilevanti.

Secondo le direttive della riforma Draghi, il governo metterà mano alle imposte sostitutive. E’ quindi prevedibile un aggravio della flat tax sul lavoro autonomo dei contribuenti minimi (5-10%), della cedolare secca sugli affitti (10-21%), dell’imposta sui premi di produttività (10%), dell’imposta sugli interessi sui titoli di stato (12,50%), onde adeguarle al primo scaglione d’imposta del 23%. In coerenza con tale principio, verrebbe però ridotta l’aliquota sui redditi finanziari, oggi al 26%, anche se tale ribasso produrrebbe un minor gettito di 1,4 miliardi. I grandi investitori commossi ringraziano!

Il taglio delle tasse per 8 miliardi, non sarà comunque adeguato per favorire una crescita stabile, né sarà sufficiente a colmare lo squilibrio di 5 punti tra il cuneo fiscale e contributivo che grava sui lavoratori italiani rispetto alla media UE. Non sarà raggiunto nemmeno l’obiettivo del superamento dell’IRAP, che grava sui fatturati delle imprese, il cui gettito è pari a 12 miliardi. E’ prevista solo una riduzione delle aliquote.

Questa manovra è comunque transitoria, in vista di riforme strutturali che coinvolgeranno il fisco italiano nei prossimi anni. La filosofia che informa l’impianto di una riforma imposta dalla UE, prevede il progressivo trasferimento della pressione fiscale dai redditi finanziari e di impresa al patrimonio immobiliare. In questo contesto si inquadra la riforma del catasto patrocinata da Draghi (e che figura tra le condizionalità del NGEU), che comporterà la revisione degli estimi catastali, al fine di adeguarli ai valori di mercato. La riforma del catasto produrrà inevitabilmente rilevanti aggravi delle imposte patrimoniali sugli immobili (IMU), valutabili per oltre il 60%. Draghi ha annunciato che tale riforma non comporterà aggravi fiscali fino al 2026. Si rileva comunque che tale riforma, che prevede l’istituzione di un sistema fiscale improntato alla tassazione patrimoniale, è in coerente continuità con la politica del governo Monti.

L’imposta patrimoniale è per sua natura una forma di tassazione straordinaria, a cui storicamente si è fatto ricorso in fasi emergenziali. L’imposta patrimoniale è stata introdotta in altre epoche quale strumento di politica fiscale che avesse la finalità di contrastare le concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi e in impieghi spesso improduttivi. Mediante l’imposta patrimoniale si sono infatti realizzate politiche di redistribuzione del reddito e di riequilibrio delle diseguaglianze sociali. Non a caso, l’imposizione patrimoniale era parte integrante dei programmi di politica sociale della sinistra del secolo scorso.

Ma è ormai definitivamente tramontata l’epoca del dominio di classe dei detentori delle rendite fondiarie, dei latifondi, dei padroni delle ferriere. Infatti l’imposizione patrimoniale è oggi parte integrante delle politiche neoliberiste imposte dal FMI, dall’OCSE, dalla UE. Il patrimonio immobiliare in Italia, è in larga parte detenuto dal ceto medio, quale forma di impiego del risparmio, consolidatosi per varie generazioni.

E’ peraltro una pura illusione, l’idea secondo cui con l’imposta patrimoniale e l’imposta di successione si andrebbero a colpire i grandi patrimoni e si possano combattere le diseguaglianze. Le classi dominanti, mediante l’uso e l’abuso dello strumento societario, il trasferimento dei capitali nei paradisi fiscali, il ricorso a pratiche di occultamento dei patrimoni su scala globale, sono del tutto immuni da tali forme di tassazione. La funzione dell’imposta patrimoniale, nel contesto di un sistema neoliberista è quella di trasferire il prelievo sul risparmio e sui patrimoni dei cittadini, al fine di smobilitare i capitali investiti nel comparto immobiliare per farli affluire nei mercati finanziari. La classe dominante persegue dunque una logica di accaparramento selvaggio della ricchezza a danno dei popoli.

Mediante l’imposizione patrimoniale, gli stati dovranno reperire le risorse finanziarie necessarie per realizzare la rivoluzione digitale ed energetica. I relativi costi sono imputati agli stati e quindi ai popoli. Le trasformazioni previste dal Grande Reset, sono state progettate dal World Economic Forum (WEF) di Davos, non dagli stati.

Riforma previdenziale: il ritorno della Fornero

La riforma previdenziale si renderebbe necessaria in base ad un ineludibile imperativo morale. La attuale insostenibilità del sistema previdenziale italiano, finirebbe per penalizzare i “senza quota” (giovani e non con impieghi precari e/o sottopagati), che sarebbero costretti a lavorare fino a 70 anni, con la prospettiva di percepire assegni pari al 50% dello stipendio. Le vecchie generazioni, usufruendo dei “privilegi” del welfare, avrebbero sottratto le risorse a quelle nuove. Al conflitto sociale del ‘900, si vuole sostituire quello generazionale, con l’effetto di istaurare l’ennesima guerra tra poveri. Il governo eurocratico di Draghi, sull’onda dell’emergenza sia sanitaria che previdenziale, vuole ripristinare, dopo l’abolizione di quota 100 e la transizione di quota 102 per il solo 2022, la famigerata legge Fornero.

La riforma pensionistica, prevista tra le condizionalità del NGEU, è stata imposta all’Italia sulla base dei dati OCSE sulla spesa pensionistica italiana che tuttavia si discostano dalla realtà. Il sistema pensionistico italiano è stato già oggetto di progressivi tagli con la riforma Dini, con i correttivi del governo Prodi e infine con la riforma Fornero nel 2011; tutte riforme imposte da direttive europee. Innanzitutto, si rileva che i dati di spesa dell’INPS sono compresivi della spesa per l’assistenza, che invece negli altri paesi è a carico della fiscalità generale. Secondo i dati di Eurostat del 2019, la spesa pensionistica italiana è pari al 16% del Pil, superiore cioè a quella della Germania (12%), della Francia (14,8%), della Spagna (12,7%). Tali dati però sono stati elaborati al lordo della imposizione fiscale sulle pensioni che è assai differenziata tra i paesi. Infatti, ad esempio, su una pensione di 1.500 euro, in Germania il carico fiscale è di 60 euro, mentre in Italia ammonta a 600 euro. Poiché l’imposizione fiscale, in termini di spesa pubblica costituisce una partita di giro, l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil, al netto del fisco (che grava per 1/4 del reddito), è del 12%, in linea quindi con l’Europa.

Nel 2020 la spesa pensionistica è stata di circa 215 miliardi, mentre le entrate contributive sono state di circa 200 miliardi. Il deficit dell’INPS è di circa 15 miliardi. Ma se si tiene conto del fatto che sulle pensioni è stato effettuato un prelievo fiscale di 53 miliardi, è facile comprendere che, con una pressione fiscale più ridotta, la gestione previdenziale sarebbe attiva. L’allarmismo mediatico è quindi infondato.

Non sarà rinnovata quota 100. Si è riscontrato il fallimento di quota 100 riguardo all’obiettivo di creare nuova occupazione. Quota 100 avrebbe solo favorito una riduzione del costo del lavoro delle imprese: a fronte di 3 pensionamenti ha fatto riscontro una assunzione. Il tasso di sostituzione è stato dello 0,40. Il 40% non sembra però una percentuale fallimentare, dato che nella Pubblica Amministrazione è rimasto in vigore il blocco delle assunzioni e non sono stati indetti nuovi concorsi. Nel corso della pandemia sono stati infatti richiamati in servizio medici anziani, data la carenza di personale sanitario dovuta alla mancanza di nuovi assunti. Negli ultimi 10 anni sono emigrati 10.000 giovani medici, data la mancanza di sbocchi professionali in Italia!

L’impatto della legge Fornero, ripristinata dal governo Draghi, si rivela devastante per le nuove generazioni. Il sistema contributivo puro applicabile per gli assunti dal 1996 e la diffusione generalizzata del precariato, con occupazione discontinua e sottopagata, determineranno l’innalzamento dell’età pensionabile a 70 anni, con assegni oltre che dimezzati. Inoltre, l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro è oggi tardivo, il turnover dei lavoratori di età media è sempre più precoce, a causa della rapida obsolescenza di tante figure professionali, dovuta alla continua avanzata del progresso tecnologico.

Da un report pubblicato su “La Repubblica” del 25/10/2021, emergono dati allucinanti circa il futuro dei “quota zero”. Secondo una simulazione che prende come base lavoratori che oggi hanno 25,30,35 e 40 anni, con stipendi con l’incremento annuale dell’1,5% e una crescita del Pil dello 0,3% annuo, emerge che ad una età pensionabile tra i 68 e i 72 anni i futuri pensionati percepirebbero assegni tra 55% e il 64% dell’ultimo stipendio. Tale simulazione è stata però effettuata sulla ipotesi di una carriera continuativa. Se invece la carriera è discontinua o la fuoriuscita è precoce, la pensione si ridurrebbe fino al 45% e sarebbe erogata solo dopo i 70 anni.

Gli effetti della Fornero comporterebbero inoltre ulteriori e progressivi innalzamenti dell’età pensionabile in base al parametro ISTAT sulla speranza di vita, coefficiente destinato ad aumentare. Infine, qualora la pensione non superi la soglia di 2,8 volte l’assegno sociale, non sarà possibile il pensionamento anticipato, mentre nei casi in cui non lo superi di 1,5 volte, non sarà erogato nemmeno l’assegno di vecchiaia e l’età pensionabile sarà innalzata di 4 anni. In conclusione, si andrà in pensione tra i 71 e i 77 anni. Questo sistema imposto dalle direttive europee, può produrre solo giovani precari, lavoratori sottopagati, esodati precoci e grandi masse di pensionati sotto la soglia di povertà.

L’impostazione delle riforme previdenziali susseguitesi fino ad oggi, ha una precisa matrice ideologica. Nell’economia neoliberista infatti, il progressivo smembramento dello stato sociale, si renderebbe necessario al fine di liberare risorse per la crescita. Ma è stata proprio la politica di austerity, in attuazione del patto di stabilità della UE, a determinare, oltre che un incremento della povertà conseguente alla devastante contrazione della spesa pubblica, anche il calo verticale degli investimenti e dei consumi e quindi l’avvento della recessione economica e della deflazione.

In tema di spesa previdenziale, gli squilibri del sistema sono emersi proprio a causa della bassa crescita. La depressione economica è stata inoltre una delle principali cause del calo della natalità nel nostro paese. Dal 2011 il Pil italiano registra una crescita inferiore al 9%, mentre la Germania è cresciuta di quasi il 30%, la Francia del 19%, la Spagna del 16%. Si rileva inoltre che in Italia il tasso di rivalutazione del montante contributivo è agganciato al Pil e quindi, in assenza di crescita, le pensioni hanno registrato ulteriori, rilevanti decurtazioni.

La precarietà e la compressione salariale hanno contribuito in misura rilevante a decrementare il montante contributivo. La mancata crescita è da imputarsi anche alla carenza di domanda interna, dovuta al basso livello retributivo dei lavoratori italiani. L’Italia è l’unico paese europeo in cui i lavoratori guadagnano meno di 30 anni fa. Tra il 1990 e il 2020 i salari medi sono aumentati in Germania del 33,7%, in Francia del 31,1%, mentre in Italia il calo è stato del 2,9%. Nel 1990 i salari medi italiani erano al 7° posto in Europa, nel 2020 sono precipitati al 13° posto. Secondo i dati dell’OCSE, nel periodo pandemico tra il 2019 e il 2020, la contrazione salariale, in Francia del 3,2% e in Spagna del 2,9%, in Italia è stata del 6%, dovuta alle ore non lavorate e alla perdita di occupazione.

Il governo Draghi non è davvero innovativo, è solo la reincarnazione del governo Monti .

Verso la dissoluzione dello stato?

Le riforme di Draghi hanno come finalità la trasformazione strutturale dello stato. Si vuole infatti realizzare un processo evolutivo di riforme di stampo neoliberista che comportino la progressiva estraneazione dello stato dalla società civile. Allo stato sovrano subentrerà uno stato di stampo neoliberista, le cui strutture siano funzionali alle strategie di trasformazione messe in atto dalle oligarchie economiche e finanziarie globali. L’azione del governo Draghi non mira alla riforma dello stato ma alla sua dissoluzione.

In tale contesto è del tutto risibile millantare come un successo del G20 di Roma l’aver imposto ai giganti del web e dell’e-commerce una minimum tax del 15% a favore degli stati in cui vengano realizzati i loro profitti. Saranno invece i popoli a sostenere i costi della ristrutturazione economica digitale ed ambientale su scala globale. Afferma a tal riguardo Diego Fusaro: “Mi siano concesse alcune riflessioni rapsodiche intorno al G20 che si è svolto in questi giorni a Roma. A partire dall’essenza stessa del G20, esso è il ritrovo periodico nel quale il padronato cosmopolitico sans frontières e i suoi maggiordomi governativi senza anima si danno convegno in località di volta in volta diverse e con un obiettivo molto chiaro: fare il punto sulla loro agenda e sui loro interessi di classe al di là dell’interesse nazionale dei ceti medi e delle classi lavoratrici, al di là delle specifiche sovranità nazionali. Come sappiamo lo stato nazionale, al tempo della globalizzazione in cui sovrano è soltanto il mercato, diventa semplicemente uno strumento nelle mani dei gruppi dominanti, diventa una nuova forma di gestione dell’economia globale per il mezzo dei governi locali. Vorremmo dirlo con Michel Foucault, lo stato neoliberale è quello che governa non il mercato bensì per il mercato”.

Vedo nero. E anche noi…

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di Alfio Krancic

Missile o non missile, nave russa/moldava carica di nitrato di ammonio, bomba tattica nucleare, deposito di armi di Hezbollah…Chissà qual’è la verità. Una cosa è certa: il FMI e Macron sono corsi in Libano a promettere aiuti (11 miliardi di $), e Dio solo sa quanto ne abbia bisogno il Paese dei Cedri, visto che ora è anche senza le riserve di grano distrutte nei silos dall’esplosione e soprattutto è senza il porto, attraverso il quale arrivava tutto quanto serviva alla sua sopravvivenza. FMI e Macron, dicevo, promettono aiuti a determinate condizioni (come il MES): il governo deve escludere il Partito di Dio, regolarmente eletto da parte del popolo libanese, dalla coalizione di governo. Insomma questo 2020 ci sta promettendo nei prossimi mesi fuochi d’artificio in quantità. Intanto ci ha regalato il Covid, che ha semidistrutto le economie occidentali; poi i soliti “esperti” ci hanno “garantito” una 2a Ondata, che non promette niente di buono; infine ci saranno le devastanti ricadute sociali una volta finite le ultime vacanze: fallimenti, disoccupazione e fame. I “migranti” continuano allegramente ad arrivare con grande gioia di Bergoglio, Boldrini e Bellanova. Addirittura i piddini chiedono l’approvazione dello Ius Soli che dovrebbe, nelle loro intenzioni, rallegrare lo stato d’animo dei cassintegrati e dei licenziati.
Last but not least c’è il quadro internazionale: Trump, che pareva essere un baluardo contro il Deep State e le derive anarco-libertarie, è sotto assedio. Negli USA gli antifa e i BLM continuano simpaticamente a protestare, distruggere e saccheggiare. La celebre maggioranza silenziosa e armata (130 milioni di armi in giro negli USA) , se ne sta rincantucciata in casa e non mette becco nella situazione. Trump è circondato e a Novembre rischia, anche grazie ai brogli elettronici, di perdere le elezioni. Coloro che si aspettavano arresti in massa di pedo-politici, rappresentati dello star-system, dei media etc. temo rimarranno con una canna in mano. Vedo nero. (E pure noi, n.d.r.)

I see black.
August 7, 2020 8:24 am 

Missile or not, Russian / Moldovan
ship loaded with ammonium nitrate, 
tactical nuclear bomb, Hezbollah 
weapons depot ... Who knows what 
the truth is. One thing is certain: 
the IMF and Macron have rushed to 
Lebanon to promise aid ($ 11 billion), 
and God knows how much the Land of the 
Cedars needs it, since it is now also 
without the grain reserves destroyed in 
silos by the explosion and above all it 
is without the port, through which 
everything necessary for its survival 
has arrived. IMF and Macron, I said, 
promise aid under certain conditions 
(such as the ESM): the government must 
exclude the Party of God, duly elected 
by the Lebanese people, and present in 
the ruling coalition. In short, this 2020 
promises us many "fireworks" in the 
coming months. In the meantime, this 
year has given us the Corona-virus 
which has partially destroyed the 
Western economies; then the usual 
"experts" have "guaranteed" us a second 
wave, which does not bode well; at the 
end there will be the devastating social 
repercussions once the last holidays 
are over: bankruptcies, unemployment 
and hunger. The "migrants" continue 
to arrive happy with the great joy of 
Bergoglio, Boldrini and Bellanova. Even 
the ex-communists are asking for the 
approval of the Ius Soli which should, 
in their intentions, cheer the mood
of the sacked and sacked.
Last but not least is the international 
scenario: Trump, who appeared to be a 
bulwark against the Deep State and 
anarcho-libertarian drifts, is under 
siege. In the United States the antifa 
and the BLM happily continue to protest, 
destroy and loot. The famous silent and 
armed majority (130 million guns and 
rifles around the United States) are 
huddled in their homes and do not show 
themselves. Trump is surrounded and 
risks losing the elections in November, 
also thanks to electronic fraud. Those 
who expected mass arrests of pedophile 
politicians, representatives of the 
star system, the media, etc. I'm afraid 
they will be left with a fistful of 
flies in hand. I see black.

Fonte: https://alfiokrancic.com/2020/08/07/vedo-nero/

Attenzione, l’EUropa è obbligata ad istigare un golpe in Italia entro fine 2018

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L’EU è in crisi esistenziale. Soprattutto a causa delle enormi bugie dette in passato con il fine non di aiutare i vari paesi ad uscire dalla crisi ma piuttosto di perpetrare il potere in mano all’asse franco tedesco, con lo scopo di creare un mostro sovranazionale – l’EU – in grado di sostituirsi a termine agli USA in EUropa, asservendosi agli interessi dell’asse dominante. Un piano che data dalla fuga dei nazisti in Sud America 75 anni fa; la rivincita, come se fosse stato rinviato a tempi più propizi.

Il problema reale è che l’austerità imposta ai periferici dal 2009 NON ha funzionato e non funziona, serve solo per drenare ricchezza dalla periferia al centro (gli USA ad esempio crescono del 4% facendo il perfetto contrario). Esempio da manuale la Grecia: lo stesso FMI ha riconosciuto che l’austerità ha fatto danni in Grecia, che “si sono sbagliati” a fare i conti, che il moltiplicatore fiscale è stato stimato male con il risultato di far crollare l’economia ellenica pur senza ridurre il debito (è passato dal 140% nel 2010 a circa il 175% attuale, senza prospettiva di ridurlo drasticamente per i prossimi 20 anni almeno). Continua a leggere

Spread, Monti confessa: “Soros mi chiamò nel 2011 suggerendomi la Troika”

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Risultati immagini per Montidi Adolfo Spezzaferro

La realtà supera sempre la fantasia. Mario Monti, il super tecnico nemico del popolo italiano che ha devastato la nostra economia già provata dalla crisi globale, proprio quando era premier era in contatto con George Soros, lo speculatore internazionale dietro le Ong e il business dell’immigrazione.
Lo spread era alle stelle, i mercati e la finanza internazionale avevano costretto Berlusconi alle dimissioni, Monti era subentrato per tartassare gli italiani e Soros lo chiamò. A confessarlo è lo stesso Monti, a Otto e Mezzo di Lilli Gruber su La7. “Soros mi chiamò suggerendomi di chiedere aiuto all’Europa – ha rivelato -, ma noi volevamo evitare di far entrare la Troika e non seguimmo quel consiglio. Ma Soros era molto preoccupato per la situazione italiana”.
Tutti si ricorderanno però che con la continua minaccia della Troika, Monti varò quell’austerity i cui effetti stiamo ancora scontando. Continua a leggere

Il sottosegretario Giancarlo Giorgetti spiazza il Meeting di Cl

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“Populisti siete voi”: il sottosegretario Giorgetti spiazza il MeetingSegnalazione di F.F.

Cl non ha invitato Salvini ma il suo braccio destro si è preso la scena costringendo Vittadini a una lunga replica

Il titolo della kermesse “è sbagliato”, ha esordito Giancarlo Giorgetti. “Oggi il vero nemico della democrazia e della politica è l’ideologia globalista”. Nei confronti del governo “avete un atteggiamento perplesso”. Stoccate a Berlusconi e al Pd. “La Lega è premiata perché ha un capo che è riuscito a creare un collegamento diretto col popolo”.

Non è stato invitato Matteo Salvini al Meeting. Il leader della Lega e ministro dell’Interno non piace alla Cdo a guida Vittadini e le sue battaglie suonano stonate alle orecchie dei vertici della kermesse di Cielle, non certo benevola verso il governo gialloverde. Il pezzo da novanta della Lega invitato oggi nei saloni della fiera è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, il cui intervento era stato posto nel “recinto” dell’intergruppo per la sussidiarietà. Ma Giorgetti, pur con toni pacati, dal recinto è subito uscito e le ha cantate e suonate anche a Vittadini. Esternando tutta la forza d’urto del “Salvini pensiero”.

“Partirei dal titolo del Meeting”, ha esordito. “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Sorrisino furbetto. “Voglio fare una provocazione. Secondo me il titolo è sbagliato“. Qualche secondo di silenzio. “C’è una citazione di Dostoevskij che a me piace tantissimo: se fai scegliere al popolo tra libertà e felicità, il popolo sceglierà sempre la felicità. Se mi permettete, il titolo dovrebbe essere ‘le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo libero e felice‘. Altrimenti a chi mi accusa di populismo (ha proseguito rivolgendosi con lo sguardo verso Vittadini) io dico attenzione, perché se vogliamo fare il popolo felice la via più rapida è quella del populismo“. Continua a leggere

FMI ammette: Grecia sacrificata per salvare l’Euro

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FMI AMMETTE: LA GRECIA è STATA SACRIFICATA PER SALVARE L’EURO

MB. Posto qui questo importantissimo articolo di Evans-Pritchard perché dimostra le conseguenze disumane della dittatura tecnocratica –  ossia della perdita di sovranità su economia e moneta .  Gli Stati hanno ceduto potere e sovranità alle tecnocrazie non elette (autoselezionatesi) , in base   alla mitica credenza che i politici sbagliano per ignoranza o perché sono corrotti mentre i tecnocrati sono “scientifici”, …

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