Foibe: i titini hanno perso il pelo ma non il vizio
Segnalazione del Centro Studi Federici
Segnalazione del Centro Studi Federici
di Giovanni Perez
La memoria delle foibe carsiche e istriane e l’esodo della popolazione italiana dalla Venezia-Giulia e dalla Dalmazia, che si protrasse fino alla fine degli anni Cinquanta, si è tramandata attraverso un sottilissimo filo, che ha rischiato più volte di spezzarsi; un filo che si rinforza soprattutto grazie a coloro che raccolgono in qualche modo l’eredità di quella pagina di storia lacerata da ferite non ancora rimarginate e che tali rimarranno, forse per sempre.
A rinforzare quel sottilissimo filo sono libri come quello recentemente edito dalle Edizioni Vita Nova, scritto da Lamberto Maria Amadei, in cui sono state raccolte le “giovani memorie fiumane” di Marina Smaila, quando fu strappata da quel mondo in cui muoveva i suoi primi passi e assaporava le prime gioie di bambina. Siamo in questo racconto di fronte al sovrapporsi delle vicende di una famiglia che viveva a Fiume, perciò italianissima, che cercò di sfuggire ad un destino di morte, catapultati così nella Storia, con la “S” maiuscola, che si consumò nei confini orientali di un’Italia uscita sconfitta dal conflitto mondiale. Furono anni terribili, in cui la realpolitik dei vincitori, soprattutto di quelli legati alla Russia sovietica, mai si coniugò con il più elementare sentimento di umanità, fino a perseguire, per ragioni ideologiche, il progetto di un annientamento totale della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, anche distr ggendo gli archivi, i monumenti su cui era impressa l’italianità di quei luoghi, trasmessa nel corso dei secoli attraverso innumerevoli generazioni.
Il 10 febbraio 1947, l’Italia stipulò con la Jugoslavia l’oneroso Trattato di pace con cui vennero cedute le terre istriane fiumane e dalmate, da secoli italianissime, e la creazione del Territorio Libero di Trieste. A Fiume, Pola, Zara, Capodistria, Pirano, Parenzo e in tante altre città da sempre italiane e venete, i giovani sono stati educati all’idea, invece, che quelle terre furono sempre state abitate da sloveni e croati.
Le questioni delle foibe e dell’Esodo, che insanguinarono l’Istria e il Carso, la Venezia Giulia e la Dalmazia, sono intimamente connesse tra loro, sebbene ancora oggi vi sia chi tenta di negarlo. Entrambi sono l’esito di due cause, anche queste tra loro intimamente collegate. Da una parte un radicale odio anti-italiano, dalle radici antiche, ed ora scatenatosi senza alcun argine militare, dopo la ritirata dell’esercito italiano, dall’altra parte, lo svelamento della natura intrinsecamente criminogena dell’ideologia comunista, che, questa volta, aveva assunto il volto delle bande partigiane del maresciallo Tito.
Se non si comprende il concorso di questi due elementi, la Legge del 30 marzo 2004, istitutiva del Giorno del Ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati, presto o tardi diverrà carta straccia. Di ciò, purtroppo, si cominciano ad intravvedere i primi segnali, unitamente al prevalere delle tesi non più negazioniste delle foibe, ma di quelle giustificazioniste, che attribuiscono la reazione criminale degli slavi alla precedente politica fascista. Fortunatamente, sempre a sinistra, non mancano le eccezioni, e i vari Giampaolo Pansa hanno avuto il coraggio intellettuale di ammettere come sono andate veramente le cose, confutando alla radice quella assurda e insostenibile tesi.
Per i trecentocinquantamila esuli, iniziò un’odissea senza ritorno, negata non solo dal Partito comunista italiano, per il quale essi altro non erano che “criminali fascisti sfuggiti alla giustizia popolare jugoslava”. E l’identificazione tra le vittime delle foibe e quanti dovettero abbandonare case, affetti, ricordi e una loro presunta appartenenza ideale al fascismo, ha ispirato la storiografia negazionista e giustificazionista. Tale tesi ancora oggi non è stata affatto definitivamente confutata e si ritrova nelle volgari e squallide parole di un Tomaso Montanari e di altri epigoni e nostalgici del socialismo reale.
Il Partito comunista di Togliatti si schierò naturaliter con le bande partigiane del Maresciallo Tito, sebbene il loro odio anti-italiano, più forte dello stesso antifascismo, fosse ben noto agli stessi partigiani comunisti italiani che operarono nella Venezia-Giulia, costretta dalle necessità politiche ad un complice e omertoso silenzio. L’episodio di Malga Porzûs, che non fu affatto un caso isolato, ha fatto completa giustizia di questo aspetto tra i più esecrabili della lotta partigiana, e non solo di quella combattuta sul confine orientale.
Di Togliatti, il cosiddetto “Migliore”, si dovranno sempre ricordare le ignobili parole scritte nella lettera inviata il 7 febbraio del 1945 a Ivanoe Bonomi, in cui finì anche per riconoscere che a difendere gli italiani di quelle terre erano rimasti i fascisti e tedeschi! Un lapsus, si dirà, sicuramente tragico, per non dire comico.
Sono fin troppo note le angherie commesse in seguito, nell’Italia liberata, dai militanti comunisti ai danni degli esuli al loro arrivo in Italia, mentre ancora oggi non è stata adeguatamente considerato l’altrettanto orribile e sostanzialmente complice atteggiamento assunto dalla Democrazia cristiana, in ossequio alle scelte dei vincitori statunitensi e inglesi, come risultò evidente con la cessione della Zona B di Trieste alla Jugoslavia del novembre 1975. Le lacrime di Sandro Pertini sulla bara di Tito, poi, sono un episodio talmente inqualificabile, che merita solo disprezzo e silenzio; esso fu talmente sconcertante, che si commenta da solo.
Tragicamente sincere le parole di Oskar Piskulic, uno dei peggiori infoibatori, trascinato in giudizio presso il Tribunale di Roma dal giudice Giuseppe Pititto, che arrivò ad ammettere la verità, sostenendo che, in fondo, di italiani e fascisti, i partigiani comunisti avrebbero dovuto assassinarne ancora di più, fino alla completa loro estinzione, in quanto nemici di classe, ossia ostacolo da eliminare per realizzare finalmente la società comunista secondo le indicazioni di Tito.
Purtroppo, se vogliamo essere sinceri, ai tanti esuli che per ragioni molteplici, umanamente addirittura comprensibili, occultarono il proprio passato, la propria identità, si aggiunsero quelli che finirono per accettare la tesi che la responsabilità dei crimini commessi contro gli italiani, era da attribuire effettivamente alla politica del governo fascista, così assolvendo i propri carnefici, per ragioni perciò ideologiche. Non solo, perché contribuì anche un meccanismo ben noto alla psicologia e ben noto anche al coraggioso Giovannino Guareschi, che fu tra i primi a denunciarlo.
Più difficile, ovviamente, è riuscire ad imporre, nonostante l’evidenza storica, la tesi dell’intrinseca natura criminogena dell’ideologia comunista, per cui le foibe e i circa cento milioni di vittime dei tanti socialismi compiuti in nome del celebrato “Sol dell’avvenire”, non furono affatto effetti indesiderati dello stesso tentativo di realizzare sulla terra il paradiso socialista.
Secondo una leggenda balcanica, al termine di una uccisione e aver scaraventato nelle foibe i morti, i moribondi e le vittime ancor vive, si gettava anche la carcassa di un cane nero, affinché facesse la guardia alle anime delle vittime impedendo loro di affiorare e reclamare giustizia. Una leggenda, appunto, che dimostra però come, ancor oggi, la storia viene raccontata dai vincitori, violentando da cima a fondo la verità.
Spetta a noi fare in modo che le anime dei quindicimila infoibati non saranno mai dimenticate, perché se dovesse vincere l’oscuro guardiano della leggenda, sarebbe per tutti loro come morire una seconda volta.
di Cristina Gauri
Ciò che era iniziato come sfregio, finisce come farsa: così Eric Gobetti, messo di fronte all’insormontabile ostacolo di un vero contraddittorio riguardo le proprie teorie minimizzatrici sulle Foibe, ieri sera ha dato pubblicamente forfait al convegno Il confine orientale e le foibe, promosso dalla Rete Scuole e Territorio: Educare insieme di Verona che si sarebbe dovuto tenere oggi 10 febbraio. E cosa fa la Rete scuole? Per non scontentare l’autore di E allora le foibe? cancella la conferenza perché mancano i presupposti per un reale confronto. Ma come: quando l’unico invitato era Gobetti —inizialmente e prima del caos mediatico sollevato dal sindaco Sboarina — dov’era finita tutta questa ansia di confronto?
Insomma, da bravo fan dei partigiani, Gobetti di ritira sui monti. E in un post pubblicato stamattina su Facebook spiega agli studenti i motivi della sua rinuncia. Lui non è infastidito dal fatto di dover dividere il palcoscenico con tre ospiti molto preparati che gli impedirebbero di trasformare il seminario in una lezioncina di propaganda pro-titini, no, assolutamente. E’ la presenza del giornalista Fausto Biloslavo, «autore di almeno due articoli diffamatori contro di me, pubblicati su Il Giornale (in cui mi definiva, senza alcuna ragione, “negazionista delle foibe”) oltre che di interventi pubblici contro altri storici (ad esempio Raoul Pupo, di cui proprio oggi il Corriere della Sera ripropone un importante saggio sulle foibe)».
Gobetti prosegue specificando che «Per spirito di servizio e per rispetto verso di voi studenti e studentesse, avrei accettato di tenere comunque la nostra conferenza, a titolo gratuito». Ma la presenza di Biloslavo, «noto per le sue posizioni radicali, nonché protagonista di campagne denigratorie nei confronti degli studiosi, è davvero inaccettabile. Non avrebbe senso infatti offrire a persone così l’opportunità di presentare le proprie tesi faziose al pari di chi da decenni studia con onestà e rigore la “complessa vicenda del confine orientale”». Gobetti conclude con un pistolotto sulla storia, che «non è un braccio di ferro in cui vince il più forte; non è basata sul contraddittorio fra opposti estremismi; non ci sono storici che fanno propaganda fascista e quelli che la fanno comunista». No, infatti: le sue foto a pugno chiuso di fronte a Che Guevara, Marx e alla bandiera della Jugoslavia titina erano un travestimento di carnevale. Lui è super partes.
In un mondo in cui a sinistra si fa la classifica politica dei morti di serie A e morti di serie B, sarebbe ora di togliere onorificenze ai macellai (n.d.r.)
Il 10 febbraio ricordiamo la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo, ma non abbiamo mai cancellato la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito
di Fausto Biloslavo
Il 10 febbraio ricordiamo la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo, ma non abbiamo mai cancellato la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito, il capo degli aguzzini che massacrarono migliaia di connazionali costringendo alla fuga 350mila persone dall’Istria, Fiume e Dalmazia.
Il Giorno del Ricordo deve essere simbolo di pacificazione senza nascondere le colpe precedenti del regime fascista, ma è giunto il momento di cancellare la vergognosa medaglia. L’onorificenza campeggia sempre sul sito del Quirinale ricordando che il 2 ottobre 1969 il presidente jugoslavo, che aveva le mani sporche del sangue degli infoibati, veniva decorato come «Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l’aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese. Il capo dello Stato di allora, Giuseppe Saragat, aveva consegnato a Belgrado, fra sorrisi, brindisi e abbracci, l’onorificenza in una custodia verde a un compiaciuto Tito. E mai nella prima visita in Jugoslavia dopo la guerra osò accennare anche lontanamente alle foibe e all’esodo preferendo alzare i calici «alle fortune dei popoli jugoslavi e all’amicizia fra i nostri Paesi». Tremenda realpolitik, ricambiata dalla visita di Tito a Roma un anno dopo, accolto come una star del socialismo reale distanziato da Mosca.
Dopo la storica immagine di Francesco Cossiga inginocchiato davanti alla foiba di Basovizza, gli omaggi dei capi di stato che sono seguiti al monumento nazionale sul Carso triestino e la mano nella mano di Sergio Mattarella con lo sloveno Borut Pahor dello scorso luglio è anacronistico, paradossale e oltraggioso non cancellare l’onorificenza a Tito. Ancor più a diciott’anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo con il voto quasi unanime del Parlamento. Un insulto alle vittime delle foibe e discendenti, che in molti casi non hanno neanche una tomba dove deporre un fiore e agli esuli e loro figli. Un obiettivo che, almeno in teoria, dovrebbe essere condiviso in maniera bipartisan dalla politica, ma che viene sempre rispedito al mittente grazie a un cavillo legislativo. Si può togliere un’onorificenza per «indegnità» solo se il personaggio insignito è ancora in vita. Nel 2012 l’Italia lo ha fatto, giusto o sbagliato che sia, con il presidente Bashar al Assad, accusato di massacrare il suo popolo nella guerra civile in Siria. Per Tito, che sarà pur stato un grande leader della Jugoslavia, ma ha lanciato la pulizia etnica e politica contro gli italiani e una parte del suo popolo «non è ipotizzabile alcun procedimento essendo il medesimo deceduto» scriveva nel 2013 il prefetto di Belluno, a nome del governo. In Parlamento langue da tempo una proposta di legge di un paio di righe per cambiare la (folle) norma, che esalta Tito.
Se vogliamo onorare veramente i martiri delle foibe girando una volta per tutte questa triste pagina volutamente strappata della storia e guardare avanti, senza strumentalizzazioni, togliamo la medaglia della vergogna al boia degli italiani.
Fonte: https://www.ilgiornale.it/news/politica/ora-revochiamo-lonorificenza-macellaio-tito-2009486.html
di Marcello Veneziani
La giornata del Ricordo torna ogni anno in punta di piedi a ricordarci l’altra metà rimossa della storia, dell’orrore e della pietà. Me ne sono occupato altre volte, sottolineando le ragioni per cui ricordare le foibe e l’esodo: perché è il capitolo italiano del comunismo mondiale, perché è l’ultima commemorazione dedicata all’amor patrio, perché descrive le sofferenze di un popolo, perché ci ricorda che gli orrori non esistono da una parte sola. E noi dobbiamo prendere sulle nostre spalle la storia universale della pietà, a partire da coloro che ci sono più vicini. Ma questo 10 febbraio vorrei raccontarvi una storia, anzi due, sull’orlo delle foibe, che ebbero però un lieto fine.
La prima è la testimonianza di un uomo, all’epoca soldato e ventenne, che gettato nelle foibe insieme ad altri, riuscì a risalire dalla foiba e rivedere la luce del mattino. Il suo nome è Graziano Udovisi e fu considerato l’ultimo testimone. Si era presentato con un amico ufficiale al comando a Pola, e trovò un maggiore italiano che era passato con i suoi commilitoni dalla parte slava. Che li ascoltò, poi chiamò alcuni jugoslavi, che li ammanettarono e li fecero prigionieri, con le mani dietro la schiena con il fil di ferro. Furono poi deportati in un campo di concentramento, a Dignano. Li facevano camminare di notte. Una volta, i prigionieri vennero messi in fila indiana, uniti da un lungo filo di ferro, che partiva dal braccio sinistro di Graziano e furono portati davanti ad una foiba, rischiarata dalla luna. Un’altra vicina era invece completamente oscura. “È la mia ora. La luna mi è di fronte, bella grande lucente. Immediatamente mi sale una preghiera alla Madonna” e ai suoi cari. I partigiani slavi spararono alla cieca nel gruppo che cadde nel crepaccio, trascinato da colui che è caduto era prima, a cui avevano legato un grande masso. Quindici, venti metri, un volo senza fine. Poi lanciano pure delle bombe a mano. Graziano invece precipita nell’acqua, cerca di liberarsi dal fil di ferro, tiene stretto al cuore il suo amico che ha salvato prendendolo per i capelli. E alla fine riesce a trovare un anfratto in cui restare quella terribile notte di luna piena e di umanità spettrale. Poi con le ore percepiscono che sono salvi, i partigiani slavi di Tito sono andati via, riescono a mettersi in salvo, faticosamente risalendo dal fondo della foiba. Di quella storia che non aveva voglia di raccontare perché doleva al suo cuore, ne raccontò prima in una testimonianza raccolta da Giulio Bedeschi nel famoso libro Fronte Italiano: c’ero anch’io. E poi in un suo libretto uscito alcuni anni fa, Foibe. L’ultimo testimone (ed. Imprimatur). È una storia dolorosa ma a lieto fine. La bellezza del mattino dopo il tunnel cieco della morte, è un filo di speranza che si accende nel pieno di una tragedia collettiva, corale, di popolo.
Anni fa raccontai la storia vera, di una ragazza istriana, Irma. Chiese d’incontrarmi la mattina per sfuggire al controllo di figli e nipoti. Ci incontrammo una mattina a Roma in piazza san Silvestro e tradiva una cordiale emozione; per farsi riconoscere stringeva un mio articolo tra le mani. Suo marito, istriano, era morto combattendo in Africa, lasciandola vedova precoce con un bambino. In sua memoria, un nipote – il grande Uto Ughi – fu chiamato col suo nome. Nel ’45 vennero a prenderla da casa i partigiani comunisti, con l’accusa di aver rifiutato di falsificare carte d’identità e carte annonarie dei gappisti. Non si era rifiutata per ragioni politiche, mi dice fissandomi con i suoi occhi di cielo, ma perché era stata educata a rispettare la legge. Quando i partigiani se la portarono via, finse allegria per non impressionare il suo bambino che aveva poco più di otto anni. Fu chiusa in una casa insieme a sua sorella e ad altre ragazze, accusate di frequentare alcuni soldati repubblichini. Sa, erano bei giovanotti in divisa, mi sussurra, che c’entra il fascismo. Al piano di sotto erano invece detenuti i ragazzi. La sera sentiva gridare per le torture, mi dice mentre le sue mani tremano e il suo cappuccino deborda dalla tazza. Anche le sue compagne di stanza subivano sevizie: bruciavano loro i capezzoli con la candela e altro… In quei giorni arrestarono pure suo padre e avevano deciso di giustiziarlo: sa, era un imprenditore. Il suo bambino in bicicletta portava da mangiare a sua madre, a sua zia, a suo nonno in prigione. Neanche nove anni e una famiglia a carico…Ma a lei non fu torto un capello e a suo padre fu risparmiata la vita. Andò bene perché il capo dei partigiani si era innamorato di lei. “Quella volta ero carina, sa?”. Mi colpisce l’espressione che usa e lo sguardo improvviso di giovinezza che l’accompagna. Quella volta, come se parlasse di un tempo mitico, di un’altra esistenza, o di un interminabile giorno sottratto alla furia dei giorni. E si definisce carina, non bella, con una smorfia di pudore e vanità. Quella volta ero carina, come a voler limitare la bellezza solo a un evento. Amoreggiando con lui, salvò la vita a suo padre e a se stessa: le altre ragazze infatti non tornarono a casa. Mi dà una copia dell’ordine di scarcerazione, firmato con la stella a cinque punte, uno slogan e l’autografo del comandante, il suo moroso. Con l’epurazione persero tutto, la loro casa, la loro terra. Lasciarono il loro paese. Anni dopo tornarono nella loro terra e la trovarono abitata dagli slavi. Avevano costruito nel loro giardino otto palazzine ma avevano lasciato alcuni alberi. C’era ancora un albero di cachi che avevano piantato lei e sua sorella, da ragazze. Lei cercò di cogliere un pomo dall’albero. Fu scoperta e allontanata con durezza dai nuovi proprietari. A volte si diventa ladri in casa propria per amore del tempo perduto. Il suo racconto finisce col suo cappuccino. Restano di entrambi le ultime tracce di schiuma sui bordi.
Non aveva nessuna grande storia da rivelare né documenti. Voleva solo raccontare la sua vita, il travaglio e l’esodo, l’albero del suo paradiso perduto. Voleva lasciare a qualcuno una traccia discreta dei suoi giorni remoti, prima che venga la notte. Non serbava odio ma paura. È inutile piangere sul latte versato, sembrava dire davanti alla sua tazza galleggiante nel piattino; prevaleva la tenerezza e il desiderio di confidare a uno sconosciuto il sapore dei suoi vent’anni.
MV, La Verità (10 febbraio 2022)
di Cristina Gauri
Roma, 27 gen — Ci risiamo. All’approssimarsi del 10 febbraio, Giorno del ricordo, il Pd e accoliti antifascisti vari si dilettano nello sport preferito: negare, minimizzare, confutare e impedire che gli italiani commemorino la memoria della tragedia delle vittime delle Foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra.
Leggi anche: Foibe e confine orientale: spieghiamo un po’ di storia ai nostalgici del comunismo
Accade così che nel X Municipio di Roma Capitale il Pd ha bocciato la mozione, presentata dal consigliere leghista Alessandro Aguzzetti, che chiedeva la commemorazione ufficiale del dramma delle Foibe, solennità civile come da legge ordinaria dello Stato 30 marzo 2004, n. 92. Nella proposta portata in consiglio da Aguzzetti si chiedeva di deporre ufficialmente una corona in ricordo dei martiri al monumento in Piazza Segantini, al Villaggio San Giorgio di Acilia, noto per aver ospitato i tantissimi esuli costretti ad abbandonare la propria terra per sfuggire ai massacri dei partigiani titini. Con questa ignobile decisione il Pd ha stabilito per l’ennesima volta che per loro non deve esserci pace, né ricordo.
«Quanto accaduto oggi durante il consiglio del X Municipio é gravissimo», questo il commento del consigliere. «La bocciatura del documento in cui si chiedeva una commemorazione ufficiale in memoria dei martiri delle Foibe, ossia degli italiani uccisi dai partigiani di Tito perché italiani, dimostra la vera natura ideologica di questa amministrazione. Una amministrazione che mostra una natura reticente e negazionista nei confronti di una tragedia troppi anni taciuta e ancor oggi sminuita, se non addirittura giustificata da una certa sinistra».
Aguzzetti, che è stato espulso dopo la bocciatura della mozione, prosegue: «Questa è una grave mancanza di rispetto soprattutto per i residenti del quartiere Giuliano Dalmata di Acilia, che un tempo accolse gli italiani costretti a lasciare le loro case perché vittime di questa pulizia etnica. Un quartiere simbolo che ogni anno ricorda con commozione il 10 febbraio quanto accaduto». Conclude Aguzzetti ringraziando i consiglieri di opposizione per aver sottoscritto il documento «e la capogruppo della Lega Monica Picca per aver abbandonato l’aula per solidarietà al sottoscritto dopo la votazione. Il 10 febbraio ricorderemo i martiri delle foibe alle ore 19 a Piazza Segantini, invito i cittadini ad essere presenti e dimostreremo a questa amministrazione che anche senza la loro presenza il ricordo sarà sempre vivo».
La macabra notizia è stata divulgata dai media croati circa una settimana fa. Si sono concluse lunedì scorso le operazioni di recupero delle vittime dei partigiani di Tito dalla Foiba di Jazovka, nei pressi del villaggio di Sošice, nel Comune di Žumberak, in Croazia, non poco lontano dal confine sloveno. Complessivamente, dalla squadra di speleologi sono stati riportati in superficie i resti di ben 814 corpi, riferiti a ustascia, domobranci, civili, medici, infermieri e suore di diversi ospedali di Zagabria, gettati nella cavità alla fine e dopo la seconda guerra mondiale dai partigiani comunisti.
“Tali iniziative di recupero ci sono utili per smontare il mito di un comunismo sociale e rispettoso della libertà al popolo” spiega il direttore Archivio museo storico di Fiume Marino Micich. “Erano sistemi totalitari, dove pochi avevano il predominio di tutto e su tutti. Le foibe sono l ‘ esempio più eclatante in casa nostra come anche il triangolo rosso.. bisogna insistere a far conoscere queste verità per il rispetto della storia e per la libertà. Per lunghi anni a sinistra si è cercato e si continua per molto versi a minimizzare tali efferatezze”.
Secondo quanto dichiarato da alcuni membri del team incaricato del recupero delle salme, diversi sarebbero anche i resti di donne e bambini.
Fonte: https://www.iltempo.it/attualita/2020/07/27/news/foibe-croazia-jazovka-cadaveri-infoibati-suore-23995077/ Continua a leggere
Roma, 12 feb – La questione della controguerriglia italiana nella Balcania occupata (territori ex jugoslavi), sulla quale tante falsità, ancor più che inesattezze, sono state scritte da autori di estrazione marxista, quasi a giustificare la pulizia etnica praticata dall’Esercito popolare di liberazione jugoslavo nei territori di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, culminati nell’uccisione complessiva di circa 23.000 italiani e nell’esodo forzato di altri 350.000; ciò senza negare assolutamente le atrocità commesse da entrambe le parti in lotta.
Per sostenere quanto da noi affermato ci affideremo anche ai lavori di due storici dichiaratamente di sinistra, come il prof. Giorgio Rochat e Gianni Oliva, assai più seri e documentati rispetto a due attiviste filoslave come Cernigoi e Kersevan– che si autodefinisce sui social capitano dell’OZNA (la polizia politica titina responsabile materiale delle foibe e del massacro di un milione tra sloveni, serbi, croati, bosniaci, minoranze albanesi, germanofone, ungheresi e bulgare[1])- autrici di operette horror- fantasy sulle presunte violenze fasciste in Jugoslavia, e ovviamente negazioniste nei massacri non presunti compiuti dai comunisti slavi e dai loro manutengoli garibaldini. Ovviamente le due Lovecraft del confine orientale sono attualmente candidate con Potere al popolo.
Ad una situazione quasi interamente tranquilla nei territori sotto occupazione italiana, seguì, dopo il 21 giugno del 1941, l’inizio dell’attività dei partigiani comunisti. Il movimento comunista internazionale era rimasto filo-nazista sin dal momento del patto Molotov- Ribbentrop, favorendo in ogni modo l’operato di Hitler, in seguito alle precise istruzioni di Stalin. Tutto questo cambiò repentinamente con l’inizio della guerra fra Germania ed URSS, cosicché anche in Slovenia e Dalmazia fece la sua comparsa la guerriglia comunista.
Spiega infatti l’Oliva:
Le truppe [italiane] si sono mosse per reazione ad attacchi subiti e questi, a loro volta, non sono stati determinati dalla durezza dell’occupazione, ma da fattori interni e internazionali indipendenti dal comportamento del Regio esercito[2].
Come era stata la Jugoslavia ad attaccare l’Italia nel 1941, così in seguito sono stati i partigiani comunisti ad assalire per primi le truppe italiane in Montenegro, Slovenia e Dalmazia. Inoltre, sin da subito i partigiani si resero responsabili di ripetute e gravi violazioni delle leggi di guerra. Giorgio Rochat, sicuramente non ascrivibile a posizioni in qualsiasi modo riconducibili a visioni nazionalistiche della storia militare italiane, si è soffermato anche sulla guerra balcanica dell’Italia[3] nella sua monografia dedicata alle guerre italiane del periodo 1935-1943. È interessante vederne l’approccio. Anzitutto il Rochat delinea il contesto in cui operarono le truppe italiane, che è quello classico di un esercito regolare contrapposto a reparti irregolari:
La prima cosa da rilevare è che tutti gli eserciti regolari hanno difficoltà a capire e affrontare una guerra partigiana. L’istituzione militare si legittima come monopolio della violenza organizzata al servizio dello Stato, quindi ricerca la massima potenza distruttiva consentita dallo sviluppo degli armamenti per un conflitto programmato contro forze analoghe degli Stati nemici. I suoi codici di valore sono orientati a questo tipo di conflitto, definirlo «cavalleresco» sarebbe eccessivo, ma tutti gli eserciti regolari accettano alcune regole di massima come il rispetto del nemico ferito o che si dà prigioniero (non fosse che per ovvie esigenze di reciprocità) e dei civili, fino a quando restano civili, ossia non partecipano ai combattimenti. […] La cultura e l’addestramento di un esercito regolare vanno però in crisi quando si trova a occupare un paese ostile con una resistenza di popolo, dove ogni civile è un potenziale nemico, e deve fare fronte a una guerra partigiana condotta secondo regole tattiche e codici di comportamento differenti da quelli «regolari». […] Quindi tende a ricorrere a soluzioni brutali (fucilazioni, distruzioni di villaggi, deportazioni)[4].
In altri termini, il Rochat ricorda come il Regio Esercito si trovò a dover fronteggiare avversari i quali non rispettavano le leggi di guerra: uccisione sistematica dei prigionieri, sevizie, attacchi terroristici ecc. Per dare un’idea del modo di condurre la guerra, bastino pochissime citazioni dall’opera di Oliva, relative ad alcuni episodi bellici relativi alle Camicie Nere:
Decine e decine di militari italiani furono ritrovati con le membra spezzate, evirati, con gli occhi enucleati […] Quando le nostre truppe poterono tornare sul luogo della lotta, poterono constatare che i feriti erano stati seviziati: denudati tutti, alcuni evirati, conficcati i fasci del bavero negli occhi, infine tutti sgozzati […] I ribelli si accanirono sui feriti, ai più gravi aprirono il ventre estraendone le viscere, ai più leggeri spaccarono la testa a martellate e poi buttarono i cadaveri in un pozzo profondo venticinque metri[5].
Ancora, i cosiddetti “partigiani” secondo le convenzioni internazionali di guerra dell’epoca non potevano essere considerati legittimi belligeranti, ma franchi tiratori e come tali trattati Ciò avveniva per una serie precisa di ragioni:
1 ) Non avevano possesso stabile di territorio, né erano insorti contro di noi al momento dell’occupazione della Jugoslavia;
2) non facevano capo ad un governo responsabile né, per motto tempo, appartennero ad un’organizzazione unica;
3) erano sudditii di uno Stato che aveva concluso con noi un armistizio;
4) non portavano uniformi né, spesso, distintivo visibile a distanza;
5) non sempre portavano le armi apertamente;
6) non sempre rispettavano le leggi e gli usi di guerra;
7) per molto tempo non furono riconosciuti come legittimi belligeranti neppure dalle Nazioni Unite, che tale qualifica riconoscevano invece ai cetnici[6].
Determinate forme di conduzione del conflitto compiute dai partigiani, quali gli attacchi a tradimento, gli attentati con bombe, le uccisioni di prigionieri, le torture inflitte loro ecc. erano, e sono ancora oggi, contrarie alle leggi di guerra. I caratteri dell’attività di contro-guerriglia delle forze armate italiane furono quindi una reazione alle azioni criminali dei partigiani, compiute in violazione delle leggi di guerra. Le operazioni anti-guerriglia intraprese dalle truppe italiane furono perciò conseguenza sia dell’attacco compiuto contro il Regio Esercito da parte dei partigiani comunisti e dovuto a fattori di ordine internazionali indipendenti dal suo operato, sia dei crimini di guerra dei partigiani. Le istruzioni date da Roatta, comandante delle truppe italiane in Jugoslavia, erano semplici anti-guerriglia. Citando sempre dal Rochat:
La lunga circolare emanata il 1° marzo 1942 dal generale Roatta […] rappresenta un’articolata raccolta di istruzioni per 1’occupazione e la controguerriglia, nonché un forte appello a una maggiore combattività delle truppe; il documento più ampio che conosciamo su questi problemi, che merita qualche attenzione[7]
Le istruzioni contenute nella circolare di Roatta sono definite dal Rochat quali elementari, essendo presenti nell’insegnamento di qualsiasi scuola di guerra:
[Roatta] dà per scontato un livello quanto mai basso di addestramento delle truppe e soprattutto dei quadri (le indicazioni contenute sono elementari, materia di insegnamento in qualsiasi scuola per ufficiali) e cerca di porvi rimedio con pagine e pagine di istruzioni[8].
Le norme di Roatta prevedevano:
1) la fucilazione dei partigiani
2) l’utilizzo della rappresaglia su civili
3) la distruzione delle abitazioni di chi appoggiava i partigiani
4) internamento di coloro che appoggiavano i partigiani
5) si doveva evitare di colpire chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e non bisognava fare ricorso a bombardamenti indiscriminati sui villaggi.
Commenta ancora Rochat:
Sono le norme classiche dell’antiguerriglia, applicate in tutte le guerre contemporanee, con ovvie varianti e qualche limitazione rispetto ai secoli precedenti[9].
Dello stesso parere è Gianni Oliva:
Vi è stata una politica repressiva del Regio esercito, simile a quella che gli esercito occupanti di ogni nazione (comprese quelle più democratiche), attuano in un paese nemico […] dove si sviluppa una guerriglia variamente appoggiata dalla popolazione civile[10].
Le istruzioni di Roatta prevedevano infatti quanto era contenuto nelle norme antiguerriglia di tutti gli eserciti belligeranti, compresi quelli alleati. Inoltre, esse risultavano pienamente conformi alle stesse leggi di guerra vigenti all’epoca, le quali consentivano la fucilazione dei combattenti irregolari, la rappresaglia e l’internamento dei civili rei di connubio con reparti irregolari. Come appare inequivocabilmente, le direttive di questo generale non progettavano alcuno sterminio sistematico della popolazione civile, ma erano unicamente finalizzate alla repressione dell’attività partigiana. L’assenza di un piano di uccisione od anche solo cacciata degli abitanti in quanto tali si manifesta anche dalle direttive di risparmiare chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e di non servirsi di bombardamenti a tappeto sui villaggi. Vale la pena di esaminarle.
Emanata nel marzo del 1942 la Circolare 3C, relativa al trattamento da usare verso i ribelli e le popolazioni che li favoriscono, è stata spesso utilizzata come prova delle nefandezze commesse dalle truppe italiane di stanza in Iugoslavia. Da tale documento vengono talvolta estratte — e conseguentemente estrapolate dal loro contesto — delle affermazioni di particolare impatto, quali per esempio
Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” ma bensì da quella “testa per dente”,
oppure
Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti,
non riportando però quanto nella medesima circolare Roatta riteneva opportuno venisse precisato, ossia che
Nel trattamento da usare verso le popolazioni, gli edifici, villaggi e beni, e verso i partigiani, è assolutamente necessario di attenersi alle norme permanenti o contingenti in vigore. — Inasprimenti alle medesime, praticati senza un’assoluta necessità (atti di ostilità armata — tentativi di fuga), sarebbero indegni delle nostre tradizioni di umanità e di giustizia, e costituirebbero altresì — nei riflessi delle popolazioni — un’arma a “doppio taglio”.
e, precedentemente all’affermazione riportata pocanzi, che
Alla distruzione di interi villaggi si procede solo nel caso che l’intera popolazione o la massima parte di essa, abbia combattuto materialmente contro le nostre truppe, dall’interno dei villaggi stessi, e durante le operazioni in quel dato momento in atto.
e che
Il saccheggio delle abitazioni, comprese quelle da distruggere, deve essere impedito con misure preventive e, se occorre, con repressioni draconiane.
Inoltre la severità e la durezza previste dalla circolare per i partigiani — o per i presunti tali — e per coloro che li sostenevano non erano da applicarsi universalmente: infatti nell’Allegato “B” del 22 aprile 1942 XX dal titolo Trattamento da usare verso i ribelli si trova scritto che
— I ribelli, colti colle armi alla mano, e gli individui di cui al comma a) del n. 1 della Ia appendice alla circolare 3C, saranno immediatamente fucilati sul posto. Faranno eccezione:
— i feriti
— i maschi validi di età inferiore ai 18 anni
— le donne
che saranno deferiti (i primi una volta guariti), ai tribunali di guerra competenti.
[…]
Il contenuto di questo allegato non sarà incluso nella circolare n. 3 C, ma comunicato per iscritto ai comandi di divisione (od ente corrispondente), e da questi ai comandi in sottordine solo verbalmente.
Oltre a ciò, Roatta, una volta venuto a conoscenza di degli episodi di ritorsione a danni di villaggi, emanò nell’aprile del 1942 — ossia un mese dopo l’uscita della 3C — un’appendice al documento, nella quale si trova scritto:
[…] allo stato attuale delle cose è sancita la distruzione di abitazioni solo nel primo caso di cui sopra, ed a quattro condizioni:
— località in situazione anormale;
— sabotaggio o sabotaggi avvenuti in prossimità delle abitazioni di cui trattasi;
— trascorso lasso di 48 ore;
— mancata emersione dei responsabili.
III. — Orbene, in questi ultimi tempi è accaduto che, in seguito a semplici scaramucce, o durante rastrellamenti compiuti senza colpo ferire, interi villaggi sono stati distrutti.
[…]
— Il contenuto di detto allegato formerò oggetto della “1a appendice” alla circolare 3C che verrà stampata e distribuita per essere materialmente in essa inserita.
— I comandi in indirizzo ne diano però senz’altro conoscenza a quelli dipendenti.
Bisogna inoltre avere ben chiaro che le misure prese, per quanto drastiche, erano avulse da scopi quali la pulizia etnica dell’elemento slavo,ma volte solo alla repressione della guerriglia partigiana, come è d’altronde dimostrabile attraverso una lettura completa della Circolare 3C; essa infatti si presenta come un insieme di una serie di provvedimenti straordinari uniti a indicazioni, rivolte ai soldati italiani, di tipo tecnico e pratico. Le autorità italiane internarono nei campi di prigionia in Dalmazia e in Italia i civili croati sospettati di sostenere i partigiani o pericolosi per il governo italiano. All’inizio del 1942, gli italiani iniziarono ad espellere circa 17.000 croati indesiderati in direzione della N.D.H..
Parallelamente l’esercito italiano creò un cordone sanitario lungo i confini del territorio annesso per evitare le incursioni partigiane. Inoltre, al fine di internare i partigiani e sospettati catturati in precedenza, le autorità militari e civili italiane crearono, su un certo numero di isole dalmate, campi di concentramento; i più grandi si trovavano sull’isola di Melada e di Arbe. Dai 30.000 ai 40.000 croati furono internati e nel settembre 1943 inviati in Croazia a seguito di un accordo tra il governo italiano e quello della N.D.H.. Per dare un giudizio di quanto accaduto in maniera imparziale, l’unico metodo è quello di affidarsi alle leggi internazionali. Nel caso specifico ci riferiremo alla Convenzione dell’Aja del 1907, vigente a quell’epoca, e alle successive conclusioni del Tribunale di Norimberga. L’art. 42 della Convenzione dell’Aja recita:
La popolazione ha l’obbligo di continuare nelle sue attività abituali astenendosi da qualsiasi attività dannosa nei confronti delle truppe e delle operazioni militari. La potenza occupante può pretendere che venga data esecuzione a queste disposizioni al fine di garantire la sicurezza delle truppe occupanti e al fine di mantenere ordine e sicurezza. Solo al fine di conseguire tale scopo la potenza occupante ha la facoltà, come ultima ratio, di procedere alla cattura e alla esecuzione degli ostaggi.
Secondo il diritto internazionale (Art. 1 della convenzione dell’Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari i quali rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona responsabile per i subordinati, abbiano un segno distintivo fisso riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi. Ciò premesso, si può senz’altro affermare che gli attentati messi in atto dai partigiani fossero atti illegittimi di guerra essendo stati compiuti da appartenenti a un corpo sì di volontari che però non rispondevano ad alcuno degli accennati requisiti. Secondo l’Art. 2 della convenzione di Ginevra del 1929 non potevano essere utilizzati per una rappresaglia né feriti né prigionieri di guerra e neppure personale sanitario.
Il Tribunale di Norimberga d’altra parte affermò:
Le misure di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali, nelle condizioni particolari in cui esse si verificano possono essere giustificati: ciò ‘in quanto l’avversario colpevole si è a sua volta comportato in maniera illegale e la rappresaglia stessa è stata intrapresa allo scopo di impedire all’avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro.
E per finire la parte legale del ‘discorso‘ ecco le condizioni che ammettevano una rappresaglia, sia per il diritto internazionale, sia per l’interpretazione data dal Tribunale di Norimberga:
Dopo attacchi contro la potenza occupante, laddove la rappresaglia si rendesse necessaria dal punto di vista militare. La rappresaglia serviva innanzi tutto per impedire ulteriori delitti commessi dall’avversario. Le Forze Armate italiane adottarono il diritto di rappresaglia nelle modalità ritenute necessarie per la sicurezza della truppa che occupava il territorio, ovvero:
Quando le ricerche degli autori di atti illeciti avessero dato esito negativo.
Che le rappresaglie fossero ordinate da ufficiali superiori.
Che tenessero conto della proporzionalità.
Il tribunale di Norimberga confermò che misure di ritorsione, qualora consentite, debbono essere proporzionate al fatto illecito commesso.
Nel processo a carico dei generali List, von Weichs e Rendulic, tenutosi nel 1948, la proporzione accettata dal tribunale di Norimberga come equa era 10 a 1, vale a dire la fucilazione di dieci ostaggi per ogni soldato tedesco ucciso da un atto terroristico.
Che la cerchia delle persone colpite dalla rappresaglia fosse in qualche modo in rapporto col reato commesso a danno delle forze occupanti.
Che gli ostaggi o le persone destinate alla rappresaglia fossero tratte dalla cerchia della resistenza.
Non venivano stabiliti i criteri per la scelta degli ostaggi, ma la scelta stessa era affidata a criteri di discrezionalità.
Il Tribunale di Norimberga a tale proposito, affermò:
Il criterio discrezionale nella scelta può essere disapprovato ed essere spiacevole, ma non può essere condannato e considerato contrario alle norme del diritto internazionale. Deve tuttavia esserci una connessione fra la popolazione nel cui ambito vengono scelti gli ostaggi e il reato commesso (quindi luogo dell’attentato o l’appartenenza a gruppi clandestini che compiono atti terroristici).
Il diritto alla rappresaglia venne accolto anche alle forze britanniche nel paragrafo n.454 del British Manual of Military Law. Le forze americane a loro volta prevedevano la rappresaglia nel paragrafo n. 358 dei Rules of Land Warfare del 1940. Per le truppe francesi, l’allegato I alle istruzioni di servizio del 12 agosto 1936 consentiva all’articolo 29 il diritto di prendere ostaggi nel caso in cui l’atteggiamento della popolazione fosse ostile agli occupanti, e il successivo articolo. 32 prevedeva l’esecuzione sommaria degli stessi ostaggi se si verificavano attentati. Nel 1947 i magistrati militari britannici, nel processo di Venezia a carico di Albert Kesselring, commentarono che nulla impediva che una persona innocente potesse essere uccisa a scopo di rappresaglia[11]. Il Rochat non ha dubbi sul fatto che le truppe italiane agirono nel conflitto in maniera meno dura di tutti gli altri contendenti. Anzitutto, purtroppo, esse combatterono con scarsa determinazione:
Tutte le indicazioni dicono che le truppe italiane affrontarono questa guerra con scarso entusiasmo e partecipazione, una testimonianza indiretta viene dalla necessità dei comandi di rinnovare ripetutamente le direttive di massimo rigore[12] .
Necessità che ovviamente non riguardava i reparti di Camicie Nere, di ben altra combattività contro i partigiani comunisti. Soprattutto, il Regio Esercito fu, tra tutti quelli impegnati nella guerra balcanica, certamente il meno feroce, tanto che le stessi eccessi furono opera di iniziative individuali o di singoli reparti, -spesso i migliori come addestramento e motivazione: lasciando da parte i reparti della Milizia, in primis i battaglioni “M” e i battaglioni CC.NN. Squadristi, i due reggimenti della 21a divisione Granatieri di Sardegna, il 1° Reggimento Granatieri in Slovenia e, soprattutto, il 2° in Croazia, gli alpini, i bersaglieri e specialmente i RR. Carabinieri- anziché la norma:
Va comunque ricordato che in una guerra con uno straordinario livello di atrocità e massacri da entrambe le parti, le truppe italiane furono certamente le meno feroci. Anche i piú duri ordini dei comandi ponevano limitazioni alle rappresaglie, come il rispetto di donne e bambini. E la repressione fu condotta con largo ricorso a fucilazioni e devastazioni, senza i massacri e le efferatezze compiute dagli altri belligeranti, tedeschi compresi. Anche la nota frase della circolare di Roatta: «Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti», va ricondotta alla difesa di compagni aggrediti, non alle operazioni di controguerriglia, non può essere paragonata alle direttive hitleriane che avallavano a priori qualsiasi eccesso o massacro commesso dalle truppe naziste.
Eccessi ci furono certamente, ma per iniziative individuali o di reparti minori, non come regola di condotta delle operazioni[13]. Lo stesso parere viene condiviso da Gianni Oliva:
Sul piano militare, vi è certamente una sostanziale differenza fra la Werhmacht e il Regio esercito. Per gli strateghi tedeschi, il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione[…] La violenza del Regio esercito, all’opposto, appare una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane […] Il raffronto con la brutalità tedesca è dunque improponibile, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo[14].
Tutto ciò però non deve far dimenticare, come Oliva stesso ricorda, si fosse avuta una fuga di civili dalla Slovenia tedesca a quella italiana, proprio perché l’occupazione italiana era più mite di quella germanica[15]. Gli italiani in Jugoslavia, oltre alle operazioni belliche contro i guerriglieri locali, costituirono un valido strumento di protezione delle popolazioni locali dalle violenze dei partigiani titini e degli ustasha. Per rimanere solo alla Slovenia, la schiacciante maggioranza degli abitanti non era affatto filo-comunista, e risultava anzi vittima dell’operato dei partigiani comunisti stessi, che massacravano gli avversari politici e depredavano le popolazioni, non diversamente da quanto accadeva in Italia ad opera dei loro compagni della Resistenza. Milizia e Regio Esercito rappresentarono molto più spesso di quanto non si creda una difesa per i civili anche dinanzi ai partigiani titini, il cui operato fu oltremodo violento ed oppressivo:
A parte le spoliazioni di viveri e di bestiame cui la popolazione civile fu soggetta, coloro che erano ritenuti favorevoli agli occupatori furono proditoriamente assassinati assieme alle loro famiglie, interi villaggi furono saccheggiati e incendiati, fabbriche, miniere, segherie, macchine agricole, scuole, chiese furono incendiate o distrutte, uomini furono costretti ad arruolarsi nelle bande, giovani donne furono rapite[16] .
Pierluigi Romeo di Colloredo Mels
NOTE
[1]Per farsi l’idea di cosa fosse- ed è – l’OZNA basti ricordare l’assassinio di uno storico del calibro di William Klinger, fiumano residente in Italia, autore di OZNA. Il terrore del popolo, che dopo la pubblicazione di tale studio venne assassinato a New York nel 2015, dallo statunitense di origini fiumane Alexander Bonich, suo amico, con due colpi di pistola (uno alla schiena e uno alla nuca). Il colpo alla nuca era considerata la firma dell’OZNA.
.
[2] Gianni Oliva, Si ammazza troppo pocoMilano 2006, p. 135
[3] G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino 2005.
[4] Ibid.p. 366
[5] Gianni Oliva, 2006, p. 136
[6] Note dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, citate in Oliva 2006, p. 110
[7] Ibid. p. 368
[8] Ibid., ivi.
[9] Ibid. p. 369
[10] Oliva 2006, p. 8
[11]F.J.P. Veale, Advance to barbarism, London 1968 e id., Crimes discretely veiled , Los Angeles 1979.
[12] Rochat 2005, p. 370.
[13] Ibidem, pp. 370-371.
[14] Oliva 2006, p. 7
[15] Ibid., p. 124
[16] Oliva 2006, p. 145. Secondo i dati del governo sloveno, le vittime civili degli occupanti italiani furono circa 6.300, i civili sloveni uccisi dai partigiani comunisti otre 13.000.
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