“1945 Germania anno zero”: Atrocità e crimini di guerra Alleati nel “memorandum di Darmstadt”

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Segnalazione di Federico Prati

Nè revisionismo, né negazionismo: i crimini di una parte non giustificano, né elidono i crimini dell’altra parte: la conoscenza completa e onesta del passato, oltre a consapevolizzarci sull’oscurità che alberga nell’uomo, può impedire l’uso strumentale della storia e quindi il perpetuarsi di spirali di odio, violenza  e vendetta per i decenni successivi.

Con questa ispirazione è nato “Germania anno zero” (Italiastorica) l’ultimo libro dello studioso Massimo Lucioli, (già autore di notevoli studi sull’ultima guerra), dedicato al cosiddetto “Memorandum di Darmstadt”. Il volume comprende una sconvolgente raccolta di immagini, di cui molte inedite.

Nel 1946, il campo di internamento americano 91 a Darmstadt, in Assia, contava 24.000 prigionieri tedeschi. Qui, in segreto, durante il processo di Norimberga, un gruppo di avvocati internati raccolse per quattro mesi le dichiarazioni giurate di 6.000 testimoni sulle violazioni delle leggi e delle regole di guerra da parte degli Alleati: dagli eccidi sulla popolazione tedesca etnica in Polonia nel 1939 (che fornirono il casus belli a Hitler), alle uccisioni dei prigionieri di guerra germanici da parte sovietica prima –con casi di torture e mutilazioni – e Alleata poi. Si documentano le violenze sessuali e le brutalità dei soldati Alleati contro i civili tedeschi; gli stupri e i massacri di massa sovietici nelle province orientali della Germania nel 1944-’45; i bombardamenti incendiari sui quartieri popolari e centri storici delle città tedesche.

Particolare attenzione è dedicata  alle draconiane misure punitive concepite dal sottosegretario al tesoro americano Henry Morgenthau applicate – di fatto – nella direttiva JCS 1067. Questa circolare disciplinava la vita dei civili e prigionieri militari nella Germania occupata dagli Usa, ma fu poi recepita anche nei settori governati da francesi, inglesi e russi dopo la conferenza di Postdam del luglio’ 45.

La popolazione tedesca, già stremata dalla guerra, fu sottoposta a privazioni tali da portare alla morte per fame, freddo e malattie centinaia di migliaia di civili – specie anziani, bambini e donne – con tassi di mortalità infantile, in alcune città, del 100%.

Nel libro si tratta anche dell’ordine segreto emesso da Eisenhower il 10 marzo ‘45 con cui i prigionieri tedeschi venivano classificati come DEF (Disarmed Enemy Forces), perdendo il loro status di POW, (Prisoners of war): in tal modo, non potevano più godere delle garanzie di assistenza minima previste della Convenzione di Ginevra. In ordini successivi, Eisenhower autorizzò a sparare su tutti i civili tedeschi che portassero da mangiare ai loro compatrioti militari prigionieri, dato che questi “dovevano essere alimentati dal Governo tedesco”. Dettaglio: il governo tedesco non esisteva, e questo condurrà alla morte circa un milione di prigionieri di guerra germanici per fame, stenti e malattie nel periodo 1945-‘47.

Il memorandum di Darmstadt, compilato in sei copie, doveva essere presentato da Hermann Göring al tribunale di Norimberga nel suo discorso di chiusura il 5 luglio del 1946. Ciò però non avvenne: gli Alleati sequestrarono e bruciarono il memorandum, tuttavia, una copia fu trafugata, pubblicata in Argentina nel ‘53 e successivamente in Germania.

Una pila di menzogne per difendere l’indifendibile? Le testimonianze dei prigionieri tedeschi trovano effettivo riscontro su tempi, luoghi, vittime, procedure e responsabili nei saggi del funzionario ONU, esperto di diritto umanitario Alfred M. de Zayas e dello storico Franz W. Seidler dell’Università Bundeswehr di Monaco. Altre testimonianze sono state verificate da Lucioli nell’archivio online del dipartimento Personenbezogene Auskünft di Berlino-Reinickendorf (con schede su 2,5 mln di caduti tedeschi).

“Devo ancora leggere il libro – commenta lo storico Franco Cardini all’Adn Kronos –  ma non è una novità che anche gli Alleati abbiano commesso atti infami. Il memorandum di Darmstadt lo conosco e ci sono invecchiato insieme. Lo dicevo da anni e qualcuno insorgeva contro di me. Ormai certe verità uniche e menzogne sono diventate patrimonio dell’umanità. Ci vorrebbe più coraggio a dirlo, nessuno ha tutta la ragione in tasca. E questo non significa ridimensionare i crimini del nazismo, sia ben chiaro. I vincitori, quando hanno vinto, hanno fatto di tutto per imbiancare le loro coscienze e annerire quelle dei vinti. Abbiamo immagazzinato una quantità infinita di errori e inesattezze storiche incredibili, una tale potenza di accuse nei confronti dei vinti, alcune anche calunniose, da far paura. Solo adesso, dopo 80 anni, si comincia a fare i conti con la verità. Attenzione, dire che Churchill sia stato un mascalzone, non significa dire che Hitler aveva ragione”.

Chiosa Massimo Lucioli: “Bisogna ricordare che gran parte di tali crimini sconvolgenti furono compiuti a guerra finita contro la popolazione civile tedesca. Non si può parlare, quindi, di crimini di guerra, bensì di crimini contro l’umanità: una forma di vendetta. Lo stesso John F. Kennedy nel libro “Profiles in Courage” del 1956 ebbe parole molto critiche sul processo di Norimberga: «Un processo tenuto dai vincitori a cari­co dei vinti non può essere imparziale perché in esso prevale il biso­gno di vendetta. E dove c’è vendetta non c’è giustizia. A Norimberga, noi accettammo la mentalità sovietica che antepone la politica alla giustizia, mentalità che nulla ha in comune con la tradi­zione anglosassone. Gettammo discredito sull’idea di giustizia, mac­chiammo la nostra costituzione e ci allontanammo da una tradizione che aveva attirato sulla nostra nazione il rispetto di tutto il mondo»”.

Insomma, “1945. Germania anno zero” farà parlare di sé.

Invito tutti a stare a orecchie ben tese sulle provocazioni contro la Serbia

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di Franco Cardini

Fonte: Franco Cardini

Invito tutti a stare a orecchie ben tese e a diffondere al massimo la notizia delle provocazioni kosovare (quindi albanesi) contro la Serbia. Lo schema è esattamente ed evidentemente lo stesso e la NATO è al solito la protagonista della provocazione. Come per l’Ucraina, se i serbi esasperati per la provocazione contro la loro minoranza in Kosovo si muovessero al fine di tutelarla, l’assordante silenzio su quel che sta accadendo alla frontiera serbo-kosovara si trasformerebbe in immediato clamore mediatico: gli occidentali non informati avrebbero l’impressione di un attacco serbo al Kosovo analogo a quello russo all’Ucraina nel febbraio scorso. La NATO sta allargando il conflitto russo-americano a Occidente colpendo al Serbia, solo spazio aereo di accesso all’Europa ancora consentito alla Russia; e tra le forze NATO presenti in Kosovo gli italiani sono in primissima linea. Bisogna cominciar a parlarne SUBITO, prima che lo facciano gli altri: bisogna impedire che di nuovo i provocati finiscano col far la figura degli aggressori, e gli aggressori effettivi quella delle vittime.

Suicidio occidentale

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di Franco Cardini

Necessario viatico alla lettura di queste brevi righe (e del libro che esse commentano) è quella dell’Editoriale del presente numero dei “Minima Cardiniana”. Difatti, questo libro denso d’informazioni e di considerazioni intelligenti, nella stragrande maggioranza dei casi del tutto condivisibili al di là dell’impianto generale “filostatunitense-occidentalista” per il quale del resto l’Autore è ben noto e ch’egli stesso manifesta con decisione sempre accompagnata peraltro da equilibrio e da humour, sembra manifestare disagio o quanto meno reticenza proprio sul punto qualificante: la declinazione di quei “nostri valori” che oggi sarebbero in pericolo, oggetto di un assalto teso a cancellarli.
Molto apprezzabile, in queste pagine nelle quali Rampini ci dà prova ulteriore di quelle qualità non solo di eccellente giornalista ma anche di fine scrittore che tutti volentieri gli riconosciamo, il frequente ricorso a esempi ispirati a una world history ben conosciuta e sempre chiamata in causa con misura, senza ostentazione. Ma proprio su ciò si potrebbe attentamente e pacatamente discutere. Il paragone ad esempio con gli imperi cinese e romano, quando ci si riferisce al “nostro Occidente”, sembra fondarsi su una normativa analogica data per naturalmente scontata: al contrario, sembra a molti ormai che quella “occidentale”, che per la prima e l’unica volta nella storia ha spezzato gli equilibri di un “mondo a compartimenti stagni” imponendo la braudeliana “civiltà emisferica”, l’”economia-mondo”, sia una eccezione unica e irreversibile. Proprio per questo motivo stridente risulta il contrasto tra quelli che l’Occidente moderno sente come i valori più propriamente “suoi” (e sui quali forse Rampini sorvola un po’ troppo, dopo averli presentati nel titolo come i protagonisti) e che esso pretende di aver diffuso nel resto del mondo e la realtà obiettiva. Esattamente al contrario di quello che, nel goethiano Faust, il diavolo Mefistofele rivendica per sé (come spirito “che eternamente vuole il Male e sempre genera il Bene”), l’Occidente ha sostenuto di conquistare il mondo per avviarlo ai valori di umanità, di progresso, di giustizia, di pace: ma di fatto esso ha seminato – con la pratica imperialista e lo sfruttamento sistematico delle risorse mondiali dettato dal proprio bisogno crescente di beni e di forza-lavoro – esattamente il contrario delle sue premesse e promesse. Da qui la ribellione forse non generalizzata, ma senza dubbio corale e diffusa, contro il suo predominio, per quanto la lotta tesa a scalzarne l’egemonia sfocerà forse nel “tramonto dell’Occidente”, inteso però come fine dell’egemonia delle élites occidentali accompagnate però dell’imporsi di altre élites, a loro volta occidentalizzate, che vi si sostituiranno fatalmente mantenendo, sia pur metabolizzata, la sua cultura. E ciò, probabilmente, non risolverà affatto i problemi posti dallo sviluppo della nostra civiltà ma si limiterà a un cambio della guardia dei padroni del pianeta: i grandi problemi – dall’inquinamento ambientale che ha prodotto una sorta di “neoreligione” al concentramento della ricchezza e quindi dall’impoverimento generale del genere umano – non cambieranno.
Qui il discorso di Rampini, che preferisce non attardarsi sugli errori dei governi statunitensi dell’ultimo trentennio e solo una volta, a p. 177, cita lo scandalo di Guantanamo quasi per liquidarlo con una generica formula minimizzante, si caratterizza per una tendenza assolutoria forse eccessiva. Il che non toglie nulla né alla qualità del volume, né alle prospettive che egli ci apre sulla società statunitense contemporanea, né alle sacrosante critiche a proposito della crisi della “cultura del limite”, dei guai commessi dal politically correct, delle insufficienti prestazioni del mondo politico europeo. L’assenza dell’Europa nel mondo coevo è senza dubbio una delle nostre colpe più grandi. Di noi propriamente “europei”, non velleitaristicamente “occidentali”.

Federico RAMPINI, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Milano, Mondadori, 2022, pp. 245, euri 19

Cavalieri d’America: i “valori dell’Occidente”

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di Franco Cardini

Forse non tutti lo sanno, ma gli Stati Uniti sono uno dei paesi al mondo nei quali la letteratura cavalleresca medievale e i suoi succedanei di ogni tipo hanno il massimo successo. Dagli studi accademici alle pubblicazioni scientifiche, ma anche dalla letteratura popolare ai “giochi di ruolo” la passione per le gesta dei paladini di Artù dilaga: del resto, la Disney Co. ne è uno dei maggiori veicoli a livello mondiale. E il fenomeno sta tracimando da oltre due secoli in tutte le possibili direzioni: dall’architettura neoromanica e neogotica ai “ristoranti medievali” dove si fanno anche i tornei, dal cinema alla TV, dal “teutonismo” come fenomeno antropologico-giuridico e antropologico-militare (l’Accademia di West Point) alle infinite derivazioni del tolkienismo ai continui revivals del mito del Santo Graal.
Argomenti di questo genere sono ormai da tempo anche oggetto di seri studi specialistici. Il fenomeno del “medievalismo” è accuratamente indagato da ottimi specialisti: basti pensare, in Italia, ai lavori di Maria Giuseppina Muzzarelli, di Francesca Roversi Monaco, di Tommaso di Carpegna Falconieri e di moltissimi altri.
Questa passione collettiva è radicata in aspetti non trascurabili della stessa “mentalità collettiva” (e ci rendiamo conto della problematicità di questa espressione). Nello “spirito americano”, nel “manifesto destino” degli Stati Uniti, la componente cavalleresca ha un rilievo del tutto speciale. Pensiamo al mito del Lontano Occidente, ricalcato su quello antico e diffuso dell’Antico Oriente. E “Lontano Occidente”, com’è ben noto, si traduce in inglese con l’espressione Far West. Il “mito della Frontiera” rigurgita di elementi cavallereschi, sia pure semplicizzati e stereotipati: l’Avventura anzitutto, dimensione com’è noto basilare della Weltanschauung arturiana; la ricerca della ricchezza e dell’amore, appiattimento banale ma fascinoso dei fini ultimi dell’Avventura stessa; la difesa dei deboli e degli oppressi, anche se spesso non correttamente identificati; il parallelo odio contro tutte le personificazioni del Male, a cominciare dai “Pellerossa”. La destra ha elaborato e sviluppato al riguardo una decisa categoria etico-antropologica, incarnata dai cosiddetti Libertarians che anni fa riempivano le fila dei neoconservative impegnati contro l’Islam e che sembrano aver trovato oggi una loro nuova Isola Felice nella lotta contro tutto quello che sa di russo.
Nella “cultura libertarian” (da non confondersi con liberal: fra i due concetti esiste una fitta rete di elementi di affinità e di opposizione che li rende complementari ed opposti al tempo stesso) il mito della Frontiera ha un ruolo fondamentale: la libertà dell’eroe western, che al di sopra di sé ha solo il cielo stellato e Dio e dentro di sé una legge morale intima infallibile e indiscutibile, è autoreferenzialmente riconosciuta da chi vi s’identifica come una libertà cavalleresca. Col risultato paradossale che l’individualismo assoluto, questo caratteristico fondamento primario della Modernità occidentale, viene identificato con la figura archetipica del cavaliere medievale che è invece l’uomo della dedizione a Dio e al prossimo, miles pacificus nella definizione agostiniana passata ai rituali di addobbamento.
D’altronde un uomo libero non è tale se non è armato, se non è un guerriero. Si tratta di un principio di base del diritto germanico, ben riconoscibile in tutte le leges barbariche la raccolta delle quali occupa vari volumi dei Monumenta Germaniae Historica, i leggendari M.G.H. D’altronde un cavaliere non è solo un guerriero: è molto di più. Il guerriero è libertà e ferocia; il cavaliere è spirito di servizio, disposizione al martirio.
Ed ecco uno degli elementi di base che oggi osta al riconoscimento della “cultura europea” come “cultura occidentale”, anzi del carattere sinonimico delle due espressioni, che ha viceversa conosciuto un’allarmante diffusione mediatica. La giovane America (ormai non più giovanissima) dei self-made men, degli illimitati diritti individuali, del “diritto alla ricerca della felicità” di ciascuno conseguita – forse – da pochissimi a scapito di troppi, quella che ha fondato la “prima democrazia del mondo” la quale coincide con il paese della più profonda disuguaglianza e della più tragica ingiustizia sociale è divenuta il modello trainante di un mondo strettamente connesso a quello dei paesi del Commonwealth e della sua stessa antica Madrepatria, l’Inghilterra, dalla quale provenivano i Pilgrim Fathers calvinisti per i quali la ricchezza era il segno del favore divino e la povertà quello della Sua maledizione: quelli che bruciavano le streghe e consideravano i native Americans dei barbari preda di Satana. Su queste premesse si conquistò la frontiera sempre più spinta vero ovest: sulle canne delle Colt ch’erano le spade dei Nuovi Cavalieri e sulle rotaie dei treni coast to coast.
La nostra vecchia Europa è stata profondamente invasa, negli ultimi tre quarti di secolo, da quest’Occidente iperindividualista e predatore: ma, attraverso la sua antica storia di guerre e di sofferenze, ha saputo costruire un’altra Weltanschauung. Anch’essa si è resa responsabile di aver seminato conversione al cristianesimo e democrazia parlamentare raccogliendo però, nel mondo, i ricchi frutti dello sfruttamento coloniale e delle ingiustizie del capitalismo: mantenendo però nel contempo fede anche a una dimensione di progressiva giustizia sociale e di costante solidarismo. Ecco perché nella felice America chi non ha una carta di credito in ordine non ha accesso agli ospedali mentre l’umiliata e decaduta Europa, pur equivocamente rappresentata da un’Unione Europea ormai fallimentare, continua a far di tutto per tenere in piedi uno straccio di quel welfare state alla base del quale c’è anche il contributo di pensiero di studiosi e di statisti americani. Noialtri europei abbiamo assicurazioni obbligatorie ma ci è difficile poter tenere legittimamente in casa un’arma; gli americani possono comprarsi interi arsenali da guerra, ma se si ammalano e non hanno abbastanza soldi in banca sono fottuti. Ecco la differenza, punto d’arrivo di altre più profonde e significative differenze. Ed è il caso di dirlo: Vive la difference!
Ecco perché, parafrasando il vecchio Kipling, West is West, Europe is Europe. L’America è la patria d’infiniti diritti riconosciuti a tutti ma conseguiti e goduti da pochissimi; l’Europa è la patria di popoli che non hanno ancora del tutto dimenticato che a qualunque diritto corrisponde un dovere, e che soprattutto sul piano sociale i doveri vengono prima dei diritti. E le radici di Europa e di Occidente possono ben essere anche le stesse: ma l’albero si riconosce dai suoi frutti. Ecco perché, da oltre due secoli almeno – ma a causa di un processo avviato circa mezzo millennio fa, con il decollo della globalizzazione –, noialtri europei non possiamo più dirci occidentali.
Qualcuno ha detto e scritto, su organi mediatici della “destra”, che io sono “antiatlantista” e “antiamericano” e che all’“Euramerica” preferisco l’“Eurasia”. Sia chiaro che non sono un eurasiatista, ammesso che un eurasiatismo come valore politico esista. Certo, all’Euramerica e al suo cane da guardia, la NATO, preferisco l’Eurasia: ma proprio in quanto ostinatamente credo alla possibilità che l’Europa ritrovi le sue autentiche radici e che sappia costruire in futuro una solida compagine indipendente dai blocchi che si vanno configurando e fra loro mediatrice in funzione di una politica di pace. Nel loro sistema di costruzione dell’America come grande potenza nel contesto dei blocchi contrapposti, gli USA non ci lasciano sufficiente autonomia: né, pertanto, ci lasciano scelta. Se non vogliamo restar subalterni (e uso un eufemismo) bisogna stare dall’altra parte nella prospettiva di rimanere autonomi e sovrani: sarà poi loro compito rimediare agli errori fatti e recuperare la nostra fiducia, ma per questo momento non c’è spazio. In questo momento sostengo pertanto la necessità che l’Occidente à tête americaine non consegua il disegno della Casa Bianca e/o del Pentagono di stravincere sul mondo eurasiatico reimponendo un’egemonia ch’è storicamente tramontata in modo irreversibile e attuando le strategie e le tattiche del totalitarismo liberista, il più subdolo ma non il meno infame dei totalitarismi (e ce lo sa dimostrando nell’Europa d’oggi: tentando di fare strame di qualunque libertà di pensiero degradandone sistematicamente le espressioni a forme di fake news, facendo il deserto su qualunque differenza di giudizio e chiamando tale deserto “democrazia”). Certo che, al limite, una tirannia lontana è un male minore rispetto a una tirannia vicina e incombente. Ma il fatto che il totalitarismo occidentale sia quello del “pensiero unico” e della negazione di troppi diritti sostanziali dei più (a cominciare non dalla ricchezza, bensì dalla dignità civile e sociale) nel nome del diritto di sfruttamento da parte delle lobbies conferisce alla “tirannia vicina” che ci minaccia un carattere particolarmente odioso: e il fatto che essa, almeno per il momento, possa permettersi il lusso di forme di “libertà” nella sostanza irrilevanti se non addirittura socialmente illusorie e pericolose anche perché utilizzate come anestetico morale di massa la rende ancora più infame.
Federico Rampini, ch’è un giornalista di rara intelligenza ed efficacia, ha di recente pubblicato un “best seller annunziato” – 70.000 copie vendute ancor prima dell’uscita, annunzia l’Editore: potenza dei media, specie se Zio Sam veglia sulla buona riuscita di qualcosa… – dal titolo Suicidio occidentale (Mondadori) il cui sottotitolo, illuminante, recita: “Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori”. Si tratta di un libro da leggere con la massima attenzione, cercando nelle sue pagine l’esposizione (o la non-spiegazione) dei tre grandi temi che il suo titolo propone usando l’aggettivo “occidentale” e le espressioni “nostra storia” e “nostri valori”.
Occidente: che cosa significa, quali sono i suoi confini cronologici, geografici, antropologici, culturali? È un valore immobile, metastorico, o dinamico, soggetto quindi ai mutamenti? E quanto vi ha inciso, nella seconda ipotesi, la Modernità quale trionfo dell’individualismo e del primato di economia-finanza e di tecnologia su altri valori, a cominciare da quelli religiosi ed etici?
Nostra storia: nostra di chi? Valutata alla luce di quali parametri, di quali giudizi? E poi, chi siamo noi? Quali sono i confini e i contorni etnici, culturali, etici, geostorici del nostro “essere noi stessi”? Da che momento in poi possiamo considerarci “noi” trascurando o superando dinamiche e addirittura soluzioni di continuità? Siamo tutti gli stessi, tutti concordi, tutti uguali?
Nostri valori: nostri di chi? Quali sono? Fino a che punto sono universalmente condivisi? Sono davvero perfettamente condivisibili? Sono perfetti o suscettibili di perfettibilità? Li enunziamo con chiarezza, li pratichiamo con coerenza e fedeltà? O sono più spesso alibi per quella che Nietzsche definiva “Volontà di Potenza” o, per altri versi, papa Francesco definisce “cultura dell’indifferenza” e “dello scarto”? E Rampini, questi valori, li riconosce e li accetta in blocco oppure opera delle selezioni, delle esclusioni?
Muniti di questo companion per affrontare una lettura che oggi si presenta come ineludibile, cerchiamo di renderci conto di quali siano questi valori in ordine a una questione civile ed etica fondamentale: la violenza, che da noi in Europa sia pure in modo e in grado diverso abbiamo deciso di negare ai singoli cittadini espropriandone il diritto – nel nome del bene comune – per trasferirlo al monopolio della società costituita in quanto tale, quindi dello stato.
“Da noi” in Europa, da Lisbona e Mosca e da Oslo ad Atene con molte diversità, articolazioni e sfumature, la “violenza privata” è stata messa con chiarezza da circa due secoli e mezzo al bando in tutte le sue forme (comprese la “vendetta” e la “difesa privata” entro certi limiti): nel nome dello stato di diritto, che garantisce a tutti la libertà ma perciò stesso la limita per mezzo di leggi miranti alla sicurezza pubblica e alla garanzia contro la possibilità che un eccesso di libertà esercitato da qualcuno (in forza per esempio della sua superiorità civile o economica) si risolva con un danno di libertà altrui. Da noi, salvo precise eccezioni quali forze armate o forze dell’ordine, il disarmo è regola generale cui possono essere esentati solo pochi cittadini in possesso di requisiti speciali.
“Altrove” nell’Occidente, non è così: questo, che potrebbe essere valutato – e senza dubbio con ragione – un grave limite alla libertà individuale, viene respinto. Le armi private sono considerate beni lecitamente commerciabili. I risultati di tutto ciò, associati con evidenza ad altri fattori, hanno determinato autentiche tragedie: ultima in ordine di tempo quella di Uvalde in Texas della quale in questo numero dei MC parla David Nieri. Subito dopo la tragedia gli affiliati della NRA (National Rifle Association), ricchissimo e potentissimo sodalizio che contribuisce costruire l’imponente fatturato delle industria che producono armi e che è soggetto privilegiato nella stessa scelta del presidente degli USA con il suo massiccio intervento finanziario e mediatico in sede elettorale, si sono riuniti a Houston, dove in un applaudito intervento di venerdì 27 scorso Donald Trump ha difeso anzi esaltato tanto i costruttori quanto i possessori di armi, entrambi “paladini della libertà”. Al pari della spada al fianco degli aristocratici d’ancien régime, l’arme sarebbe per molti cittadini americani – solo conservative?… – simbolo di libertà di chi la porta e garanzia di sicurezza per la società civile tutta, dal momento che tale è lo spirito secondo il quale la costituzione degli USA consente ai cittadini di armarsi privatamente.
Ma la realtà è ben diversa da queste rosee intenzioni. L’articolo di Nieri lo documenta con puntualità impressionante (Minima Cardiniana 380/4 | I valori dell’Occidente (francocardini.it)).
Si delinea qui un confine preciso tra la società civile della nostra Europa e quella del “nostro” Occidente, che tale per fortuna non è o non è ancora del tutto. Noi europei preponiamo la libertà e la sicurezza comunitarie alla libertà e alla possibilità d’arbitrio dei singoli. La nostra libertà è concettualmente infinita, ma strutturalmente e fenomenologicamente si arresta là dove comincia la libertà altrui.
Allo stesso modo ci comportiamo in modo differente per quanto concerne altre forme di libertà: sia quella “di”, sia quelle “da”. Nella nostra vecchia Europa siamo sensibili da molto tempo nei confronti della libertà di parola, di stampa, di pensiero, di associazione: e ciascuna di queste libertà è definita nei suoi limiti in quanto non deve nuocere alla libertà di nessuno dei nostri concittadini. Ma i risultati conseguiti fino ad oggi dalla “libertà di” sono comunque sempre soggetti a minacce (nelle ultime settimane, troppi sono stati minacciati da attentati alla loro libertà d’opinione da parte di censori che ai sensi della legge hanno loro impedito di diffondere notizie ch’essi giudicavano fake news); mentre a nostro avviso è ancora troppo carente – a livello europeo e, a maggior ragione, in tutto il mondo – la lotta contro le “libertà da”: dalla fame, dalla miseria, dalla malattia, dalla paura. Una corretta società civile deve lottare per il conseguimento della liberazione da questi mali; così come deve difendere il suo passato, ma ha pieno diritto di denunziarne quegli aspetti che hanno condotto, oggi, al pubblico instaurarsi di un regime solidamente fondato sulla giustizia sociale. Il ricorrere allo “strumento dell’oblio”, cioè per esempio alla cancel culture, non è né civicamente, né culturalmente, né moralmente corretto: ma la condanna storica di modelli che hanno condotto al manifestarsi o all’instaurarsi di sistemi politici fondati sull’ingiustizia e sull’ingiusto privilegio, questo sì. Non si giustificano le violenze e i soprusi commessi nel nome della conversione dei popoli alla fede cristiana o di quella che grottescamente venne a suo tempo definita “esportazione della democrazia”; non si nega il diritto alla libertà, al rispetto delle tradizioni, all’autodeterminazione, nel nome di quelli che a nostro avviso sono soluzioni migliori e “più civili”. Anche perché di solito non lo sono. L’aggressione del 2001 all’Afghanistan controllato dai fondamentalisti di al-Qaeda ha condotto a una “esportazione della democrazia” che ha finito con una prospettiva di occupazione straniera e di un progressivo deterioramento che ha sfociato un ventennio più tardi all’instaurazione di un regime fondamentalista ancora peggiore di quello sradicato.

Siate intellettualmente onesti: la Storia non inizia il 24 febbraio 2022

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QUINTA COLONNA

di Amerino Griffini

Fonte: Amerino Griffini

Tutti (o quasi) privi di memoria storica. Ma basta andare a razzolare tra vecchi scritti per scoprire che più di vent’anni fa non c’era solo quel filo-sovietico di Giulietto Chiesa o quei birbaccioni con scheletri negli armadi di Franco Cardini, il Griffini che scrive qui e i loro amici da una vita, a dire che l’imperialismo USA è il nemico dell’umanità e la NATO il suo braccio armato. Per dirla tutta, noi lo stiamo dicendo dagli anni Sessanta, e giusto perché allora eravamo giovincelli;  nati qualche anno prima e lo avremmo detto dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’incipit per dire che ho trovato un saggio di due analisti di geopolitica e docenti di Fisica, Paolo Cotta-Ramusino e Maurizio Martellini, datato 1999. Attenzione: 1999, 23 anni fa. Titolo: “L’atomica in casa: a che ci servono le bombe”. Sottotitolo: “La guerra fredda è finita, ma non il pericolo nucleare. In Europa sono stanziate circa 180 armi atomiche americane, disseminate in sette paesi, fra cui l’Italia. I rischi di proliferazione e la tensione con la Russia”.
Estrapolo dal saggio questo passo:
“Se paesi economicamente e politicamente importanti come quelli dell’Europa occidentale, che non sono minacciati da nessun rischio militare evidente da parte di nessuno Stato, considerano di fatto essenziale per la propria sicurezza la presenza sul proprio territorio di un certo numero di bombe nucleari, cosa dire delle nazioni che si trovano in situazioni strategiche difficili e devono affrontare minacce reali da parte dei paesi confinanti?
E’ evidente che questo problema riguarda anche il rapporto tra gli Stati europei e la Russia. L’allargamento della NATO ad est ha creato una situazione difficile per la Russia. I confini dell’Alleanza si stanno avvicinando a quelli della Russia e paesi precedentemente alleati all’Unione Sovietica ora appartengono ad un’alleanza militare che esclude la Russia. Altre nazioni che facevano parte del Patto di Varsavia, se non della stessa Unione Sovietica, come i baltici, stanno premendo per entrare a far parte della NATO. In questa difficile situazione è stato sollevato il problema specifico delle armi nucleari collocate in Europa. In particolare, si è chiesto: verranno installate armi nucleari nei nuovi paesi membri della NATO e, di conseguenza, le armi nucleari tattiche americane saranno spostate più vicino ai confini della Russia?
(…) Per capire la crescente ostilità politica tra la NATO e la Russia basta osservare il drammatico susseguirsi degli eventi di questi ultimi tempi. Prima abbiamo avuto l’intervento militare anglo-americano in Iraq, al di fuori di qualsiasi contesto internazionale concordato. Poi c’è stato l’allargamento della NATO a tre paesi un tempo membri del Patto di Varsavia. E subito dopo, gli attacchi della NATO contro la Jugoslavia, che hanno dimostrato la determinazione dell’Alleanza atlantica nel “ripristinare l’ordine” ovunque in Europa, anche se questo significa un intervento militare oltre i confini dell’area della NATO stessa. Dal punto di vista della Russia questo atteggiamento evoca lo spettro di futuri interventi della NATO in conflitti locali, anche nelle regioni dell’ex Unione Sovietica. Sottovalutare le tensioni tra la Russia e la NATO potrebbe essere un errore dalle conseguenze pesanti, mentre, per contro, sarebbe opportuna intraprendere tutte le misure che possano alleviare la tensione e ridurre l’ostilità tra russi e occidentali”.
Ciò 23 anni fa. Fate un salto di tutto ciò che è successo poi in questo arco temporale e valutate onestamente cosa poteva aspettarsi la Federazione russa dopo anni – in Ucraina – di persecuzione dei russofoni, dei divieti dell’uso della loro lingua, delle stragi, delle violenze di tutti i tipi da parte del Reggimento Azov e delle altre milizie della Guardia nazionale.
Condite tutto ciò con l’arrivo sulla scena mondiale di Biden con la sua senescenza e il timore di perdere elezioni e ruolo dominante degli USA nel mondo; unite a ciò tutti gli anni  nei quali sono stati inviati istruttori militari, miliardi di dollari per armi e per imbrigliare l’economia ucraina in modo allettante e ricattatorio. Mancava solo l’ultimo atto prima della fine: la tragedia o la resa.  Erano legittimi i timori della Russia?
Davvero: la Storia non inizia il 24 febbraio 2022. Siate onesti!

La crisi Euro-Nato in corso (2014sgg – …?)

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di Franco Cardini

Esprimo alcune posizioni, in ordine sistematico (quanto meno nelle mie intenzioni) a proposito della guerra tra Russia e NATO in atto, con teatro principale almeno provvisorio, purtroppo per gli ucraini, il territorio ucraino:
1.L’attuale guerra è un episodio (per ora l’ultimo cronologicamente parlando) di una fase della “riprogettazione dell’ordine mondiale” avviata con l’inizio dell’amministrazione Biden negli USA e caratterizzata da tre aspetti salienti: a. la ripresa forte, con il binomio Biden-Harris, della tradizionale politica del Partito Democratico statunitense, che consiste nella fede nel “manifesto destino” della nazione americana facente centro sul principio che interesse statunitense e libertà-diritto alla felicità del genere umano coincidono; b. consapevolezza dell’obiettivo declino dell’egemonia mondiale della superpotenza statunitense dopo il “picco” dell’inizio degli Anni Novanta (gli anni della maldestra “profezia” di Francis Fukuyama); c. consapevolezza profonda della necessità di “distrarre” l’opinione pubblica statunitense ( e mondiale) dallo spettacolo del declino degli USA, dall’impoverimento socioeconomico e culturale del popolo statunitense all’enormità insostenibile del debito pubblico ed estero ecc., costringendo gli USA e il mondo a guardare altrove, allo scenario mondiale; e ciò a qualunque costo, anche a quello di una guerra. Difatti ne hanno scelta una: quella con la Russia, a meno che non sia possibile anche là il golpe della “Rivoluzione arancione”, magari provocata dagli oligarchi che attualmente possono essere più o meno putiniani, ma che sono sempre e comunque, in quanto appunto “oligarchi” (pertanto una lobby plutocratica, affaristica e imprenditoriale), spettatori sensibili nonché in parte coprotagonisti del turbocapitalismo che governa o comunque dirige il pianeta.
2.L’attuale guerra non è cominciata alla fine del febbraio 2022 con l’aggressione russa all’Ucraina, bensì nel 2014 con il golpe che a Kiev rovesciò il governo legittimo di Janukovich (com’era avvenuto nel 2003 con la “rivoluzione delle rose”  in Georgia e con quella “arancione” del 2004-2005 in Ucraina) e avviò un primo tentativo, con il governo Poroshenko, di passare dalla parte formale dell’Unione Europea, cioè sostanzialmente da parte della NATO; con episodi infami, come il massacro degli inermi  cittadini russi a Odessa da parte delle milizie estremiste ucraine (2.5.2014).
3.Il “protocollo di  Minsk” concordato il 5.9.2014 tra Russia, Ucraina e comunità russofone del Donbass sotto egide dell’OSCE aveva concordato ampie autonomie per il Donbass stesso; nel contempo la NATO si era impegnata (lo faceva del 1991) a non cercare ulteriormente di avanzare verso est.
4.Il “protocollo di Minsk” è stato disatteso sia dalla NATO, che soprattutto col governo Želensky ha trattato il passaggio dell’Europa all’UE (cioè sostanzialmente alla NATO, con avanzata verso est della sua linea missilistica ”difensiva”) mentre il governo ucraino ha intensificato almeno dal 2015 la repressione contro i gruppi politici stimati “filorussi” e le azioni militari contro le comunità del Donbass e le sevizie ai cittadini “non allineati”.
5.Il governo russo ha più volte ammonito quello ucraino affinché violenze e  prevaricazioni cessassero e nel dicembre 2021 ha ufficialmente inoltrato al governo statunitense una proposta di accordo sulla situazione ucraina. Tutti gli appelli sono rimasti inevasi e i media occidentali non ne hanno parlato.
6.A questo punto la Federazione Russa poteva affidarsi solo alle armi per le tutela delle due autoproclamate repubbliche del Donbass; e doveva farlo al  più presto per precedere  un eventuale ingresso ucraino nella NATO. Da qui il discorso televisivo di Putin della notte del 25.2.2022.
7. Scelte come l’invio di armi all’Ucraina in un momento di conflitto sono formalmente atti di guerra della NATO contro la Russia; solo la moderazione e il senso di responsabilità del governo della Federazione Russa  ci salvano  da una risposta legittima, che coinciderebbe a questo punto con una guerra mondiale.
8. Aggressione di uno stato sovrano? Benissimo: proceda pure la corte dell’Aja contro la Federazione Russa. A quando i processi contro la NATO (posta sotto alto comando USA)  per Serbia 1998-9, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Georgia 2004-13 (l’infame governo del criminale Saak’ashvili),  Libia 2011, Siria 2011.
9.Le sanzioni contro la Russia le paga la Russia, ma anche l’Europa; gli USA e la NATO, che pagano pochissimo, se ne fregano.
10.La verità ultima, da tener bene presente, è che quella in corso è una guerra scatenata dalla NATO direttamente contro la Russia per sovvertire l’ordinamento interno di quel paese e distogliere l’opinione pubblica statunitense e mondiale dalla rovina nella quale il governo Biden sta precipitando gli USA.; e indirettamente contro l’Europa, asservita alla NATO e a rischio di trovarsi in prima linea in caso di estensione del conflitto.
11.Ma veniamo all’Europa e all’Italia, presumibilmente vittime del conflitto e a quanto pare felicissima d’inasprirlo. L’invio di armi all’Ucraina in un momento di conflitto rappresenta formalmente una atto di guerra della NATO contro la Russia. Dal 1914 al 1917 l’America mandava aiuti all’Inghilterra con la scusa della legge sugli affitti e i prestiti: il Kaiser affondava i convogli inglesi con i sottomarini. Alla fine però è scoppiata anche la guerra: cerchiamo di non arrivare a questo. Quanto alle sanzioni contro la Russia: paga la Russia, ma anche l’Europa mentre gli USA e la NATO, che pagano pochissimo, se ne fregano. Preoccupanti comunque le notizie del 15 u.s. dagli States: se Želensky comincia a dar segni di cedimento (che sarebbe piuttosto ragionevolezza), attorno a lui spuntano “falchi” che rifiutano ogni sorta di trattativa e sembrano trovare una sponda inattesa negli ambienti vicini al presidente Biden, che per la sua cronica indecisione viene messo in difficoltà.  Entra a gamba tesa nel dibattito anche l’ineffabile Mike Pompeo, il “superfalco”, anche lui per la linea dura. C’è da chiedersi se tutto  ciò non sia per caso sintomo di qualcosa che bolle in pentola. La storia è imprevedibile. Se nelle prossime ore o nei prossimi giorni avvenisse qualcosa d’inatteso, che rimettesse tutto in discussione, non ci sarebbe da stupirsi. Magari qualcosa di grave da attribuirsi subito e facilmente ai russi – “che bisogno abbiamo dei testimoni?” -, una specie di nuovo “incendio del Reichstag”. Che cosa significa lla vaga ma ostinata insinuazione, circolante in molti ambienti giornalistici e addirittura militari, che i russi potrebbero usare “le armi chimiche”, un’eventualità obiettivamente remota in questo tipo di conflitto?
12.Le notizia di stamattina 16.3.2022 a proposito della prossima presenza del presidente Biden a Bruxelles per il prossimo vertice NATO fa crescere le inquietudini. L’esitante Biden sente sempre di più su di lui l’ombra incombente della signora Kamala Harris e quindi della signora Clinton, patrona di tutti i “falchi americani” fautori dell’”Armiamoci-e-partite” e ben decisi a combattere la Russia fino all’ultimo ucraino, magari fino all’ultimi europeo. Quanto reggeranno le buone intenzioni di Želenski a proposito della necessità di tenersi fuori dalla NATO? Mio umile e sommesso convincimento sarebbe che Putin farebbe bene ad assecondarle anziché dichiararle (come in effetti pur sono) insufficienti: una posizione del genere rischia di ricacciare l’ancor presidente ucraino tra le fauci di quelli che (in Ucraina, in Europa, soprattutto negli USA) vogliono l’indurimento dell’embargo antirusso e magari anche al guerra, convinti che pagheranno di persona poco il primo e che vinceranno pe corpora alterius (alias Europeorum) anche una guerra “allargata”…E, viene da domandarsi, quyanto allargata, fino a che punto? Nel peggiorissimo dei casi, i missili russi difficilmente cadranno sul New England o sulla California, bensì quasi subito sulla Sicilia, sul Veneto e sulla Toscana, sedi principali delle besi USA-NATO in Italia e linea avanzata dello schieramento “occidentale”.

1 Consiglio la preliminare consultazione di: Grand Atlas du monde, dir. p. F. Tétart, Paris 2013; La gèopolitique mondiale en 40 cartes, Paris 2022; Le bilan du mone – “Le Monde”, Hord Série, éd 2002, Paris 2022: La Russia cambia il mondo, “Limes”, 2, 2002.
2. O.Boyd-Barrett, Western Mainstream Media and the Ukraine Crisis, Routledge 2016.
3. Cfr.rapporto OSCE 15.4.2016, PC.SHDM.NGO/17/16.
4. Ma cfr. “Il Manifesto”,  15.12.2021.
5. Cfr. M. D. Nazemroaya, La globalizzazione della NATO, Bologna 2014; D. Ganser, Breve storia dell’impero americano, Roma 2021.
6. Cfr. M. Fulgenzi, La guerra delle sanzioni, Rimini 2021.
7. Cfr. A. Bedini, L’Italia “occupata”. La sovranità militare italiana  e le basi USA-NATO; Rimini 2013;

Occidente, razza di ipocriti…

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di Franco Cardini

Fonte: Franco Cardini

Dal Vangelo di oggi (Luca, 6, 41-42)
“Perché guardi la pagliuzza ch’è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: – Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio -, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

NEL DONBASS NON CI SONO BAMBINI CHE ABBRACCIANO PIANGENDO LE BAMBOLINE, E NEMMENO VECCHIETTE CHE ATTRAVERSANO PENOSAMENTE LA STRADA…

… così come non ce n’erano né la traccia né l’ombra, una manciata di anni o di mesi fa e anche adesso, né a Gaza, né a Beirut, né a Belgrado, né a Kabul, né a Baghdad, né a Tripoli, né a Damasco.
Cari miei, parliamoci chiaro. Sono ormai tre notti che quasi non dormo per seguire quel che avviene tra Russia e Ucraina, due paesi che mi sono carissimi e dove ho tanti amici; da tre giorni sto attaccato al telefono e al computer. Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra, come canticchiavano un’ottantina di anni fa bambini poco più grandi di me (io ero troppo piccolo per cantare). Questa guerra me la sento addosso, me la sento dentro: e mi fa male. Al tempo stesso, è chiaro che sono indignato e inferocito come forse non mai.
Fermare la guerra. Era già in atto da tempo, ma “l’Occidente” – questa parola infame e ambigua, che oggi sembra tornare di gran moda – non faceva nulla per ridurre il governo ucraino a più moderati consigli. Al contrario. L’aggressività di Zelensky nei confronti del Donbass si fondava sulla ferma convinzione che la NATO fosse disposta a tutto pur di metter a punto il suo disegno di avvicinarsi varie centinaia di chilometri alla frontiera russa e installarvi i suoi missili a testata nucleari puntati su Mosca, quelli in grado di colpire a oltre 3000 chilometri. Il governo russo ammoniva severamente, poi minacciava: ma si era sicuri che non avrebbe osato. Invece alla fine ha osato eccome. Non come aggressore, ma come a sua volta minacciato di aggressione.
Fermare la guerra. È questa la priorità. Forse si sarebbe dovuto agire prima: da parecchi giorni ormai la stretta ucraina sulle città del Donbass si era fatta più pesante, mentre Zelensky insisteva per essere ammesso nella NATO in extremis. Era una speranza disperata, una follia: ma era non meno chiaro che Putin prendeva in considerazione tale possibilità estrema, che se si fosse verificata gli avrebbe definitivamente legato le mani oppure costretto a considerarla come una dichiarazione di guerra de facto. Ma il presidente ucraino andava irresponsabilmente per la sua strada, certo di avere il gigante americano alle sue spalle. È incomprensibile, ma non si era reso conto che Putin a quel punto poteva fare solo quello che ha fatto: e farlo subito.
Fermare la guerra. Era la priorità fin dall’inizio. A livello diplomatico, quando una guerra incombe, si ricorre a trattative magari affrettate, magari “in perdita”, perfino col rischio di apparire deboli. Si fanno proposte, e quindi bisogna anche offrire qualcosa di appetibile. Ad esempio esporre in che misura e fino a che punto si è disposti ad alleviare un sistema sanzionario in atto a fronte di un arresto o di una ritirata del nemico ch’è ancora potenziale. Da quando in qua si risponde a una minaccia di guerra aggravando le ragioni che l’hanno provocata, a meno che quella guerra non la si voglia sul serio e a tutti i costi?
Ora, ecco qua. Un’aggressione degli ucraini contro il Donbass è irrilevante: non la si vede da lontano, ha modestissime dimensioni e può essere “dimenticata” tantopiù che i russofoni della foce del Don non interessano a nessuno in Occidente. Ma quando si muove l’Orso di Mosca, tutto cambia aspetto: e giù col mostro aggressore, col tiranno assassino. Giù con i media asserviti quasi tutti alla politica (quindi al parlamento italiano eletto con un numero di votanti così basso come prima non si era mai visto), la quale con i suoi partiti esangui, sempre meno autorevoli presso la pubblica opinione e sempre più omologati – fra il “patriottismo sovranista” della Meloni, l’euratlantismo blindato di Renzi e l’euratlantismo solo apparentemente più articolato di Letta non c’è pratica differenza – è a sua volta asservita agli alti comandi della NATO e al presidente degli USA, a sua volta asservito alla logica del potere, del profitto e della produzione dettatagli dai Signori di Davos. Che poi questi ultimi comincino a loro volta a preoccuparsi per le ripercussioni delle sanzioni alla Russia, è un altro discorso: e ne vedremo in atto le conseguenze fra qualche giorno.
Attenti quindi al pacifismo peloso di chi si preoccupa per i suoi interessi e i suoi profitti: se Mosca piangerà, non rideranno né Wall Street, né la City, né Francoforte. Questo è quanto preoccupa ora lorsignori, non certo i disagi e le sofferenze della gente. Mentre si continuano a ignorare o a fraintendere i segnali. Ad esempio, i russi indugiano a sottoporre Kiev alla stretta finale. Davvero si crede che siano stati impressionati dal fatto che il governo ucraino ha fatto girare qualche fucile tra gli adolescenti e i vecchietti? Davvero non ci sfiora il sospetto che stiano fermi in quanto sono in corso trattative e Putin intende dare agli ucraini il tempo d’una pausa di riflessione che, se volesse, potrebbe tranquillamente negare?
Ma intanto sono senza dubbio le vittime del momento a salire al proscenio e ad essere sistemati nelle lucenti vetrine massmediali. Che c’inondano di bambini e di bambine che piangono abbracciando orsacchiotti e bambolette e gattini, di vecchiette che penosamente attraversano le strade sotto i bombardamenti, magari perfino con quel Grandguignol di volti insanguinati e di cadaveri dilaniati che specie in TV è oggetto da sempre di un trattamento bipolare: vi sono cadaveri di serie A che si debbono mostrare per trasformarli nella moneta sonante del consenso e cadaveri di serie B che è meglio nascondere per non “turbare” chi li vede. Ed è evidente che i morti di Kiev ucraini sono di serie A: come le bambine che piangono avvinghiate agli orsacchiotti e le vecchiette che penano ad attraversare la strada per porsi al riparo.
Ma di grazia, razza di vipere e sepolcri imbiancati che non siate altro; ci voleva Kiev per svegliarvi all’umana compassione suscitata per ricavarne risultati politici antirussi? È vero che, in un passato anche recente, le città di Gaza, di Beirut, di Belgrado, di Kabul, di Baghdad, di Damasco, erano piene di cadaveri di serie B dei quali non si doveva parlare per non “turbare” le nostre coscienze, ma davvero non vi eravate accorti della massa di sofferenza che i nostri bombardamenti “chirurgici” e le nostre bombe “intelligenti” stavano provocando? Anzi, mi ricordo i gridolini di gioia che si alzavano dai salotti delle buone famiglie italiane, in quelle notti del 2003 in cui la TV ci mostrava il bombardamento di Baghdad, con il fantastico sfrecciare di quei raggi verdi sugli edifici presi di mira. Che spettacolo! Ci pensavate alla pena e al terrore là sotto? Bene: ora è il turno degli ucraini per soffrire e per aver paura. Domani potrebbe arrivare anche il nostro turno, e pensare che ci preoccupiamo già del gas per il riscaldamento. Se comincia così, la nostra volontà di resistenza…
Lavoriamo per la pace, dunque. Ma facciamolo con realismo, senza piagnistei e senza isterismi manichei. Manifestare per la pace ma al tempo stesso “schierarsi con l’Occidente”, “senza se e senza ma”, significa solo contribuire a correre a passo di carica verso una prosecuzione e un allargamento del conflitto che non può giovare a nessuno. Le guerre, le perdono tutti.

Orwell dietro l’angolo?

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di Franco Cardini

Fonte: Franco Cardini

A proposito di Green Pass e dintorni, le riserve e le preoccupazioni espresse da Giorgio Agamben e da Massimo Cacciari il 26 luglio scorso, chiarite e corroborate dal bell’articolo dello stesso Cacciari su “La Stampa” del 2 scorso, sono senza dubbio condivisibili e non possono essere sottovalutate. Anche perché esse toccano – al di là della “contingenza” e dell’“emergenza” rappresentate dal Covid – un problema centrale della vita e della società civile in tutto l’Occidente, e nel nostro paese in particolare. Quello della preparazione, della credibilità e dell’adeguatezza dei nostri ceti dirigenti e al tempo stesso dell’incertezza e del disorientamento delle nostre società civili.
In linea di principio, ogni cittadino dovrebbe poter scegliere tra il pieno godimento della libertà individuale nei limiti stabiliti dalle istituzioni e la rinunzia sia pur temporanea ed eccezionale ad alcune di esse in vista di un “pubblico bene” avvertito come superiore: ad esempio la sicurezza. Il punto è che il problema che ci sta dinanzi non si pone affatto in tali termini: dal momento che da una parte il vaccino è ben lungi – allo stato attuale delle cose – dal costituire una difesa assolutamente sicura contro il contagio (che sarebbe unica condizione per legittimamente prescriverne l’obbligatorietà), mentre dall’altra è evidente che una discriminazione ufficiale tra detentori e non detentori del green pass, con relativa limitazione delle libertà dei secondi, è costituzionalmente parlando improponibile. Non si può, in particolare, tollerare che nel nome di una discriminazione de facto, della quale il governo non si assuma responsabilità, siano sospesi ai non titolari di green pass il godimento di pubblici servizi e l’esercizio sia pur temporaneo della propria professione.
Così stando le cose, credo si debba comunque insistere sulla probabile utilità del vaccino (al quale personalmente mi sono sottoposto) ed allargare la quantità numerica dei vaccinati, ma al tempo stesso accettare il rischio perdurante di contagio continuando ad assumere tutte quelle misure (dalla mascherina al tampone) in grado di consentire il controllo e il contenimento di esso. Ma in questo caso è necessario adottare immediate e rigorose misure atte a render possibile il “testare” e il “tracciare” in tempi rapidi aree ed ambienti sempre più ampi: accrescere il numero e la frequenza dei trasporti pubblici a partire da quelli destinati al servizio scolastico, intensificare i mezzi e le disponibilità di cura dei servizi ospedalieri, ridurre drasticamente ogni forma di assembramento.
Il punto è che per ritenere che sia possibile il conseguire risultati ottimali da misure di questo tipo, in attesa che la scienza ci provveda di risposte sicure, sarebbe necessaria una maggior fiducia nelle istituzioni, nelle qualità etiche e culturali dei ceti dirigenti e nell’attendibilità dei media: che è appunto quanto ci manca e quanto non sarà disponibile senza un’adeguata riforma sia della prassi elettorale, sia della pubblica amministrazione. Le prove al riguardo fornite ohimè da troppo tempo, sia da parte del parlamento, sia da parte del personale degli enti pubblici, rendono improponibile l’ipotesi del superamento di future situazioni critiche nelle attuali condizioni. Dal momento che, dice bene Cacciari, “già viviamo all’interno di questa deriva: dal terrorismo alla immigrazione, oggi la pandemia, domani probabilmente sarà la difesa dell’ambiente’. Tutte emergenze realissime, nulla di inventato. Il problema è come le si affronta, occasionalmente, senza memoria storica, incapaci di dar forma di legge agli interventi magari necessari, privi di qualsiasi strategia di riforma del sistema democratico”.
È pertanto evidente il pericolo denunziato in forma interrogativa appunto da Cacciari in chiusura del suo articolo: “Stiamo preparandoci a un regime, a una ‘intesa mondiale per la sicurezza’(diceva un grande filosofo, Deleuze, anni fa), per la gestione di una ‘pace’ fondata sulle paure, le angosce, le frustrazioni di tutti noi, individui ansiosi di soffocare ogni dubbio, ogni interrogazione, ogni pensiero critico?”.
Temevamo da tempo il profilarsi effettivo di un “panorama orwelliano” di questo genere, per quanto troppi di noi se lo figurassero secondo schemi desueti, da “totalitarismo classico”: ebbene, ci siamo. Solo che ci siamo arrivati sulle ali di un “totalitarismo” di tipo nuovo, consumistico e liberal-liberista. E a colpi di politically correct.
A proposito di ciò, diffondiamo volentieri il “Manifesto” di due illustri studiosi “fuori dal coro”, proponendolo a chi se la sente di valutarlo serenamente. Ecco:

FRANCESCO BENOZZO – LUCA MARINI PER UN APPELLO ALLA COMUNITÀ ACCADEMICA
Caro Franco,
ci rivolgiamo a te come collega accademico, perché a nostro parere sono ore e giorni cruciali per il destino dell’Università e della scuola in Italia, e sentiamo il bisogno di esprimere alcune considerazioni, magari in vista di un Manifesto da firmare con i colleghi che vorranno parteciparvi.
Nel silenzio assordante e imbarazzante di rettori, organi accademici, sindacati e associazioni, come sai da giovedì scorso la scuola e l’università sono state colpite da un provvedimento (il Decreto Legge 6 agosto 2021, n. 111) che concretizza, sul piano giuridico, la più grave violazione dei diritti umani perpetrata dal 1945 ad oggi.
Per il nostro modo di sentire e di pensare, ci sentiamo, da questo momento, in quanto cittadini italiani e in quanto docenti universitari, dei perseguitati politici dal governo e come tali ci comporteremo in futuro.
Per il momento, le nostre forme di risposta sono legate alle possibilità che concretamente possiamo mettere in atto: possibilità cioè di tipo narratologico-analitico-pubblicistico-espositivo.
Ci sembra tuttavia utile, visto che altri sembrano non farlo, e anche in vista di ulteriori azioni, magari collettive, ricordare che:
• I vaccini anti-Covid sono stati autorizzati “in via condizionata” dall’Unione europea, per un anno, ai sensi della disciplina introdotta dal regolamento n. 507/2006, che giustifica l’introduzione in commercio di farmaci anche in assenza di dati clinici completi in merito all’efficacia e alla sicurezza dei farmaci medesimi;
• Almeno sei mesi prima della scadenza delle autorizzazioni così concesse, i titolari delle autorizzazioni avrebbero dovuto presentare domanda di rinnovo delle autorizzazioni medesime, fornendo i dati clinici richiesti dalla disciplina europea, domanda che non sembra essere stata presentata;
• Dal prossimo autunno dovrebbero essere disponibili terapie che, fornendo una risposta terapeutica al Covid, faranno venire meno uno dei presupposti richiesti dalla stessa Unione europea per il rilascio delle autorizzazioni condizionate;
• L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale distinta e separata dall’Unione europea) ha raccomandato, fin dall’aprile scorso, che il vaccino non fosse reso obbligatorio;
• Anche la stessa Unione europea si è affrettata ad adottare, nel giugno scorso, un regolamento (il n. 953/2021, relativo all’EU Digital Covid Certificate), il cui preambolo afferma la necessità di evitare la discriminazione diretta o indiretta dei soggetti che “hanno scelto di non vaccinarsi”;
• A tutt’oggi, in Italia, nessun cittadino può essere obbligato a vaccinarsi, in ragione del fatto che la condizione a tal fine stabilita dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) non è stata soddisfatta, eccezion fatta per gli esercenti le professioni sanitarie, obbligati a vaccinarsi – in deroga al principio generale del consenso informato sancito fin dal 1947 dal Codice di Norimberga – in forza del Decreto Legge 1° aprile 2021, n. 44, adottato dal governo e convertito dal Parlamento nella legge 28 maggio 2021, n. 76.
Proprio il metodo cosiddetto emergenziale che ha portato alla adozione e alla successiva conversione del Decreto Legge n. 44/2021 andrebbe posto all’attenzione della Corte costituzionale, perché l’art. 32, secondo comma, della Costituzione chiama evidentemente in causa l’operato di un Parlamento che adotti una legge ordinaria dello Stato al termine di un dibattito pubblico realmente informato, obiettivo e consapevole; e perché, in ogni caso, gli atti normativi (quali sono le leggi ordinarie) devono avere portata generale e astratta, e cioè devono rivolgersi a destinatari non individuati né individuabili: condizione che difficilmente può ritenersi soddisfatta nel caso delle professioni sanitarie, i cui appartenenti costituiscono comunque un numero finito.
Analoghe perplessità suscitano le disposizioni sul Green Pass adottate giovedì scorso dal Governo, ancora sulla scorta di un provvedimento emergenziale, nella misura in cui surrettiziamente spingono larghe porzioni di cittadini, nonché ulteriori, specifiche categorie professionali (i docenti delle scuole e delle università) verso la vaccinazione di massa, considerato che anch’esse costituiscono una possibile violazione del diritto alla salute, come inteso dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione, e di altri diritti e libertà fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale.
Va infine ricordato che tanto la disciplina sull’obbligo vaccinale degli esercenti le professioni sanitarie quanto quella sul Green Pass si pongono idealmente in contrasto con i contenuti della raccomandazione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa dell’aprile scorso, che esclude l’obbligatorietà della vaccinazione: è vero che la raccomandazione non dispiega efficacia giuridica vincolante, ma sarebbe interessante conoscere l’eventuale pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla compatibilità tra la disciplina nazionale in parola e le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, su cui si fonda la raccomandazione parlamentare.
Tutto ciò ricordato, restiamo attoniti una volta di più di fronte a quanto sta accadendo.
In questo anno e mezzo l’Università non ha avviato alcun dibattito su queste delicatissime questioni, limitandosi anzi a censurare e additare come complottiste, negazioniste o antiscientiste, caso per caso, alcune posizioni espresse da ricercatori, docenti e colleghi del personale tecnico-amministrativo.
Le speranze che questa situazione cambi non sono molte, ma non possiamo rinunciare a credere che, proprio dal mondo universitario, si levino figure istituzionali e voci autorevoli in grado di discutere criticamente metodi e provvedimenti che un qualsiasi studente di educazione civica sarebbe in grado, se non manipolato, di riconoscere come sproporzionati e illogici.
Ti ringraziamo in anticipo se vorrai ospitare questa lettera sul tuo blog settimanale. Sarebbe per noi un primo segno importante e soprattutto un modo efficace per spronare chi la pensa come noi (per adesso segnaliamo volentieri il gruppo di ricerca “We Tell – Storytelling e consapevolezza civica” dell’Università di Bologna, coordinato da Elena Lamberti, che ieri si è dichiarato disponibile, in un’ottica di dialogo e inclusività, a pensare a strategie diverse da quella che viene imposta come scelta forzata e rigida) a manifestarsi pubblicamente e dire la propria – prima che sia troppo tardi – su una problematica destinata ad incidere profondamente sulla sfera dei diritti e delle libertà individuali.
Con un caro saluto,
Francesco Benozzo (Alma Mater Studiorum / Università di Bologna)
Luca Marini (Università di Roma “La Sapienza”)

I sovranisti distratti

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QUINTA COLONNA

di Franco Cardini

Fonte: Franco Cardini

IN MERITO ALLA “CARTA DEI VALORI EUROPEI”, OVVERO IL MANIFESTO DEI “SOVRANISTI”. I SOVRANISTI DISTRATTI, OVVERO LA SOVRANITÀ RIVENDICATA. GUARDANDO ALTROVE

Il “Manifesto”, così com’è, appare inficiato da due errori di fondo e compromesso da due omissioni che – volontarie o involontarie che siano – sono gravissime.
Due errori.
Primo errore: l’accettazione acritica dell’idea giacobina di “nazione”. La Natio è un valore antichissimo, che insiste sui legami tra un popolo, la lingua che esso parla, le tradizioni delle quali vive e il territorio nel quale esso è insediato. Ma la Nation è un concetto astratto di conio giacobino, inteso a sostituire quando è stato introdotto la fedeltà dei popoli ai loro troni e ai loro altari, cioè alla loro storia concreta. La “Nazione” è nata alla fine del Settecento per spazzar via i popoli e le tradizioni. Nell’Europa del futuro, accanto allo “stato-nazione” che ormai esiste in tutte le contrade del continente – ma che è vecchio al massimo di circa due secoli e mezzo, in certe aree (quali quella italica, germanica, iberica e balcanica) ancora meno – dovranno essere valorizzate le antiche e profonde realtà (“nazioni negate”, e magari “lingue tagliate”) che al livello di “stato-nazione” non sono mai pervenute: la castigliana, l’andalusa, la catalano-provenzale-occitana, la basca, la gallega, la bretone, la normanna, la borgognone-piemontese, l’alsaziano-lorenese, la bavarese, la svevo-alamanna, la veneta, la sarda, la siculo-sicana, l’italica nelle sue varie espressioni e declinazioni storico-dialettal-latitudinarie, la boema, la croata, l’illirica, la macedone e così via. Se la futura compagine unitaria politica europea (perché politica dovrà anzitutto essere e proclamarsi) dovesse darsi un sistema bicamerale – il che è materia di discussione – a un Congresso “degli stati-nazione” – dovrebbe accompagnarsi un Senato “dei popoli e delle culture” su una base territoriale differente e complementare rispetto al primo.
Secondo errore: spazziamo via una volta per tutte l’equivoco (nato sulla base di una superficiale e semicolta volontà di affermazione “antirazzistica” e “anti-antisemita”) della “civiltà giudaico-cristiana”. La confessione giudaico-cristiana nacque e si sviluppò nei primi secoli dell’Era Volgare come espressione di quegli ebrei che, volendo mantenere intatta la fede mosaica, intendevano tuttavia affermare che il Messia era già comparso nel mondo, ed era identificabile in Gesù di Nazareth. Tale confessione non esiste più. La fede cristiana affonda senza dubbio le sue radici nella legge ebraica e nella sua tradizione, che i cristiani giudicano “intrinseca” al cristianesimo (parere non giudicato reversibile dagli ebrei), così come ebraismo e cristianesimo sono giudicati “intrinseci” rispetto al messaggio di Muhammad dai musulmani (parere che ebrei e cristiani non giudicano reversibile). La civiltà europea si è fondata sulla base di un cristianesimo che aveva ormai metabolizzato l’ebraismo accogliendo al suo interno anche l’eredità ellenistico-romana, cui nel corso del primo millennio e anche di parte del secondo dell’Era Volgare si aggiunsero altre tradizioni etniche. Alcune porzioni dello spazio europeo accolsero poi i momenti distinti (dalla Puglia alla Sicilia alla penisola iberica a quella balcanica) anche la legge musulmana, mentre in esso rimasero radicate numerose comunità musulmane. La compagine europea del futuro, che sarà politicamente parlando laica e che riconoscerà e valorizzerà al suo interno le tradizioni religiose, dovrà fondarsi sulla sua identità abramitica comune a cristianesimo, islam ed ebraismo come sull’identità ellenistico-romana arricchita dagli apporti etnici celtico, germanico, slavo e uraloaltaico che le proviene dalla sua stessa storia.
Prima omissione.
L’Europa del futuro dovrà esprimere in modo esplicito l’opzione per una configurazione politica e istituzionale che l’Unione Europea non ha mai né saputo né voluto esprimere, rinunziando con ciò a proporsi quale Patria europea comune a tutti i popoli. L’Europa del futuro dovrà al contrario proporsi come Grande Patria Europea (il Grossvaterland, si direbbe in tedesco), includente al suo interno sì le “patrie” nate dallo sviluppo degli “stati-nazione” (i Vaterländer), ma anche gli Heimatländer. Le lunghe vicende di un continente segnato da diversità profonde e anche da passate ostilità reciproche (si è parlato non già di un “continente”, bensì di un “arcipelago” europeo da condursi a una unità – e pluribus unum – che rispetti e valorizzi tuttavia le diversità interne) escludono una formula futura fondata su un qualunque impossibile centralismo e consigliano di evitare la via di un federalismo “all’americana” o “alla tedesca”, insufficiente a rappresentare in modo adeguato le molte “terre profondamente e intimamente natali” (gli Heimatländer) in forza delle quali ciascuno di noi non è soltanto francese, o tedesco, o spagnolo, o italiano e così via, ma anche – e profondamente – castigliano, o bretone, o renano, o tirolese, o slovacco. Solo un assetto non già federalistico, bensì confederale, potrà rispondere adeguatamente a questa realtà e a queste istanze. Qualora volessimo indicare approssimativamente un modello, penseremmo alla Confederazione Elvetica. Sono di questo tipo le istanze che consigliano di procedere i popoli europei verso la costituzione di una compagine politica definibile come Confederazione degli Stati Europei (CSE).
Seconda omissione.
Il confronto con l’istituzione politico-militare della NATO e con l’atlantismo: la prima, la NATO, una compagine da rivedere e riformare profondamente sulla base di un patto al quale la CSE potrebbe anche aderire a patto ch’esso si fondasse sull’effettiva parità e indipendenza politica dei suoi membri anziché – come oggi si presenta – quale organo attivo dell’egemonia statunitense sui popoli europei con ciò ridotti a una “sovranità unilateralmente limitata” e a una grave subordinazione di fatto, lesiva dei loro diritti e della loro dignità. Il secondo, l’atlantismo, una sinistra ideologia politica nata sulla base della “guerra fredda” tra USA e URSS con i rispettivi satelliti e che oggi va rifiutata decisamente per essere sostituita da un’Europa che non ha nemici preconcetti ma che punta a un suo protagonistico ruolo nella promozione e nel mantenimento della pace e dell’equilibrio mondiale fondato sul conseguimento della giustizia sociale tra i popoli e della salvaguardia ecologica e ambientale. Un equilibrio del quale la nostra Grande Patria Europea sia protagonista e non vassalla.

La morte di Alfie e la nostra coscienza

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UN’OPINIONE

di David Nieri

La morte di Alfie e la nostra coscienza

Fonte: Franco Cardini

Alla fine non ce l’ha fatta, il povero Alfie. Si è spento la notte di sabato 28 aprile, a pochi giorni dal suo secondo compleanno. Personalmente, ci ho sperato fino alla fine. Ho sperato che il piccolo continuasse a respirare, quindi a vivere, dopo che la “spina” dei supporti vitali era stata staccata qualche giorno prima. Ho sperato che almeno la Corte europea si pronunciasse a favore del trasferimento al “Bambino Gesù”, dopo che il governo italiano aveva concesso ad Alfie la cittadinanza italiana per consentirgli l’espatrio. Ho sperato infine nel miracolo – noi cattolici, sapete, ci crediamo – che annichilisse giudici e scienziati d’Oltremanica che intendono sentenziare sulla “vita degna di essere vissuta” stabilendone il confine come una questione di diritto, magari ponendosi pure contro il volere dei genitori – per un bambino di meno di due anni, l’unico possibile. Ma in terra d’Albione – quella del dio degli inglesi in cui non credere mai, e infatti io non ci credo – funziona così: se non c’è accordo tra medici e famiglia, la legge prevede l’intervento di un giudice. Nel caso in questione, i medici dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool avevano già dichiarato, lo scorso dicembre, di aver esaurito tutte le opzioni a disposizione per salvare il piccolo, decidendo quindi di sospendere la ventilazione artificiale che lo teneva in vita. Decisione alla quale ovviamente Tom e Kate Evans, i due giovanissimi genitori, si erano opposti, indicando tra le eventualità di cura anche il trasferimento al “Bambino Gesù”. Niente di tutto questo è accaduto. Come nel triste caso di Charlie Gard, la fine della vita di un bambino è stata sentenziata per legge, e a niente sono serviti i ripetuti appelli – anche da parte della Santa Sede – per tentare di salvare il bambino. Continua a leggere