La morte di Al Raisi, le domande senza risposta, i sospetti di un attentato

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ESTERI

di Matteo Castagna per https://www.marcotosatti.com/2024/05/20/la-morte-di-al-raisi-le-domande-senza-risposta-i-sospetti-di-un-attentato-matteo-catsagna/

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Matteo Castagna, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione queste considerazioni sulla situazione geopolitica, anche alla luce della morte di Al Raisi e dell’attentato a Robert Fico. Buona lettura e condivisione.

Arriva di prima mattina la notizia, diramata da tutte le agenzie del mondo, inerente la morte del premier iraniano Ebrahim Raisi, a seguito dello schianto su una montagna nei pressi di Jolfa, ai confini con l’Azerbaigian, dell’elicottero su cui viaggiava il 19 maggio. I resti del velivolo sono stati trovati lungo la strada per il villaggio iraniano di Khoilar-Kalam, a circa 100 chilometri da Tabriz. Nove le persone a bordo. Le autorità hanno identificato i corpi carbonizzati. Deceduti anche il ministro degli Esteri dell’Iran, Hossein Amirabdollahian, il governatore della provincia dell’Azerbaigian orientale Malek Rakhmati e l’imam di Tabriz, Ali Ale-Hashem.
Il lutto avviene a pochi giorni dall’attentato terroristico al presidente slovacco Fico, noto per le sue posizioni sovraniste e non allineate all’atlantismo della maggioranza degli Stati europei.eu
In Libano sono stati dichiarate tre giornate di lutto nazionale per la morte del presidente iraniano. “La grande nazione iraniana supererà questa tragedia con il consueto coraggio”. Lo ha affermato il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, annunciando che il Pakistan osserverà una giornata di lutto e che le bandiere sventoleranno a mezz’asta. Il Quotidiano Nazionale di oggi annuncia anche che il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, ha fatto sapere di essere “sconvolto” per la notizia della morte dell’omologo iraniano Ebrahim Raisi. Secondo quanto riporta Mehr, Maduro si è detto molto dispiaciuto di dover dire addio a Raisi, definendolo “una persona eccezionale e un grande essere umano, difensore della sovranità del popolo iraniano e amico incondizionato” del Venezuela.
Il primo ministro indiano Narendra Modi si è detto ”profondamente rattristato” per la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi, aggiungendo che il defunto presidente iraniano ha contribuito ”a rafforzare le relazioni bilaterali India-Iran”.
Hamas ha espresso “sincere condoglianze, profonda simpatia e solidarietà” al leader supremo dell’Iran, Sayyed Ali Khamenei, per la morte del presidente Ebrahim Raisi, per quella del ministro degli esteri Hussein Amir Amirabdollahian e degli altri dirigenti deceduti. Tutti leader, ha sostenuto su Telegram il movimento, “che hanno avuto un lungo percorso per il rinascimento dell’Iran, e posizioni onorevoli a sostegno della nostra causa palestinese, e della legittima lotta del nostro popolo contro l’entità sionista”.
Gli Hezbollah libanesi hanno reso omaggio al presidente iraniano Ebrahim Raisi, morto nell’incidente in elicottero, definendolo il “protettore dei movimenti di resistenza”.
Tutti i paesi della regione hanno offerto solidarietà e aiuti. La Turchia aveva inviato un elicottero dotato di visori notturni, insieme a 32 esperti in soccorso in quota. Offerte di aiuto erano arrivate anche da Emirati, Oman, India ma anche dall’Arabia Saudita, nemica di vecchia data della Repubblica Islamica. La Russia si è attivata inviando una squadra con 47 specialisti, veicoli fuoristrada e un elicottero BO-105.
Il presidente cinese Xi Jinping ha definito la morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi come “una grande perdita per la sua gente”. Xi ha inviato un messaggio di cordoglio al primo vicepresidente iraniano al fine di esprimere “profonde condoglianze a nome del governo e del popolo cinesi, che ha perso un buon amico”.
Sulla stessa linea la Siria: Il presidente Bashar al-Assad ha espresso solidarietà allo stretto alleato Teheran, che lo ha sostenuto durante anni di guerra. Assad ha espresso “la solidarietà della Siria con la Repubblica islamica dell’Iran e con le famiglie del defunto e i suoi compagni”. Condoglianze dal premier armeno Pashinyan: “Sono scioccato”.
La Tass riferisce che in un messaggio inviato alla Guida iraniana, Ali Khamenei, Putin afferma che, “da vero amico della Russia, Raisi ha dato un contributo personale inestimabile allo sviluppo delle buone relazioni tra i nostri Paesi e ha fatto grandi sforzi per portarli al livello di partnership strategica”.
L’Unione europea “esprime le sue sincere condoglianze per la morte del presidente”. La premier italiana Giorgia Meloni esprime “solidarietà al popolo iraniano”, secondo quanto riferito da Sky News24.
L’analista militare della Cnn, Cedric Leighton, ha spiegato che probabilmente Raisi stava viaggiando su un elicottero Bell 212 che iniziò ad operare alla fine degli anni ’60. “È stato introdotto per la prima volta durante l’ultimo periodo del regno dello Scià nel 1976 in forma commerciale e ha avuto una vita prima nell’esercito americano, quindi l’inizio effettivo di questo particolare tipo di elicottero potrebbe essere avvenuto già alla fine degli anni ’60”, ha spiegato Leighton. “Di conseguenza – ha aggiunto – i pezzi di ricambio sarebbero stati sicuramente un problema per gli iraniani”.
L’ipotesi più accreditata, e non esclusa nemmeno dalle autorità iraniane è, al momento, quella dell’incidente.
Il Quotidiano Nazionale riporta, anche, che il politologo iraniano, Prof. Pejman Abdolmohammadi, insegnante di Storia dei Paesi Islamici all’Università di Trento ha reagito con queste parole: “La Guida Suprema è fisicamente molto debole e il potere in crisi di consenso. Una rivoluzione democratica è possibile a Teheran e produrrebbe un effetto domino in tutta l’area”.
Risalta il fatto che l’Azerbaigian abbia buoni rapporti con Israele. Alla luce del conflitto tra Iran e Israele è giustificato il sospetto che l’elicottero sia precipitato per una manomissione eseguita dai servizi israeliani?
Secondo l’insegnante iraniano “è una ipotesi che è sicuramente sul tavolo, ed è molto plausibile, sebbene non sia provata. Non a caso, due settimane fa, intervenendo a una trasmissione televisiva in Italia, dissi che come la Repubblica islamica usa il territorio libanese per colpire Israele, così Israele oltre ad avere ottimi rapporti con l’Azerbaigian, ha una sua presenza militare, in chiave anti iraniana, in quel Paese. Quindi, può essere stato, ipoteticamente, un colpo israeliano al suo nemico storico, la Repubblica islamica iraniana. Non a caso, è stato un media israeliano, la tv Canale 12, il primo a dire che Raisi non è sopravvissuto”.
Inoltre, Raisi era politicamente debole, non era carismatico e riusciva a mantenere il potere solo perché persona di estrema fiducia dell’Autorità Suprema – spiega il professore. “Per la popolazione iraniana è uno choc che potrebbe ridare fiato all’opposizione, largamente maggioritaria nel Paese, e che sui social ha subito reagito in maniera massiccia alle notizie dell’incidente. Dopo le grandi proteste del 2021 e del 2022, rischia di essere un elemento che può sparigliare i giochi”.
Secondo il governo italiano non ci sono particolari preoccupazioni per un’ immediata escalation del conflitto, sebbene Teheran abbia fatto sapere che non cambierà nulla della sua politica estera. Il ruolo di presidente viene assunto, nell’immediato, dal primo vicepresidente esecutivo, Mohammad Mokhber. Questo è quanto prevede l’articolo 131 della Costituzione della Repubblica Islamica.
Stabilita un’autorità provvisoria, un consiglio composto dal primo vicepresidente, dal presidente della Camera, Mohammad Bagher Ghalibaf, e dal capo della magistratura, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, avrà il compito di organizzare l’elezione di un nuovo presidente entro il termine massimo di 50 giorni. Raisi era stato eletto presidente nel 2021. Le prossime elezioni sono, al momento, previste nel 2025.

 

La Guerra Nato-Russia, la UE “strozzinata” dal Gas USA

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Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Matteo Castagna offre alla vostra attenzione queste considerazioni di geopolitica. Buona lettura e condivisione.

La Guerra Nato-Russia, la UE “Strozzinata” dal Gas USA. Matteo Castagna

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di Matteo Castagna

Il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Galuzin ha detto che gli Stati Uniti considerano, da tempo, il Caucaso meridionale come un possibile trampolino di lancio contro la Federazione Russa.

In quella zona, infatti, ci sono molti russofobi. Basti pensare alla Georgia, ma anche all’Armenia, che ha, recentemente, puntato la sua politica verso un riavvicinamento con l’Occidente. Inoltre, entrambi i Paesi sono desiderosi di entrare nella NATO. Cosa porterà questa posizione, in termini di sicurezza dell’Armenia e degli interessi del popolo armeno è, ovviamente, un punto interrogativo.

Quanto alla Russia, osserviamo un atteggiamento ammorbidito da parte della UE. Non figurano, infatti, nel 12° pacchetto di sanzioni ben 3 proposte, che sono state respinte: 1) il divieto di trasferimento fondi in Russia. 2) il divieto di vendita navi cisterna alla Russia. 3) l’ inserimento obbligatorio di clausole che vietino di ri-esportare, nelle vendite a paesi terzi.

Una recente analisi di “Sputnik” sui dati Eurostat ha scoperto che i Paesi dell’Unione Europea hanno dovuto pagare circa 185 miliardi euro in più per il gas naturale negli ultimi 20 mesi, dopo aver smesso di utilizzare i gasdotti russi, affidabili e a basso costo.

In compenso, la prestigiosa agenzia Reuters riporta che le esportazioni statunitensi di gas naturale liquefatto (GNL) hanno raggiunto livelli record mensili e annuali a dicembre, secondo i dati di monitoraggio delle navi cisterna, con gli analisti che affermano che ciò consentirà agli Stati Uniti di scavalcare Qatar e Australia, divenendo il più grande esportatore di GNL del 2023.

L’Europa è rimasta la principale destinazione delle esportazioni di GNL statunitense a dicembre, con 5,43 tonnellate, ovvero poco più del 61%. L’Asia è stato il secondo mercato di esportazione per il GNL statunitense a dicembre, assorbendo 2,29 milioni di tonnellate, ovvero il 26,6%, delle esportazioni. Sempre Reuters riporta che Il gigante energetico russo Gazprom ha annunciato di aver stabilito un nuovo record giornaliero per le forniture di gas alla Cina, attraverso il gasdotto Power of Siberia.

Gazprom ha detto che la cifra di esportazione del 2023 era di 700 milioni di metri cubi in più di quanto non fosse contrattualmente obbligata a spedire in Cina, attraverso il Potere della Siberia. Ha ribadito che il gasdotto raggiungerà la piena capacità di esportazione di 38 miliardi di metri cubi nel 2025. La Russia sta aumentando le forniture alla Cina per compensare la perdita della maggior parte delle sue vendite di gas in Europa, dall’inizio della guerra in Ucraina, aggirando, così, le sanzioni.

Il quotidiano britannico The Times riporta che i ministri britannici e della UE stanno “cercando disperatamente di aumentare la capacità produttiva in tutto il continente, per essere in grado di inviare armi e munizioni al fronte e contenere Vladimir Putin per almeno un altro anno, indipendentemente dal sostegno degli Stati Uniti”. Va notato che alcuni esperti americani che commentano l’articolo del Times osservano che, in assenza del sostegno degli Stati Uniti, una corsa agli armamenti con la Russia potrebbe essere fatale per l’UE, quanto una corsa simile lo fu con gli Stati Uniti, per l’economia dell’URSS. In effetti, la situazione generale degli USA di Joe Biden potrebbe destare qualche preoccupazione all’alleanza occidentale.

The Washington Post riferisce che il debito nazionale ha superato la soglia dei 34 mila miliardi di dollari. I principali acquirenti del debito pubblico americano sono i Paesi asiatici (Corea del Sud, Giappone e Cina) e se le loro quote venissero ridotte, in futuro, potrebbero avere ripercussioni sulla sicurezza nazionale e su molte sfere sociali degli Stati Uniti. “Washington ha speso soldi come se avesse risorse infinite, ma non ci saranno più pasti gratuiti, e le prospettive sono piuttosto cupe”, ha commentato l’economista Son Won-sung.

Per intenderci, in generale l’Occidente utilizza il denaro (o meglio il suo ritiro dalle economie di altri paesi) come leva nel quadro di una guerra economica internazionale. Il principale avversario degli Stati Uniti è la Cina, da dove vengono sistematicamente ritirati i soldi. Svendendo il loro debito nazionale a destra e a manca (e aumentandolo) gli Stati rischiano di mettere tutte le loro sfere sociali sull’orlo del collasso, se i “grandi attori” vogliono fare pressione su Washington, senza tener conto dell’aspetto materiale della questione (o, ad esempio, in caso di conflitto a Taiwan).

Quanto all’Ucraina, la situazione si fa sempre più difficile. Il giornale tedesco Der Spiegel riporta le parole del deputato ed economista dei Verdi Sebastian Schaefer, il quale ha affermato che a Kiev non è rimasto praticamente in servizio alcun moderno carro armato tedesco Leopard 2A6. Secondo Schaefer, al momento, dei 18 carri armati consegnati, quasi tutti sono gravemente danneggiati e tecnicamente usurati. Secondo Schaefer esiste “un’ urgente necessità” che la situazione delle riparazioni dei carri armati migliori il più rapidamente possibile. Altrimenti, Kiev rischia di rimanere senza carri armati, oltre che senza la possibilità di ripararli.

Il canale telegram ucraino Resident aggiunge: “La nostra fonte nell’ufficio del presidente ha affermato che il problema principale della mobilitazione è la scarsa motivazione degli ucraini, che sono pronti a rinunciare alla cittadinanza o a ricevere una vera pena detentiva, ma non ad andare al fronte. Il fallimento della controffensiva è diventato un catalizzatore di delusione nella società, e le grandi perdite hanno confermato l’incompetenza del comando.

Si è consolidata l’opinione che se vieni portato al fronte, nella migliore delle ipotesi tornerai invalido e nella peggiore delle ipotesi morirai”. Il Corriere della Sera sembra allinearsi a questa posizione, scrivendo di diminuzione del sostegno occidentale, popolarità in calo, crescita del pessimismo sulla situazione al fronte, crescita dell’opposizione interna. Il Corsera si riferisce a un sondaggio del KIIS, i cui risultati hanno mostrato un atteggiamento negativo nei confronti dell’attuale governo, dopo la sconfitta della controffensiva, che sta portando il Paese su una strada ostile alle decisioni della NATO.

Sulla stessa lunghezza d’onda, si colloca un pesante articolo del New York Times del 3 gennaio. Gli ucraini non si fidano più delle autorità e ritengono le trasmissioni televisive di Zelensky come propaganda. “Dopo quasi due anni di guerra”, scrive il NYT, “gli ucraini sono stanchi del Telethon. Quello che un tempo era considerato uno strumento fondamentale per unire il Paese, oggi è sempre più ridicolizzato…Gli spettatori lamentano che il programma dipinge un quadro troppo roseo, nascondendo eventi preoccupanti al fronte e il calo del sostegno occidentale all’Ucraina… e, infine, non riesce a preparare i cittadini per una lunga guerra”.

The Telegraph scrive che la difesa aerea ucraina non sarà in grado di respingere tutti gli attacchi russi, quest’inverno. E prosegue: “le forze armate ucraine sono costrette a conservare le munizioni per i sistemi di difesa aerea. Quest’inverno, secondo gli esperti, i sistemi missilistici di difesa aerea dovranno prendersi cura di loro ancora di più. Le forze di difesa aerea saranno costrette a non rispondere affatto ad alcuni obiettivi, poiché non avranno missili intercettori. Di particolare preoccupazione è la possibile carenza di missili intercettori per la difesa aerea Patriot”.

The Guardian scrive che il presidente Vladimir Putin ha detto che Mosca intensificherà gli attacchi contro obiettivi militari in Ucraina. Putin ha parlato dopo l’attacco ucraino di sabato scorso alla città russa di Belgorod, che secondo le autorità locali ha ucciso 25 persone, tra cui cinque bambini. Dal canto suo, Kuleba ha spiegato agli americani che devono pagare la guerra in Ucraina perché Kiev non ha un piano B.

John Kirby, coordinatore per le comunicazioni strategiche del Consiglio di Sicurezza Nazionale, ha specificato che il pacchetto di assistenza militare all’Ucraina, annunciato da Washington il 27 dicembre, è stato l’ultimo di quelli che gli Stati Uniti potranno fornire a Kiev, fino a quando il Congresso non avrà stanziato fondi aggiuntivi per questi scopi. Secondo lui, la Casa Bianca non sarà in grado di trovare fondi per l’Ucraina da fonti alternative, se il Congresso, con la maggioranza dei Repubblicani già scettica, non sarà d’accordo sulla richiesta di nuovi aiuti a Kiev.

L’escalation di violenza è proseguita dopo che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato all’Economist che l’idea che la Russia stesse vincendo la guerra, durata quasi due anni, era solo una “sensazione” e che Mosca stava ancora subendo pesanti perdite sul campo di battaglia. Zelensky non ha fornito alcuna prova delle sue affermazioni sulle perdite russe.

Putin ha indicato che l’”iniziativa strategica”, nel prolungato conflitto in Ucraina, è da parte russa, dopo il fallimento della controffensiva ucraina, in estate. Ha, anche, sottolineato che Mosca vuole porre fine al conflitto, che dura da quasi due anni, “il più rapidamente possibile”, ma “solo alle nostre condizioni”.

Secondo un sondaggio, prodotto da USA Today in collaborazione con l’Università di Suffolk, il sostegno al presidente degli Stati Uniti Joe Biden tra gli elettori neri e ispanici è diminuito in modo significativo, con le generazioni più giovani che preferiscono l’ex presidente Donald Trump. Nell’articolo si legge che “Biden ora rivendica il sostegno di appena il 63% degli elettori neri, in netto calo rispetto all’87% che aveva nel 2020”.

C’è già un retroscena, secondo il quotidiano statunitense “Politico”: il “Deep State” non può permettersi il ritorno di Trump, che scompaginerebbe molti piani dei globalisti liberal americani.  “Politico” ha scritto che tutto ruota attorno ai finanziamenti per l’Ucraina.

Vogliono usare Israele per giustificare il pacchetto di finanziamenti per l’Ucraina. Stanno promuovendo DeSantis e Haley, cercando disperatamente di convincere uno di questi due a battere Trump alle primarie, perché sostengono il finanziamento dell’Ucraina. Come previsto, il 2024 sarà un anno molto difficile, ma, forse, determinante, per gli equilibri globali.

Cina, non basta la politica dei crediti esteri per diventare grande potenza

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EDITORIALE DI MATTEO CASTAGNA 

Ripreso da: www.affaritaliani.itwww.marcotosatti.it www.informazionecattolica.it www.2dipicche.news.it 

La Cina non è ancora pronta a dominare il mondo
Non basta la politica dei crediti esteri manca una mentalità da “grande potenza”

di Matteo Castagna

La Cina e i nuovi equilibri geopolitici

Gli Stati Uniti hanno invitato tutti i membri della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC), compresa la Russia, al vertice di San Francisco, in California, tra l’11 e il 17 novembre, dal titolo “Costruire un futuro di sostenibilità e resilienza per tutti” – ha dichiarato Matt Murray, funzionario senior dell’APEC.”.

In questo momento storico, particolarmente tumultuoso, e di posizionamenti mirati a nuovi equilibri geopolitici, sembrerebbe la prima volta che gli Stati Uniti diano un segnale di apertura nei confronti della Russia di Putin e dei Paesi più importanti dell’Eurasia. Da un lato, è un atto strategico. Negli States si è compreso che sono emerse delle superpotenze nuove, con le quali è più conveniente, almeno per il momento, cercare diplomaticamente una forma di cooperazione, rispetto al braccio di ferro bellico. Dall’altro, alla luce del comportamento tradizionale degli Stati Uniti, potrebbe apparire il primo, grande segnale di debolezza sul piano globale, dalla nascita delle Nazioni Unite.

L’ex premier italiano Mario Draghi, ad un recente evento del Financial Time, dà conferma di quanto poc’anzi asserito, cogliendone i fatti principali: “…una lunga serie di arretramenti sui nostri valori fondamentali [il globalismo liberale unipolare, n.d.r.]: l’ammissione della Russia al G8, nonostante il mancato riconoscimento della sovranità ucraina, la promessa mancata di un intervento in Siria nel caso in cui Assad avesse usato il gas come arma, la Crimea, il ritiro dall’Afghanistan” sono stati indicazioni di profonda debolezza.

Draghi ha continuato, dicendo: “La lezione che se ne può trarre è che non dobbiamo mai scendere a compromessi sui nostri valori fondamentali su cui è stata costruita l’UE…” . Draghi afferma con decisione: “Dobbiamo combattere, ciascuno nella propria sfera personale ma anche collettivamente, per fare in modo che la negazione dei nostri valori [quelli delle democrazie liberal-capitaliste, n.d.r.] non prevalga”.

Nella grande scacchiera internazionale, l’economia, che da almeno due secoli ha, gradualmente, sostituito la politica, gioca un ruolo primario. I big della Terra dividono il mondo in due categorie: Paesi creditori netti e Paesi debitori netti, come base di partenza per creare, successivamente, le strategie di potere e muoversi nella difficile sfera geopolitica post-moderna.

Un rapporto pubblicato da AidData ci informa del fatto che la Cina è il maggior creditore dei confronti degli altri paesi della Terra, per un valore complessivo di 1.300 miliardi di dollari. Gli 8 principali Paesi debitori sono gli stessi da molti anni, ma l’ammontare del debito è in aumento: 63mila miliardi di dollari totali, per ora. I primi 8 grandi debitori sono: Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Paesi Bassi, Francia, Irlanda, Italia e Germania. Questi dati sono importantissimi perché non è possibile non tenerne conto nella strategia e nell’asset degli equilibri globali.

Se si vuole evitare un conflitto armato che potrebbe assumere connotazioni mondiali, serve riconoscere che la Cina è una grande e compatta Nazione, con una connotazione identitaria profonda, che sul piano finanziario è creditrice di tutte le altre potenze. Si aggiunga, però, che la sua aspirazione a dominare il mondo non è alla sua portata, perché non è pronta per svolgere tale ruolo. La fonte che dichiara questo è cinese ed autorevole: il Prof. Liang Xiaojun, docente alla China Foreign Affairs University di Pechino sostiene, già in un articolo su “East Asia Forum” del 13 settembre 2016, che alla Cina manca una mentalità da “grande potenza”, in grado di candidarsi a dominare il mondo. Il regime comunista è, spesso, chiuso e distaccato dal sentire comune e dalle necessità di una popolazione enorme. Inoltre, rimane ancora in ballo, la delicata questione Taiwan.

La logica multipolare non è ancora realmente dominante in Cina, perché la politica dei crediti esteri, di cui sopra, si basa esclusivamente su un rapporto “do ut des” di benefici reciproci, e, molte volte, questa politica produce enormi e gravissime opposizioni interne. Infine, la sempre maggiore comunità del web è divenuta molto più nazionalista e identitaria, quindi protesa a mantenere alta la tensione nei confronti di un rigido regime, che rischia di autoisolarsi, proprio per questa sua durezza e questo suo inquadramento ideologico, considerato, oramai, superato e da sostituire con maggiore libertà all’interno del ritorno di una forte nostalgia per il passato imperiale. Tutto ciò non pone Xi Jinping nelle condizioni di proporsi al resto del mondo come leader sufficientemente affidabile, credibile, che sia in grado di garantire stabilità e fiducia, prosperità, pace e tranquillità.

Fonte:https://www.affaritaliani.it/esteri/cina-non-basta-la-politica-dei-crediti-esteri-per-diventare-grande-potenza-886161.html 

Libertà d’informazione e geopolitica si scontrano con i diktat delle élite

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EDITORIALE 

di Matteo Castagna pubblicato su https://www.marcotosatti.com/2023/09/11/liberta-dinformazione-e-geopolitica-si-scontrano-con-i-diktat-delle-elite/

su https://www.2dipicche.news/liberta-dinformazione-e-geopolitica-si-scontrano-con-i-diktat-delle-elite/

su https://www.informazionecattolica.it/2023/09/11/liberta-dinformazione-e-geopolitica-si-scontrano-con-i-diktat-delle-elite/

Tradotto, come ogni settimana, in spagnolo dai giornalisti dell’America Latina. Stavolta su https://vocesdelperiodista.mx/voces-del-periodista/internacional/la-libertad-de-informacion-y-la-geopolitica-chocan-con-los-dictados-de-las-elites/

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Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra questo commento di Matteo Castagna, che ringraziamo di cuore. Buona lettura e condivisione (Paolo Tosatti, vaticanista)

Libertà d’informazione e geopolitica si scontrano con i diktat delle élite

di Matteo Castagna

In Occidente, la geopolitica viene trattata con superficialità. I media trattano le notizie senza un serio ed approfondito approccio, preferendo soffermarsi su tematiche di minor spessore ma anche di minore importanza. Il risultato è che chi non trova riviste specializzate o fonti personali, non ci capisce niente ed è costretto a fidarsi dei flash dei telegiornali o dei trafiletti dei giornali.
Recentemente ho saputo che alcune redazioni italiane non hanno neppure giornalisti che si occupano di geopolitica. La mia personale opinione è che nel terzo millennio se non si approfondisce questo argomento, si rischi di rimanere vittima della propaganda e di credere ad ogni boutade nei talk show.

Esempio eclatante, oltre al professor Michael Hudson, è il Prof. Jeffrey Sachs, ordinario ad Harvard, di cui si occupa ampiamente il blog del giornalista vicentino Marco Milioni. Sachs è di origini ebraiche, politicamente schierato coi Democratici, progressista moderato, consulente alle Nazioni Unite. Il suo profilo avrebbe tutte le caratteristiche per essere un divo politically correct, eppure non lo è, e pur essendo considerato un luminare in America, non è quasi mai presente nei salotti televisivi, perché preferisce la diplomazia alla guerra e perché sulla Russia e sulla Cina non la pensa come Hillary Clinton. Se può dar consolazione, non sembrerebbe essere l’unico dem americano…

In Italia è pressoché sconosciuto. Scrive, a tal proposito, Marco Milioni sul suo blog:«…il grosso della stampa cosiddetta mainstream del nostro Paese è talmente schierata con i diktat che arrivano da un certo mondo atlantista, da porsi limiti addirittura più stringenti di quelli che giungono da Oltreoceano…». L’ultimo articolo di Sachs è illuminante per come affronta e racconta le relazioni commerciali tra USA e Cina. Si trova in inglese, imboscato, nonostante l’importanza della persona, solo sul suo sito internet del 22 agosto. Viene tradotto in italiano e riportato quasi per intero su Il Fatto quotidiano del 9 settembre, a pag. 17, ovvero venti giorni dopo. Milioni conclude:«…nel circuito dell’informazione italiana di quella analisi autorevole, però di fatto non c’è traccia. Ovvero non c’è traccia di un dibattito sull’argomento degno di questo nome: che si concordi o meno col docente americano». Il dramma è questo, assieme alle prese di posizione manichee ed ideologiche.

Stiamo attraversando un’era di cambiamenti epocali, ove sembrerebbe che ad esser messa in gioco sia la libertà. Il nuovo Sistema si fonda sul controllo sociale, cercando in ogni modo di integrare l’umanità nel nichilismo, attraverso una versione “light” di totalitarismo, differente dai regimi del XX secolo, perché subdolo, distopico, a-morale, irragionevole, profondamente maligno e scaltro, al punto che molti non si accorgono di quanto la dipendenza dalle élite stia cambiando gli stili di vita, annullando ogni visione del mondo, carcerando le idee e riducendo la religione ad un’ inutile e antiquato modello, che non serve all’economia globale.

Cornelio Fabro, a proposito della libertà, scrisse che «la libertà è la lingua universale dello spirito umano, è quella lingua che parla dal fondo del suo silenzio nella richiesta radicale: la libertà è ciò che più ci accomuna, e l’esercizio della libertà è ciò che più ci differenzia e ci distingue…»

San Tommaso d’Aquino scrisse che «la libertà è la capacità che l’uomo ha di essere arbitro, cioè padrone delle proprie azioni, scegliendo tra varie possibilità e alternative: di agire oppure di non agire, di fare una cosa piuttosto che un’altra. Se l’uomo fosse portato al suo destino senza libertà, non potrebbe essere felice, non sarebbe una felicità sua, non sarebbe il suo destino. E’ attraverso la sua libertà che il destino, il fine, lo scopo, l’oggetto ultimo può diventare risposta per lui. Il destino è qualcosa di fronte al quale l’uomo è responsabile, è frutto della libertà. La libertà dunque ha a che fare non solo con l’essere protesi a Dio come coerenza di vita ma anche con la scoperta di Dio».

Ridotto all’essenziale, la nuova società wok d’importazione statunitense vorrebbe toglierci tutto questo per renderci amebe o automi, senza ideali, senza religione, senza una morale comune, distruggendo ogni comunità di destino, appiattendoci sul tecnicismo, surclassati dalle macchine e imbottiti di pensiero unico liberale, globalista, buonista, ateo o pieno di idoli, fanaticamente green e genderista, mentre il fine è sempre il Vitello d’Oro, di biblica memoria. Nel racconto del Vecchio Testamento, il lettore ricorderà che non finì bene per coloro che si misero ad adorarlo.

Il mondo questa settimana

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dettaglio_putin_potere_820Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale clicca qui

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: il mandato di cattura contro Putin, la risposta della Cina al patto Aukus, il piano Ue per la decarbonizzazione e le materie prime, la riforma delle pensioni in Francia, il nuovo accordo tra Argentina e Fmi, le elezioni in Nigeria…

MANDATO DI CATTURA PER PUTIN [di Mirko Mussetti]

La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il suo commissario per i diritti dei bambini Marija L’vova-Belova per deportazione illegale di minori ucraini. Secondo i giudici istruttori, vi sono «ragionevoli motivi per ritenere che i sospettati siano responsabili del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a danno dei fanciulli ucraini». Si stima che i bambini ucraini deportati dall’inizio dell’invasione russa siano circa 6 mila. I giudici hanno preso in considerazione l’emissione di un mandato segreto, ma infine hanno optato per il mandato pubblico per «contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di reati».

Il mandato di cattura spiccato contro Putin avviene a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che non classifica le azioni belliche della Russia come “genocidio”. La commissione indipendente dell’Onu conferma però la commissione di reati da parte delle forze di occupazione e definisce il trasferimento illegale di bambini al di fuori dell’Ucraina come “crimine di guerra”.

Mosca ha immediatamente bollato come insignificante la decisione della Corte. Infatti, al pari degli Stati Uniti (e della stessa Ucraina), la Russia non riconosce la giurisdizione della Cpi, non avendo mai ratificato lo statuto di Roma del 1998. Per questo genere di questioni, Mosca ritiene preminente la Corte internazionale di giustizia (Cig), che è organismo delle Nazioni Unite con sede anch’esso all’Aia (Paesi Bassi). L’atto ha valore simbolico ma è poco significativo in concreto. Tanto per cominciare, il presidente Putin dovrebbe essere catturato. Cosa piuttosto improbabile vista la sua riluttanza a uscire dai confini della Federazione. Inoltre anche in Russia è radicata la convinzione che a stabilire ciò che è crimine di guerra non sia un giudice terzo, bensì il vincitore. Ecco perché il Cremlino non se ne cura: la storia è scritta dai vincitori e la Russia confida nella vittoria definitiva in Ucraina. Le autorità ucraine hanno comunque salutato con favore la decisione della Cpi, che oltre a complicare i viaggi all’estero di Putin conferma la rottura diplomatica/istituzionale tra Occidente e Russkij Mir (mondo russo).

Non deve stupire il basso profilo adottato dagli Stati Uniti sulla questione. Il dipartimento della Difesa si è mostrato riluttante a condividere le prove di possibili crimini di guerra russi con la Cpi e il presidente Joe Biden non ha agito per risolvere le controversie che contrappongono il Pentagono ad altre agenzie, dipartimento di Stato in primis. Washington vuole infatti evitare di contribuire a creare un precedente. Un domani la stessa America potrebbe essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nelle guerre condotte negli ultimi trent’anni.


🎨 Carta inedita della settimana: La rotta del grano


LA CINA CONTRO AUKUS [di Giorgio Cuscito]

L’aspra replica del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese all’ufficializzazione dei dettagli dell’accordo tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia sui sottomarini a propulsione nucleare (il patto Aukus) conferma l’apprensione di Pechino circa il consolidamento della tattica di contenimento americano nell’Indo-Pacifico.

Contenimento che il governo di Xi Jinping vorrebbe scardinare tramite il presidio dei Mari Cinesi, il controllo di Taiwan (se necessario da conseguire manu militari), la penetrazione in Oceania con investimenti infrastrutturali nell’ambito delle nuove vie della seta e accordi securitari come quello concluso con le Isole Salomone.

Aukus mina questo progetto perché contribuisce alla proiezione militare dell’Australia in direzione della Repubblica Popolare (poco conta il fatto che i cinesi abbiano rimosso le restrizioni alle importazioni di carbone australiano) e getta le basi per nuove collaborazioni tra Canberra, Washington e Londra. Basti pensare al possibile sviluppo congiunto di missili ipersonici, vettore che Pechino sta testando da alcuni anni. Oppure alle molteplici iniziative militari e accademiche promosse da Usa, Australia, Giappone e India per allacciare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) alla Nato e favorire la collaborazione tecnologica tra rivali della Repubblica Popolare.

Il consolidamento del fronte anticinese in tale ambito – che coinvolge pure Taiwan – è una delle ragioni che nel 2023 spingerà Pechino a intensificare gli sforzi per perseguire la cosiddetta “autosufficienza” nel campo dei semiconduttori, cruciali a loro volta per il potenziamento del proprio arsenale militare. Non a caso i due obiettivi sono stati messi per iscritto durante le riunioni plenarie del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Cioè le “due sessioni” che hanno confermato Xi Jinping capo di Stato per la terza volta.


IL PIANO UE PER LA DECARBONIZZAZIONE [di Fabrizio Maronta] Net Zero Industry Act. Questo il nome del piano, presentato giovedì dalla Commissione europea, per incentivare e rafforzare le industrie europee a impatto carbonico neutro (cioè compensato, oltre che ridotto in partenza). Il piano, afferma Bruxelles, mira a “rendere il nostro sistema energetico più sicuro e sostenibile”, facendo sì che “le tecnologie a impatto carbonico neutro raggiungano almeno il 40% della capacità manifatturiera europea entro il 2030”. Ciò senza compromettere, anzi incentivando, “competitività, impieghi di qualità, indipendenza energetica”.
Il pregio del piano, o almeno delle sue intenzioni, è mettere da subito in chiaro il nesso ormai inscindibile tra problematica ambientale e suoi risvolti sociali e geopolitici. Sull’onda di Covid-19, guerra in Ucraina e scontro tecnologico Usa-Cina, perseguire la transizione energetica senza tener conto del contesto strategico e dei costi socioeconomici implica gettare alle ortiche la tanto decantata “sostenibilità”, relegando la decarbonizzazione al novero delle occasioni mancate.
Un assaggio del problema, meglio dei suoi possibili esiti si è avuto recentemente con l’iniziativa tedesco-italiana volta a ritardare la messa al bando dei motori endotermici, per comprare tempo a un’industria dell’auto che deve ripensare completamente filiere e tecnologie.
Due i nodi principali del piano europeo. Primo: i soldi. La Commissione europea stima in 400 miliardi di euro all’anno i costi per raggiungere i propri obbiettivi di decarbonizzazione entro il 2050. Ma tutto questo denaro nel piano non c’è, anche perché l’Ue manca di capacità fiscale propria. E in molti dubitano che i capitali privati possano mobilitare un simile volume d’investimenti per un periodo così ampio.
Il paragone immediato è con l’America, che gioca la sua partita di reindustrializzazione/decarbonizzazione a suon di incentivi pubblici: il Chips and Science Act stanzia 280 miliardi di dollari per promuovere ricerca e produzione interne dei semiconduttori; l’Inflation Reduction Act ne destina 369 all’energia pulita; il precedente Build Back Better mette sul piatto mille miliardi per rinnovare le infrastrutture nazionali. Non abbastanza, ma molto più di noi.
Il secondo problema sono le materie prime. La recente scoperta, nell’Artico svedese, di un grande deposito di terre rare da parte della società mineraria Lkab ha fatto il giro del mondo. Ma ci vorranno anni e – di nuovo – investimenti enormi per approssimare un’autosufficienza europea in questo settore critico per le tecnologie elettriche e informatiche. L’estrazione è solo il primo passo di una filiera (raffinazione, riciclo) su cui l’Europa è molto indietro. Al pari dell’America, certo, ma senza gli spazi fisici di questa dove ospitare siti vasti, altamente energivori ed ecologicamente impattanti.
Cruciale sarà poi capire quanto questo sforzo economico sia compatibile con l’aiuto alla ricostruzione ucraina, che sia annuncia tremendamente oneroso. Non stupirebbe se i paesi europei giungessero alla conclusione che i due compiti si elidono a vicenda, optando per concentrarsi (quasi) esclusivamente sul primo. Con quali conseguenze sulla stabilità ucraina e sulla relazione transatlantica, sarebbe tutto da vedere.

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


IL 49.3 CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO [di Agnese Rossi]

In Francia, il ricorso all’articolo 49.3 della costituzione ha permesso a Emmanuel Macron di far passare l’impopolare disegno di legge sulla riforma del sistema pensionistico senza discussione parlamentare. Il presidente, che non dispone di una maggioranza assoluta in Assemblea nazionale (la camera bassa del parlamento), ha preferito non esporre il progetto al voto, dunque al rischio di una bocciatura. I deputati hanno accolto l’annuncio della premier Élisabeth Borne fischiando e intonando la Marsigliese. Le forze di opposizione hanno quindi depositato venerdì una mozione di sfiducia transpartisan sottoscritta da 91 deputati di cinque gruppi politici che potrebbe portare allo scioglimento del governo (verrà esaminata lunedì). Nel pomeriggio di giovedì e nella notte seguente si sono registrati violenti focolai di protesta in diverse città della Francia, a partire da quello nella capitale in Place de la Concorde, la stessa che ha ospitato la ghigliottina nella stagione rivoluzionaria aperta dal 1789 e che ieri è stata teatro di aspri scontri tra le forze di polizia e migliaia di manifestanti.

La partecipazione popolare ampia e trasversale di ieri e delle precedenti giornate di mobilitazione rivela in primo luogo il valore simbolico e identitario che lega i cittadini della République al proprio sistema di protezione sociale, che fissa l’età pensionabile a 62 anni – una delle più basse in Europa – contro i 64 previsti dalla riforma. Ma anche una diffusa disponibilità alla violenza al fine di preservarlo nella forma attuale. Il sistema pensionistico dell’Esagono, cui viene tributato il 14,5% del pil, è in effetti uno dei più dispendiosi: il suo impianto generale risale al secondo dopoguerra, quando solo un terzo della popolazione viveva fino all’età della pensione. Le aspettative di vita sono negli anni gradualmente aumentate, ragion per cui tutti i presidenti da Mitterand in poi l’hanno riformato. Neanche il ricorso all’articolo 49.3 è di per sé inedito: si calcola che sia stato impiegato 100 volte nella storia della Quinta repubblica, l’ultima in ottobre per far passare la legge di bilancio. Inusitata è stata in proporzione la rabbia sociale manifestata dai cittadini francesi, alimentata dal rifiuto di Macron di confrontarsi con i sindacati. L’impopolarità del piano si comprende meglio alla luce del preesistente scontento nei confronti dell’inquilino dell’Eliseo, che ha fatto della riforma una missione personale.

Il secondo mandato è infatti per il presidente francese l’ultima occasione per consolidare la propria eredità politica. In questa chiave va letta non solo la riforma delle pensioni ma anche la parallela e altrettanto contestata riforma della diplomazia, su cui proprio ieri – nel mezzo del tumulto – Macron è tornato a insistere e che lo scorso giugno ha portato al raro spettacolo di uno sciopero al Quai d’Orsay (il ministero degli Esteri transalpino). Se Macron verrà ricordato come un abile riformatore o come un Giove distante e sordo alle esigenze reali del paese dipende anche dalle evoluzioni di questa vicenda. Che sembra comunque aver compromesso parte della sua legittimazione politica e popolare, aprendo allo spettro di una nuova ondata di malcontento.


L’ARGENTINA TRA FMI ED ECUADOR [di Federico Larsen]

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Argentina hanno raggiunto un nuovo accordo di revisione degli obiettivi pattuiti nel 2022 per il piano sul debito da 45 miliardi di dollari contratto da Buenos Aires nel 2018. Si tratta dell’aiuto più consistente mai elargito nella storia del Fmi, criticato dallo stesso staff tecnico del Fondo in un documento di revisione nel dicembre 2021: secondo quel rapporto, il supporto elargito è evidentemente troppo oneroso per essere restituito nei tempi pattuiti e buona parte dei fondi sono stati usati per sostenere artificiosamente il tipo di cambio col dollaro, invece di puntellare la debole economia argentina. Un mea culpa che spiega in parte certa flessibilità mostrata dall’organismo durante le negoziazioni con Buenos Aires e la disposizione a rivedere gli obiettivi stabiliti due anni fa, tenuto conto dei drastici cambiamenti del panorama economico mondiale e locale.
Ritoccati gli obiettivi sull’accumulo delle riserve dai 9,8 miliardi di dollari previsti originalmente per il 2024 a solamente 2 miliardi, l’Fmi rilascerà un nuovo pacchetto da 5,3 miliardi per coprire una tranche del debito del fallito piano di salvataggio dell’allora presidente Mauricio Macri, ma in cambio di nuovi tagli ai sussidi sull’energia e del raggiungimento della meta fiscale già accordata, che prevede di non sforare il 1,9% di deficit per quest’anno. Un traguardo che la maggior parte degli esperti in Argentina considera irraggiungibile. Solo nei mesi di gennaio e febbraio la siccità ha causato riduzioni nelle esportazioni agricole che significheranno una perdita di 15 miliardi di dollari per il fisco, mentre l’inflazione su base annua ha ormai superato il 100%, obbligando il governo a rivedere anche gli accordi salariali con i dipendenti pubblici e quindi ad aumentare le spese più del previsto.
Debito, inflazione e crisi sociale stanno facendo sfumare le già poche speranze di rielezione per l’attuale coalizione di governo e si moltiplicano le voci che propongono la dichiarazione di un nuovo default (bancarotta). Tra le soluzioni al drastico tracollo argentino si torna a parlare di Brics+: se hanno mantenuto gli scambi commerciali con la Russia nel pieno delle sanzioni per la guerra in Ucraina, perché non sostenerli con un’Argentina in bancarotta e tagliata fuori dal sistema di Bretton Woods?
Nemmeno le relazioni diplomatiche sembrano attraversare un momento del tutto positivo. Mercoledì il governo dell’Ecuador ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore argentino dopo che si è scoperto che l’ex ministra dei Trasporti – María de los Ángeles Duarte, condannata in patria a otto anni di prigione per corruzione e rifugiatasi nell’ambasciata argentina a Quito – era riuscita a raggiungere Caracas, dove ha chiesto lo status di rifugiata alla locale sede diplomatica argentina. Il governo di Guillermo Lasso accusa Buenos Aires di aver permesso la fuga di Duarte, che aggirando tutti i controlli delle autorità ecuadoriane ha messo in ridicolo l’esecutivo. Il presidente dell’Ecuador ripropone la vecchia dicotomia tra liberali e populisti in America Latina per alleviare le proprie responsabilità: così il suo omologo argentino Alberto Fernandez sarebbe complice dell’ex presidente della sinistra ecuadoriana Rafael Correa nel garantire l’impunità a Duarte d’accordo con il presidente venezuelano Nicolás Maduro.
Un intreccio degno forse del passato protagonismo continentale dell’Argentina, che oggi sembra davvero molto lontano.


ELEZIONI IN NIGERIA [di Luciano Pollichieni]

Entrambi i partiti sconfitti alle elezioni presidenziali in Nigeria hanno annunciato di voler fare ricorso contro i risultati delle votazioni che hanno sancito la vittoria di Bola Tinubu.
Lo svolgimento delle elezioni in Nigeria non è stato lineare. Del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti? Con le regioni del nord-est oggetto delle scorribande di gruppi criminali, quelle nordoccidentali colpite dall’insurrezione dello Stato Islamico e violenze politiche diffuse, nessuno può biasimare la commissione elettorale indipendente (Inec) per non aver mantenuto gli standard garantiti. In secondo luogo, paradossalmente i ricorsi annunciati da Atiku Abubakar (candidato del People’s Democratic Party che ha raccolto il 29% dei voti) e da Peter Obi (Labour Party, 25,40% dei voti) non sono altro che il proseguimento per via giudiziaria di quella frammentazione geopolitica e identitaria che il processo elettorale ha semplicemente messo in luce.
Salvo colpi di scena, sempre dietro l’angolo nella politica nigeriana, sembra difficile che la Corte suprema possa ribaltare il risultato delle urne per almeno due motivi: primo, le obiezioni da parte degli sconfitti sono poco chiare, contraddittorie o molto generiche, come nel caso di Obi che ha denunciato un complotto ordito contro il suo partito senza spiegare da chi; secondo, l’imminenza delle prossime elezioni regionali. La Nigeria è chiamata sabato 18 marzo a eleggere 28 dei 36 governatori federali, incluso quello dello Stato di Lagos – feudo del presidente eletto Tinubu – e una pronuncia contro il risultato elettorale potrebbe generare una pericolosa reazione a catena di ricorsi anche nell’ambito delle regionali che getterebbero il paese nello stallo istituzionale, polarizzando ulteriormente l’elettorato.
Tra le numerose crisi interne e la richiesta ad Abuja da parte dei partners regionali e globali di un ruolo più proattivo nella geopolitica continentale e dell’Africa Occidentale, l’idea di un paese paralizzato per un mese in vista della pronuncia della Corte suprema non appare incoraggiante. Le elezioni vanno avanti, ma della nuova classe dirigente non c’è ancora traccia.

Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


ALTRE NOTIZIE DELLA SETTIMANA

Fonte: https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-putin-cpi-ue-terre-rare-francia-cina-aukus-argentina-fmi-nigeria/131529

 

Geopolitica e immigrazione di massa

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di Andrea Zock

Come ampiamente previsto il tema della pressione migratoria si sta ripresentando con forza. Naturalmente in questa rinnovata salienza gioca un ruolo anche l’opportunità di mettere le promesse del governo Meloni alla prova dei fatti, ma questo rientra nel legittimo gioco politico delle opposizioni (e dell’esteso apparato mediatico che ne rispecchia le posizioni).
Tuttavia il punto di fondo è che ogni crisi degli equilibri internazionali si ripercuote più severamente sugli anelli più deboli, e il doppio colpo Covid + Guerra Russo-Ucraina rappresenta la più pesante crisi dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora arriva semplicemente il conto relativo.
In Italia gli anni esplosivi dell’immigrazione sono stati quelli tra il 2011 e il 2017, e seguono la combinazione tra effetti mondiali della crisi subprime (dal 2008) e avvio delle cosiddette “primavere arabe” (dal 2010).
Il tema migratorio è il primo tema che ha esplicitato l’inadeguatezza dell’Unione Europea al ruolo di cui era stata accreditata.
Si tratta infatti di uno dei pochi temi in cui l’appello ad un’azione europea coordinata sembrerebbe la strada maestra per una soluzione, ed è parimenti un tema in cui si è manifestato nel modo più chiaro il carattere meramente predatorio e opportunista dell’UE, che si è presentata non come una potenza geopolitica, ma come un club dello scaricabarile (“beggar-thy-neighbour” policies).
In ogni singolo momento della gestione migratoria (come per ogni altro tema di rilevanza economica) abbiamo assistito ad un penoso balletto di singoli paesi o alleanze ad hoc, per sfruttare a proprio favore alcune condizioni contingenti, e lasciare gli altri “partner europei” con il cerino in mano. (Il sistema degli accordi di Dublino è esemplare a questo proposito, in quanto mirava a utilizzare i paesi di primo sbarco come “barriera naturale” per quelli interni, impedendo che si spostassero dai paesi d’arrivo a quelli più ambiti del Nord Europa.)
Il fallimento europeo peraltro è tutto tranne che inaspettato. I rapporti europei rispetto all’Africa seguono precisamente il medesimo indirizzo che informa i rapporti interni e in generale tutti i rapporti internazionali nella visione dei trattati europei: si tratta di un modello neoliberale di sfruttamento, massimizzazione del profitto e acquisizione di vantaggi competitivi a breve e medio termine. Non c’è qui nessuna visione politica, salvo la responsività alle lobby economiche interne, che in un’ottica neoliberale sono i più legittimi rappresentanti dell’interesse pubblico.
Così, i rapporti con l’Africa sono sempre stati improntati ad una politica di aiuti ad hoc, che permettevano di tenere le elité africane a catena corta, e ad una politica di trattati di scambio ineguale, che permettevano a questo o quel paese europeo di ritagliarsi un accesso favorevole ad una qualche area di risorse naturali.
E’ però importante capire qual è stata la natura specifica del fallimento europeo nella politica verso l’Africa (e più in generale verso i paesi in via di sviluppo).
Ciò che l’UE ha mancato di fare è stato di subentrare al sistema degli equilibri della Guerra Fredda, cercando di costruire nuovi rapporti di alleanza di lungo periodo.
Alla faccia degli storici della domenica che ti spiegano come “le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno”, bisogna osservare come l’epoca delle migrazioni di massa in Europa dall’area del mediterraneo inizia con la caduta dell’URSS e quindi con il trionfo nella Guerra Fredda dell’Occidente a guida americana.
Per l’Italia la data simbolica dell’inizio del “problema migratorio” è il 1991, con il grande sbarco degli albanesi nel porto di Bari.
Questo non è un caso. La Guerra Fredda, forma rudimentale di multipolarismo, cercava di contendersi i paesi in via di sviluppo, e lo faceva in vari modi, talora in forma cruenta (Corea, Vietnam), più spesso in forma di collaborazione. Questa situazione, per quanto precaria, coltivava l’interesse per una conservazione degli equilibri regionali. Nessuna “primavera araba” sarebbe potuta venire alla luce in quel contesto, perché tutti sapevano che eventuali sommovimenti interni ad un paese sarebbero stati nient’altro che mosse di uno dei due blocchi per finalità proprie. Questo equilbrio, cinico e ostile fin che si vuole, stimolava comunque l’interesse di entrambi i blocchi alla conservazione tendenziale degli equilibri nelle aree in via di sviluppo.
Con il venir meno di questo fattore equilibrante, cioè con il venir meno dell’URSS, il mondo in via di sviluppo (e anche buona parte di quello sviluppato) divenne libero terreno di caccia dei paesi in cima alla catena alimentare capitalistica (USA in testa).
A questo punto l’equilibrio regionale era molto meno importante per i decisori politici delle occasioni di profitto create dagli squilibri.
Ecco, questa prospettiva ci consente di vedere da che punto di vista potrebbe arrivare, nel medio periodo, una soluzione alla colossale questione dei processi migratori (per l’Europa).
A fronte della pelosa impotenza dell’UE, i cui colonnelli sono tutti indaffarati ad accaparrarsi piccoli vantaggi per questa o quella multinazionale di riferimento, subentrerà (sta già subentrando) una forma di competizione geopolitica simile alla Guerra Fredda.
Russia e Cina stanno già operando in questo modo verso molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in area africana. Naturalmente non lo fanno per “umanitarismo” (diffidate sempre quando uno stato afferma di muoversi per “ragioni umanitarie”). Lo fanno perché hanno una visione strategica di lungo periodo, in cui associazioni stabili con stati che siano davvero “in via di sviluppo” – e non semplicemente “condannati ad una sfrutttabile arretratezza” – è nel loro interesse.
Russia e Cina si muovono oggi come attori sovrani su uno scenario geopolitico di lungo periodo, e questo è sufficiente a rovesciare il tavolo alla cultura da “robber barons” del neoliberalismo occidentale e a instaurare un nuovo equilibrio (per quanto intrinsecamente precario).
Dunque alla fine, se qualcosa ci salverà dall’essere travolti da una migrazione incontrollata, questo sarà probabilmente proprio l’insediarsi di un nuovo equilibrio multipolare, la cui alba abbiamo davanti agli occhi.

Impero delle menzogne, operazione militare in Ucraina e fine della globalizzazione

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/01/23/impero-delle-menzogne-operazione-militare-in-ucraina-e-fine-della-globalizzazione/ pubblicato anche su Stilum Curiae, blog del vaticanista Marco Tosatti, che ringrazio: https://www.marcotosatti.com/2023/01/23/37528/

LA RUSSIA SEMBRA L’UNICO STATO COMPLETAMENTE INDIPENDENTE E SOVRANO IN UN’EUROPA COMPOSTA DI UNA MOLTITUDINE DI STATERELLI AL GUINZAGLIO DI WASHINGTON

Nella presentazione al testo “Contro l’Impero delle Menzogne – L’operazione militare speciale in Ucraina e la fine della globalizzazione nei discorsi di Vladimir Putin” di Paolo Callegari (Ed. Ar, 2022, 17 €) Claudio Mutti ricorda che già un secolo fa esistevano politici attenti e lungimiranti che dicevano: “Se si vuole forgiare l’Europa di domani, la Russia costituisce nella nostra epoca l’unico strumento ancora impiegabile: più potente di quello di cui disposero Napoleone e Hitler. Esclusa tale possibilità, e a meno che non si verifichi un evento quasi miracoloso, per l’Europa è finita. […] Contaminata nel suo sangue da una invasione straniera particolarmente prolifica, […] nel XXI secolo la piccola Europa sarà un cortile d’ospizio di contro ai sette, otto, dieci milioni di asiatici, di africani, di meticci sudamericani”.

Possiamo affermare che in questo momento la Russia sembra l’unico Stato completamente indipendente e sovrano in un’Europa composta di una moltitudine di staterelli al guinzaglio di Washington. Non solo sul suo enorme territorio non ci sono basi americane, ma anche il suo esercito non è integrato in alcuna alleanza con gli americani. Importantissimo il dato di fatto che è costituito dall’indipendenza etico-morale della Federazione guidata da Putin.

Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha detto, sulla rivista online www.strategika51.org del 30/06/2021 che c’è soltanto la Russia a difendere quei valori che, patrimonio dell’autentica civiltà europea come di ogni civiltà normale, sono oggetto dell’offensiva scatenata dai barbari d’Occidente “contro i fondamenti di tutte le religioni del mondo e contro il codice genetico delle civiltà, con l’obiettivo di abbattere tutti gli ostacoli sulla via del liberalismo. E poi ha proseguito denunciando il pericolo mortale della “guerra in atto contro il genoma umano, contro ogni etica e contro la natura”.

L’Ucraina ha una posizione geografica estremamente favorevole ai disegni egemonici yankee, tanto da divenire il terreno di scontro della strategia americana, sempre utilizzata in tutto il mondo, che è figlia della famosa teoria del geopolitico inglese Sir Halford Jhon Mackinder (1861-1947): “Chi ha il potere sull’Europa orientale domina il Territorio-Cuore (Heartland); chi ha il potere sul Territorio-Cuore domina l’Isola-Mondo (World Island); chi ha il potere sull’Isola-Mondo domina il mondo”.

Il mentore di Barack Obama, già consigliere di Jimmy Carter, dr. Zbigniew Brzezinski, erede della teoria di Mackinder, sarebbe – secondo Lavrov – la mente di un “grande gioco”, basato sulla sceneggiatura promossa proprio da questo geopolitico nell’intera crisi ucraina, che alla strategia di conquista americana serve restare divisa dalla Russia, in vista della conquista dell’Eurasia. Claudio Mutti prosegue la sua interessante analisi ricordando che “in questo contesto strategico – argomentava Brzezinski in The Grand Chessboard (1997, pag. 46) – “l’Ucraina, un nuovo e importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente aiuta a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. […]. Se Mosca riprende il controllo sull’Ucraina, coi suoi 52milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”.

Il lettore più accorto si starà chiedendo dove sia il Cattolicesimo, in un ambito espressamente ateo, anticristico e, quanto alla Russia, scismatico Ortodosso. La Dottrina Sociale della Chiesa è un tesoro spirituale, morale e pratico che dovrebbe essere materia di studio nelle scuole. San Pio X stroncò il liberalismo con la Notre Charge Apostolique (1910) ma già la meravigliosa Mirari vos di Gregorio XVI (1832), la grande eloquenza del Cardinale Pie, vescovo di Poitiers, le Allocuzioni di Papa Pio IX con la Quanta Cura ed il Sillabo (1864 entrambe) promulgate durante il Concilio Vaticano I furono un trionfo di mirabile saggezza e diffusione della verità, confutando tutti gli errori della peste liberale.

Nel solco dei predecessori andò con particolare decisione Papa Leone XIII, ma anche e in maniera assai determinata Benedetto XV, Pio XI e Pio XII. Il primo punto al quale approdiamo è che il Liberalismo cattolico – che in epoca moderna risale a Lamennais, passa da Maritain e si infiltra lentamente nel pensiero di alcuni cattolici. Possiamo riassumere dicendo che esso consiste in una attitudine di conciliazione della verità cattolica con i dogmi massonici del progressismo o globalismo politici, filosofici, economici, sociali. La grande secolarizzazione, iniziata da circa un secolo, impedisce a molti cattolici di essere scudo, armatura e spada divinamente assistita, per la difesa dal Principe di questo mondo.

Noi che non ci rassegniamo, perché sappiamo che le porte degli Inferi non prevarranno, ci chiediamo se sia possibile una Civiltà cattolica vera ed integralmente vissuta in questo regno dell’immoralità e della menzogna! Ne “La Città di Cristo e la città dell’Anticristo” don Julio Meinvielle, già nel 1945 (riedizione a cura di Effedieffe, 2022) cerca risposte concrete.

Assorbire o tentare di conciliare le regole della Rivoluzione francese, i principi della Massoneria, del liberalismo, del comunismo, dello scientismo, del razionalismo, del socialismo, del consumismo con il Vangelo di Cristo Re è un’opera impossibile. Sarebbe come unire verità ed errore e negare il principio di non contraddizione. Ciascuno nel proprio piccolo cerchi di “instaurare omnia in Christo” (S. Pio X) oltre e contro le tentazioni di questo mondo corrotto dal peccato mortale elevato a virtù teologale.

Conduciamo una vita pienamente cristiana e integralmente unita alla Tradizione della Chiesa Cattolica. Così ci manterremo nel “piccolo gregge rimasto fedele”. Nostro compito è rimanerci con costanza, non ridurlo maggiormente per le nostre miserie umane. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Cfr. Lc 12,32-40).

Kissinger complice dei crimini contro l’Ucraina?

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/05/30/kissinger-complice-dei-crimini-contro-lucraina/

ESISTONO ALMENO 3 “ELEMENTI CHE DURANO NEL TEMPO” ALL’INTERNO DI UN PAESE, CHE NON MUTANO MAI E VANNO SEMPRE PRESI IN CONSIDERAZIONE NEL MOMENTO DI COMPIERE SCELTE STRATEGICHE: TERRA, STORIA E TRADIZIONI

L’inglese Halford Mackinder (1861-1947), uno dei padri della moderna geopolitica, definiva l’Eurasia come cuore geopolitico e geostrategico del mondo, unità organica nata dal rapporto stretto tra i mondi russo e turco-musulmano. La sua celebre teoria dell’Heartland (traducibile come Terra-Cuore), cioè un’area geografica il cui controllo avrebbe consentito di dominare l’intero mondo, veniva individuata al centro del supercontinente eurasiatico.

Nella sua prima pubblicazione sul “The Geographical Journal” nel gennaio del 1904, Mackinder sosteneva che esistessero degli “elementi che durano nel tempo”, all’interno di un Paese, che non mutano mai e vanno sempre presi in considerazione nel momento di compiere scelte strategiche. Pena la sconfitta. Esse sono: 1) il luogo geografico, 2) il contesto storico, 3) le tradizioni di un popolo.

Mackinder individuò nella zona della Russia tra Europa ed Asia, il nuovo fulcro geopolitico mondiale. Si tratta della pianura che si estende dall’Europa centrale fino alla Siberia occidentale, che ha una posizione strategica sul Mar Mediterraneo, Medio Oriente, Asia meridionale e Cina. Egli individuò in questa zona l’Heartland (zona centrale, cuore della terra), perché, da allora in avanti, chi l’avesse controllata, avrebbe guadagnato il dominio di Eurasia ed Africa, blocco da lui chiamato “Isola mondiale”. Mackinder, di fatto, fa proprie le parole di Sir Walter Raleigh che si era espresso così: «Chi possiede il mare, possiede il commercio mondiale; chi possiede il commercio, possiede la ricchezza; chi possiede la ricchezza del mondo possiede il mondo stesso».

Negli Stati Uniti, Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Carter, fece uscire The Great Chessboard (La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana), un libro che influenzò come pochi altri le analisi e le strategie statunitensi per l’Eurasia alle soglie del XX secolo. Lo studioso italiano Davide Rognolini scrive, già il 18 Aprile 2017 sull’Istituto di Politica, che il pensatore di origini polacche fornì il quadro entro cui da allora è stata pensata la continuità della politica estera statunitense all’epoca aurorale del “momento unipolare”, fornendo le coordinate di medio e lungo periodo con cui si sono misurati analisti e studiosi di politica internazionale di ogni orientamento.

A partire dal suo Out of Control: Global Turmoil on the Eve of the 21st Century (Il mondo fuori controllo), pubblicato nel 1993, all’indomani della dissoluzione dell’URSS, il suo pensiero geostrategico era connotato da un’insoddisfazione teorica verso due opposte teorie occidentali dominanti: quella ottimistica espressa da Fukuyama da un lato, e quella pessimistica di impronta neo-conservatrice sul destino di collisione dell’Occidente coi suoi nemici dall’altro. Né il determinismo di una felice globalizzazione delle democrazie liberali, né il fatalismo di una politica della forza, avrebbero consentito di plasmare adeguatamente un ruolo egemone mondiale per gli Stati Uniti. Come avrebbe riconosciuto ex post 10 anni dopo nel suo Second Chance. Three Presidents and the Crisis of American Superpower, alla leadership globale americana serviva una legittimazione morale, senza remore verso alcuna accusa di strumentalità: i diritti umani e civili sarebbero stati elevati perciò a priorità globale. Ogni impero abbisogna di un mito fondativo originario; ogni aspirante impero di una giustificazione mitizzante per la sua azione storica presente. Ecco il perché di questa ossessiva propaganda occidentale sui cosiddetti “diritti civili”, a costo della compressione dei diritti fondamentali e naturali, declassati a vecchiume retrogrado e reazionario.

Nella seconda metà degli anni 90’, la posizione geostrategica classica di Mackinder veniva con Brzezinski restaurata per farne la base materiale della leadership globale statunitense. A seguito della prima guerra del Golfo, l’Heartland mackinderiano, esteso dal Golfo Persico alla regione siberiana, diventava la scacchiera su cui sfidare i suoi principali attori aspiranti al rango di egemoni regionali o globali: Russia e Cina, con i loro pedoni, alfieri e torri, ne rappresentavano i giocatori avversari. Dal punto di vista di Brzezinski, la vittoria su questa “Grande Scacchiera” sarebbe dipesa dalla capacità degli Stati Uniti di compiere alcune mosse verso il cuore del continente eurasiatico.

L’Europa, come avrebbe ribadito in un articolo apparso su “Foreign Affairs” pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, altro non era che “la testa di ponte” dell’America sul continente, consentendo a Washington di avanzare sulla “Grande Scacchiera” attraverso il rafforzamento dei rapporti euro-atlantici e l’allargamento della NATO. L’ancoraggio dell’Ucraina all’Unione Europea era già riconosciuto come parte integrante di tale mossa, scongiurando il ritorno di Kiev nelle braccia di Mosca, temuto dal giocatore statunitense. Infine, la grande mossa per conseguire uno scacco matto nella regione eurasiatica: la prevenzione geostrategica e diplomatica dello scenario descritto come “più pericoloso” per la partita egemonica statunitense, rappresentato da una coalizione tra Russia, Cina ed Iran, che avrebbe de facto preso forma attraverso un rafforzamento della SCO e il “Pivot verso l’Asia” della Russia a seguito dello scoppio della “Seconda Guerra Fredda”. Oggi gli Stati Uniti cessano di essere un “potere imperiale globale” a fronte dello smottamento tettonico in corso nel Medio Oriente e in Eurasia; secondariamente, la crescita costante della Cina rappresenta la più solida minaccia estera all’egemonia statunitense sul lungo periodo quale suo “eventuale pari e probabile rivale”. Le mosse sulla “Grande scacchiera” appaiono dunque meno prevedibili che ai giocatori e osservatori di 25 anni fa.

È a buona ragione che lo stesso politologo polacco-statunitense, entusiasta sostenitore anti-comunista dello smembramento dell’URSS, diceva di aver tratto da Marx un’importante lezione: la coscienza arranca di fronte alla realtà storica in mutamento. Di fronte agli stessi attori, i giochi geopolitici sullo scacchiere eurasiatico sono oggi in balìa di un confronto epocale per gli equilibri dell’‘Isola-Mondo’, inediti rispetto a quelli delineati in The Great Chessboard.

In questo nuovo scenario, mutato in grande debolezza statunitense, a fronte di un’ Eurasia divenuta Superpotenza globale, è l’anziano ex Segretario di Stato Henry Kissinger a completare l’opera, in linea con il pensiero di Mackinder e Brzezinski, adeguandolo all’era presente. Intervenuto al World Economic Forum e citato da diversi media internazionali, fra cui il britannico Telegraph, Kiev deve “avviare negoziati prima che si creino rivolte e tensioni che non sarà facile superare“.

Kissinger ha aggiunto che, “idealmente, il punto di caduta dovrebbe essere un ritorno allo status quo ante” di prima del conflitto. “Continuare la guerra oltre quel punto non riguarderebbe più la libertà dell’Ucraina, ma una nuova guerra contro la stessa Russia“, ha aggiunto l’anziano politico e diplomatico Usa. Kissinger ha ricordato come la Russia sia parte dell’Europa e che sarebbe un “errore fatale” dimenticare la posizione di forza che occupa nel Vecchio continente da secoli e che l’Occidente non deve perdere di vista il rapporto di lungo termine con Mosca, pena un’alleanza permanente e sempre più forte di quest’ultima con la Cina. “Spero che gli ucraini siano capaci di temperare l’eroismo che hanno mostrato con la saggezza“.

La risposta al discorso del 98enne diplomatico americano, è arrivata a stretto giro: il sito ucraino Mirotvorets ha definito Kissinger come “complice dei crimini contro l’Ucraina“. Saggezza vorrebbe, invece, come sottende Kissinger, l’accettazione di un mondo multipolare da porre sullo scacchiere globale, per continuare il “gioco”, in pace.

 

Dietro la lavagna

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FUORI DAL CORO

di Toni Capuozzo

Ieri sera, nel collegamento con Quarta Repubblica, avevo alle spalle una vecchia lavagna, perché stavo in un’aula scolastica. Guardandola, mi tornava alla mente quella della mia classe elementare, e le volte che finivo per punizione nello stretto spazio tra il muro e la lavagna, cancellato al resto della classe. Castighi che non mi hanno indebolito, anzi. Ci finisco quasi sempre, ancora oggi e di nuovo ieri sera, dietro a una lavagna. Come da bambino, non funziona: avrei bisogno di essere convinto, non aggredito. E avrei bisogno di quella lealtà, perfino nella punizione, che alla maestra mancava.

1) Capezzone – fortuna che mi stima, figurarsi se fosse il contrario – mi accusa di aver parlato di “messinscena” sui massacri di Bucha. Sa che non è vero. Io ho posto domande e sollevato perplessità sui morti ripresi per strada, non sulle 300 e più vittime ritrovate nelle fosse comuni. Sa che ho posto delle domande:  forse irriguardose, forse più scomode di quelle che lui pone alla viceministro ucraina. Come mai quei morti, che addirittura sarebbero rimasti sull’asfalto per tre settimane, non erano stati sepolti ? Come mai il Corriere della Sera non aveva rivolto questa domanda al becchino di Bucha ? Come mai nessuno ci aveva detto dell’operazione di bonifica della squadra speciale ucraina chiamata Safari ? Come mai accanto ai poveri corpi mai sangue, né bossoli ? Come mai alcuni corpi avevano accanto razioni alimentari russe, e qualche volta dei bracciali bianchi ?  A queste e molte altre domande non è mai stata data risposta.

2) Matteo Renzi, con più gentilezza di Capezzone, mi attribuisce “neutralità”. Non l’ho mai detto. Ho detto che mi sarebbe piaciuto che  l’Italia si ricavasse un ruolo di mediatore, pur ovviamente condannando l’invasione, ma lasciando che a dare le armi fossero altri, come fanno senza lesinare americani e inglesi. Armi e mediazioni insieme,  è difficile.

3) La viceministra ucraina non ha risposto alle due domande due che le avevo posto, sulla legge di confisca beni e sul monito ai giornalisti che intendessero raccontare l’altra faccia della medaglia.
Detto questo, sto meglio dietro la lavagna che sui banchi di un’informazione che ha impiegato giorni a chiamare “resa” quella dell’Azovstal, perché “evacuazione” suonava meglio agli occhi della propaganda.  Per essere convinto senza insulti, slealtà, castighi, avrei bisogno di risposta ad altre domande, sulla corsa agli armamenti, sulla giustizia di guerra di entrambe le parti, sulle pachidermiche lentezze dell’Unione europea e sulla sveltezza della Nato.

Per essere chiaro amo l’Occidente, e ho sofferto la sconfitta afghana, pagata dalle donne. Ma non riesco a vedere dove ci porta questa nuova avventura, dopo quel disastro e i disastri libici e iracheni, somali e balcanici. Salvata l’Ucraina dalla resa (grazie agli ucraini e alle armi e alla intelligence americane), libera Kiev e libero Zelenskj e i suoi, non sarebbe ora di negoziare? O pensate sia troppo presto, che  Putin non sia abbastanza umiliato e punito ?  Il libro dei sogni prevede che Putin si ravveda, ritiri le truppe alla casella di partenza e l’Ucraina possa liberamente dedicarsi alla guerra civile del Donbass, iniziata nel 2014. Siccome non succede,  quanta guerra ancora ?  Avanti Crimea,  direbbero Capezzone e la viceministra, imbarazzata  dalle feroci domande dell’onorevole.

Siate intellettualmente onesti: la Storia non inizia il 24 febbraio 2022

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QUINTA COLONNA

di Amerino Griffini

Fonte: Amerino Griffini

Tutti (o quasi) privi di memoria storica. Ma basta andare a razzolare tra vecchi scritti per scoprire che più di vent’anni fa non c’era solo quel filo-sovietico di Giulietto Chiesa o quei birbaccioni con scheletri negli armadi di Franco Cardini, il Griffini che scrive qui e i loro amici da una vita, a dire che l’imperialismo USA è il nemico dell’umanità e la NATO il suo braccio armato. Per dirla tutta, noi lo stiamo dicendo dagli anni Sessanta, e giusto perché allora eravamo giovincelli;  nati qualche anno prima e lo avremmo detto dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’incipit per dire che ho trovato un saggio di due analisti di geopolitica e docenti di Fisica, Paolo Cotta-Ramusino e Maurizio Martellini, datato 1999. Attenzione: 1999, 23 anni fa. Titolo: “L’atomica in casa: a che ci servono le bombe”. Sottotitolo: “La guerra fredda è finita, ma non il pericolo nucleare. In Europa sono stanziate circa 180 armi atomiche americane, disseminate in sette paesi, fra cui l’Italia. I rischi di proliferazione e la tensione con la Russia”.
Estrapolo dal saggio questo passo:
“Se paesi economicamente e politicamente importanti come quelli dell’Europa occidentale, che non sono minacciati da nessun rischio militare evidente da parte di nessuno Stato, considerano di fatto essenziale per la propria sicurezza la presenza sul proprio territorio di un certo numero di bombe nucleari, cosa dire delle nazioni che si trovano in situazioni strategiche difficili e devono affrontare minacce reali da parte dei paesi confinanti?
E’ evidente che questo problema riguarda anche il rapporto tra gli Stati europei e la Russia. L’allargamento della NATO ad est ha creato una situazione difficile per la Russia. I confini dell’Alleanza si stanno avvicinando a quelli della Russia e paesi precedentemente alleati all’Unione Sovietica ora appartengono ad un’alleanza militare che esclude la Russia. Altre nazioni che facevano parte del Patto di Varsavia, se non della stessa Unione Sovietica, come i baltici, stanno premendo per entrare a far parte della NATO. In questa difficile situazione è stato sollevato il problema specifico delle armi nucleari collocate in Europa. In particolare, si è chiesto: verranno installate armi nucleari nei nuovi paesi membri della NATO e, di conseguenza, le armi nucleari tattiche americane saranno spostate più vicino ai confini della Russia?
(…) Per capire la crescente ostilità politica tra la NATO e la Russia basta osservare il drammatico susseguirsi degli eventi di questi ultimi tempi. Prima abbiamo avuto l’intervento militare anglo-americano in Iraq, al di fuori di qualsiasi contesto internazionale concordato. Poi c’è stato l’allargamento della NATO a tre paesi un tempo membri del Patto di Varsavia. E subito dopo, gli attacchi della NATO contro la Jugoslavia, che hanno dimostrato la determinazione dell’Alleanza atlantica nel “ripristinare l’ordine” ovunque in Europa, anche se questo significa un intervento militare oltre i confini dell’area della NATO stessa. Dal punto di vista della Russia questo atteggiamento evoca lo spettro di futuri interventi della NATO in conflitti locali, anche nelle regioni dell’ex Unione Sovietica. Sottovalutare le tensioni tra la Russia e la NATO potrebbe essere un errore dalle conseguenze pesanti, mentre, per contro, sarebbe opportuna intraprendere tutte le misure che possano alleviare la tensione e ridurre l’ostilità tra russi e occidentali”.
Ciò 23 anni fa. Fate un salto di tutto ciò che è successo poi in questo arco temporale e valutate onestamente cosa poteva aspettarsi la Federazione russa dopo anni – in Ucraina – di persecuzione dei russofoni, dei divieti dell’uso della loro lingua, delle stragi, delle violenze di tutti i tipi da parte del Reggimento Azov e delle altre milizie della Guardia nazionale.
Condite tutto ciò con l’arrivo sulla scena mondiale di Biden con la sua senescenza e il timore di perdere elezioni e ruolo dominante degli USA nel mondo; unite a ciò tutti gli anni  nei quali sono stati inviati istruttori militari, miliardi di dollari per armi e per imbrigliare l’economia ucraina in modo allettante e ricattatorio. Mancava solo l’ultimo atto prima della fine: la tragedia o la resa.  Erano legittimi i timori della Russia?
Davvero: la Storia non inizia il 24 febbraio 2022. Siate onesti!

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