I fattori dietro la (sorprendente) tenuta economica della Russia

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di Giacomo Gabellini

Fonte: l’AntiDiplomatico

L’offensiva militare, economica, finanziaria e commerciale scatenata dal cosiddetto “Occidente collettivo” contro la Federazione Russa nasce da una palese sottovalutazione «della coesione sociale della Russia, del suo potenziale militare latente e della sua relativa immunità alle sanzioni economiche». L’intera campagna sanzionatoria imposta da Stati Uniti ed Unione Europea, in particolare, si fondava sulla previsione che la Russia non sarebbe stata in grado di reggere un lungo periodo di pressione economica e finanziaria esterna, in virtù della debolezza strutturale, dell’arretratezza e degli squilibri che caratterizzano il suo sistema produttivo.

I dati indicano che, alla fine del febbraio 2022, la Russia registrava un debito pubblico corrispondente ad appena il 12,5% del Pil, una posizione finanziaria netta fortemente positiva e riserve auree pari a circa 2.300 tonnellate. L’oro riveste una rilevanza particolare, trattandosi del tradizionale “bene rifugio” che tende sistematicamente a rivalutarsi proprio in presenza di congiunture critiche come quella delineatasi per effetto dell’attacco all’Ucraina. Stesso discorso vale per tutte le commodity di cui la Russia è produttrice di primissimo piano, dal petrolio al gas, dall’alluminio al cobalto, dal rame al nichel, dal palladio al titanio, dal ferro all’acciaio, dal platino ai cereali, dal legname all’uranio, dal carbone all’argento, dai mangimi ai fertilizzanti.

L’incremento combinato dei prezzi delle materie prime e dei prodotti raffinati i cui mercati risultano fortemente presidiati dalla Federazione Russa – la cui posizione si è ulteriormente rafforzata con l’incorporazione dei giacimenti di carbone, ferro, titanio, manganese, mercurio, nichel, cobalto, uranio, terre rare di vario genere e idrocarburi non convenzionali presenti nei territori delle repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k – ha per un verso penalizzato enormemente la categoria dei Paesi importatori netti, in cui rientra gran parte dell’“Occidente collettivo”. Per l’altro, ha assicurato alla Russia un volume di proventi talmente imponente da attenuare in maniera sensibile l’impatto dirompente prodotto dal congelamento delle riserve russe detenute presso istituzioni finanziarie estere.

I settori dell’economia russa ad alto valore aggiunto

Le principali categorie merceologiche di cui si compone l’export russo (petrolio, gas, materie prime, prodotti agricoli) delineano i contorni di un’economia non all’avanguardia, ma il discorso cambia completamente se si tengono in debita considerazione sia le punte di eccellenza raggiunte dal Paese in campo nucleare, aerospaziale, informatico e militare, sia il volume assai considerevole di entrate assicurato allo Stato dalla vendita all’estero di macchinari ed equipaggiamenti. Le attuali economie avanzate, strutturatesi nella forma odierna sulla base degli indirizzi strategici affermatisi a partire dagli anni ’80, poggiano soprattutto su attività ad alto valore aggiunto riconducibili al settore terziario, che apportano un contributo alla formazione del Pil di gran lunga superiore a quello assicurato dai comparti ricompresi nei settori primario e secondario. Nelle economie moderne, servizi finanziari e assicurativi, consulenze, nuovi sistemi di comunicazione e design risultano predominanti rispetto ad agricoltura, manifattura, estrazione di idrocarburi e minerali.

Un Paese come gli Stati Uniti può quindi contare sul colossale apporto alla “produzione di ricchezza” fornito dalle spese sanitarie gonfiate a dismisura, dalla crescita esorbitante delle cause legali fittizie che arricchiscono interi eserciti di avvocati, dal sistema carcerario privatizzato che fa lobby al Congresso per ottenere leggi in grado di garantire il maggior numero di detenuti possibile, ecc.

Alcuni economisti sia europei che statunitensi si sono addirittura spinti a sostenere l’integrazione della prostituzione e del traffico di stupefacenti nel paniere dei servizi che concorrono alla formazione del Pil.

I (veri) dati dell’economia russa

Se, come evidenziano i dati della Banca Mondiale, in termini di Pil nominale l’economia russa (1.779 miliardi di dollari nel 2022) risulta paragonabile per dimensioni a quella italiana (2.108 miliardi), sotto il profilo della parità di potere d’acquisto (4.808 miliardi, contro i 2.741 dell’Italia) tende invece ad avvicinarsi a quella tedesca (4.848 miliardi). Ma, evidenzia l’economista Jacques Sapir, neppure il Ppa riflette appieno la rilevanza della Federazione Russa, i cui vantaggi strategici connessi a “stazza”, posizione geografica e struttura economica a trazione agricolo-industriale-edilizia le conferiscono una capacità di resistenza pressoché inconcepibile per ogni altro Paese.

L’economia della Russia, che con una popolazione universitaria di 2,2 volte inferiore rispetto a quella degli Stati Uniti forma il 30% di ingegneri in più, si incardina infatti su produzioni fondamentali, perché necessarie alla soddisfazione dei bisogni primari. Idrocarburi, metalli, cereali, fertilizzanti, mangimi sono risorse imprescindibili per garantire riscaldamento e sicurezza sia alimentare che energetica.

Condizioni assicurate in periodi di stabilità, ma che divengono improvvisamente vacillanti in presenza di congiunture geopolitiche altamente conflittuali, in cui si riscopre il primato di petrolio, gas, alluminio, nichel, grano, ecc. rispetto a tutto il resto. La rivista «The American Conservative» nota in proposito che: «la spettacolare crescita dei settori ad alta intensità di capitale, insieme alla loro ricchezza nominale e produttività, ha portato molti a Washington e in varie capitali occidentali non solo ad abbracciarli, ma anche a preferirli politicamente, culturalmente e ideologicamente. Noi americani siamo particolarmente orgogliosi, ad esempio, del successo dei nostri giganti della tecnologia come motori di innovazione, crescita e prestigio nazionale. Internet e le varie applicazioni per gli smartphone sono considerate da molti intrinsecamente democratizzanti, fungendo effettivamente da canale di diffusione per i valori americani e di promozione degli interessi nazionali statunitensi. Questo amore per i settori dei servizi si traduce in una tendenza a identificare le industrie ad alta intensità di manodopera del passato – energia, agricoltura, estrazione di risorse, produzione – come reliquie del passato. Ma questa prospettiva distorta ci ha lasciato impreparati per un mondo in cui i beni tangibili sono ancora una volta di vitale importanza, come dimostrato plasticamente dalla guerra in Ucraina».

 

 

Il conflitto in Ucraina: i numeri del complesso militare industriale

Come ha dichiarato nel febbraio 2023 il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, lo schieramento atlantista aveva fino a quel momento assicurato all’Ucraina un’assistenza militare, finanziaria e umanitaria senza precedenti, quantificata in 120 miliardi di dollari. Il trasferimento di materiale bellico a Kiev si è rivelato talmente ingente da svuotare letteralmente gli arsenali di molti Paesi membri della Nato. La Danimarca ha consegnato tutti e 19 gli obici semoventi di fabbricazione francese Caesar in proprio possesso. Il Ministero della Difesa tedesco ha ammesso che, qualora si fosse ritrovata a combattere una guerra ad alta intensità come quella russo-ucraina, la Germania avrebbe esaurito le munizioni nell’arco di appena due giorni. Stesso discorso vale per Francia e Gran Bretagna, mentre il Pentagono ha avanzato dubbi circa la capacità degli Stati Uniti di continuare a rifornire l’Ucraina senza distogliere armi ed equipaggiamenti da teatri di primario interesse quali quello del Mar Cinese meridionale. Alla fine del 2022, rilevava il Royal United Services Institute britannico, il Dipartimento della Difesa statunitense aveva ceduto all’Ucraina «circa un terzo delle riserve di missili anticarro Javelin e di quelli antiaerei Stinger: ripianare tali scorte richiederà rispettivamente 5 e 13 anni». Per quanto concerne le munizioni dei lanciarazzi campali multipli Himars, «a fronte di una produzione di 9.000 razzi all’anno, le forze armate ucraine ne consumano almeno 5.000 al mese».

Nemmeno il rapido e imponente incremento (500%) della produzione di proiettili d’artiglieria realizzato dal “complesso militar-industriale” è risultato sufficiente a compensare l’erosione delle riserve strategiche di armi e munizioni a disposizione degli Usa. Al punto da indurre Washington a rivolgersi alla Corea del Sud, il cui governo ha «accettato di fornire in prestito agli Stati Uniti 500.000 proiettili di artiglieria da 155mm che non saranno però forniti a Kiev ma consentiranno all’Us Army di non depauperare troppo le sue riserve di munizioni ridottesi in seguito alle massicce forniture all’Ucraina». Come ha riconosciuto Stoltenberg, «il nostro attuale ritmo di produzione delle munizioni è di molte volte inferiore al livello di consumo da parte dell’Ucraina», che risulta a sua volta enormemente ridotto rispetto a quello della Russia. La quale è riuscita a sparare fino a 50.000-60.000 proiettili d’artiglieria al giorno a fronte dei 5.000-6.000 esplosi dall’Ucraina e – secondo fonti di intelligence britanniche riportate dal «Washington Post» – a produrne nell’arco del 2022 qualcosa come 1,7 milioni di unità, contro le 180.000 fabbricate dagli Usa. Segno di una capacità industriale notevolissima, supportata da catene di approvvigionamento di materiali critici e componentistica solide e perfettamente funzionanti.

Il finanziamento dello sforzo bellico, per di più, non ha comportato alcuna distorsione della struttura economica russa; lo si evince da una stima formulata da una fonte “al di sopra di ogni sospetto” come l’«Economist», secondo cui le spese militari sostenute da Mosca nel corso del primo anno di guerra avrebbero assorbito circa 67 miliardi di dollari, pari ad “appena” il 3% del Pil russo. Una percentuale tutto sommato modesta, specialmente se raffrontata a quelle raggiunte sia dall’Unione Sovietica (61%) che dagli Stati Uniti (53%) nelle fasi più acute della Seconda Guerra Mondiale.

La vera forza dell’arsenale difensivo a disposizione della Russia risiede quindi nelle caratteristiche della sua struttura economica nella centralità che il Paese riveste rispetto al commercio internazionale, oltre che nell’indisponibilità del resto del mondo ad aderire alla campagna sanzionatoria imposta dal cosiddetto “Occidente collettivo”. Nonché dall’attivismo della Repubblica Popolare Cinese; di fronte al deflusso delle multinazionali occidentali dal Paese, Mosca ha reagito non soltanto nazionalizzandone gli asset e affidando la gestione degli stabilimenti sottoposti a confisca ad amministratori esterni secondo una logica di preservazione della continuità aziendale implicante necessariamente anche il sequestro dei brevetti (in assenza dei quali la produzione rimane pressoché impossibile), ma anche schiudendo le porte del mercato nazionale alle società sia pubbliche che private cinesi. Le quali hanno prontamente occupato gli spazi lasciati vuoti – soltanto parzialmente – dalle aziende europee e statunitensi, e costituito allo stesso tempo alleanze strategiche con le imprese locali operanti nei cruciali settori energetico, minerario e metallurgico.

Tutti aspetti, questi ultimi, che politici e specialisti di spicco del cosiddetto “Occidente collettivo”, persuasi che le misure punitive “da fine del mondo” avrebbero condannato la Russia all’isolamento e alla bancarotta nell’arco di poche settimane, non sono stati minimamente in grado di prevedere, nell’ambito di quello che l’economista Patricia Adams considera «il più monumentale errore di calcolo della storia moderna».

Lo stato dell’economia Usa: verso il punto di non ritorno?

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di Giacomo Gabellini

Fonte: L’Antidiplomatico

Gli Stati Uniti hanno un serio problema di statistiche, specialmente in materia di rilevazione della disoccupazione. Nonostante le autorità di Washington e i mezzi informativi continuino a parlare di “miracolo occupazionale”, i dati indicano che su una popolazione di circa 332 milioni di persone e una forza lavoro che alla fine di gennaio annoverava 265,92 milioni di individui, ben 100,130 milioni di adulti risultavano inoccupati. Il tasso di partecipazione della forza lavoro alla crescita economica oscilla ormai da anni tra il 62 e il 63%, attestandosi ai livelli più bassi dalla fine degli anni ’70, quando ancora si avvertiva pesantemente l’impatto generato dallo sganciamento del dollaro dall’oro e dagli shock petroliferi.

L’economista e statistico John Williams ha richiamato l’attenzione sull’inadeguatezza dei metodi di rilevazione impiegati dalle autorità nazionali, evidenziando che il tasso ufficiale di disoccupazione (U-3) adoperato dalla Federal Reserve tiene conto soltanto del totale dei disoccupati in percentuale rispetto alla forza lavoro. Il Bureau of Labor Statistics (Bls) prende invece in esame un bacino più ampio (U-6), ricavabile dalla sommatoria tra il numero dei disoccupati e l’ammontare complessivo degli individui impiegati con contratti part-time ma anelanti a lavorare a tempo pieno, oltre al computo delle persone che hanno lavorato per un certo periodo negli ultimi 12 mesi ma che al momento non lavorano né sono alla ricerca di un’occupazione e soffrono di questa condizione di disagio dovuta al particolare stato del mercato del lavoro. Nell’ottica di Williams, una statistica capace di riflettere il reale stato occupazionale del Paese deve tassativamente ricomprendere tanto il tasso U-6 quanto i lavoratori scoraggiati di lungo termine.

Qualora Federal Reserve e Bls applicassero un simile metodo di rilevazione, il tasso di disoccupazione effettivo lambirebbe attualmente la soglia critica del 24,5%. Una percentuale di ben sette volte superiore al tasso ufficiale stimato dalla Fed (3,4%), che ridicolizza la narrazione dominante propugnata da istituzioni e organi di stampa circa il “rivoluzionamento” del mercato del lavoro statunitense, asseritamente passato dall’offrire appena un posto di lavoro per ogni 3,1 disoccupati nel dicembre 2012 a garantire due posti di lavoro per ogni disoccupato nel dicembre 2022. Il rapporto tra disoccupati e posti di lavoro disponibili rappresenta un indicatore tutt’altro che affidabile, perché si presta a una serie di distorsioni particolarmente insidiose. Tanto per cominciare, non tiene conto dei criteri di accessibilità, né del fatto che molti statunitensi svolgono due o addirittura tre lavori simultaneamente.

Allo stesso tempo, l’entità del dato concreto relativo alla disoccupazione ridimensiona enormemente la spinta equilibratrice prodotta dai fenomeni in forte crescita della sindacalizzazione – giunta a coinvolgere gli impiegati presso colossi quali Amazon, Alphabet, Microsoft e Starbucks – e degli scioperi. Il marxiano “esercito di riserva” del capitale rimane assai cospicuo, e continua a fungere – a dispetto della ostentata crescita dei salari reali registrata nel 2022 – da calmieratore delle retribuzioni. L’ostentata crescita dei salari nominali registrata nel 2022 è infatti stata ampiamente compensata dall’aumento vertiginoso dei prezzi al consumo, delle bollette elettriche, delle auto (sia nuove che usate), del carburante e dei generi alimentari verificatosi entro lo stesso arco temporale. Si parla di un crollo dei salari reali pari all’1,7% su base annua, tradottosi non in un proporzionale e concomitante decremento dei consumi, ma in un colossale ridimensionamento degli “accantonamenti prudenziali”.

Combinandosi alla penalizzazione del consumo prodotta dai provvedimenti governativi atti a limitare la diffusione del virus Covid-19, le misure straordinarie a sostegno di famiglie e imprese approvate in seguito allo scoppio della crisi pandemica dall’amministrazione Biden in accordo con il Congresso hanno agevolato un ingente accumulo di risparmi da parte della popolazione statunitense che tendevano ad assottigliarsi in coincidenza con ogni singola riapertura. Lo si evince dai dati, attestanti la sincronia tra le chiusure e i maggiori incrementi della percentuale di risparmio rispetto al reddito. All’aumento dall’8,7 al 26,4% tra il quarto trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2020 fece seguito un crollo al 13,7% al quarto trimestre dello stesso anno. Si verificò quindi una risalita al 20,4% al primo trimestre 2021, anticipatrice di una caduta rovinosa e costante che ha ridotto la disponibilità di risparmi rispetto al reddito ad un “misero” 2,9% alla fine del quarto trimestre 2022.

All’aumento incontrollato dell’inflazione, alimentata dalla doppia spinta esercitata dai sostegni straordinari alla popolazione erogati dal governo e da una bulimia di consumo non compensata da produzione autoctona, la Federal Reserve reagì intraprendendo un processo di “normalizzazione monetaria” implicante l’aumento graduale dei tassi di interesse associato a una brusca stretta creditizia.

Per i nuclei famigliari che avevano beneficiato dei sussidi pubblici e dei tassi a zero applicati in epoca pandemica dalla Federal Reserve per contrarre mutui immobiliari, la manovra della Fed si è tradotta in un vero e proprio bagno di sangue, perché ha comportato un drastico aumento degli oneri debitori a carico di nuclei familiari con disponibilità di risparmio già falcidiate dall’inflazione. La situazione appare enormemente problematica, specialmente alla luce dei dati emersi da un recente sondaggio condotto da Lending Club secondo cui il 64% dei consumatori statunitensi — circa 166 milioni di persone — si vede costretto ad operare sistematici razionamenti alle proprie spese, e il 51% dei cittadini statunitensi (contro il 42% registrato lo scorso anno) che percepisce un reddito annuo pari o superiore ai 100.000 dollari non riesce ad accantonare il becco di un dollaro.

All’atto pratico, più che a placare le fiammate inflazionistiche e le rivendicazioni salariali, l’incremento tendenziale dei tassi varato dalla Federal Reserve sembra rispondere alla necessità tassativa che gli Usa hanno di richiamare capitali dall’estero per finanziare i loro squilibri strutturali. Gli Stati Uniti hanno chiuso il 2022 con un disavanzo commerciale pari a 1.181 miliardi di dollari, un deficit di bilancio pari a 1.400 miliardi di dollari e un debito federale pari a 31.420 miliardi di dollari. Ma non è tutto. Dopo esser migliorata, passando da 18.124,293 a 16.285,837 miliardi di dollari di passivo (-1.838,456 miliardi) tra il quarto trimestre del 2021 e il secondo trimestre del 2022, la loro posizione finanziaria netta è tornata a peggiorare rapidamente, giungendo a 16.710,798 miliardi di dollari di passivo nel terzo trimestre 2022 (+424,961 miliardi), nonostante l’immane deflusso di capitali dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico verificatosi in seguito alla degenerazione del conflitto russo-ucraino.

I dati indicano che, tra il settembre e l’ottobre 2022, l’esposizione in Treasury Bond statunitensi del Giappone era diminuita da 1.120,2 a 1.064,4 miliardi di dollari; quella della Repubblica Popolare Cinese, da 933,6 a 877,8 miliardi; quella del Regno Unito, da 664,8 a 641,3 miliardi; quella delle Isole Cayman, da 301,5 a 291,5 miliardi; quella del Lussemburgo, da 299,6 a 298,1 miliardi; quella della Svizzera, da 277,7 a 258,4 miliardi; quella dell’Irlanda, da 265,4 a 244,9 miliardi; quella del Brasile, da 226,4 a 220,1 miliardi; quella di Taiwan, da 216,9 a 214,6 miliardi; quella di Singapore, 177,5 a 175,8 miliardi; quella della Corea del Sud, da 105,3 a 98,7 miliardi; quella della Norvegia, da 99,6 a 95,7 miliardi. Complessivamente, il volume delle detenzioni internazionali di Treasury Bond statunitensi era diminuito tra settembre e ottobre di ben 170,9 miliardi di dollari (da 7.302,6 a 7.131,7 miliardi di dollari), che andavano a sommarsi ai 243 miliardi di dollari (da 7.545,6 a 7.302,6 miliardi) di passivo registrati il mese precedente, nonostante la Federal Reserve avesse portato i tassi di interesse dallo 0,25 al 2,5% tra marzo e settembre. Posta di fronte all’evidenza, la Banca Centrale Usa ha quindi impresso una ulteriore accelerata al processo di “normalizzazione monetaria”, con ben sei correzioni che hanno portato i tassi al 4,75% al febbraio 2023 e il volume complessivo degli investimenti internazionali in Treasury Bond a quota 7.273,6 miliardi di dollari ad ottobre. Un incremento su base mensile (141,9 miliardi) piuttosto modesto se rapportato allo sforzo profuso dagli Usa per accumularlo (una stretta creditizia potenzialmente letale per milioni di cittadini statunitensi), che certifica per di più le crescenti difficoltà in cui Washington va imbattendosi nel tentativo di perpetuare il funzionamento del sistema parassitario instaurato con il ripudio degli Accordi di Bretton Woods ad opera dell’amministrazione Nixon.

Specie a fronte delle allarmanti statistiche fornite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che in un rapporto redatto nel marzo 2022 parlò esplicitamente di «erosione del dominio del dollaro» in riferimento al netto ridimensionamento (dal 71 al 59% tra il 2000 e il 2021) della quota di riserve valutarie mondiali espresse in valuta statunitense dovuto a una migrazione generalizzata verso monete alternative alle tradizionali “big four” (dollaro, euro, sterlina e yen). Da un altro documento datato dicembre 2022 emergeva che il volume dei crediti espressi in dollari detenuti dalla rete bancaria globale era calato da 7.092,31 a 6.441,65 miliardi di dollari tra il terzo trimestre del 2021 e il terzo trimestre 2022.

Geopolitica economica del mondo multipolare

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di Giacomo Gabellini

Fonte: Giacomo Gabellini

Nel 2021, l’interscambio commerciale tra Cina e Russia si è attestato a 146,8 miliardi di dollari, con un aumento del 35% rispetto al 2020, in previsione di raggiungere quota 200 miliardi entro il 2024. La quota russa del fatturato commerciale complessivo di Pechino ammonta attualmente a circa il 2%, mentre dal punto di vista di Mosca la Repubblica Popolare “pesa” per oltre il 18%. Nel corso del Forum Economico di San Pietroburgo tenutosi lo scorso giugno, la società russa Novatek ha siglato con lo Zhejiang Provincial Energy cinese un accordo per la fornitura di una quantità di gas naturale liquefatto non inferiore al milione di tonnellate all’anno per il prossimo quindicennio. Le consegne verranno espletate attraverso l’Arctic Lng-2, il colossale impianto da 21 miliardi di dollari messo in cantiere da Novatek subito dopo l’aggiudicazione dei diritti di parte assai ragguardevole dei giacimenti presenti nell’area polare e recentemente ultimato grazie  anche al credito da 9,5 miliardi di dollari accordato all’azienda energetica da un consorzio bancario che riunisce istituti russi e cinesi. Nonché giapponesi, la cui disponibilità a partecipare al cofinanziamento del progetto è stata fortemente indotta dal governo di Tokyo in quanto Arctic Lng-2 «unirà in maniera ancora più stretta il Giappone e la Russia», come dichiarato dal ministro dell’Industria nipponico Hiroshige Seko. Del resto, ha evidenziato l’ufficio stampa di Novatek, l’80% della produzione di gas naturale liquefatto prenderà la via dell’Asia ponendo la Federazione Russa nelle condizioni di ergersi a gigante planetario anche nel settore del Gnl, attualmente dominato dagli Usa grazie allo shale.
Allo stesso tempo, Arctic Lng-2 risponde alle esigenze russe in materia di diversificazione delle destinazioni dell’export, che continueranno in ogni caso a indirizzarsi in maniera sempre più massiccia verso la Cina. Lo si evince dai colloqui telefonici risalenti allo scorso dicembre, nell’ambito dei quali Vladimir Putin ha discusso con Xi Jinping e il presidente mongolo Ukhnaagiin Khurelsukh le modalità di realizzazione di un gasdotto parallelo al già esistente Power of Siberia destinato a raddoppiare il volume delle attuali forniture di metano che la Russia garantisce alla Cina. La conduttura, messa in cantiere da Gazprom, ha evidenti implicazioni di natura geopolitica e strategica, non solo perché progettata per attingere agli stessi giacimenti della penisola siberiana di Yamal da cui si approvvigiona l’Europa, ma anche perché perfettamente funzionale al programma cinese di riduzione del volume di importazioni di Gnl via mare (lo stretto di Malacca è uno dei colli di bottiglia maggiormente battuti dalla marina militare Usa)  ed alleggerimento della dipendenza dal carbone. Più specificamente, Pechino ambisce a imporre il gas come principale fonte di combustibile entro il 2050 e a raggiungere un volume di consumo metanifero annuo di 620 metri cubi entro il 2040. Entro il 2022, invece, dovrebbe essere inaugurato il ponte ferroviario che connette la metropoli cinese di Tongjiang con la città russa di Nižneleninskoye sviluppandosi al di sopra delle acque dell’Amur. Nel marzo del 1969, il suo affluente Ussuri era finito al centro di una pericolosa crisi tra le due nazioni scatenata dall’attacco portato da un manipolo di soldati cinesi a un manipolo guardie di frontiera sovietiche di stanza sulle rive del fiume.

Il “grande gioco” israeliano

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di Giacomo Gabellini

Il “grande gioco” israeliano

Fonte: Giacomo Gabellini

All’inizio del 2012, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si recò alla riunione annuale della potentissima American Israel Public Affairs Committee (Aipac) per pronunciare un duro atto d’accusa contro la linea politica dell’amministrazione Obama, interrotto dalla lettura di una alcuni passaggi di una lettera, risalente al 1944, attraverso la quale il Dipartimento della Guerra statunitense aveva comunicato ai rappresentanti del movimento sionista il rifiuto alla loro proposta di bombardare un segmento del tratto ferroviario che conduceva al campo di concentramento di Auschwitz. Alla fine del suo intervento, il leaderdel Likud affermò inoltre che «nessuno di noi può permettersi di aspettare ancora a lungo. In qualità di premier israeliano, non permetterò che il mio popolo viva all’ombra dell’annientamento», strumentalizzando così la sofferenza degli ebrei a fini ideologici conformemente all’ormai consolidata pratica di giustificare la politica israeliana. Lo stesso premier israeliano si prestò a una sceneggiata dello stesso genere in occasione anche dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2012, presentandosi dinnanzi ai delegati di tutto il mondo con in mano un manifesto raffigurante una bomba a palla con una miccia accesa, su cui tracciò una linea rossa corrispondente, a suo dire, al “punto di non ritorno”, vale a dire il limite che le Nazioni Unite dovrebbero impedire all’Iran di superare «prima che completi l’arricchimento necessario a fabbricare una bomba».  Continua a leggere