Guareschi, lo scrittore che nacque (e non morì più)

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QUINTA COLONNA

di Giuliano Guzzo

Quasi nessuno lo ricorderà ma oggi, 114 anni fa, nella bassa parmense nasceva lo scrittore italiano più tradotto del mondo nonché uno dei più venduti di sempre: Giovannino Guareschi. Nacque infatti l’1 maggio 1908 e morì nel luglio 1968 ignorato e sbeffeggiato, con la sua morte che il tiggì liquidò in 135 secondi e L’Unità con un vergognoso epitaffio: «E’ morto uno scrittore mai nato». Invece, oltre che essere nato 113 anni fa, Guareschi vive ancora. Dove? In più ambiti.

Tanto per cominciare vive nel pubblico sempre appassionato dei film di don Camillo e Peppone, replicati all’infinito eppure mai ripetitivi, in bianco e nero eppure pieni di calore – e nell’altrettanto vasta platea dei suoi libri, scritti tutti con il genio della semplicità. Guareschi vive poi ancora nel Mondo piccolo, quella bassa padana e strapaesana che ha saputo presentarci esaltandone i tratti essenziali: l’umanità, l’ironia, la fede, il vino, i campi e, naturalmente, il grande fiume, spettatore primo e sintesi ultima di tante commoventi storie.

A ben vedere, egli vive pure nel populismo di oggi di cui, a sua insaputa, fu profeta ante litteram se pensiamo che – ben prima della Brexit, dell’elezione di Trump e della ribellione antiglobalista delle periferie – ebbe a sottolinearne l’essenza, quando affermava: «La provincia è la grande riserva intellettuale, artistica e spirituale del Paese» (Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia, Rizzoli 1993, p.141). Ancora, il papà di don Camillo vive in quell’antitotalitarismo di cui fu testimone prezioso.

Infatti, mise in luce come nessun altro il bisogno d’essere sia antifascisti (nel 1942 durante una sbornia diffamò il duce e i gerarchi, finendo in galera) sia anticomunisti (suo lo slogan «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!»). Non solo: all’occorrenza, unico giornalista nella storia repubblicana, finì pure in galera in seguito ad uno scontro con De Gasperi, rifiutando di fare ricorso in appello.

Da questo punto di vista, Guareschi vive ancora nel coraggio di chi vuole restare libero, di chi non si piega, di chi segue la coscienza anche se essa lo conduce fin dentro una cella. Giornalista, caricaturista, umorista, perfino designer, è stato dunque un vero gigante. Tanto che, mentre qui alla sua morte lo si snobbava, la rivista americana Life che gli dedicò nove pagine e Time scrisse che per capire Italia e italiani bisogna leggere Machiavelli, Mussolini e Guareschi, lo scrittore che nacque e non morì più.

Fonte: https://giulianoguzzo.com/2021/05/01/guareschi-lo-scrittore-che-nacque-e-non-mori-piu/#more-19178

Rod Dreher, la resistenza dei cristiani e l’Ungheria

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Segnalazione di Redazione BastaBugie

L’autore del bestseller sull’opzione benedetto evidenzia che per la libertà dei cristiani esiste una duplice minaccia e indica anche perché c’è questo pericolo
di Giuliano Guzzo

Prima di iniziare il suo tour europeo – che, come noto, ha visto tappe anche in Italia – di presentazione del suo ultimo libro, La resistenza dei cristiani (Giubilei Regnani, 2021), lo scrittore americano Rod Dreher si trovava in Ungheria. Questo soggiorno ha attirato la curiosità del The New Yorker, che gli ha chiesto conto della visita al Paese di Viktor Orbán. Che, manco a dirlo, l’autore del bestseller L’Opzione Benedetto ha descritto in toni molto meno cupi, anzi, rispetto a quelli soliti dei mass media. Aveva sentito l’Ungheria descritta come uno stato autoritario, sottolinea The New Yorker, ma a Budapest ha trovato tutti liberi di dire ciò che pensavano.
L’attenzione riservata al suo soggiorno ungherese ha dato modo a Dreher, su quell’American Conservative di cui è una colonna, di illustrare – riportando una lunga mail inviata proprio al New Yorker, ad integrazione dell’intervista fattagli – aspetti significativi del suo pensiero. Non solo, va da sé, riguardo all’Ungheria su cui pure rivela aspetti di rilievo («l’attuale partito razzista in Ungheria, Jobbik, è alleato con la sinistra anti- Orbán, ma i media occidentali non ne danno conto»), ma pure su questioni politiche e, più precisamente, su quale sia la forma di governo ideale. Ecco, rispetto a questo, come suo solito, Dreher sviluppa un ragionamento interessante e per nulla male.
Infatti, non si limita a dire quale sarebbe, appunto, la forma di governo ideale – che pure indica senza troppi giri di parole («preferirei una democrazia liberale basata generalmente su principi cristiani») -, ma va oltre, indicando che per la libertà dei cristiani e non solo, al momento, esiste una duplice minaccia.
Prima di vedere si tratta, è bene evidenziare come l’autore de La resistenza dei cristiani non si limiti ad agitare lo spettro della minacciata libertà di pensiero. Indica anche perché c’è questo pericolo. «Il liberalismo, al di fuori dei confini fissati dalla tradizione giudaico-cristiana», scrive infatti Dreher, «degenera in illiberalismo, un illiberalismo che rende le persone come me nemici del popolo, per usare la vecchia frase comunista». Il richiamo al comunismo non è evidentemente causale dato che, ne La resistenza dei cristiani, proprio i dissidenti cristiani della tirannia sovietica sono indicati come coloro da prendere a modello per sopravvivere nel contesto attuale, che Dreher chiama «la democrazia illiberale laica che sta nascendo».
Si tratta di una forma di governo, per tornare a noi, che vede due problemi per i cristiani. Che lasciamo svelare a Dreher quando, lanciandosi in una previsione, scrive: «Sembriamo tutti essere proiettati verso un futuro che non è liberale e democratico, ma sarà o illiberalismo di sinistra o illiberalismo di destra». Sono parole di peso anche perché, giova ricordarlo, son quelle di un autore conservatore. Che quindi saremmo istintivamente portati ad immaginare vicino alla destra, area politica che tuttavia – e qui l’onestà intellettuale di Dreher è notevole – in quanto tale non offre garanzia alcuna.
Quindi? Posto che sfortunatamente «una democrazia liberale basata generalmente su principi cristiani» non si intravede all’orizzonte, che fare? Il bestellerista americano è consapevole di questa domanda, meglio di questo dilemma. Al quale dà una risposta molto brillante: «So da che parte stare: dalla parte che non perseguiterà me e la mia gente». Come dire: il migliore dei governi possibili non è, ahinoi, a portata di mano. Ma, piccola consolazione, almeno abbiamo una bussola per evitarci il peggiore.
Ultima curiosità. Dreher conclude la mail al New Yorker dando un’applicazione pratica del principio appena enunciato. Eccola: «A pensarci bene, due eminenti ungheresi – George Soros e Viktor Orbán – offrono visioni contrastanti, oggi, di cosa significhi essere occidentali nel 21° secolo. Uno di loro deve prevalere. Bisogna quindi scegliere. Orban non è un santo, ma so da che parte sto. So da che parte devo stare». Una chiusura, ancora una volta, brillante. E convincente.

DOSSIER “VIKTOR ORBAN”
Chi è il presidente dell’Ungheria

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Titolo originale: Starò con chi non mi perseguita, dice Rod Dreher
Fonte: Sito del Timone, 16 settembre 2021

Perché l’«eutanasia legale» sarebbe un orrore

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di Giuliano Guzzo

Dato il successo che pare stia avendo la raccolta di firme pro referendum per l’eutanasia legale, desidero brevemente evidenziare perché la «dolce morte» di Stato sarebbe un errore, se non un orrore. Premetto che quanto espongo prescinde da valutazioni di ordine religioso o giuridico, riguardando per lo più le accertate conseguenze che comporta una legislazione come quella che si vorrebbe introdurre, conseguenze che raramente i promotori dell’eutanasia raccontano.

Infatti, uno dei principali argomenti pro «dolce morte» è il seguente: riconoscere il diritto di morire non toglie nulla a nessuno, rende solo tutti più liberi. Sbagliato: l’esperienza internazionale prova che ovunque l’eutanasia sia stata legalizzata, essa ha decretato non una libertà, bensì una tendenza: di morte. Dal 2002 al 2019, in Olanda, le morti assistite sono cresciute del 240%, in Belgio dal 2003 al 2019 di oltre il 1.000%, in Canada in appena quattro anni, dal 2016 al 2020, di oltre il 665%. Ovunque un boom, insomma.

Ora, possiamo escludere che queste impennate di morti, più che a sofferenze dei pazienti, rispecchino una mentalità utilitarista che, in sintesi, va a colpevolizzare il malato facendolo sentire un costo sociale, quindi un peso? Difficile. Si prenda il citato Canada dove, ancora nel 2017, sul Canadian Medical Association Journal si erano stimati in 138 milioni di dollari annui i risparmi per le casse pubbliche del «diritto di morire». Quanto accade (anche) in quel Paese prova che quell’auspicata spending review si sta avverando….

Attenzione, però, perché si è visto pure altro: dove la «dolce morte» è legale, la situazione va fuori controllo ed aumentano anche i suicidi. Parola di Theo Boer, bioeticista, docente presso l’Università di Groningen: «Come molti sostenitori della morte assistita, credevo che fosse possibile regolamentare e limitare l’uccisione agli adulti mentalmente lucidi e malati terminali con meno di sei mesi di vita. Ho anche pensato che regolamentare il suicidio e la morte in questo modo avrebbe ridotto quei tragici casi in cui qualcuno mette fine alla propria vita».

Invece, conclude Boer, che dell’argomento ne capisce essendo stato anche membro della commissione sull’Eutanasia in Olanda, «mi sbagliavo […] Non solo questo ha portato a più morti assistite, ma potrebbe anche essere una delle cause dell’aumento del numero di suicidi». Non è finita. La macabra tendenza il «diritto di morire» comporta, oltre che dai numeri, è infatti provata dalle incredibili storie di chi decide di farla finita. Nel maggio 2018, per esempio, uscì notizia che un anziano professore, tal David Goodall, si era fatto uccidere in Svizzera solo perché scontento («non sono felice, voglio morire»).

Ancora, quattro anni prima di Goodall,, sempre in Svizzera, la signora Anne, un’insegnante in pensione, si era fatta uccidere «perché non riusciva ad adattarsi alle tecnologie e ai tempi moderni, ai computer e alle e-mail, e anche al consumismo e ai fast food» (Repubblica, 7.4.2014). Un altro caso che fa pensare, e raccontato un paio di anni fa anche da alcune testate italiane, è quello di Roger Foley, canadese affetto da atassia cerebellare, disturbo neurovegetativo che si manifesta nella progressiva scoordinazione motoria di braccia e gambe.

Ebbene, l’uomo si era trovato davanti ad un tragico bivio: pagare più di 1.500 dollari al giorno per le cure di cui aveva bisogno – e che non poteva permettersi – oppure l’eutanasia. Foley decise di denunciare l’ospedale ed il governo dell’Ontario, producendo pure due registrazioni audio (una del settembre 2017, l’altra del gennaio 2018) nelle quali il personale dell’ospedale cercava ripetutamente di spingerlo a farsi uccidere. Dunque la domanda è: vogliamo questo? Un Paese si proponga di farla finita anziché curarsi? Oppure dove si possa arrivare, nel giro di poco, a farsi terminare per qualsiasi ragione, anche puramente umorale?

Se vogliamo questo, affrettiamoci a firmare per l’eutanasia legale. Se però queste storie non ci convincono, abbiamo il dovere non solo di non appoggiare un referendum di morte, ma anche di metter in guarda i nostri conoscenti sulle implicazioni di questa piaga mortifera che è la «dolce morte». Le esperienze di tanti Paesi – qui solo in parte ricordate – e le storie di persone eliminate più dal clima culturale che avevano attorno, che dal dolore che avevano dentro e di cui soffrivano, sono qualcosa di troppo tangibile e reale per essere ignorato. Nessuno potrà dire che non era stato avvertito.

Fonte: https://giulianoguzzo.com/2021/08/13/perche-leutanasia-legale-sarebbe-un-orrore/

Necrologio di civiltà

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di Giuliano Guzzo

La nuova copertina dell’Espresso, in realtà, non è una copertina. É un necrologio. Ritrae la fine della famiglia, della compresenza di padre e madre, della differenza tra i sessi, dell’allattamento, del diritto di un bambino ad essere educato e non indottrinato. Significativamente, poi, il soggett* ritratt* è senza occhi. Forse per non correre il rischio di vedersi o forse perché una società che si suicida – degradando la religione a opinione ed elevando i desideri a dogmi – non può che essere cieca.

Perché non vede che i figli son doni e non pretese, che ormoni e chirurgia camuffano un’identità ma non la cambiano, che non si può dire «la diversità è ricchezza» e poi tifare per il ddl Zan, che falcidia la prima diversità: quella di pensiero. Per una volta, credo passerò in edicola a comprarlo, L’Espresso e spero lo facciano in tanti, assicurando magari un record di vendite. Così gli archeologi del futuro, studiando il tracollo della società occidentale attraverso le letture dei loro avi, vedranno che no, non è stato affatto un caso.

Necrologio di civiltà

Il pioniere della «cancel culture»? Stalin

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di Giuliano Guzzo

La versione ufficiale è che gli episodi di iconoclastia, finalizzati a rimuovere statue ritenute simboli d’un passato razzista e schiavista, abbiano preso a manifestarsi nell’estate 2020, dopo la morte dell’afroamericano George Floyd a seguito di un pestaggio della polizia di Minneapolis. In realtà, la cosiddetta «cancel culture» ha già una sua storia, le cui radici son facili da rintracciare, in epoca moderna, già nella Rivoluzione Francese, quando i giacobini non si fecero mancare devastazioni a chiese, monumenti, tombe.

Se però si dovesse individuare un padre fondatore di questa brutale tendenza, il nome che su tutti emergerebbe è uno: quello di Iosif Stalin. In effetti, sotto il dittatore sovietico la «cancel culture» colpì duramente. Anzitutto a scapito delle chiese: se in Russia se ne contavano circa 55.000 nel 1917, nel 1939 nell’immenso Paese quelle ancora accessibili erano rimaste appena un centinaio. Non solo. Pur di non contraddire il tiranno, anche la cultura, sotto i sovietici, subì perdite pesantissime. Un esempio è quello che riguarda una delle opere più famose della storia, l’Amleto di William Shakespeare.

Si racconta infatti –  lo riferisce nella sua autobiografia il compositore Dmitri Shostakovich (1906–1975) – che Stalin detestasse profondamente il massimo capolavoro shakespeariano. «Egli non voleva», annota Shostakovich, «che la gente guardasse spettacoli teatrali con trame a lui non gradite». Così una volta, al Moscow Art Theatre, accadde che il dittatore se ne uscì con un: «É proprio necessario, qui, mandare in scena Amleto?». Poche parole che però, per chi aveva orecchi per intendere, bastarono ampiamente. Beninteso: la genesi staliniana della «cancel culture» non spiacerà a tutti.

Di certo non spiacerà al Black Lives Matter, che guarda caso si definisce «movimento rivoluzionario marxista». Tuttavia, chi assiste passivo alle nuove trovate antirazziste – immaginando magari che la «cancel culture» sia novità dei nostri giorni – farebbe bene a sapere che, ecco, queste cose nuove non sono, anzi. Si tratta solo di rimasticature di violenze già viste nel corso della storia, e che hanno nel macellaio sovietico il loro padre nobile, per così dire. Di qui un dubbio: ci potrà esser qualcosa di davvero civile e positivo nel ripercorrere (che lo si faccia senza saperlo, non cambia nulla) le orme staliniane? Meglio chiederselo.

Fonte: https://giulianoguzzo.com/2021/04/29/il-pioniere-della-cancel-culture-stalin/

Transfobia, il nuovo psicoreato

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di Giuliano Guzzo

Non serve che si arrivi all’approvazione del ddl Zan, il cui destino parlamentare dopo la giornata di ieri – con voci critiche arrivate da Italia Viva – appare incerto, per sapere come funzioni la condanna della discriminazione transfobica: ce lo dice già l’esperienza internazionale, con decine di casi di denunce, censure accademiche, minacce di licenziamento, premi ritirati. Le cose che colpiscono sono soprattutto due: la prima è che l’accusa di transfobia precede una eventuale condanna giudiziaria ma basta – e avanza – a rovinare la reputazione, la seconda è che a farne le spese è, spesso, la libertà di pensiero di figure laiche. Anzi, laicissime.

Si prenda Richard Dawkins, celebre ateo autore di saggi stampo evoluzionistico. A lui l’Associazione Atei Americani h revocato il premio «Ateo dell’Anno» – assegnatogli nel 1996 – perché su Twitter ha scritto che, biologicamente, la donna trans non è tale, e che impiega il pronome femminile per mera «cortesia». Rischia di andar peggio a Donna M. Hughes, nome storico del femminismo Usa, la cui cattedra alla University of Rhode Island è in bilico dopo che, sul sito femminista 4W, lo scorso 28 febbraio, ha criticato «la fantasia transessuale, ossia la convinzione che una persona possa cambiare il proprio sesso, da maschio a femmina o da femmina a maschio».

Nonostante sia un mito del femminismo, l’ateneo, pur non licenziandola, ha scaricato la Hughes con una nota secca: «L’Università non supporta dichiarazioni e pubblicazioni della professoressa Donna Hughes che sposano prospettive anti-transgender». Non si può definire un bigotto neppure lo psicologo gay James Caspian. Eppure Caspian è arrivato a ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dopo che la Bath Spa University – con la scusa che ciò sarebbe andato «a scapito della reputazione dell’Istituzione» – gli ha impedito di portare a termine uno studio sui casi di transgender pentiti, decisi a tornare al sesso originario. Una denuncia non l’ha fatta ma subita, invece, una politica norvegese rea di aver detto l’ovvio.

Sì, perché la parlamentare Jenny Klinge ha semplicemente affermato che «solo le donne possono partorire», e per questo è stata segnalata alle autorità. Alla base della denuncia, ha spiegato la femminista Marina Terragni, una nuova legge che, riconoscendo l’identità di genere, fa sì che si possa essere nate donne ma percepirsi maschi; ne consegue come l’affermazione della Klinge ricada nella casistica del misgendering, configurandosi come crimine d’odio. Un crimine che si supponga abbia commesso anche l’americano Jack Phillips, che non è un picchiatore neonazista ma un semplice pasticciere del Colorado che impasta i suoi dolci con l’etica.

Per questo, dopo che nel 2012, s’era rifiutato di preparare una torta per un matrimonio gay – quello di Charlie Craig e David Mullins – è stato denunciato. Il suo caso è finito alla Corte Suprema che, nel 2018, gli ha dato ragione. Solo che Phillips, non ha ancora terminato la sua odissea, dato che è stato nuovamente denunciato. Stavolta tutto è iniziato, o meglio ricominciato, dopo che nel giugno 2017 un avvocato, Autumn Scardina, aveva ordinato una torta con interni rosa e esterni blu per celebrare il suo compleanno e il settimo anniversario della sua transizione da maschio a femmina. Phillips si è rifiutato di preparare il dolce trans ed è partita la nuova causa. La sua libertà di lavorare conformemente a dei valori, evidentemente, dà fastidio.

La sorte peggiore, però, è probabilmente quella toccata a Rob Hoogland, padre «transfobico» che in Canada è finito addirittura dietro le sbarre per aver «offeso» la figlia adolescente appellandola col pronome «lei», incurante del fatto che l’interessata si consideri, appunto, transgender. Riepilogando, una volta che in un Paese la «transfobia» diventa un canone morale oltre che giuridico, non si salva nessuno. Che si sia semplici pasticcieri e padri di famiglia, oppure femministe, scrittori atei e perfino studiosi gay, non fa differenza: se sostieni la differenza tra maschi e femmine, sei finito. Sarebbe bello sapere da Luciana Littizzero, Fedez e vip vari pro ddl Zan che ne pensano, di questa spaventosa lista di vittime del bavaglio transofilo.

Fonte: https://giulianoguzzo.com/2021/04/22/transfobia-il-nuovo-psicoreato/

“RIPENSARE L’EUROPA: VERSO LA TRANSIZIONE IDENTITARIA”

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di Redazione

Sabato 27 Marzo alle 20.30 sulla pagina ufficiale dell’Eurodeputato On. Paolo Borchia (@paoloborchiaofficial) di Facebook e Youtube si è tenuta la conferenza online “RIPENSARE L’EUROPA: VERSO LA TRANSIZIONE IDENTITARIA”. 

Ecco qui la registrazione dell’evento, cui hanno partecipato, oltre all’eurodeputato On. Borchia, il sociologo e redattore de La Verità Giuliano Guzzo, il sottosegretario al Ministero degli Interni On. Nicola Molteni, l’economista Giuseppe Liturri e il Responsabile Nazionale di Christus Rex-Traditio Matteo Castagna, moderati dall’avv. Andrea Sartori: