Le piaghe della globalizzazione e la cura possibile

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2024/12/29/le-piaghe-della-globalizzazione-e-la-cura-possibile/

SE SAN TOMMASO METTESSE D’ACCORDO IL PROF. TREMONTI E PAPA PIO IX

“La storia ci ha fatti molto complessi, ma è proprio la storia che ci dà speranza. In fondo, possiamo notare che la nostra decadenza è iniziata un millennio e mezzo fa, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. (…) Se lo vogliamo possiamo ancora recuperare. E possiamo farlo, soprattutto sulla base di condizioni di impegno che si possono riassumere in due sole ma essenziali parole: verità e serietà”.

Così si esprime il Prof. Giulio Tremonti, nel suo “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile” (Ed. Solferino, Milano 2022) che vede due soluzioni alle crisi contemporanee: “mettere a punto una cura che freni il dominio assoluto del mercato e recuperare le risorse e i valori di fondo della nostra comunità”.

Il docente, già Ministro dell’Economia, conclude, sostenendo che “il pensiero e le politiche dominanti si sviluppano in opposta direzione”, rispetto alle sue idee in campo finanziario e politico. La scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar, in “Memorie di Adriano” (1953), scriveva, forse meno rassegnata, che “sopravviveranno le catastrofi e le rovine, trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine” e il Prof. Tremonti la ricorda, come a volerla prendere ad esempio.

La formula su cui ancora nel 2011 si basava una una riforma in discussione al Parlamento, che non ebbe esito, era quella dell’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti modesti, ma sicuri e fissi, garantiti dal sottostante patrimonio della Repubblica (per cui si può e si deve introdurre un regime speciale, anche urbanistico), titoli assistiti da questo diktat: “Esenti da ogni imposta, presente o futura”.

Tremonti, evidentemente, aggiunge che questa è “l’alternativa rispetto all’imposta patrimoniale, rispetto alla Troika, rispetto alle perdite in linea capitale”. Nel libro, il Prof. Tremonti parla anche della possibilità di battere nuova moneta, chiedendosi quanti italiani la riconoscerebbero e chi potrebbe firmare le banconote.

Per il Prof. Tremonti va rigettata la teoria del “debito buono”, presentata da Mario Draghi sul Financial Times del 25/03/2020. “E’ in ogni caso essenziale che tutti insieme – chiosa Tremonti – ora più che mai, si abbia una proiezione patriottica, comunitaria e sociale”, che vada a ridurre il debito pubblico, in favore dei servizi e del welfare.

La prima legge Tremonti del 1994 detassava chi investiva e chi assumeva. In parte, l’attuale governo ha ripreso questo principio, pur non avendo le risorse per potenziarlo, anche a sostegno dei rimpatri industriali all’estero.

Un’altra proposta, formulata su “Le Monde” del 12/9/2001 dal Prof. Tremonti era quella di favorire che gli esercizi commerciali si convenzionassero con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, ottenendo, in cambio, la rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti da parte dell’Unione Europea. L’Italia lanciò l’idea, ma fu subito respinta dalla UE. Oggi, più che mai, sarebbe utile, magari anche sul piano migratorio.

Sul piano cattolico, Vittorio Messori, nel suo testo “Pensare la storia” (Ed. Paoline, Milano 1982) dedica un capitolo al “Syllabus”, messo da Papa Pio IX come appendice all’Enciclica “Quanta Cura” del 1864, ma talmente preciso da essere sempre attuale.

Si tratta dell’ “elenco dei principali errori dell’età nostra”, che imbarazza non pochi sedicenti credenti, oppure crea orrore e sarcasmo nei laicisti, che lo additano come esempio della “cecità oscurantista” della Chiesa.

Ma – come osserva acutamente Messori – al quarto paragrafo, il Sillabo condanna: Socialismus, Communismus, Societates Secretae, Societates Biblicae, Societates Clerico-Liberales.

Socialismo e comunismo sono definiti solennemente dal Santo Padre Pio IX come “pestilenze dell’umanità”. Messori, poi, racconta di un episodio accadutogli in un servizio televisivo di sandinisti, i marxisti del Nicaragua, sconfitti dal “pueblo”. Notò frati e suore cantare l’Internazionale e salutarsi col pugno chiuso.

Forse pochi sanno che quel gesto era il simbolo di Prometeo, ben conosciuto dalla cultura classica, poiché significava l’uomo che si ribellava agli dèi. La civiltà greco-romana guardava a quel segno con orrore, come a una bestemmia. Al pugno levato in alto, per sfidare Dio, veniva contrapposto dai religiosi il pugno chiuso rivolto verso il basso, a minacciare gli Inferi. Segno distintivo del cristiano era, altresì, levare le mani aperte verso l’alto, disponibili ad accogliere lo Spirito e la volontà divina, come si nota già in molti affreschi catacombali.

Per quanto siano diversi ed eterogenei il Prof. Tremonti e il dott. Messori hanno qualcosa in comune, per chi scrive: un’attenzione particolare per il bene comune. Chiaramente non sempre si può concordare con le loro affermazioni, ma riconoscere una certa onestà intellettuale ad entrambi mi sembrerebbe una cosa giusta.

Probabilmente sarebbero d’accordo sul concetto di “Tolleranza”, così come proposto da S. Tommaso d’Aquino: “Essa è fondata sul bene comune della Società. Ci si astiene dall’opposizione alla legge ingiusta, perché si prevede che essa danneggerebbe più severamente il bene comune che non la tolleranza della legge ingiusta. In breve la si tollera, solo per non peggiorare la situazione; come quando si ha il mal di denti, ma vi è un’infezione, si è costretti a tollerare il dente malato, sino a che l’infezione non sia stata debellata da antibiotici, e solo allora si potrà estrarre il dente cariato”. (Sintesi di Filosofia della Politica, pag. 84, Ed. Effedieffe, 2018).

La Cina e la globalizzazione, la leadership statunitense e l’Europa vassalla

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l’EDITORIALE DEL LUNEDI (articolo pubblicato anche su www.2dipicche.news www.info.hispania.it e www.vocesdelperiodista.it (in Spagna e America Latina)

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/07/31/la-cina-e-la-globalizzazione-la-leadership-statunitense-e-leuropa-vassalla/

QUALCHE RIFLESSIONE SULLA VIA DELLA SETA

Uno degli argomenti principali più attuali del momento, è il dibattito sulla cosiddetta Via della Seta. Come sostiene il Prof. Fabio Massimo Parenti (docente all’Istituto Lorenzo de’ Medici di Firenze) sulla rivista Eurasia (3/2023), essa è, “in estrema sintesi, una proposta cinese di cooperazione internazionale, incentrata sull’aumento della della connettività terrestre, marittima ed aerea a livello intercontinentale”.

E’ più che legittimo interpretare questo enorme piano di investimenti come una nuova opportunità per affrontare i problemi globali, potenziando il multilateralismo e migliorando la cooperazione mondiale sul piano della governance, delle modalità per affrontare la povertà, lo sviluppo ineguale, le guerre, il degrado ambientale.

Il progetto cinese parla di trilioni di dollari ed è aperto a tutti i paesi del mondo. Continua il Prof. Parenti: “[…] Così come definito nel XIX Congresso nazionale del 2017, il Partito Comunista Cinese si è posto due macro-obiettivi: primo, costruire nuove forme di relazioni internazionali, incentrate sulla cooperazione vantaggiosa per tutti ed il rispetto reciproco, e, secondo, creare una comunità dal futuro condiviso per tutta l’umanità”.

Questo modello andrebbe, a tutti gli effetti, a sostituire la globalizzazione con leadership statunitense ed Europa vassalla. Per questo, negli ultimi anni, l’Occidente ha demonizzato il progetto cinese, accusandolo di tutto e di più, soprattutto delle nefandezze predatorie compiute nei confronti del “Sud del mondo”, che, in realtà, sono state perpetuate per gli interessi degli USA e dei suoi alleati. In particolare, la Cina viene accusata di voler intrappolare i paesi in via di sviluppo in una rete di debiti, che costoro hanno contratto, però, nel predominio finanziario del blocco occidentale, tanto che “secondo Zhao Lijan, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, sarebbe un ennesimo esempio “della diplomazia delle menzogne in stile americano” “.

Nel recentissimo viaggio a Washington, il premier italiano Giorgia Meloni ha incontrato il Presidente Joe Biden e parlato anche della Via della Seta. Già in Senato Meloni ha detto che “la questione va maneggiata con delicatezza, cura e rispetto, coinvolgendo anche il Parlamento”. Nonostante i mugugni di Pechino che hanno preceduto la visita negli States del Presidente del Consiglio italiano, in ballo c’è stata la discussione con gli USA sul rinnovo del memorandum d’intesa sulla Via della Seta, che Roma aveva siglato con la Cina nel 2019, durante il governo gialloverde. Seppur non ufficialmente, il governo Meloni pare aver preso la decisione fortemente voluta da Biden, ovvero non rinnovare l’accordo. Ma Meloni ha annunciato anche un prossimo viaggio a Pechino per incontrare Xi Jinping, e, probabilmente comunicargli la decisione, pur mantenendo un ottimo rapporto commerciale, sulla scia di Germania, Francia e Regno Unito, che hanno rapporti economici ingenti con Pechino, senza rientrare nel memorandum della Via della Seta.

Il Presidente dell’Aspen Institute Italia Prof. Giulio Tremonti, di cui è socia anche Giorgia Meloni, scrive, nel suo libro “Globalizzazione, le piaghe e la cura possibile” (Ed. Solferino, 2022): “appena trent’anni fa gli “illuminati” ci hanno graziosamente comunicato il passaggio dalla vecchia triade Liberté, Egalité, Fraternité, alla loro nuova triade: Globalité, Marché, Monnaie (Globalità, Mercato, Moneta). Saremmo entrati nell’ “età dell’oro” attraverso l’utopia della globalizzazione. E, guarda caso, utopia vuol dire assenza di luogo – ou-topos, in greco “non luogo” – e dunque è proprio questa l’essenza della globalizzazione!” Sempre Tremonti dedica un capitolo molto interessante alla Cina (pp. 82-89) ricordando che “la “modernizzazione” della Cina è iniziata solo negli anni Ottanta del secolo scorso, ma si è in effetti concretizzata con la globalizzazione, prima sfruttando di fatto le prime aperture del WTO (1994) e poi con il suo formale ingresso nell’organizzazione (2001).Quando esplode la grande crisi del 2008 la Cina è già una grande potenza, ma solo a livello mercantile e perciò con una politica ancora totalmente allineata al comune sentire dell’Occidente”. Poi, tutto è cambiato. Le vie della Seta sono state introdotte nello Statuto del Partito e nella Costituzione a indicare una proiezione geopolitica diretta a dimensioni globali, verso Occidente e verso l’Artico.

“L’ 11 marzo 2021 la Cina ha aperto all’ipotesi di sviluppo, a fianco del mercato esterno, del suo mercato interno. Ed è così che si è formato il progetto della cosiddetta “doppia circolazione”, inserita nel XV Piano quinquennale (2021-2025). Il problema più grande della Cina è dovuto alla mancanza di risorse naturali, quindi diviene esistenziale il bisogno di nuove tecnologie, a partire dall’intelligenza artificiale, con la quale può acquisire i dati degli altri. All’orizzonte, molti osservatori ed esperti vedono, dunque, la possibilità di una guerra tra l’Occidente e la Cina. Si chiede il Prof. Tremonti: “chi vince?” […]”la forza di attrazione e non tanto e non solo la forza militare. La Cina fa paura all’Occidente, è considerata lontana e pericolosa, dagli usi e costumi troppo diversi perché come nel secolo americano tutti avrebbero voluto essere americani per mille motivi, soprattutto la ricchezza ed il potere, nessuno oggi desidererebbe essere cinese.
E’ vero che la Cina dispone della bomba atomica dal 1964, il suo primo satellite lanciato nello spazio è stato nel 1970 e il primo astronauta in orbita nel 2003, ma non è certo priva di problemi: dalla questione Taiwan alla moneta alternativa che sta preparando con la Russia e che sconvolgerebbe certamente l’asse mondiale dei commerci e dei mercati. Inoltre vanno contate le sue fragilità interne dovute alle rivolte popolari, alla scarsità sanitaria e alle crisi finanziarie, come ad esempio il fallimento del colosso immobiliare Evergrande.

Lo stallo e la transizione con incertezze enormi sui cambiamenti globali regnano in questo momento storico nella decadenza di ogni cosa, dall’arte alla morale, dalle idee alla comune mentalità. Nella multipolarità economica e geopolitica vi potrebbe essere uno spiraglio di luce, che crei un minimo di entusiasmo in questa società sciatta, grigia e nichilista. Il prezzo da pagare per un cambiamento sistemico globale di simile portata sarà altissimo, nonostante il popolo anestetizzato pensi solo ai social network, attendendo con ansia la prossima edizione del Grande Fratello.

UNA SOCIOLOGIA DELLA TRANSIZIONE DI FASE AL POSTMODERNO

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La seconda transizione di fase

Il postmoderno è il paradigma verso il quale è in corso la transizione dal paradigma precedente, il moderno. La transizione sta avvenendo sotto i nostri occhi, quindi la società attuale (almeno quella occidentale, ma anche quella planetaria per quanto riguarda l’influenza occidentale) è una società in transizione. Non solo la società russa è transitiva in senso lato, ma anche la matrice sociale che definisce la vita dell’umanità in questo o quel grado sta cambiando oggi la sua natura qualitativa.

Questa transizione (transito) avviene rigorosamente dal Moderno al Postmoderno. Allo stesso tempo, alcuni principi del Moderno sono già stati scartati, sfatati, smantellati, mentre altri rimangono ancora in vigore. Parallelamente, alcuni elementi del paradigma postmoderno sono già stati attivamente e universalmente implementati, mentre altri rimangono in fase di progetto, “in cammino”. Questa transitività complica una corretta analisi sociologica del Postmoderno, poiché il quadro sociale complessivo che si osserva oggi è, di norma, una combinazione di parti del Moderno in uscita e del Postmoderno in entrata. Inoltre, questo processo non procede in modo frontale e uniforme, ma varia da società a società.

La necessità di comprendere chiaramente la struttura dei tre paradigmi

In ogni caso, per analizzare, da un punto di vista sociologico, il contenuto della società postmoderna, cioè per essere un sociologo competente del XXI secolo, è assolutamente necessario operare con una serie di conoscenze sociologiche relative a tutti e tre i paradigmi – premoderno, moderno e postmoderno -, conoscerne i punti chiave, comprendere la struttura generale delle rispettive società, essere in grado di ricostruire i principali poli, strati, status e ruoli di ciascun tipo di società. Ciò è necessario per le seguenti ragioni.

  1. Il passaggio di fase al Postmoderno tocca i fondamenti più profondi della società, compresi quelli che sembravano essere stati chiariti da tempo e persino superati nel Moderno. Lo scopo della filosofia postmoderna è dimostrare l’insufficienza e la reversibilità di tale “superamento”. Il postmodernismo sostiene che “la società moderna non è riuscita a far fronte al suo programma e non è stata in grado di eliminare completamente il premoderno da se stessa”. Per comprendere questa tesi, centrale nel programma sociologico e filosofico del Postmoderno, è necessario riflettere nuovamente e seriamente: che cos’è il Premoderno?
  2. Le strutture sociali da trasformare radicalmente nel Postmoderno non sono state poste in essere in nessuna fase storica precedente: esse rappresentano profonde costanti sociologiche, antropologiche, psicoanalitiche e filosofiche, rimaste immutate nel corso della storia e che si manifestano in modo più vivo nelle società arcaiche, esplorate da una nuova angolazione dallo strutturalismo novecentesco. Ciò significa che il Postmodernismo non opera solo con il passato e la storia, ma con l’eterno e il senza tempo. Così, il tema del mythos, a lungo dimenticato, si rivela non solo rilevante, ma centrale, e lo studio delle società arcaiche da iniziativa periferica, quasi museale, diventa un campo di studi mainstream.
  3. Il passaggio al Postmoderno implica cambiamenti altrettanto fondamentali nella struttura complessiva della società, paragonabili a quelli avvenuti durante la transizione dal Premoderno al Moderno. Inoltre, la transizione di fase precedente è cruciale nel suo contenuto e nel suo modello per lo studio della transizione in corso. La simmetria e il contenuto di questa simmetria tra i due è centrale per l’intero paradigma postmoderno.

Queste argomentazioni, a cui si possono aggiungere molte altre considerazioni tecniche e applicative, ci permettono di realizzare la legge più importante della sociologia del XXI secolo: siamo in grado, dal punto di vista sociologico, di comprendere adeguatamente la società in cui ci troviamo solo se possediamo non solo un insieme di strumenti sociologici di base, ma anche una comprensione di tutte le differenze sociali tra i paradigmi Premoderno-Moderno-Postmoderno.

Trasformazione dell’oggetto della sociologia nel postmoderno

Non dobbiamo dimenticare che la sociologia è emersa nell’epoca del Moderno e, pur essendo in gran parte responsabile della critica del Moderno e della preparazione della transizione al Postmoderno, porta con sé molte tracce concettuali, filosofiche, metodologiche e semantiche del Moderno, che stanno perdendo il loro significato e la loro adeguatezza sotto i nostri occhi. Il passaggio dalla sociologia alla post-sociologia è inevitabile, il che significa che il livello di riflessione sociologica sulla sociologia stessa, sui suoi principi, sui suoi fondamenti, sulla sua assiomatica, è oggi più che mai rilevante.

Ciò deriva dal seguente fenomeno fondamentale. Nel passaggio al Postmoderno, l’oggetto stesso della sociologia cambia. Naturalmente, la società è sempre in evoluzione in tutte le fasi; ogni volta il suo studio corretto richiede il miglioramento degli strumenti pertinenti, ma durante la transizione di fase cambia qualcosa di più profondo: cambia il registro delle discipline. Così, tutte le trasformazioni sociali nel paradigma premoderno erano collegate ai cambiamenti all’interno delle religioni – il loro cambiamento, la loro evoluzione, la loro divisione o fusione, la loro correlazione. Nel passaggio al Moderno l’intera classe di processi sociali, istituzioni, dottrine, strutture collegate alla religione (e non era solo ampia, ma quasi totale) risulta essere più irrilevante e si sposta alla periferia dell’attenzione. Come abbiamo visto, agli occhi di Auguste Comte, era la sociologia come post-religione a dover prendere il posto lasciato libero.

Nel Premoderno, lo studio della società era quasi identico allo studio della sua religione, che definiva in un contesto sociale le proprietà prevalenti delle istituzioni, dei processi, della distribuzione dei sati, ecc. Nella Modernità, tuttavia, gli studi religiosi e la sociologia della religione sono diventati direzioni molto modeste e solo lo strutturalismo e la psicoanalisi e alcuni dei padri fondatori della sociologia (Durkheim, Moss, Weber, Sombart) ci hanno ricordato la sua importanza fondamentale – soprattutto attraverso lo studio delle condizioni sociali dell’origine della Modernità (Weber, Sombart) o attraverso lo studio delle società arcaiche (tardo Durkheim, Moss, Halbwachs, Eliade, Levi-Strauss). In ogni caso, su entrambi i lati del confine del Moderno (la fase di transizione precedente) si trovano due tipi di società molto diversi: la “società tradizionale” (Premoderna) e la “società moderna” (Moderna).

Le differenze tra loro sono così fondamentali e i valori e i principi di base sono così opposti che si può parlare di completa antiteticità. Se il Premoderno è la tesi, il Moderno è l’antitesi. E le società corrispondenti, per molti aspetti, non sono solo qualitativamente diverse, ma anche oggetti di ricerca opposti. – Non a caso F. Tennys colloca la “società” (Gesellschaft) come oggetto della sociologia solo nell’epoca del Moderno, mentre, secondo la sua dottrina, la “comunità” (Gemeinschaft) corrisponde al Premoderno. Se accettiamo la teoria di Tennys, considerata un classico indiscusso della sociologia, avremmo dovuto dividere la sociologia in una scienza della società (Gesellschaft) e del Moderno, e una scienza della comunità (Gemeinschaft) e del Premoderno (“comunologia”). Sebbene tale divisione non abbia avuto luogo e la sociologia studi allo stesso modo le società tradizionali e quelle moderne, la trasformazione dell’oggetto di studio nella prima fase di passaggio dal Premoderno al Moderno è così essenziale che l’idea di dividerle in due discipline è stata seriamente discussa nella fase di formazione della scienza. Nel nostro tempo, il tema della “comunologia” è stato rivisitato dal famoso sociologo francese Michel Maffesoli.

Post-società e post-sociologia

Qualcosa di simile accade nella seconda fase di transizione – dal Moderno al Postmoderno. L’oggetto della ricerca – la “società” – cambia di nuovo in modo irreversibile. Ciò che la società diventa nel Postmoderno è tanto diverso da ciò che era nel Moderno quanto la “società moderna” è diversa dalla “società tradizionale” (Gemeinschaft). Pertanto, si può parlare provvisoriamente di “post-società” come nuovo oggetto di studio della sociologia. Allo stesso tempo, la sociologia stessa deve cambiare per adattare i suoi metodi e approcci al nuovo oggetto. Si prospetta quindi una “postsociologia”, una nuova disciplina (post)scientifica che studierebbe il nuovo oggetto.

In ogni caso, l’adeguatezza sociologica minima nello studio dei processi in atto nella transizione al Postmoderno è direttamente legata alla comprensione della logica sottostante a tutti e tre i cambiamenti di paradigma e questo, tra l’altro, rende lo studio del Premoderno con tutte le sue componenti sociologiche – mito, arcaico, iniziazione, magia, politeismo, monoteismo, ethnos, dualità delle fratrie, strutture di parentela, strategie di genere, gerarchia, ecc. – una condizione necessaria per l’adeguatezza professionale del sociologo, chiamato a integrare la tassonomia degli oggetti di questa scienza con un nuovo legame – la “post-società”.

La correzione archeomoderna

L’intera situazione è ulteriormente complicata dal fatto che la catena Premoderno-Moderno-Postmoderno è valida solo per le società occidentali – Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, ecc. Nella zona di sviluppo sostenibile e dominante della civiltà occidentale, possiamo registrare chiaramente la transizione della società lungo tutti e tre i paradigmi, con il fatto che l’affermazione di ogni nuovo paradigma tende a essere fondamentale, irreversibile e ripulita dai residui del precedente. Il processo di cambiamento di paradigma per la civiltà occidentale è endogeno, cioè guidato da fattori interni.

Per tutte le altre società il movimento successivo lungo la catena dei cambiamenti di paradigma (compresi i vari sottocicli che abbiamo descritto in precedenza) ha un carattere esterno, esogeno (avviene attraverso la colonizzazione o la modernizzazione difensiva), oppure avviene solo in parte (monoteismo islamico, più “moderno” del politeismo e ancor più dei culti arcaici, non ha mai oltrepassato la linea del Moderno, fermandosi prima di essa), oppure è del tutto assente (molti gruppi etnici della Terra vivono ancora in sistemi stabili di “ritorno perpetuo”); ma, poiché l’influenza dell’Occidente è oggi globale, il primo caso – la modernizzazione (o acculturazione) esogena – si estende a quasi tutte le società, portando elementi di Modernità anche nelle tribù più arcaiche. Ciò dà origine al fenomeno dell’Archeomoderno.

L’archeomoderno complica il quadro sociologico

Il problema dell’Archeomoderno in sociologia complica significativamente l’analisi delle società lungo il sintagma storico Premoderno-Moderno-Postmoderno, poiché aggiunge ai tre paradigmi una serie di varianti ibride, in cui le facciate sociali del Moderno sono collocate artificialmente e inorganicamente sulla base di strutture sociologiche relative al Pre-Moderno. L’archeomoderno è specifico anche perché questa combinazione di arcaico e moderno non è affatto correlata a livello di coscienza, non è compresa, non è organizzata, non appaiono modelli interpretativi generalizzanti, il che crea il fenomeno della “società della discarica” (P. Sorokin). Il moderno blocca il ritmo dell’arcaico e l’arcaico sabota la strutturazione coerente del moderno.

Lo studio delle società archeo-moderne rappresenta una classe separata di compiti sociali, che può essere relegata a un ramo speciale della sociologia. L’archeomoderno non genera nuovi contenuti, poiché ciascuno dei suoi elementi può essere ricondotto abbastanza facilmente o al contesto della società tradizionale (al Premoderno) o a quello della società moderna (al Moderno). Sono originali solo gli insiemi di dissonanze, assurdità e ambiguità generate da questo o quell’archeomoderno, le riserve, i fallimenti, gli errori e le coincidenze accidentali, che a volte acquisiscono lo status di caratteristiche sociali e in alcuni casi diventano costitutive. Ad esempio, un’istituzione sociale incompresa o un oggetto tecnico preso in prestito dal Moderno, come un parlamento o un telefono cellulare, può funzionare in modo isolato dal contesto (in assenza di democrazia nella società o di una rete di telefonia mobile), in parte reinterpretato in relazione alle realtà locali, in parte semplicemente un elemento incompreso, che agisce come un “oggetto sacro” di scopo poco conosciuto – come un meteorite.

L’Archeomoderno e il Postmoderno: l’ingannevole apparenza delle somiglianze

L’Archeomoderno diventa un problema sociologico particolarmente difficile quando si studia la seconda fase di transizione – dal Moderno al Postmoderno. Il fatto è che alcune proprietà fenomenologiche del Postmoderno – in particolare, l’appello ironico del Postmoderno all’arcaico per indicare al Moderno ciò da cui non poteva liberarsi completamente – assomigliano esteriormente all’Archeomoderno. Ma con la differenza che il Postmoderno costruisce la sua strategia di accostamento dell’incongruo (il Premoderno e il Moderno) in modo artificioso, ponderato, con un sottile intento ironico e critico, provocatorio (da grande mente), mentre il Moderno compie operazioni simili da solo (da stupido).

L’Archeomoderno è un Moderno che non si è rivelato e probabilmente non si rivelerà più. Il Postmoderno è un Moderno che si è rivelato, ma si supera per rivelarsi ancora di più. Da qui la sottilissima distinzione sociologica: il Postmoderno imita alcuni aspetti dell’archeomoderno come parte del suo programma poststrutturalista per “illuminare l’Illuminismo”; l’archeomoderno lo prende per buono e sinceramente non capisce come un Occidente postmoderno che include giocosamente temi e intere etnie (immigrazione) della società tradizionale sarà presto diverso dalle società archeomoderne del resto del mondo.

La sociologia della globalizzazione (postmoderna e archeomoderna)

Qui prende forma un modello di globalizzazione a due livelli. Questa globalizzazione si basa sulla giustapposizione di Postmoderno e Archeomoderno. Il postmoderno è incarnato dalla società occidentale, che integra l’umanità lungo le sue linee di potere. È una società dell’informazione, che decodifica e ricodifica i flussi di informazioni (“oceano di informazioni”). In tutto il mondo ci sono segmenti di élite che sono più integrati nel Moderno rispetto al resto della società e che sono almeno parzialmente in grado di abbracciare alcune tendenze del Postmoderno. Essi diventano i nodi della globalizzazione nel suo aspetto logico, razionale e strategico.

L’umanità si sta trasformando in un campo omogeneo con centri-portali simmetrici, dove si concentrano i router dell’effemmazione. Qui agiscono le leggi del Postmoderno e vi soggiornano coloro che ne sono consapevoli (occidentali che lavorano a turni o rappresentanti delle élite locali che hanno imparato i canoni e le norme della post-società).

Tutti gli altri spazi sociali sono lasciati all’archeomoderno, che percepisce l’indebolimento dell’impulso modernizzante (che ha tormentato l’arcaico nell’età della Modernità) come un rilassamento, ed è felice di vedere la globalizzazione come una “finestra di opportunità” per la localizzazione, cioè per rivolgersi a preoccupazioni quotidiane concrete familiari e non generalizzate, dove l’arcaico e il moderno coesistono in una forma di conflitto sommesso, come una discarica scavata e fatta. Per descrivere questo duplice fenomeno, il sociologo contemporaneo Roland Robertson (4) ha proposto di utilizzare il termine gergale delle imprese giapponesi, “glocalizzazione”, per descrivere l’intreccio di due processi nella globalizzazione: il rafforzamento delle reti globali che operano secondo l’agenda postmoderna (globalizzazione vera e propria) e l’arcaicizzazione delle comunità regionali che gravitano verso un ritorno alla cultura locale (localizzazione). Così, il Postmoderno si mescola con l’Archeomoderno in un unico grumo difficile da separare, la cui corretta decifrazione sociologica richiede un’alta professionalità e una profonda comprensione dei meccanismi di funzionamento di ciascun paradigma, preso singolarmente e in forme ibride e di transizione.

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Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/una-sociologia-della-transizione-di-fase-al-postmoderno

Impero delle menzogne, operazione militare in Ucraina e fine della globalizzazione

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/01/23/impero-delle-menzogne-operazione-militare-in-ucraina-e-fine-della-globalizzazione/ pubblicato anche su Stilum Curiae, blog del vaticanista Marco Tosatti, che ringrazio: https://www.marcotosatti.com/2023/01/23/37528/

LA RUSSIA SEMBRA L’UNICO STATO COMPLETAMENTE INDIPENDENTE E SOVRANO IN UN’EUROPA COMPOSTA DI UNA MOLTITUDINE DI STATERELLI AL GUINZAGLIO DI WASHINGTON

Nella presentazione al testo “Contro l’Impero delle Menzogne – L’operazione militare speciale in Ucraina e la fine della globalizzazione nei discorsi di Vladimir Putin” di Paolo Callegari (Ed. Ar, 2022, 17 €) Claudio Mutti ricorda che già un secolo fa esistevano politici attenti e lungimiranti che dicevano: “Se si vuole forgiare l’Europa di domani, la Russia costituisce nella nostra epoca l’unico strumento ancora impiegabile: più potente di quello di cui disposero Napoleone e Hitler. Esclusa tale possibilità, e a meno che non si verifichi un evento quasi miracoloso, per l’Europa è finita. […] Contaminata nel suo sangue da una invasione straniera particolarmente prolifica, […] nel XXI secolo la piccola Europa sarà un cortile d’ospizio di contro ai sette, otto, dieci milioni di asiatici, di africani, di meticci sudamericani”.

Possiamo affermare che in questo momento la Russia sembra l’unico Stato completamente indipendente e sovrano in un’Europa composta di una moltitudine di staterelli al guinzaglio di Washington. Non solo sul suo enorme territorio non ci sono basi americane, ma anche il suo esercito non è integrato in alcuna alleanza con gli americani. Importantissimo il dato di fatto che è costituito dall’indipendenza etico-morale della Federazione guidata da Putin.

Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha detto, sulla rivista online www.strategika51.org del 30/06/2021 che c’è soltanto la Russia a difendere quei valori che, patrimonio dell’autentica civiltà europea come di ogni civiltà normale, sono oggetto dell’offensiva scatenata dai barbari d’Occidente “contro i fondamenti di tutte le religioni del mondo e contro il codice genetico delle civiltà, con l’obiettivo di abbattere tutti gli ostacoli sulla via del liberalismo. E poi ha proseguito denunciando il pericolo mortale della “guerra in atto contro il genoma umano, contro ogni etica e contro la natura”.

L’Ucraina ha una posizione geografica estremamente favorevole ai disegni egemonici yankee, tanto da divenire il terreno di scontro della strategia americana, sempre utilizzata in tutto il mondo, che è figlia della famosa teoria del geopolitico inglese Sir Halford Jhon Mackinder (1861-1947): “Chi ha il potere sull’Europa orientale domina il Territorio-Cuore (Heartland); chi ha il potere sul Territorio-Cuore domina l’Isola-Mondo (World Island); chi ha il potere sull’Isola-Mondo domina il mondo”.

Il mentore di Barack Obama, già consigliere di Jimmy Carter, dr. Zbigniew Brzezinski, erede della teoria di Mackinder, sarebbe – secondo Lavrov – la mente di un “grande gioco”, basato sulla sceneggiatura promossa proprio da questo geopolitico nell’intera crisi ucraina, che alla strategia di conquista americana serve restare divisa dalla Russia, in vista della conquista dell’Eurasia. Claudio Mutti prosegue la sua interessante analisi ricordando che “in questo contesto strategico – argomentava Brzezinski in The Grand Chessboard (1997, pag. 46) – “l’Ucraina, un nuovo e importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente aiuta a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. […]. Se Mosca riprende il controllo sull’Ucraina, coi suoi 52milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”.

Il lettore più accorto si starà chiedendo dove sia il Cattolicesimo, in un ambito espressamente ateo, anticristico e, quanto alla Russia, scismatico Ortodosso. La Dottrina Sociale della Chiesa è un tesoro spirituale, morale e pratico che dovrebbe essere materia di studio nelle scuole. San Pio X stroncò il liberalismo con la Notre Charge Apostolique (1910) ma già la meravigliosa Mirari vos di Gregorio XVI (1832), la grande eloquenza del Cardinale Pie, vescovo di Poitiers, le Allocuzioni di Papa Pio IX con la Quanta Cura ed il Sillabo (1864 entrambe) promulgate durante il Concilio Vaticano I furono un trionfo di mirabile saggezza e diffusione della verità, confutando tutti gli errori della peste liberale.

Nel solco dei predecessori andò con particolare decisione Papa Leone XIII, ma anche e in maniera assai determinata Benedetto XV, Pio XI e Pio XII. Il primo punto al quale approdiamo è che il Liberalismo cattolico – che in epoca moderna risale a Lamennais, passa da Maritain e si infiltra lentamente nel pensiero di alcuni cattolici. Possiamo riassumere dicendo che esso consiste in una attitudine di conciliazione della verità cattolica con i dogmi massonici del progressismo o globalismo politici, filosofici, economici, sociali. La grande secolarizzazione, iniziata da circa un secolo, impedisce a molti cattolici di essere scudo, armatura e spada divinamente assistita, per la difesa dal Principe di questo mondo.

Noi che non ci rassegniamo, perché sappiamo che le porte degli Inferi non prevarranno, ci chiediamo se sia possibile una Civiltà cattolica vera ed integralmente vissuta in questo regno dell’immoralità e della menzogna! Ne “La Città di Cristo e la città dell’Anticristo” don Julio Meinvielle, già nel 1945 (riedizione a cura di Effedieffe, 2022) cerca risposte concrete.

Assorbire o tentare di conciliare le regole della Rivoluzione francese, i principi della Massoneria, del liberalismo, del comunismo, dello scientismo, del razionalismo, del socialismo, del consumismo con il Vangelo di Cristo Re è un’opera impossibile. Sarebbe come unire verità ed errore e negare il principio di non contraddizione. Ciascuno nel proprio piccolo cerchi di “instaurare omnia in Christo” (S. Pio X) oltre e contro le tentazioni di questo mondo corrotto dal peccato mortale elevato a virtù teologale.

Conduciamo una vita pienamente cristiana e integralmente unita alla Tradizione della Chiesa Cattolica. Così ci manterremo nel “piccolo gregge rimasto fedele”. Nostro compito è rimanerci con costanza, non ridurlo maggiormente per le nostre miserie umane. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Cfr. Lc 12,32-40).

L’anti-utopia di Klaus Schwab

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Le idee proposte dal presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab, nel suo libro “La quarta rivoluzione industriale” (4IR) sono già state molto criticate per diversi motivi. Eppure, per alcune persone che non si identificano come sostenitori della globalizzazione, sembrano piuttosto attraenti. Dopo tutto, Schwab sostiene che l’innovazione digitale cambierà in meglio la vita, il lavoro e il tempo libero delle persone. Tecnologie come l’intelligenza artificiale e la robotica, il cloud computing quantistico e la blockchain fanno già parte della vita quotidiana. Utilizziamo telefoni cellulari e app, tecnologie intelligenti e l’Internet degli oggetti. Rispetto alle precedenti rivoluzioni industriali, sostiene Klaus, la 4IR si sta evolvendo a un ritmo esponenziale, riorganizzando i sistemi di produzione, gestione e governance in modi senza precedenti.

Tuttavia, un’analisi obiettiva delle ragioni di Klaus Schwab mostra che egli è in parte in errore e che la sua posizione è generalmente guidata dall’interesse di esercitare il controllo sulla società e di gestire il capitale che sta acquisendo nuove proprietà.

Tra i critici del concetto di 4IR c’è Nanjala Nyabola, che nel suo libro Digital Democracy, Analogue Politics analizza la narrazione con cui Schwab ha dato forma alla sua ideologia.

L’autrice sostiene che il concetto di 4IR viene utilizzato dalle élite globali per distogliere l’attenzione dalle cause della disuguaglianza e per facilitare i processi in corso di espropriazione, sfruttamento ed esclusione. Nyabola osserva astutamente che “il vero fascino di questa idea è che è apolitica. Possiamo parlare di sviluppo e progresso senza ricorrere a lotte di potere”.

La controreplica dell’Africa, dove Nyabola vive, non è casuale, dal momento che questa regione, insieme all’Asia e all’America Latina, è vista dai globalisti come favorevole a nuovi interventi sotto le vesti di assistenza tecnologica e 4IR. Dopotutto, l’evidenza suggerisce che la diffusione della tecnologia digitale è stata altamente disomogenea, guidata da innovazioni tecnologiche più antiche e utilizzata per riprodurre piuttosto che trasformare le disuguaglianze sociali.

Lo storico Ian Moll va oltre e si chiede se l’attuale innovazione tecnologica digitale rappresenti la 4IR in quanto tale.

Egli osserva che esiste un’interpretazione egemonica della 4IR che dipinge il rapido sviluppo tecnologico come una nuova e audace rivoluzione industriale. Tuttavia, non c’è alcuna prova di una simile rivoluzione nella totalità delle istituzioni sociali, politiche, culturali ed economiche, sia a livello locale che globale; di conseguenza, occorre prestare attenzione a come questa struttura ideologica funzioni per promuovere gli interessi delle élite sociali ed economiche di tutto il mondo.

Jan Moll sostiene che la cornice della “quarta rivoluzione industriale” rafforza il neoliberismo contingente del periodo successivo al consenso di Washington e serve quindi a nascondere il continuo declino dell’ordine mondiale globalizzato con una narrazione del “nuovo mondo coraggioso”. Schwab ha semplicemente compiuto una sorta di colpo di Stato ideologico con un insieme di metafore che narrano una rivoluzione immaginaria.

Allison Gillwald lo definisce “uno degli strumenti di lobbying e di influenza politica di maggior successo del nostro tempo… Mobilitandosi intorno all’incontro annuale d’élite di Davos, i progetti politici del WEF sulla 4IR colmano un vuoto per molti Paesi che non hanno investito pubblicamente in ciò che desiderano per il proprio futuro… Con visioni di prosperità globale, confezionate con convinzione futurista e previsioni economiche fantastiche di crescita esponenziale e creazione di posti di lavoro, sembrano fornire una tabella di marcia pronta in un futuro incerto. Ma la cautela è d’obbligo. Anche uno sguardo superficiale alle precedenti rivoluzioni industriali mostrerà che non sono state associate agli interessi delle classi lavoratrici o subalterne. Questo nonostante i benefici più ampi che la società ha tratto dall’introduzione del vapore, dell’elettricità e della digitalizzazione. Piuttosto, sono associate al progresso del capitalismo, attraverso la ‘grande’ tecnologia del momento”.

Anche in questo caso le nuove tecnologie lavoreranno per gli interessi dei capitalisti smanettoni, non per le società.

Moll scrive che il concetto di 4IR sembra convincente perché agisce come una sorta di formula:

  1. Elencare da 7 a 15 tecnologie, per lo più digitali, che sembrano intelligenti, ci fanno sentire obsoleti e ci ispirano soggezione per il futuro. Anche se non sono innovazioni del XXI secolo, dichiaratele come tali.
  2. Dichiarate che c’è un’incredibile convergenza senza precedenti tra queste tecnologie.
  3. Assumete che porteranno a cambiamenti che sconvolgeranno e trasformeranno ogni parte della nostra vita.
  4. Fare appello a ciascuna delle precedenti rivoluzioni industriali come modello per quella attuale.
  5. Indicate una o due delle principali tecnologie o fonti di energia delle precedenti rivoluzioni industriali. I suggerimenti provati sono il motore a vapore per la 1IR; il motore a combustione interna e/o l’elettricità per la 2IR; i computer e/o l’energia nucleare per la 3IR (avrete citato Internet al punto I, quindi evitatelo qui).

In questo modo, Schwab inculca in modo discreto la correttezza del concetto generale. Così facendo, “Schwab sfrutta con successo la nostra razionalità tecnologica interna. Proclama la velocità, le dimensioni e la portata senza precedenti della 4IR. Il tasso di cambiamento, dice, è esponenziale piuttosto che lineare; l’integrazione di più tecnologie è più ampia e profonda che mai; e l’impatto sistemico è ora totale, comprendendo tutta la società e l’economia globale. Per questo sostiene che ‘interruzione e innovazione […] si stanno verificando più velocemente che mai’”.

Allo stesso tempo, Schwab rifiuta gran parte della nostra esperienza storica in materia. Scrive di essere “ben consapevole che alcuni studiosi e professionisti considerano gli eventi che sto esaminando semplicemente come parte della terza rivoluzione industriale”.

Ma Moll propone di esaminare alcune delle conoscenze degli esperti che egli ignora. Ecco due esempi. Si tratta dei contributi del sociologo spagnolo Manuel Castells, che ha sottolineato come il ruolo critico delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione in rete sia “un’arma a doppio taglio”: alcuni Paesi stanno accelerando la crescita economica adottando sistemi economici digitali, ma quelli che falliscono stanno diventando sempre più marginali: “il loro ritardo sta diventando cumulativo”. Castells scrive ampiamente su quella che chiama “l’altra faccia dell’era dell’informazione: la disuguaglianza, la povertà, la miseria e l’esclusione sociale”, tutte eredità crescenti dell’economia dell’informazione globalizzata.

A differenza di Schwab, Castells non ha cercato di ideologizzare o politicizzare i dati sociologici. E la sua ricerca empirica non suggerisce una fondamentale trasformazione digitale della società nell’era moderna.

Un altro esperto che Schwab ignora è Jeremy Rifkin. Nel 2016, quando Schwab propose il suo concetto di 4IR, Rifkin stava già facendo ricerche sui luoghi di lavoro in cui la robotica aveva assunto ruoli strategici e manageriali nella produzione economica. C’è un notevole divario tra gli autori. Rifkin non crede che i cambiamenti drammatici associati alle tecnologie informatiche costituiscano una 4IR.

Nel 2016, Rifkin ha sostenuto che il WEF ha fatto “cilecca” con il suo intervento sotto l’apparenza di 4IR. Ha contestato l’affermazione di Schwab secondo cui la fusione di sistemi fisici, processi biologici e tecnologie digitali è un fenomeno qualitativamente nuovo:

La natura stessa della digitalizzazione […] sta nella sua capacità di ridurre le comunicazioni, i sistemi visivi, uditivi, fisici e biologici, a pura informazione, che può poi essere riorganizzata in vaste reti interattive che operano in molti modi come ecosistemi complessi. In altre parole, è la natura interconnessa delle tecnologie di digitalizzazione che ci permette di trascendere i confini e di “sfumare le linee tra i regni fisico, digitale e biologico”. Il principio operativo della digitalizzazione è “interconnessione e rete”. Questo è ciò che la digitalizzazione sta facendo con crescente sofisticazione da diversi decenni. È ciò che definisce l’architettura stessa della Terza rivoluzione industriale.

Uno studio delle “tecnologie” spesso annunciate come innovazioni convergenti chiave della 4IR – l’intelligenza artificiale, l’apprendimento automatico, la robotica e l’Internet degli oggetti – dimostra che non sono all’altezza della pretesa di una “rivoluzione” tecnologica moderna.

Moll conclude che la 4IR di Schwab non è altro che un mito. Il contesto sociale del mondo è ancora lo stesso della 3IR e si prevedono pochi cambiamenti. Non c’è nulla di simile a un’altra rivoluzione industriale dopo la terza. Il nuovo mondo di Schwab semplicemente non esiste.

Dopo tutto, le rivoluzioni non sono caratterizzate solo da cambiamenti tecnologici. Piuttosto, sono guidate da trasformazioni nel processo lavorativo, da cambiamenti fondamentali negli atteggiamenti sul posto di lavoro, da cambiamenti nelle relazioni sociali e da una ristrutturazione socioeconomica globale.

Naturalmente, le innovazioni tecnologiche possono essere positive per i lavoratori e per la società nel suo complesso. Possono ridurre la necessità di svolgere lavori pesanti, migliorare le condizioni e liberare più tempo per le persone che si dedicano ad altre attività significative.

Ma il problema è che i frutti dell’innovazione tecnologica sono monopolizzati da una classe capitalista globalizzata. Le stesse piattaforme di lavoro digitale sono finanziate per lo più da fondi di venture capital nel Nord globale, mentre le imprese vengono create nel Sud globale, senza che i fondi investano in attività, assumano dipendenti o paghino le tasse all’erario pubblico. Questo è solo un altro tentativo di catturare i mercati con una nuova tecnologia, approfittando della trasparenza delle frontiere, per fare profitto e non avere alcuna responsabilità.

Quindi la narrativa 4IR è più un’aspirazione che una realtà. Sono le aspirazioni di una classe ricca che anticipa la crisi del sistema economico occidentale e vuole trovare un porto sicuro in altre regioni. Ecco perché, data l’esperienza storica del capitalismo di tipo occidentale, il resto del mondo vede il 4IR come un’anti-utopia indesiderabile.

Fonte

Traduzione di Costantino Ceoldo

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/lanti-utopia-di-klaus-schwab

Cina: Xi si prepara al conto alla rovescia finale

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di Pepe Escobar

19.10.2022

Ciò che spinge la Cina e la Russia è che prima o poi saranno loro a governare l’Heartland.

Il discorso del Presidente Xi Jinping, durato 1h45min, all’apertura del 20° Congresso del Partito Comunista Cinese (CPC) presso la Grande Sala del Popolo di Pechino, è stato un coinvolgente esercizio di informazione del passato recente sul futuro prossimo. Tutta l’Asia e tutto il Sud globale dovrebbero esaminarlo attentamente.

La Sala Grande era sontuosamente addobbata con striscioni rosso vivo. Uno slogan gigante appeso in fondo alla sala recitava: “Lunga vita al nostro grande, glorioso e corretto partito”.

Un altro, in basso, fungeva da riassunto dell’intera relazione:

“Tenere alta la grande bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi, attuare pienamente il Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era, portare avanti il grande spirito fondatore del partito, unirsi e lottare per costruire pienamente un Paese socialista moderno e promuovere pienamente il grande ringiovanimento della nazione cinese”.

Fedele alla tradizione, il rapporto ha delineato i risultati ottenuti dal PCC negli ultimi 5 anni e la strategia della Cina per i prossimi 5 – e oltre. Xi prevede “feroci tempeste” in arrivo, interne ed estere. Il rapporto è stato altrettanto significativo per ciò che non è stato detto o lasciato sottilmente intendere.

Tutti i membri del Comitato centrale del PCC erano già stati informati del rapporto – e lo avevano approvato. Trascorreranno questa settimana a Pechino per studiare i dettagli e sabato voteranno per l’adozione. A quel punto verrà annunciato un nuovo Comitato Centrale del PCC e verrà formalmente approvato un nuovo Comitato Permanente del Politburo, i sette che governano davvero.

Questo nuovo schieramento di leadership chiarirà i volti della nuova generazione che lavoreranno a stretto contatto con Xi, oltre a chi succederà a Li Keqiang come nuovo Primo Ministro: quest’ultimo ha terminato i suoi due mandati e, secondo la Costituzione, deve dimettersi.

Nella Sala Grande sono presenti anche 2.296 delegati che rappresentano gli oltre 96 milioni di membri del PCC. Non sono semplici spettatori: durante la sessione plenaria che si è conclusa la scorsa settimana, hanno analizzato in profondità ogni questione importante e si sono preparati per il Congresso nazionale. Votano le risoluzioni del partito, anche se queste vengono decise dai vertici del partito a porte chiuse.

I punti chiave

Xi sostiene che negli ultimi 5 anni il PCC ha fatto progredire strategicamente la Cina, rispondendo “correttamente” (terminologia del Partito) a tutte le sfide estere. In particolare, i risultati chiave includono la riduzione della povertà, la normalizzazione di Hong Kong e i progressi nella diplomazia e nella difesa nazionale.

È significativo che il ministro degli Esteri Wang Yi, seduto in seconda fila, dietro ai membri del Comitato permanente in carica, non abbia mai staccato gli occhi da Xi, mentre gli altri leggevano una copia del rapporto sulla loro scrivania.

Rispetto ai risultati ottenuti, il successo della politica “Zero-Covid” ordinata da Xi rimane molto discutibile. Xi ha sottolineato che ha protetto la vita delle persone. Ciò che non ha potuto dire è che la premessa della sua politica è trattare il Covid e le sue varianti come un’arma biologica statunitense diretta contro la Cina. Ovvero, una seria questione di sicurezza nazionale che ha la meglio su qualsiasi altra considerazione, persino sull’economia cinese.

Il Covid zero ha colpito duramente la produzione e il mercato del lavoro e ha praticamente isolato la Cina dal mondo esterno. Un esempio lampante: I governi distrettuali di Shanghai stanno ancora pianificando l’azzeramento del Covid in un arco di tempo di due anni. Lo zero-Covid non sparirà presto.

Una grave conseguenza è che l’economia cinese crescerà sicuramente quest’anno meno del 3% – ben al di sotto dell’obiettivo ufficiale di “circa il 5,5%”.

Vediamo ora alcuni dei punti salienti del rapporto Xi.

Taiwan: Pechino ha iniziato “una grande lotta contro il separatismo e le interferenze straniere” a Taiwan.

Hong Kong: è ora “amministrata da patrioti, che la rendono un posto migliore”. A Hong Kong c’è stata “una grande transizione dal caos all’ordine”. Corretto: la rivoluzione dei colori del 2019 ha quasi distrutto un importante centro commerciale/finanziario globale.

Riduzione della povertà: Xi l’ha salutata come uno dei tre “grandi eventi” dell’ultimo decennio insieme al centenario del PCC e al socialismo con caratteristiche cinesi che entra in una “nuova era”. La riduzione della povertà è al centro di uno dei “due obiettivi del centenario” del PCC.

Apertura: La Cina è diventata “un importante partner commerciale e una destinazione importante per gli investimenti stranieri”. Xi confuta l’idea che la Cina sia diventata più autarchica. La Cina non si impegnerà in alcun tipo di “espansionismo” durante l’apertura al mondo esterno. La politica statale di base rimane: la globalizzazione economica. Ma – non l’ha detto – “con caratteristiche cinesi”.

“Auto-rivoluzione”: Xi ha introdotto un nuovo concetto. L’”auto-rivoluzione” permetterà alla Cina di sfuggire a un ciclo storico che porta a una recessione. E “questo assicura che il partito non cambierà mai”. Quindi, o il PCC o il fallimento.

Il marxismo: rimane sicuramente uno dei principi guida fondamentali. Xi ha sottolineato: “Dobbiamo il successo del nostro partito e del socialismo con caratteristiche cinesi al marxismo e a come la Cina è riuscita ad adattarlo”.

Rischi: questo è stato il tema ricorrente del discorso. I rischi continueranno a interferire con i “due obiettivi centenari”. L’obiettivo numero uno è stato raggiunto l’anno scorso, in occasione del centenario del PCC, quando la Cina ha raggiunto lo status di “società moderatamente prospera” sotto tutti i punti di vista (xiaokang, in cinese). L’obiettivo numero due dovrebbe essere raggiunto al centenario della Repubblica Popolare Cinese, nel 2049: “costruire un Paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso”.

Sviluppo: l’attenzione si concentrerà sullo “sviluppo di alta qualità”, compresa la resilienza delle catene di approvvigionamento e la strategia economica della “doppia circolazione”: l’espansione della domanda interna in parallelo agli investimenti esteri (per lo più incentrati sui progetti BRI). Questa sarà la priorità assoluta della Cina. Quindi, in teoria, qualsiasi riforma privilegerà una combinazione di “economia socialista di mercato” e apertura di alto livello, mescolando la creazione di una maggiore domanda interna con una riforma strutturale dal lato dell’offerta. Traduzione: “Doppia circolazione” con gli steroidi.

“Democrazia a processo completo”: è l’altro nuovo concetto introdotto da Xi. Si traduce come “democrazia che funziona”, come il ringiovanimento della nazione cinese sotto – che altro – la guida assoluta del PCC: “Dobbiamo garantire che il popolo possa esercitare i propri poteri attraverso il sistema del Congresso del popolo”.

Cultura socialista: Xi ha detto che è assolutamente necessario “influenzare i giovani”. Il PCC deve esercitare un controllo ideologico e assicurarsi che i media favoriscano una generazione di giovani “che siano influenzati dalla cultura tradizionale, dal patriottismo e dal socialismo”, a vantaggio della “stabilità sociale”. La “storia della Cina” deve arrivare ovunque, presentando una Cina “credibile e rispettabile”. Questo vale certamente per la diplomazia cinese, anche per i “Guerrieri del Lupo”.

“Sinicizzare la religione”: Pechino continuerà la sua azione di “sinicizzazione della religione”, ovvero di adattamento “proattivo” della “religione e della società socialista”. Questa campagna è stata introdotta nel 2015, e significa ad esempio che l’Islam e il Cristianesimo devono essere sotto il controllo del PCC e in linea con la cultura cinese.

La promessa di Taiwan

Arriviamo ora ai temi che ossessionano completamente l’egemone in declino: il legame tra gli interessi nazionali della Cina e il modo in cui questi influenzano il ruolo dello Stato-civiltà nelle relazioni internazionali.

Sicurezza nazionale: “La sicurezza nazionale è il fondamento del ringiovanimento nazionale e la stabilità sociale è un prerequisito della forza nazionale”.

Le forze armate: l’equipaggiamento, la tecnologia e la capacità strategica del PLA saranno rafforzati. Va da sé che ciò significa un controllo totale del PCC sulle forze armate.

“Un Paese, due sistemi”: Si è dimostrato “il miglior meccanismo istituzionale per Hong Kong e Macao e deve essere rispettato a lungo termine”. Entrambi “godono di un’elevata autonomia” e sono “amministrati da patrioti”. Xi ha promesso di integrare meglio entrambi nelle strategie nazionali.

Riunificazione di Taiwan: Xi si è impegnato a completare la riunificazione della Cina. Traduzione: restituire Taiwan alla madrepatria. Il discorso è stato accolto da un fiume di applausi, che hanno portato al messaggio chiave, rivolto contemporaneamente alla nazione cinese e alle forze di “interferenza straniera”: “Non rinunceremo all’uso della forza e prenderemo tutte le misure necessarie per fermare tutti i movimenti separatisti”. Il punto cruciale: “La risoluzione della questione di Taiwan è una questione che riguarda il popolo cinese stesso, che deve essere decisa dal popolo cinese”.

È anche significativo che Xi non abbia nemmeno menzionato lo Xinjiang per nome: solo implicitamente, quando ha sottolineato che la Cina deve rafforzare l’unità di tutti i gruppi etnici. Lo Xinjiang per Xi e la leadership significa industrializzazione dell’Estremo Occidente e nodo cruciale della BRI: non l’oggetto di una campagna di demonizzazione imperiale. Sanno che le tattiche di destabilizzazione della CIA utilizzate in Tibet per decenni non hanno funzionato nello Xinjiang.

Al riparo dalla tempesta

Vediamo ora di analizzare alcune variabili che incidono sugli anni molto difficili che attendono il PCC.

Quando Xi ha parlato di “tempeste feroci in arrivo”, è quello che pensa 24 ore su 24: Xi è convinto che l’URSS sia crollata perché l’egemone ha fatto di tutto per indebolirla. Non permetterà che un processo simile faccia deragliare la Cina.

A breve termine, la “tempesta” potrebbe riferirsi all’ultimo round della guerra americana senza esclusione di colpi alla tecnologia cinese – per non parlare del libero scambio: tagliare alla Cina l’acquisto o la produzione di chip e componenti per supercomputer.

È lecito pensare che Pechino mantenga l’attenzione a lungo termine, scommettendo sul fatto che la maggior parte del mondo, soprattutto il Sud globale, si allontanerà dalla catena di approvvigionamento high tech degli Stati Uniti e preferirà il mercato cinese. Man mano che i cinesi diventeranno sempre più autosufficienti, le aziende tecnologiche statunitensi finiranno per perdere mercati mondiali, economie di scala e competitività.

Xi non ha nemmeno menzionato gli Stati Uniti per nome. Tutti i membri della leadership – soprattutto il nuovo Politburo – sono consapevoli di come Washington voglia “sganciarsi” dalla Cina in tutti i modi possibili e continuerà a dispiegare provocatoriamente ogni possibile filone di guerra ibrida.

Xi non è entrato nei dettagli durante il suo discorso, ma è chiaro che la forza trainante in futuro sarà l’innovazione tecnologica legata a una visione globale. Ed è qui che entra in gioco la BRI, ancora una volta, come campo di applicazione privilegiato per queste scoperte tecnologiche.

Solo così possiamo capire come Zhu Guangyao, ex vice ministro delle Finanze, possa essere sicuro che il PIL pro capite in Cina nel 2035 sarebbe almeno raddoppiato rispetto a quello del 2019 e avrebbe raggiunto i 20.000 dollari.

La sfida per Xi e il nuovo Politburo è quella di risolvere subito lo squilibrio economico strutturale della Cina. E pompare di nuovo gli “investimenti” finanziati dal debito non funzionerà.

Si può quindi scommettere che il terzo mandato di Xi – che sarà confermato alla fine di questa settimana – dovrà concentrarsi su una pianificazione rigorosa e sul monitoraggio dell’attuazione, molto più di quanto non sia avvenuto durante i suoi precedenti anni audaci, ambiziosi, abrasivi ma talvolta scollegati. Il Politburo dovrà prestare molta più attenzione alle considerazioni tecniche. Xi dovrà delegare una maggiore autonomia politica a un gruppo di tecnocrati competenti.

Altrimenti, torneremo alla sorprendente osservazione dell’allora premier Wen Jiabao nel 2007: L’economia cinese è “instabile, squilibrata, scoordinata e in definitiva insostenibile”. Questo è esattamente il punto in cui l’egemone vuole che sia.

Allo stato attuale, la situazione è tutt’altro che cupa. La Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma afferma che, rispetto al resto del mondo, l’inflazione al consumo in Cina è solo “marginale”, il mercato del lavoro è stabile e i pagamenti internazionali sono stabili.BRI,

Il rapporto di lavoro e gli impegni di Xi possono anche essere visti come un capovolgimento dei soliti sospetti geopolitici anglo-americani – Mackinder, Mahan, Spykman, Brzezinski -.

Il partenariato strategico Cina-Russia non ha tempo da perdere con i giochi egemonici globali; ciò che li spinge è che prima o poi governeranno l’Heartland – l’isola del mondo – e oltre, con alleati dal Rimland, dall’Africa all’America Latina, tutti partecipanti a una nuova forma di globalizzazione. Certamente con caratteristiche cinesi, ma soprattutto con caratteristiche pan-eurasiatiche. Il conto alla rovescia finale è già iniziato.

Pubblicato su Strategic Culture

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/cina-xi-si-prepara-al-conto-alla-rovescia-finale

La sedicente sinistra si occupa soltanto di tre argomenti: LGBT, migranti e globalizzazione

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Segnalazione di Federico Prati

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La sedicente sinistra si occupa soltanto di tre argomenti: LGBT, migranti e globalizzazione. Mattia Liviani – www.altreinfo.org

La sedicente sinistra si occupa soltanto di tre argomenti: LGBT, migrant…

Ci sono soprattutto tre cose che stanno a cuore alla sedicente sinistra: i diritti degli LGBT, la globalizzazion…

L’inarrestabile ascesa dell’ipocrita morale progressista

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Riceviamo per la pubblicazione questo articolo, che contiene spunti interessanti e di sicura attualità, coi nostri ringraziamenti all’autore (n.d.r.)

di Riccardo Sampaolo

Jean Gabin (1904 – 1976) è stato un grande attore francese, che non ha avuto difficoltà a giganteggiare in molti ruoli che gli sono stati conferiti.

Tra i suoi film è bene ricordare “Il clan degli uomini violenti”, datato 1970.

In tale film Gabin impersona un rude campagnolo, che nonostante una delle figlie gli ricordi che il mondo è cambiato, lui risponde lapidariamente: “Si, ma io no”.

L’uomo di campagna sopracitato, radicato in un suolo, che coltiva la terra  da cui ritrae gran parte del suo sostentamento, è un francese dalle convinzioni solide, pragmatico, poco influenzato, e quindi poco dipendente, dal mondo esterno in rapido aggiornamento.

La risposta più significativa il rude agricoltore la rivolge però a un magistrato, che nel chiedergli la professione, risponde senza esitazioni, proprietario, al che il magistrato sconcertato gli dice che “proprietario” non è una professione, e Gabin precisa, “per me si”; sta tutto qui il nemico attuale della odierna Unione Europea a sfondo progressista, l’uomo proprietario di un luogo e in larga misura autonomo; tale uomo è molto meno dipendente, rispetto ad altri, dallo Stato e dall’opinione pubblica e basa le sue convinzioni non su principi astratti, prima che vengano dimostrati, ma sulla solida esperienza di vita che lo fa diffidare delle mode passeggere del buonismo modaiolo della modernità.

L’ecologismo che fa frequentemente capolino dalle parti di Bruxelles è di matrice chiaramente urbana, ossia nasce nella mente degli uomini delle città, ed ha quasi sempre una profonda ostilità verso il mondo rurale, intriso di senso del sacro e  composta unità familiare. Non è un caso che l’ipotesi, circolata un po’ di tempo fa negli ambienti politici dell’UE, di mettere fuori mercato le abitazioni energeticamente dispendiose, avrebbe colpito prioritariamente i vecchi, ariosi e dimensionalmente generosi manufatti colonici agricoli, a favore delle piccole, anguste ed energeticamente efficienti anonime case cittadine.

L’ecologismo di moda negli ambienti progressisti europei a matrice urbana, punta alla colpevolizzazione dell’uomo e del suo operato, in uno stile fortemente antirurale che vede l’agricoltore come una figura marginale nella migliore delle ipotesi, e quindi non come un riferimento da cui poter ottenere il governo del territorio e cibi salutari; l’ambientalismo urbano e progressista è quindi in larga misura una serie di “buoni propositi” in cui gli adepti, dalle città vogliono intervenire su ciò che gli è esterno, dimenticando che l’urbanesimo è una delle principali cause del degrado ambientale, e il loro stile di vita è solo cosmeticamente allineato con gli elementi base della naturalità.

Mentre l’agricoltore vive sulla terra e della terra, ha come obiettivo il mantenimento della fertilità dei suoli nel corso del tempo, da cui ricava il proprio sostentamento, l’uomo delle città, irreligioso, cosmopolita, progressista, si limita a imporre al bifolco le sue certezze delle buone intenzioni, volendo difendere l’ambiente dal punto di vista delle città, ma non stringendo alcun reale rapporto con la natura, intesa come base da cui ritrarre l’utile per poter vivere. Il capitalismo internazionale dopo aver vinto sul marxismo, ne ha assorbito alcune componenti compatibili con esso, e non sono poche.

Ecco quindi che si fa strada anche grazie alla digitalizzazione, all’urbanesimo, alla liberalizzazione dei rapporti sessuali, al disfacimento della famiglia, un sotterraneo e subdolo attacco alla proprietà diffusa e all’uso dei contanti, per denudare l’individuo, privarlo di “area di protezione” e porlo indifeso alla mercé di uno Stato, che assume atteggiamenti di fastidio verso l’esistenza di un tessuto comunitario dotato di autonomie economiche e valoriali, che ostacolano la riduzione di un popolo a somma di individui standardizzati su cui applicare efficientemente leggi, continuamente sfornate, non tanto per migliorare la qualità della vita di un popolo, ma per orientarlo al perseguimento di principi astratti in linea con il bene del pianeta e dell’umanità; si fa strada in sostanza una dimensione messianica della politica, genericamente rivolta, più che a uno specifico popolo, con le sue caratteristiche, a una indistinta umanità, priva di radici e storia, ma proiettata a comportarsi secondo regole ritenute appropriate dalla elitaria classe dirigente.

La riduzione di un popolo a somma di liberi individui nudi di fronte allo Stato e alla Legge ,(che garantiscono l’efficienza del sistema anche grazie alla montante digitalizzazione dei processi, la quale se da un lato ha il merito di velocizzare e efficientare il sistema, dall’altro rischia di spersonalizzare e inaridire i rapporti umani), non può che passare attraverso l’ attacco alla famiglia, quella che un tempo era considerata la cellula fondamentale della società e oggi rischia di divenire un intralcio alla libera espressione degli individui, presi come sono, dal loro io ipertrofico a guardarsi l’ombelico, e a gareggiare nel mercato dei rapporti affettivi, sempre più votati all’efficienza prestazionale e sempre meno alla profondità relazionale. La famiglia preesiste allo Stato, e nel passato la struttura pubblica è sempre stata piuttosto discreta nell’intromettersi nelle questioni coniugali e affettive, salvo ovviamente i casi di rilevanza penale. Oggi non è più così e lo Stato moderno guarda con sospetto comunità che si autoregolano; gli attuali poteri pubblici anziché considerare la Legge come il perimetro all’interno del quale potersi muovere, tentano di alzare l’asticella, arrivando a concepire la Legge come l’unico strumento regolatore dei rapporti tra persone; da ciò ne deriva ovviamente un altro aspetto tipico della modernità ossia la normazione ossessiva in ambiti un tempo non presi in considerazione.

In Italia il partito più agguerrito nel normare gli aspetti più intimi della vita delle persone è sicuramente stato il Partito Radicale, i cui modesti risultati elettorali non hanno impedito l’imporsi delle sue tematiche anche grazie all’aiuto che ha sempre ricevuto dalle altre e più grandi formazioni politiche, soprattutto della sinistra.

I radicali hanno sempre messo in atto battaglie apparentemente per la liberazione dell’individuo, ma ad una analisi più attenta si evince che la liberazione è avvenuta dai legami comunitari e dalle sensibilità di chi ti stava più vicino, per sostituire ciò, con l’ ossessivo e continuo ricorso a tribunali e leggi sotto l’egida dello Stato.

Lo stesso Marco Cappato, esponente di punta di +Europa, nella sua considerevole esposizione mediatica, non si risparmia di certo nel ricorso ai tribunali per le sue iniziative politiche.

Il risultato di tali azioni porta progressivamente al ridimensionamento di tutti i legami umani intermedi tra la persona e la comunità, e il denudamento dell’individuo così indebolito di fronte allo Stato, definito “il più freddo di tutti i mostri” da Friedrich Wilhelm Nietzsche, per derimere le sue intime questioni, senza il filtro del “dialogo profondo” con i membri della sua comunità.

Una delle prime battaglie radicali, di cuii si può tentare un’analisi, data oramai la piena maturazione dei suoi amari frutti, è sicuramente quella sul divorzio, dato l’oltre mezzo secolo raggiunto di diffusa applicazione.

Orbene come precedentemente ricordato, la famiglia è antecedente alla nascita dello Stato, e questo è un elemento che “il più freddo di tutti i mostri”, nella definizione alla Nietzsche, ha dovuto tenere conto, evitando per molto tempo di mettersi al buco della serratura, se non giustamente, per motivazioni di carattere penale. Tuttavia ad un certo punto della Storia, la decadenza della comunità, l’inurbamento, il declino della religiosità, l’avanzare del femminismo e dell’individualismo, fecero si che i tempi fossero maturi per tentare un intervento dall’alto, su quella che era la cellula fondamentale della società e da lì a breve lo sarebbe stata sempre meno; ecco pronta a partire dunque la macchina divorzista, che si presentava come strumento di scioglimento dei rapporti problematici tra coniugi, ma in realtà si dimostrerà essere qualcosa di ben più sofisticato e deleterio.

Per prima cosa lo Stato e la Legge non si accontenteranno di mediare tra i coniugi, garantendo la parità di trattamento tra i genitori, ma attraverso l’ideazione di artifici giuridici che vanno dall’affido del minore al concetto di casa coniugale, tenderanno a “sostituirsi” ad uno dei genitori (nella maggior parte dei casi al padre), statalizzando di fatto questo ultimo, che a tutti gli effetti diventerà un “concorrente perdente per legge”, estromettendolo dalla piena genitorialità e dalla fruizione della propria abitazione, anche quando di sua esclusiva proprietà.

In cinquant’anni si è verificato in Italia, per mezzo dello Stato e della Legge un vero e proprio scippo della genitorialità maschile, con il colpevole silenzio dei principali media.

L’utilizzo del principio astratto dell’esclusivo/superiore interesse del minore, grondante ipocrisia a livelli altissimi, dato che il massimo interesse del minore è quello di mantenere rapporti con entrambi i genitori, è stato il grimaldello con cui poter giustificare l’opinabilissima disparità di trattamento tra i genitori, come se una persona fosse titolare non di pieni diritti ma residuali; tutto ovviamente perfettamente in linea con il montante femminismo rancoroso della modernità.

Il Sistema divorzista non è neanche scevro da palesi iniquità, grazie all’astuzia giuridica di disgiungere l’affido del minore dalla colpa del naufragio coniugale, facendo verificare l’aberrante  scenario, che il genitore a cui è attribuita la colpa del naufragio familiare possa comunque ottenere l’affido del minore e beneficiare dell’affidamento della casa, anche se proprietario è l’altro.

Nonostante in oltre 50 anni, il divorzismo abbia dimostrato una forte ostilità nei confronti del padre, portata avanti con un impegno degno di miglior causa, il Sistema non si preoccupa delle ombre misandriche che rischiano di calare su di esso, forse confortato dallo spirito femminista dei tempi e dal sostegno, piuttosto acritico dei media conformisti, ma è proprio per questo che le persone è ora che guardino al di là della maschera divorzista e inizino a decifrarne il vero volto, che non è particolarmente rassicurante, soprattutto se si è il genitore marginalizzato dall’Istituto giuridico dell’affido, che guarda caso è quasi sempre di sesso maschile.

Il personaggio impersonato da Jean Gabin, (depurato da tutti gli “eccessi cinematografici”, nel film “Il clan degli uomini violenti”), il padre, proprietario di un vecchio casale di campagna, è il nemico principale del modaiolo progressismo odierno, e nel contempo, una delle poche figure credibili, di quotidiana, ostinata e pervicace resistenza al Sistema Mondialista.

Riccardo Sampaolo per www.agerecontra.it 

La globalizzazione targata Usa è un ricordo

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di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risé

Non è più a Washington, con succursale Bruxelles, il centro decisionale planetario: il nuovo mondo è multipolare in cui avanzano l’Oriente e gran parte dell’Africa, dove si concentra il grosso della popolazione. L’Occidente e i suoi propagandisti ne prendano atto.

Più che atlantismo, quello dei supereditoriali dei superquotidiani è testardo attaccamento a un passato remoto scambiato per presente-futuro. E più che ideali democratici ciò che si intravede dietro i peraltro vaghissimi programmi sono sogni imperialisti neppure troppo nascosti. Anche qui (come nell’imperialismo vero) esposti con un gusto avventuroso/fiabesco, che fa sorridere trovare nelle prosa dei numerosi editorialisti/professori. I quali sono quasi tutti emeriti per via dell’anagrafe (che come ricordava Arbasino non perdona), e quindi si fatica a vedere così eccitati e appassionati per questo sfoderare di (costosissime) armi e vaticini di vittorie. A me che sono ancora più vecchio di molti di loro fanno venire in mente l’indimenticabile manifesto: “Ascoltatemi! Votate Italia e non Fronte popolare” gridato da uno scapigliato signore in giacca e camicia, naturalmente stazzonate, che correva fuori da un paesaggio in fiamme, in fondo al quale si intravedeva… cosa? Il Cremlino, naturalmente (e certo con più ragioni di oggi). Del resto anch’io che avevo 10 anni, non avrei voluto che vincesse il Fronte Popolare. Però mia sorella (che ne aveva 8 più di me) e lanciava i volantini dalla finestra mi dava già fastidio: a esagerare si sporca in terra e non serve a niente.
Adesso poi non c’è più nemmeno il Fronte popolare, e Stalin è morto da tempo. Putin no, forse anche perché i vaticini della sua morte imminente, sfoderati in continuazione dagli esperti americani e dell’UE allungano la vita, come è noto a tutti tranne che ai menagramo prezzolati, che vivono confezionandoli. Comunque Putin è in tutt’altre faccende affaccendato; ha ben altro cui pensare che appassionarsi all’oziosa fantasia di sloggiare Mattarella, il nonno inamovibile.
Soprattutto, però, non esiste più nulla di ciò di cui i pensosi opinion makers della carta e altri media parlano, alla ricerca di brividi. L’universo culturale   della crème atlantica è in ritardo sulla realtà di oltre 70 anni: del mondo delle loro fantasie non c’è più nulla, tranne loro stessi, con i loro sogni un po’ infantili. Lo stesso Draghi non ha mai vissuto il mondo dei Fronti popolari: nel 1948, l’anno che li mise fuori gioco, aveva solo un anno. Per i saggi amici della guerra russo-ucraino-americana il mondo è una favola bella che finirà bene, e si vede da come ne parlano: i buoni contro i cattivi sicuramente vinceranno, come appunto nelle favole; come se le cose rimanessero quelle del racconto che li ha impressionati da piccoli, e non fossero in continuo cambiamento. Se però non ti tieni ai fatti di oggi, e rimani agli stereotipi del secolo precedente, rischi di prendere cantonate letteralmente micidiali, nel senso che portano più morti che vita.
Nell’orrore del quadro complessivo, viene anche un po’ da ridere a vedere tanto accanimento e pagine investite nel calcolare dove si annidi il tumore che ucciderà presto lo “Zar”, come viene fantasiosamente definito Putin, uno degli uomini più incolori, lontano in tutto da quei pittoreschi Imperatori. Oppure a seguire le previsioni della Presidente d’Europa Ursula von Leyden sull’altrettanto imminente crollo del rublo, e fallimento della Russia. Dichiarazioni finora seguite  da rafforzamenti del rublo, e brillante bilancia dei  pagamenti. Mentre poi i professori russofobi insistono con descrizioni della medioevale Russia, maschilista e arretrata, la banchiera russa Elvina Nabiullina, pur non sempre in accordo con Putin, è l’unico banchiere centrale che in piena guerra e sanzioni sia riuscita a rallentare l’inflazione, battendo sia l’europea Lagarde che l’americano Jerome Powell, capo delle Federal Reserve.
Il fatto è che i nostri insigni commentatori, nel solco del forse già insigne ma oggi in evidenti difficoltà Mario Draghi, non si sono accorti che il mondo, da tempo, non è più solo quello dei due continenti Europa e Stati Uniti e loro appendici meridionali, divisi dall’oceano Atlantico. Il mondo “globalizzato” a trazione americana, con la Cina in rincorsa, ma il cui centro decisionale è stabilmente negli Stati Uniti con succursale a Bruxelles, è ormai un fatto soprattutto burocratico. Quella globalizzazione è finita da tempo. Al suo posto c’è un mondo multipolare (di cui i nostri saggi commentatori non parlano mai) dove al polo occidentale più o meno atlantico si è stabilmente affiancato quello orientale con al suo interno subcontinenti decisivi come la Russia, la Cina, l’India, il sud est asiatico, buona parte dell’Africa tutti con le loro culture, modi di vita, valori, risorse e povertà.
La gran parte della popolazione mondiale abita in questo Oriente, che non ha votato all’ONU le sanzioni alla Russia. È qui che nasce buona parte delle idee e intuizioni più produttive del mondo di oggi, legate a tradizioni mai morte e nutrite da culture, anche religiose, che l’Oriente ha continuato a rispettare, a differenza dell’Occidente razionalista e iconoclasta. I nostri professori, più o meno tardivi figli di un Illuminismo avido e oggi estenuato sanno poco di questo polo e della trasformazione in atto nel mondo; per questo si permettono di trattare la Russia come un paese di incivili attardati e il suo capo come un esotico criminale. Il capo russo però, amato e odiato che sia, è uno dei protagonisti di questo mondo. Mentre la loro visione è tristemente provinciale, irrespirabile: anche per questo Macron ha perso la sua maggioranza, malgrado l’Ecole d’Administration in cui si è formato. La società non è solo amministrazione: è anche cultura e fede.

La nuova normalità e il dominio sul mondo

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/04/04/la-nuova-normalita-e-la-sua-propaganda/

pubblicato in una versione similare su “IdeeAzione“: https://www.ideeazione.com/il-dominio-sul-mondo/

SE NON CI IMPEGNIAMO IN POLITICA IL CONTROLLO SOCIALE CHE ABBIAMO FINORA ACCETTATO NON È DESTINATO A FINIRE PERCHÉ FA PARTE DI QUELLA “NUOVA NORMALITÀ” CHE IL SISTEMA GLOBALE HA IN MENTE PER NOI

I Padri della Chiesa, gli antichi e i grandi pensatori ci hanno insegnato ad avere una visione d’insieme e lungimirante dei fatti perché analisi settoriali in epoche di grandi cambiamenti possono portare ad analisi incomplete ed a una certa miopia che conduce nei vicoli ciechi dell’irrealismo, della vacuità dei cronici bastian contrari, del fanatismo apocalittico.

Un virus sconosciuto, scappato da un laboratorio cinese, ha creato una pandemia e prodotto due anni di stato d’emergenza. La vita di ognuno di noi è cambiata. Ci stanno abituando a determinate restrizioni delle libertà personali, al distanziamento sociale, alla mascherina, al tracciamento digitale delle nostre scelte e abitudini. Il controllo sociale, che abbiamo accettato nel corso di questo lungo periodo, non è destinato a finire perché fa parte di quella “nuova normalità” che il Sistema globale ha in mente per noi.

L’esperimento, a parte la reticenza di una minoranza, è perfettamente riuscito. E’ la globalizzazione che si doveva rimodulare, attraverso la digitalizzazione di massa di ogni processo vitale, per l’arricchimento delle solite poche famiglie dell’alta finanza, che hanno preso il sopravvento con la fine della Seconda Guerra Mondiale, nelle plutocrazie occidentali, dominate in modalità unipolare a partire dal crollo del muro di Berlino.

Ecco ergersi, forte e fiero, l’orso russo, che sembra uscito dal letargo pandemico, a lanciare zampate terribili per marcare il territorio e pretendere lo spazio che l’accerchiamento dell’Heartland, teorizzato dal politico britannico Halford Mackinder (1861-1947) è determinato a precludergli.

Assieme alla Cina, divenuta una Superpotenza, costruita in almeno tre decenni di accettazione del capitalismo economico, abbinato alla peggior repressione comunista in ambito sociale, la Russia di Putin, evocando l’epoca imperiale, si è fatta amici l’Oriente e l’America Latina. Noi siamo l’Europa debole del decadentismo, che si trova in mezzo alla contesa per il potere di un mondo multipolare, che lo zar e Xi Jinping vogliono marcare, nell’ambito di quella rimodulazione del globalismo, che, attraverso il Covid, doveva insegnarci a vivere alla cinese, ma da consumatori all’americana. L’identità fluida, importata dal protestantesimo d’Oltreoceano è già sciolta davanti all’identità forte che proviene da Est.

Un parallelismo storico si potrebbe fare tra la guerra in Ucraina e la guerra di Crimea del 1853. Quest’ultima fu un avvenimento e un sintomo inedito: uno scontro tra due monarchie in cui entrambe apparivano come esponenti mercenari della sovversione dell’ordine naturale e divino, portata dalla rivoluzione francese. La guerra del 1853 fu la prima “guerra democratica” della storia, in cui i figli di una stessa famiglia si sono uccisi a vicenda, non per le loro patrie o per i loro Principi, ma perché, dalle due parti, la feccia preparata e sobillata dal fermento liberal potesse passare sui loro corpi. Solo ciò che sardonicamente viene chiamato “libertà” ha potuto far sì che una ironia così feroce, implicante un simile accecamento, fosse, in genere, possibile. Prima, gli uomini si sacrificavano per ciò che amavano. Divenuti “liberi”, sono costretti a farsi uccidere, occorrendo agli interessi del capitalismo globale: pena l’emarginazione, l’accusa di tradimento, l’isolamento e la morte, come se la patria, la massoneria, la democrazia e la plutocrazia fossero una cosa sola.

Le figure rappresentative della democrazia e della “libertà” videro nella guerra di Crimea lo scontro fra due mondi, il duello tra due dogmi fondamentali, “quello del cristianesimo barbaro d’Oriente contro la giovane fede sociale dell’Occidente civilizzato”, secondo le parole testuali dello storico francese Jules Michelet (1798-1874). Ricordiamo che le Logge massoniche, le Borse e le Banche erano i templi futuri dell’Occidente “civilizzato”, mentre Nicola I era un “tiranno”, un “vampiro”, ed anche Metternich lo era stato.

Vi è della gente che non si ha il diritto di molestare senza essere vampiri, ma ve n’è un’altra che si è liberi di massacrare in massa in nome della “libertà”, senza cessare di essere “nobili” e “generosi”, “buoni” e “giusti”. Obiettivo era distruggere il cristianesimo per preparare la via al bolscevismo in Oriente e all’ubiquità capitalista in Occidente. Oggi, l’ubiquità capitalista ha prevalso, ma la globalizzazione imposta dall’Occidente liberale sta crollando a causa delle sue contraddizioni, il cattolicesimo è sempre più marginale e l’Oriente si è ripreso dalla sbornia socialista. Come andrà a finire, lo vedremo nei prossimi anni, tenendo presente che il Cuore Immacolato di Maria trionferà.

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