I conti mai fatti col fascismo

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di Massimo Fini

 

ARIANNA EDITRICE

Fonte: Massimo Fini

Claudio Anastasio, Presidente della 3-I, società pubblica, è stato massacrato (“apologia del fascismo” secondo il Pd e il quotidiano La Repubblica che ha fatto il presunto scoop) e quindi costretto a dimettersi perché in una mail interna inviata ai componenti del Consiglio di Amministrazione assumendosi la responsabilità dell’andamento dell’azienda, ha parafrasato, ripeto: parafrasato, il discorso con cui Benito Mussolini il 3 gennaio 1925 si era attribuito la responsabilità politica e morale dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Riferimento, quello di Anastasio, certamente inopportuno, sempre che sia stato voluto, ma nulla più. Winston Churchill replicò il famoso discorso di Catilina ai soldati prima della battaglia copiando letteralmente l’ultima frase: “vi prometto solo lacrime e sangue”. Non per questo Churchill può essere segnato a dito come un eversore dello Stato come lo fu Catilina. Si è andati a ravanare nel passato di Anastasio, si è scoperto che nel 1997 aveva curato un programma sulla storia del Duce. Forse che in Italia è proibito rifare, seguendo le proprie opinioni, giuste o sbagliate che siano, la storia di Mussolini e della sua famiglia? E allora mettiamo in galera anche Renzo De Felice che, come storico, ha chiarito dati alla mano che il Fascismo ebbe un largo consenso fra gli italiani (“gli anni del consenso”).
Polemiche sepolcrali come quelle sul fascismo e l’antifascismo possono esistere, a 75 anni dalla fine della guerra, solo in Italia. Il fatto è che noi italiani non abbiamo fatto i conti con la nostra storia recente assumendo come buona la sciagurata interpretazione di Benedetto Croce secondo il quale il Fascismo era stato “solo una parentesi della nostra storia”. Invece il Fascismo fa parte a pieno titolo della nostra storia nel male ma anche nel bene che pur ci fu. Montando la leggenda partigiana, e lo dico con il massimo rispetto per gli uomini e le donne che partigiani lo furono davvero e non solo dopo il 25 luglio, come ho rispetto dei ragazzi che andarono a morire per Salò in nome di altri valori, l’onore e la lealtà, che a quei tempi erano moneta corrente (non ho aspettato Luciano Violante per riconoscere pari dignità ai ragazzi che andarono a morire per Salò), noi abbiamo fatto finta di aver vinto una guerra che avevamo invece perso nel più sciagurato dei modi, tradendo, in una lotta per la vita e per la morte, l’alleato che ci eravamo scelti e schierandoci, come avevamo già fatto nella Prima guerra mondiale, col vincitore. In realtà la lotta partigiana, pur benemerita, fu marginale in quella tragica epopea che fu la Seconda guerra mondiale. I protagonisti furono altri: gli americani, gli inglesi, i russi sovietici da una parte (la Francia si è seduta arbitrariamente al tavolo dei vincitori, tanto che oggi conserva un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’ONU avendo avuto una Resistenza ancor più marginale di quella italiana, una correità col governo filo nazista del maresciallo Pétain e un’adesione della popolazione a quel regime filofascista maggiore di quella italiana) i nazisti tedeschi, gli italiani fascisti, i giapponesi dall’altra.
Fra le benemerenze di Mussolini si può mettere, paradossalmente, che fu il miglior alleato degli Alleati: “spezzeremo le reni alla Grecia” e dovette intervenire la Wermacht per salvarci, il Duce aprì il fronte africano di cui Hitler non voleva sapere e ci fu la sconfitta nella battaglia di El Alamein in cui gli italiani si portarono benissimo come ammise lo stesso Rommel, sconfitta scontata data la disparità delle forze in campo.
Uscendo dal paradossale fu Mussolini, come abbiamo già ricordato, a resistere alla crisi di Wall Street del ’29 creando l’IRI, e poi ci furono leggi economiche di tutto rispetto e un’attenzione all’istruzione con il  liceo classico curato da Giovanni Gentile, che è stato valido fino agli anni ’60 del dopoguerra e in qualche misura lo è ancora oggi (“il classico mi sta aiutando a cercare me stesso, a capire da dove vengo e chi devo diventare, fornendomi una preparazione versatile e multiforme” ha scritto al Corriere il sedicenne Flavio Maria Coticoni, che sia fascista anche lui?). Ci sono poi cose minori, molto irrise, come la divisa. Mi ha detto qualche anno fa una vecchia signora che fu ragazza durante il regime e che indossò quella divisa: “per noi ragazze e per i ragazzi la divisa nascondeva le differenze sociali fra chi può permettersi ed ostentare le griffe e chi no” come è storia di oggi. Ci sono le attività sportive imposte alla gioventù, anche se poi Starace, col salto nel ‘cerchio di fuoco’, rendeva ridicolo ciò che invece aveva un suo senso: tenere allenata la nostra gioventù, invece di accontentarsi di andare a vedere le partite di calcio.
E veniamo agli errori ed anche agli orrori di cui primo responsabile fu Benito Mussolini. Il primo fu quello di far entrare l’Italia in guerra assolutamente impreparata (“ci basteranno poche migliaia di morti per sederci al tavolo della pace”, abbiamo visto) e fu la tragedia dell’Armir. Ci sono poi il delitto Matteotti, l’assassinio a Parigi dei fratelli Rosselli, aver tenuto in galera per una decina di anni Antonio Gramsci il vero leader del Partito comunista (“dobbiamo impedire a questa mente di funzionare”). Anche se bisogna pur dire che fra tutti i totalitarismi di quei tempi nazismo, stalinismo, Mao Tse-tung, il Fascismo fu certamente il meno sanguinario.
C’è infine l’adesione alle leggi razziali che i nazisti non ci avevano nemmeno chiesto. Questa, sotto il profilo etico, è la colpa più grave oltre che grottesca. Se c’è un popolo che, “per fortuna o purtroppo” per dirla con Gaber, non può vantare alcuna purezza raziale è quello italiano che, conquistato di volta in volta da questo o da quello, è un crogiolo di etnie diverse (“Franza o Spagna purché se magna”).
Ma anche la questione semitismo/antisemitismo ha fatto il suo tempo. Gli ebrei non sono più i perseguitati di un tempo, appartengono anzi, grazie alla finanza internazionale, all’élite che governano il mondo. Si riconoscono in uno Stato, Israele, che un giorno sì e uno no ammazza bambini palestinesi solo perché palestinesi. Nella striscia di Gaza tengono un popolo in un lager a cielo aperto, proprio loro che dei lager furono le prime, anche se non le sole, vittime.
Gli emarginati oggi sono altri. Sono i migranti, in genere dell’Africa subsahariana, che vengono a morire sulle nostre coste e che Salvini, e tutti i razzisti alla Salvini, vorrebbero tener lontani così che anneghino in mare o siano respinti nell’inferno della Libia che proprio noi, francesi, americani, italiani, abbiamo creato, violando tutte le leggi internazionali a cui oggi siamo molto attenti nella guerra russo-ucraina, aggredendo uno Stato sovrano, come sovrani erano la Serbia e l’Iraq, e macellando il colonnello Muhammar Gheddafi in una maniera che disgusterebbe anche i ‘tagliagole’ dell’Isis.

 

Per approfondimenti: https://ariannaeditrice.musvc2.net/e/t?q=4%3dFd8VI%26F%3d4%26E%3dCY8X%26x%3dU6RF%26O%3djK3Ju_IZwR_Tj_LStY_Vh_IZwR_SoQyN.jLk2wHc6mCvIr7g.03_LStY_Vh21Nk4xFk_IZwR_SoC-eFwNk-DjC-h22j5c3Nk-4xH-kC-o5u4rMoF%26m%3dGwJ574.EnN%26kJ%3dEZ4U&mupckp=mupAtu4m8OiX0wt

 

Post-uomini o post-umani?

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di Aleksandr Dugin

Quando un uomo smette di essere un uomo, non diventa una donna. Quando un uomo smette di essere un uomo, non diventa una bestia.

Qui la questione è assai complicata. Chi tradisce il proprio sesso cade al di sotto della linea critica, il confine che delimita entrambi i sessi.

Il post-maschio tradisce entrambi i sessi contemporaneamente. Abbiamo a che fare con un mostro, un degenerato pericoloso e imprevedibile, che non è affatto una “donna”, anche solo pensarlo è un insulto.

Con una donna, però, è un po’ diverso. La vera struttura del suo sesso è particolare e poco compresa, e concetti come lealtà/tradimento (che descrivono abbastanza chiaramente l’atteggiamento maschile) non si applicano direttamente a lei. Esiste (dovrebbe esistere) un linguaggio speciale per descrivere le donne e la loro logica, un linguaggio segreto, o non ancora scoperto. Non esistono post-donne. Sono state inventate dai post-uomini, e non ci sono femministe, ci sono vittime di un esperimento pericoloso e cinico. Vengono semplicemente compatite, come il corvo zoppo.

Ci sono i post-uomini e la colpa di ciò che fanno e di ciò che diventano è loro. Tutto intorno a loro inizia a marcire, a decadere, a scivolare nella dissoluzione. Quando sono pochi, possono ancora avere un posto nella cultura: nella marginalità esotica, nell’eccentricità, nella stravaganza, ma non appena la post-mascolinità diventa una tendenza seria, si trasforma in un virus mortale altamente contagioso. Se gli viene dato libero sfogo, distruggeranno tutto ciò che li circonda.

Qualcosa di simile accade a chi perde la propria immagine umana. Qui è ancora più evidente. Tali persone non si trasformano in bestie: le bestie, anche se predatrici o repellenti, sono organiche, armoniose e non fanno mai nulla che non sia giustificato e predestinato dalla loro natura. In questo sono belle, anche quando sono estremamente pericolose o fastidiose. Lo riconosciamo rispettando gli animali, sia domestici che selvatici. I post-umani, invece, sono molto diversi. tagliano i ponti con il nostro archetipo, ma non stipulano un contratto ontologico con le bestie. L’uomo non può diventare una bestia, ciò è al di là dei suoi poteri e soprattutto non ha e non può avere l’innocenza insita in ogni bestia. Ecco perché gli esseri post-umani sono anche mostri, pervertiti e degenerati. Nell’antichità venivano chiamati “chimere” o “sheddim”. Esiste una versione secondo la quale sono gli antenati delle scimmie, ma le scimmie sono armoniose, organiche e affascinanti. Credo che questa versione sia falsa. Non offendiamo le scimmie.

I post-umani minano l’essere umano proprio come i post-uomini tradiscono il sesso – il sesso in quanto tale. I post-umani, cedendo agli umani, stanno facendo danni irreparabili anche alla natura delle bestie.

Gli ambientalisti (principalmente ecologisti profondi nello spirito dello steampunk o del cyber-femminismo, Cthulhuzen di Donna Harraway) sono un tipo di post-umano. Non potendo essere umani, cercano di diventare topi o taccole, ma così facendo insultano roditori e uccelli. Gli ambientalisti sono nemici degli animali e nascondono il volto di maniaci sovvertiti sotto le vesti di protettori degli animali.

I liberali di oggi sono composti principalmente da post-uomini e post-uomini. Il liberalismo è una sorta di post-ideologia in cui il pensiero, l’idea e la moralità sono tutti scesi al di sotto della linea critica, ecco perché i liberali moderni danno tanta importanza alla politica di genere e all’ecologia profonda. Stanno trascinando l’umanità nell’oceano della degenerazione a tutto gas. Se hanno bisogno di una guerra nucleare per creare mostri di rifiuti di cellophane, alghe e circuiti di computer, prima o poi la faranno. Quello che c’è nella mente di un sodomita o di un ambientalista digitale va oltre i criteri di normalità. Da qui le mutazioni imposte dalle élite globali attraverso l’infosfera, i comici, la virtualità, i social media, le droghe, il moderno stile di vita urbano (l’urbanesimo è uno dei più importanti strumenti di degenerazione forzata di massa).

Considerate questo: in Georgia, un governo moderato ha proposto una legge sugli agenti stranieri, proprio come negli Stati Uniti. Gli agenti stranieri si sono immediatamente ribellati perché temevano di non essere gli unici a decidere chi è un agente e chi no. Lo stesso vale per i post-uomini e i post-uomini: avendo preso il potere, sono loro stessi a imporre i criteri di ciò che è la norma, di ciò che è woke e di ciò che non lo è, e di ciò che dovrebbe essere abolito (cancellare). Oggi, ciò che ieri era la norma in materia di genere in molti Paesi europei, è già un reato, domani la violazione dei diritti di un computer o di una formica spettatrice potrebbe essere motivo di vera e propria detenzione, e le grida più forti sui diritti umani provengono da coloro che odiano gli esseri umani. Allo stesso modo, il femminismo è solo una versione aggressiva ed estremista della misoginia radicale. La situazione è complicata dal fatto che la prossima svolta della storia richiede una vera e propria apologia dell’uomo (del genere in generale) e dell’essere umano in quanto tale, per rimanere almeno dove siamo.

Oggi, tuttavia, questo è esattamente ciò che è categoricamente vietato dalle élite, anche nella nostra società, tanto che i post-uomini e i post-umani vi si sono radicati e contrariamente ai “valori tradizionali” sanciti dal Decreto n. 809, i liberali dominano ancora in Russia come legislatori del paradigma dominante, l’episteme. Di fatto, l’élite russa sta sabotando direttamente le decisioni del Presidente in merito al ritorno alla normalità e senza questa inversione di tendenza, non ci potranno essere scuse vere e proprie.

Questo è ciò che stiamo affrontando in questo momento. Siamo in guerra con una civiltà liberale e globalista, ma rimaniamo quasi interamente sotto il suo controllo ideologico. La guerra è al suo secondo anno e c’è un sabotaggio totale, contrariamente a quanto il Presidente ha detto e fatto. Questo è il problema. Forse non si tratta di come vincere, ma di come iniziare una vera guerra.

La guerra è un affare di uomini. La guerra è un affare degli uomini. Prima di tutto, entrambi devono essere giustificati e mettere l’altro al suo posto.

Cercate l’uomo! Cercare l’uomo, questo è ciò che dobbiamo assolutamente fare.

Ma sentite come suona inquietante?! Abbiamo già inserii in noi dei programmi mentali che non ci permettono nemmeno di pensare in questa direzione e stanno funzionando. Siamo attivamente e intensamente demascolinizzati e disumanizzati e chi resiste viene relegato ai margini, agli oscurantisti, bollato con le etichette più disgustose e poi ucciso.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Per la lettura dell’articolo: https://www.geopolitika.ru/it/article/post-uomini-o-post-umani

 

Il mondo questa settimana

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dettaglio_putin_potere_820Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale clicca qui

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: il mandato di cattura contro Putin, la risposta della Cina al patto Aukus, il piano Ue per la decarbonizzazione e le materie prime, la riforma delle pensioni in Francia, il nuovo accordo tra Argentina e Fmi, le elezioni in Nigeria…

MANDATO DI CATTURA PER PUTIN [di Mirko Mussetti]

La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il suo commissario per i diritti dei bambini Marija L’vova-Belova per deportazione illegale di minori ucraini. Secondo i giudici istruttori, vi sono «ragionevoli motivi per ritenere che i sospettati siano responsabili del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a danno dei fanciulli ucraini». Si stima che i bambini ucraini deportati dall’inizio dell’invasione russa siano circa 6 mila. I giudici hanno preso in considerazione l’emissione di un mandato segreto, ma infine hanno optato per il mandato pubblico per «contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di reati».

Il mandato di cattura spiccato contro Putin avviene a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che non classifica le azioni belliche della Russia come “genocidio”. La commissione indipendente dell’Onu conferma però la commissione di reati da parte delle forze di occupazione e definisce il trasferimento illegale di bambini al di fuori dell’Ucraina come “crimine di guerra”.

Mosca ha immediatamente bollato come insignificante la decisione della Corte. Infatti, al pari degli Stati Uniti (e della stessa Ucraina), la Russia non riconosce la giurisdizione della Cpi, non avendo mai ratificato lo statuto di Roma del 1998. Per questo genere di questioni, Mosca ritiene preminente la Corte internazionale di giustizia (Cig), che è organismo delle Nazioni Unite con sede anch’esso all’Aia (Paesi Bassi). L’atto ha valore simbolico ma è poco significativo in concreto. Tanto per cominciare, il presidente Putin dovrebbe essere catturato. Cosa piuttosto improbabile vista la sua riluttanza a uscire dai confini della Federazione. Inoltre anche in Russia è radicata la convinzione che a stabilire ciò che è crimine di guerra non sia un giudice terzo, bensì il vincitore. Ecco perché il Cremlino non se ne cura: la storia è scritta dai vincitori e la Russia confida nella vittoria definitiva in Ucraina. Le autorità ucraine hanno comunque salutato con favore la decisione della Cpi, che oltre a complicare i viaggi all’estero di Putin conferma la rottura diplomatica/istituzionale tra Occidente e Russkij Mir (mondo russo).

Non deve stupire il basso profilo adottato dagli Stati Uniti sulla questione. Il dipartimento della Difesa si è mostrato riluttante a condividere le prove di possibili crimini di guerra russi con la Cpi e il presidente Joe Biden non ha agito per risolvere le controversie che contrappongono il Pentagono ad altre agenzie, dipartimento di Stato in primis. Washington vuole infatti evitare di contribuire a creare un precedente. Un domani la stessa America potrebbe essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nelle guerre condotte negli ultimi trent’anni.


🎨 Carta inedita della settimana: La rotta del grano


LA CINA CONTRO AUKUS [di Giorgio Cuscito]

L’aspra replica del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese all’ufficializzazione dei dettagli dell’accordo tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia sui sottomarini a propulsione nucleare (il patto Aukus) conferma l’apprensione di Pechino circa il consolidamento della tattica di contenimento americano nell’Indo-Pacifico.

Contenimento che il governo di Xi Jinping vorrebbe scardinare tramite il presidio dei Mari Cinesi, il controllo di Taiwan (se necessario da conseguire manu militari), la penetrazione in Oceania con investimenti infrastrutturali nell’ambito delle nuove vie della seta e accordi securitari come quello concluso con le Isole Salomone.

Aukus mina questo progetto perché contribuisce alla proiezione militare dell’Australia in direzione della Repubblica Popolare (poco conta il fatto che i cinesi abbiano rimosso le restrizioni alle importazioni di carbone australiano) e getta le basi per nuove collaborazioni tra Canberra, Washington e Londra. Basti pensare al possibile sviluppo congiunto di missili ipersonici, vettore che Pechino sta testando da alcuni anni. Oppure alle molteplici iniziative militari e accademiche promosse da Usa, Australia, Giappone e India per allacciare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) alla Nato e favorire la collaborazione tecnologica tra rivali della Repubblica Popolare.

Il consolidamento del fronte anticinese in tale ambito – che coinvolge pure Taiwan – è una delle ragioni che nel 2023 spingerà Pechino a intensificare gli sforzi per perseguire la cosiddetta “autosufficienza” nel campo dei semiconduttori, cruciali a loro volta per il potenziamento del proprio arsenale militare. Non a caso i due obiettivi sono stati messi per iscritto durante le riunioni plenarie del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Cioè le “due sessioni” che hanno confermato Xi Jinping capo di Stato per la terza volta.


IL PIANO UE PER LA DECARBONIZZAZIONE [di Fabrizio Maronta] Net Zero Industry Act. Questo il nome del piano, presentato giovedì dalla Commissione europea, per incentivare e rafforzare le industrie europee a impatto carbonico neutro (cioè compensato, oltre che ridotto in partenza). Il piano, afferma Bruxelles, mira a “rendere il nostro sistema energetico più sicuro e sostenibile”, facendo sì che “le tecnologie a impatto carbonico neutro raggiungano almeno il 40% della capacità manifatturiera europea entro il 2030”. Ciò senza compromettere, anzi incentivando, “competitività, impieghi di qualità, indipendenza energetica”.
Il pregio del piano, o almeno delle sue intenzioni, è mettere da subito in chiaro il nesso ormai inscindibile tra problematica ambientale e suoi risvolti sociali e geopolitici. Sull’onda di Covid-19, guerra in Ucraina e scontro tecnologico Usa-Cina, perseguire la transizione energetica senza tener conto del contesto strategico e dei costi socioeconomici implica gettare alle ortiche la tanto decantata “sostenibilità”, relegando la decarbonizzazione al novero delle occasioni mancate.
Un assaggio del problema, meglio dei suoi possibili esiti si è avuto recentemente con l’iniziativa tedesco-italiana volta a ritardare la messa al bando dei motori endotermici, per comprare tempo a un’industria dell’auto che deve ripensare completamente filiere e tecnologie.
Due i nodi principali del piano europeo. Primo: i soldi. La Commissione europea stima in 400 miliardi di euro all’anno i costi per raggiungere i propri obbiettivi di decarbonizzazione entro il 2050. Ma tutto questo denaro nel piano non c’è, anche perché l’Ue manca di capacità fiscale propria. E in molti dubitano che i capitali privati possano mobilitare un simile volume d’investimenti per un periodo così ampio.
Il paragone immediato è con l’America, che gioca la sua partita di reindustrializzazione/decarbonizzazione a suon di incentivi pubblici: il Chips and Science Act stanzia 280 miliardi di dollari per promuovere ricerca e produzione interne dei semiconduttori; l’Inflation Reduction Act ne destina 369 all’energia pulita; il precedente Build Back Better mette sul piatto mille miliardi per rinnovare le infrastrutture nazionali. Non abbastanza, ma molto più di noi.
Il secondo problema sono le materie prime. La recente scoperta, nell’Artico svedese, di un grande deposito di terre rare da parte della società mineraria Lkab ha fatto il giro del mondo. Ma ci vorranno anni e – di nuovo – investimenti enormi per approssimare un’autosufficienza europea in questo settore critico per le tecnologie elettriche e informatiche. L’estrazione è solo il primo passo di una filiera (raffinazione, riciclo) su cui l’Europa è molto indietro. Al pari dell’America, certo, ma senza gli spazi fisici di questa dove ospitare siti vasti, altamente energivori ed ecologicamente impattanti.
Cruciale sarà poi capire quanto questo sforzo economico sia compatibile con l’aiuto alla ricostruzione ucraina, che sia annuncia tremendamente oneroso. Non stupirebbe se i paesi europei giungessero alla conclusione che i due compiti si elidono a vicenda, optando per concentrarsi (quasi) esclusivamente sul primo. Con quali conseguenze sulla stabilità ucraina e sulla relazione transatlantica, sarebbe tutto da vedere.

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


IL 49.3 CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO [di Agnese Rossi]

In Francia, il ricorso all’articolo 49.3 della costituzione ha permesso a Emmanuel Macron di far passare l’impopolare disegno di legge sulla riforma del sistema pensionistico senza discussione parlamentare. Il presidente, che non dispone di una maggioranza assoluta in Assemblea nazionale (la camera bassa del parlamento), ha preferito non esporre il progetto al voto, dunque al rischio di una bocciatura. I deputati hanno accolto l’annuncio della premier Élisabeth Borne fischiando e intonando la Marsigliese. Le forze di opposizione hanno quindi depositato venerdì una mozione di sfiducia transpartisan sottoscritta da 91 deputati di cinque gruppi politici che potrebbe portare allo scioglimento del governo (verrà esaminata lunedì). Nel pomeriggio di giovedì e nella notte seguente si sono registrati violenti focolai di protesta in diverse città della Francia, a partire da quello nella capitale in Place de la Concorde, la stessa che ha ospitato la ghigliottina nella stagione rivoluzionaria aperta dal 1789 e che ieri è stata teatro di aspri scontri tra le forze di polizia e migliaia di manifestanti.

La partecipazione popolare ampia e trasversale di ieri e delle precedenti giornate di mobilitazione rivela in primo luogo il valore simbolico e identitario che lega i cittadini della République al proprio sistema di protezione sociale, che fissa l’età pensionabile a 62 anni – una delle più basse in Europa – contro i 64 previsti dalla riforma. Ma anche una diffusa disponibilità alla violenza al fine di preservarlo nella forma attuale. Il sistema pensionistico dell’Esagono, cui viene tributato il 14,5% del pil, è in effetti uno dei più dispendiosi: il suo impianto generale risale al secondo dopoguerra, quando solo un terzo della popolazione viveva fino all’età della pensione. Le aspettative di vita sono negli anni gradualmente aumentate, ragion per cui tutti i presidenti da Mitterand in poi l’hanno riformato. Neanche il ricorso all’articolo 49.3 è di per sé inedito: si calcola che sia stato impiegato 100 volte nella storia della Quinta repubblica, l’ultima in ottobre per far passare la legge di bilancio. Inusitata è stata in proporzione la rabbia sociale manifestata dai cittadini francesi, alimentata dal rifiuto di Macron di confrontarsi con i sindacati. L’impopolarità del piano si comprende meglio alla luce del preesistente scontento nei confronti dell’inquilino dell’Eliseo, che ha fatto della riforma una missione personale.

Il secondo mandato è infatti per il presidente francese l’ultima occasione per consolidare la propria eredità politica. In questa chiave va letta non solo la riforma delle pensioni ma anche la parallela e altrettanto contestata riforma della diplomazia, su cui proprio ieri – nel mezzo del tumulto – Macron è tornato a insistere e che lo scorso giugno ha portato al raro spettacolo di uno sciopero al Quai d’Orsay (il ministero degli Esteri transalpino). Se Macron verrà ricordato come un abile riformatore o come un Giove distante e sordo alle esigenze reali del paese dipende anche dalle evoluzioni di questa vicenda. Che sembra comunque aver compromesso parte della sua legittimazione politica e popolare, aprendo allo spettro di una nuova ondata di malcontento.


L’ARGENTINA TRA FMI ED ECUADOR [di Federico Larsen]

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Argentina hanno raggiunto un nuovo accordo di revisione degli obiettivi pattuiti nel 2022 per il piano sul debito da 45 miliardi di dollari contratto da Buenos Aires nel 2018. Si tratta dell’aiuto più consistente mai elargito nella storia del Fmi, criticato dallo stesso staff tecnico del Fondo in un documento di revisione nel dicembre 2021: secondo quel rapporto, il supporto elargito è evidentemente troppo oneroso per essere restituito nei tempi pattuiti e buona parte dei fondi sono stati usati per sostenere artificiosamente il tipo di cambio col dollaro, invece di puntellare la debole economia argentina. Un mea culpa che spiega in parte certa flessibilità mostrata dall’organismo durante le negoziazioni con Buenos Aires e la disposizione a rivedere gli obiettivi stabiliti due anni fa, tenuto conto dei drastici cambiamenti del panorama economico mondiale e locale.
Ritoccati gli obiettivi sull’accumulo delle riserve dai 9,8 miliardi di dollari previsti originalmente per il 2024 a solamente 2 miliardi, l’Fmi rilascerà un nuovo pacchetto da 5,3 miliardi per coprire una tranche del debito del fallito piano di salvataggio dell’allora presidente Mauricio Macri, ma in cambio di nuovi tagli ai sussidi sull’energia e del raggiungimento della meta fiscale già accordata, che prevede di non sforare il 1,9% di deficit per quest’anno. Un traguardo che la maggior parte degli esperti in Argentina considera irraggiungibile. Solo nei mesi di gennaio e febbraio la siccità ha causato riduzioni nelle esportazioni agricole che significheranno una perdita di 15 miliardi di dollari per il fisco, mentre l’inflazione su base annua ha ormai superato il 100%, obbligando il governo a rivedere anche gli accordi salariali con i dipendenti pubblici e quindi ad aumentare le spese più del previsto.
Debito, inflazione e crisi sociale stanno facendo sfumare le già poche speranze di rielezione per l’attuale coalizione di governo e si moltiplicano le voci che propongono la dichiarazione di un nuovo default (bancarotta). Tra le soluzioni al drastico tracollo argentino si torna a parlare di Brics+: se hanno mantenuto gli scambi commerciali con la Russia nel pieno delle sanzioni per la guerra in Ucraina, perché non sostenerli con un’Argentina in bancarotta e tagliata fuori dal sistema di Bretton Woods?
Nemmeno le relazioni diplomatiche sembrano attraversare un momento del tutto positivo. Mercoledì il governo dell’Ecuador ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore argentino dopo che si è scoperto che l’ex ministra dei Trasporti – María de los Ángeles Duarte, condannata in patria a otto anni di prigione per corruzione e rifugiatasi nell’ambasciata argentina a Quito – era riuscita a raggiungere Caracas, dove ha chiesto lo status di rifugiata alla locale sede diplomatica argentina. Il governo di Guillermo Lasso accusa Buenos Aires di aver permesso la fuga di Duarte, che aggirando tutti i controlli delle autorità ecuadoriane ha messo in ridicolo l’esecutivo. Il presidente dell’Ecuador ripropone la vecchia dicotomia tra liberali e populisti in America Latina per alleviare le proprie responsabilità: così il suo omologo argentino Alberto Fernandez sarebbe complice dell’ex presidente della sinistra ecuadoriana Rafael Correa nel garantire l’impunità a Duarte d’accordo con il presidente venezuelano Nicolás Maduro.
Un intreccio degno forse del passato protagonismo continentale dell’Argentina, che oggi sembra davvero molto lontano.


ELEZIONI IN NIGERIA [di Luciano Pollichieni]

Entrambi i partiti sconfitti alle elezioni presidenziali in Nigeria hanno annunciato di voler fare ricorso contro i risultati delle votazioni che hanno sancito la vittoria di Bola Tinubu.
Lo svolgimento delle elezioni in Nigeria non è stato lineare. Del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti? Con le regioni del nord-est oggetto delle scorribande di gruppi criminali, quelle nordoccidentali colpite dall’insurrezione dello Stato Islamico e violenze politiche diffuse, nessuno può biasimare la commissione elettorale indipendente (Inec) per non aver mantenuto gli standard garantiti. In secondo luogo, paradossalmente i ricorsi annunciati da Atiku Abubakar (candidato del People’s Democratic Party che ha raccolto il 29% dei voti) e da Peter Obi (Labour Party, 25,40% dei voti) non sono altro che il proseguimento per via giudiziaria di quella frammentazione geopolitica e identitaria che il processo elettorale ha semplicemente messo in luce.
Salvo colpi di scena, sempre dietro l’angolo nella politica nigeriana, sembra difficile che la Corte suprema possa ribaltare il risultato delle urne per almeno due motivi: primo, le obiezioni da parte degli sconfitti sono poco chiare, contraddittorie o molto generiche, come nel caso di Obi che ha denunciato un complotto ordito contro il suo partito senza spiegare da chi; secondo, l’imminenza delle prossime elezioni regionali. La Nigeria è chiamata sabato 18 marzo a eleggere 28 dei 36 governatori federali, incluso quello dello Stato di Lagos – feudo del presidente eletto Tinubu – e una pronuncia contro il risultato elettorale potrebbe generare una pericolosa reazione a catena di ricorsi anche nell’ambito delle regionali che getterebbero il paese nello stallo istituzionale, polarizzando ulteriormente l’elettorato.
Tra le numerose crisi interne e la richiesta ad Abuja da parte dei partners regionali e globali di un ruolo più proattivo nella geopolitica continentale e dell’Africa Occidentale, l’idea di un paese paralizzato per un mese in vista della pronuncia della Corte suprema non appare incoraggiante. Le elezioni vanno avanti, ma della nuova classe dirigente non c’è ancora traccia.

Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


ALTRE NOTIZIE DELLA SETTIMANA

Fonte: https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-putin-cpi-ue-terre-rare-francia-cina-aukus-argentina-fmi-nigeria/131529

 

L’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/03/13/loccidente-ha-provocato-la-guerra-in-ucraina/

SECONDO LO STORICO AMERICANO BENJAMIN ABELOW SONO GLI STATI UNITI E LA NATO A ESSERE I PRINCIPALI RESPONSABILI DELLA CRISI UCRAINA

Venerdì 10 Marzo 2023 il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato al programma Big Game di Channel One: “… Contro la Russia si stanno usando un linguaggio, una retorica e delle azioni estremamente aggressive, soprattutto sotto forma di sanzioni illegali e senza precedenti. L’Occidente lo ha deciso da solo che questa è una guerra all’ultimo sangue. […] La filosofia “con noi o con la Russia” è stata alimentata dall’Unione Europea fin dall’inizio della situazione geopolitica, dopo la scomparsa dell’URSS“.

Quando c’è di mezzo una guerra di potere geopolitico, la propaganda di parte domina, perciò sono necessarie letture il più possibile super partes, perché in tali frangenti e, soprattutto, quando qualcuno vincerà, scriverà la storia a modo suo, imponendo un pensiero unico, che, molto spesso è lontano dalla verità. La filosofia “o con noi [Occidente], o con la Russia” non è un’invenzione di Lavrov ma la realtà che viviamo tutti i giorni. L’impressione è che si tratti di un espediente per impedire di ricercare e raccontare i fatti, senza la mediazione della propaganda. Ma non tutti si piegano a questa superficialità, non per essere dei “bastian contrari”, ma perché se i fatti diventano crimini e le menzogne vengono scoperte, il giudizio diventa più realistico.

Nonostante un consenso generale in ascesa, il governo Meloni non trova il sostegno del 57% del popolo italiano, secondo un sondaggio condotto da Iai e Laps, in merito al sostegno militare in Ucraina. Con un debito ormai al 150% del Pil, servito interamente dal risparmio privato mondiale, l’Italia non può permettersi una politica come quella ungherese di Victor Orban, che, invece, ha un debito sovrano al 75% del Pil e vanta la possibilità di praticare una politica monetaria indipendente col 20% di inflazione annuo.

Secondo lo storico americano Benjamin Abelow sono gli Stati Uniti e la NATO a essere i principali responsabili della crisi ucraina. Attraverso una storia trentennale di decisioni politiche sbagliate e di provocazioni, iniziate durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Washington e i suoi alleati europei hanno posto la Russia in una situazione considerata insostenibile da Putin e dal suo staff militare. Attraverso il libro “Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina” (Fazi Editore, Febbraio 2023 eu. 10,00) all’autore bastano 70 pagine per mostrare in modo chiaro e convincente come l’Occidente abbia innescato il conflitto ucraino, mettendo i propri cittadini e il resto del mondo di fronte al rischio reale di una guerra nucleare. Abelow dà voce ad autorevoli analisti politici, militari e funzionari governativi degli Stati Uniti – tra questi John J. Mearsheimer, Stephen F. Cohen, George F. Kennan, Douglas Macgregor – che ci fanno comprendere le ragioni più profonde, mistificate o taciute, della tragedia in corso.

Tutti questi esperti di politica estera sull’ espansione della NATO in Europa orientale dissero al loro grande e superpotente Paese che tale politica avrebbe commesso un pericoloso errore strategico. George Kennan, che si può ritenere il più insigne statista americano del secolo scorso, mise in guardia già nel 1997: “L’allargamento della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana in tutta l’era post guerra fredda”. Kennan aggiungeva poi, l’anno successivo, in un’intervista a Thomas Friedman: “Ma davvero non lo capiamo? Le nostre divergenze durante la guerra fredda erano con il regime comunista sovietico. E adesso stiamo voltando le spalle proprio alle persone che hanno organizzato la più grande rivoluzione incruenta della storia per rimuovere quel regime”. Fiona Hill, ben inserita negli ambienti di Washington e convinta antirussa, in una intervista pubblicata di recente sulla rivista online “Politico” ammette che gli Stati Uniti hanno commesso dei terribili errori.

Quanto a Putin, la Hill ha specificato: “Penso ci sia un piano razionale e metodico che risale a molto tempo fa, almeno al 2007, quando [Putin] mise in guardia il mondo, e certamente l’Europa, che Mosca non avrebbe accettato un’ulteriore espansione della NATO. E poi, nel giro di un anno, nel 2008, la NATO ha aperto le porte alla Georgia e all’Ucraina. Risale certamente a quel frangente”. Ciò dimostra che già nel lontano 2007, sette anni prima dell’annessione della Crimea, l’intelligence americana era consapevole che esisteva “un rischio reale e concreto” che, in risposta all’espansione della NATO, la Russia annettesse la Crimea, così come sapeva che questa espansione ad est avrebbe potuto innescare una vasta azione militare russa, molto più ampia, estesa all’Ucraina ed alla Georgia.

Abelow analizza, di fatto, una storia controfattuale, ma molto utile a comprendere la situazione: “Se gli Stati Uniti non avessero esteso la NATO fino ai confini con la Russia; se non avessero schierato sistemi di lancio di missili con capacità nucleare in Romania e non li avessero messi in cantiere in Polonia e forse anche in altri Paesi; se non avessero contribuito al rovesciamento del governo ucraino democraticamente eletto nel 2014; se non si fossero ritirati dal trattato ABM e dal trattato sui missili nucleari a raggio intermedio, e non avessero poi ignorato i tentativi russi di negoziare una moratoria bilaterale su tali dispiegamenti; se non avessero condotto esercitazioni a fuoco vivo in Estonia per addestrarsi a colpire obiettivi all’interno della Russia; se non avessero raccordato l’esercito americano con quello ucraino, se gli stati Uniti e i loro alleati NATO non avessero fatto tutte queste cose, la guerra in Ucraina probabilmente non sarebbe scoppiata”. Penso sia una affermazione ragionevole. In una recente intervista, il professore emerito di Politica russa ed europea all’Università del Kent Richard Sakwa ha asserito che Zelensky avrebbe potuto ricercare la pace con la Russia pronunciando solo cinque parole: “L’Ucraina non aderirà alla NATO”. Ha, altresì, fatto il contrario a causa della continua ingerenza di USA e NATO.

“Oggi – conclude Benjamin Abelow – i leader politici di Washington e delle capitali europee, assieme ai mezzi di informazione allineati e codardi che riportano acriticamente le loro sciocchezze, cercano di tirarsi fuori dal fango ma ci sono dentro fino al collo. E’ difficile pensare come coloro che sono stati talmente sciocchi da infilarsi in quel fango possano trovare la saggezza per uscirne prima di affondare del tutto e portare giù con sé tutti noi”.

La responsabilità dei governanti nel conflitto ucraino

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di Thierry Meyssan

Fonte: Voltairenet

In occasione del primo anniversario dell’intervento russo, l’Alleanza Atlantica glorifica l’Ucraina. La osserviamo servirsi della più ingannatrice delle propagande; la vediamo maneggiare omissioni, nonché talvolta menzogne. A differenza di quanto sostiene la Nato, l’attacco della Russia non è mai stato illegale, sebbene oggi appaia a molti non più necessario, quindi da interrompere. Ma le cause che hanno portato alla guerra permangono e il Cremlino prevede un secondo round del conflitto: non per annettere l’Ucraina o la Moldavia, ma per salvare la Transnistria.
Gli Occidentali hanno approfittato del primo anniversario dello scontro militare Oriente-Occidente in Ucraina per convincere le opinioni pubbliche che si trovano “dalla parte giusta della Storia” e che la vittoria è “inevitabile”.
Non c’è da sorprendersi. È normale che i governi divulghino il proprio operato. Ma in questo caso le informazioni sono menzogne per omissione e i commenti sono propaganda. Siamo di fronte a un tale rovesciamento della realtà che c’è da chiedersi se, in definitiva, gli sconfitti della seconda guerra mondiale non siano oggi al potere a Kiev.

“La guerra illegale, ingiustificabile e non-provocata della Russia”
Tutti gli interventi occidentali ribadiscono con forza che l’Occidente condanna la “guerra illegale, ingiustificabile e non-provocata della Russia”. È oggettivamente falso.
Lasciamo da parte l’attributo “ingiustificabile”, che rinvia a una posizione morale indegna. Nessuna guerra è giusta. Ogni guerra è risultato non di un errore, ma di un fallimento. Analizziamo invece la definizione di guerra “non-provocata”.
Secondo la diplomazia russa la vicenda è cominciata con l’operazione statunitense-canadese del 2014 e il rovesciamento del presidente ucraino democraticamente eletto, Viktor Janucovič, in violazione della sovranità ucraina, quindi della Carta delle Nazioni Unite. Non si può negare che Washington abbia svolto un ruolo determinante nella cosiddetta “rivoluzione della dignità”: l’allora vicesegretaria di Stato per l’Europa e l’Eurasia, Victoria Nuland, si è esibita alla testa dei golpisti.
Secondo la diplomazia cinese, che ha da poco pubblicato due documenti sulla questione, non bisogna fermarsi all’operazione del 2014: per individuare la prima violazione della sovranità ucraina e della Carta delle Nazioni Unite bisogna risalire alla “rivoluzione arancione” del 2004, anch’essa organizzata dagli Stati Uniti. La Russia non vi fa riferimento perché, a differenza che nel 2014, vi svolse un ruolo.
Gli Occidentali sono talmente assuefatti alla disinvoltura degli Stati Uniti nel manipolare folle e rovesciare governi da aver smarrito la capacità di percepire la gravità di questi atti. Dal rovesciamento del 1953 di Mohammad Mossadeq in Iran a quello del 2018 di Serge Sarkissian in Armenia, gli Occidentali si sono abituati ai cambiamenti forzati di regime. Non importa che i politici rovesciati fossero buoni o cattivi governanti. In ogni caso è inammissibile che uno Stato straniero ne abbia organizzato il rovesciamento nascondendosi dietro oppositori nazionali. Sono atti di guerra senza intervento militare.
I fatti sono testardi. La guerra in Ucraina è stata provocata dalle violazioni della sovranità ucraina del 2004 e 2014, indi da otto anni di guerra civile.
La guerra non è illegale nemmeno secondo il diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite non vieta il ricorso alla guerra. Il Consiglio di Sicurezza ha persino il potere di dichiararla (articoli da 39 a 51). La particolarità della situazione attuale è che la guerra oppone membri permanenti del Consiglio.
La Russia ha cofirmato gli Accordi di Minsk per mettere fine alla guerra civile. Tuttavia, non essendo nata ieri, ha presto capito che gli Occidentali non volevano la pace, bensì la guerra. Sicché, cinque giorni dopo la conclusione degli Accordi di Minsk, li ha fatti avallare dal Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione 2202; poi ha costretto l’oligarca russo Konstantin Malofeïev a ritirare i suoi uomini dal Donbass ucraino. Mosca ha inoltre fatto aggiungere alla risoluzione una dichiarazione in cui i presidenti di Francia, Ucraina, Russia e la cancelliera tedesca si facevano garanti dell’applicazione degli Accordi, impegnando i rispettivi Paesi.
Nei giorni successivi la firma degli Accordi il presidente ucraino Petro Poroshenko ha subito dichiarato che era fuori questione ogni cessione territoriale, anzi, gli abitanti del Donbass andavano puniti.
L’ex cancelliera Angela Merkel ha dichiarato a Die Zeit che con la firma degli Accordi voleva solo guadagnare tempo per permettere alla Nato di armare Kiev. Merkel ha chiarito la sua posizione in una discussione con un provocatore che si spacciava per l’ex presidente Poroshenko.
L’ex presidente François Hollande ha confermato al Kyiv Independent le affermazioni di Angela Merkel.
La Russia invece il 24 febbraio 2022 ha iniziato un’operazione militare speciale in ottemperanza alla “responsabilità di proteggere” assunta con la firma degli Accordi. Sostenere che l’intervento russo in Ucraina è illegale equivale a dire, per esempio, che l’intervento della Francia durante il genocidio in Rwanda era illegale e che si doveva lasciar continuare il massacro.
Le e-mail del consigliere speciale del presidente russo Putin, Vladislav Surkov recentemente rivelate dagli ucraini, non fanno che confermare questo svolgimento dei fatti. Negli anni successivi agli Accordi la Russia ha aiutato le Repubbliche ucraine del Donbass a prepararsi mentalmente all’indipendenza. Un’ingerenza illegale, ma che rispondeva a un’ingerenza altrettanto illegale degli Stati Uniti, che non armavano l’Ucraina bensì i nazionalisti integralisti ucraini. La guerra era già iniziata, ma combattuta solo da ucraini. Ha fatto 20 mila morti in otto anni. Gli Occidentali e la Russia intervenivano solo indirettamente.
Bisogna capire la portata di quanto affermato da Merkel e Hollande: fingendo di negoziare la pace hanno commesso il peggiore dei crimini. Infatti, secondo il Tribunale di Norimberga, i “crimini contro la pace” sono più gravi addirittura dei “crimini contro l’umanità”, perché non sono causa di questo o quest’altro massacro, ma sono causa della guerra. Per questa ragione il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha chiesto la convocazione di un nuovo Tribunale di Norimberga per giudicare Merkel e Hollande. L’istanza di Volodin non è stata diffusa dalla stampa occidentale.
L’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia del 16 marzo 2022 ha stabilito a titolo cautelativo che la “Federazione di Russia deve sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina” (rif.: A/77/4, paragrafi da 189 a 197). Mosca non ha ubbidito, ritenendo che la Corte fosse stata chiamata a giudicare sulla natura genocidaria di quanto perpetrato da Kiev contro la sua stessa popolazione, non sull’operazione militare finalizzata a proteggere la popolazione ucraina.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha da parte sua adottato molte risoluzioni, l’ultima è la A/ES-11/L.7 del 23 febbraio 2023 che afferma: “Si esige nuovamente l’immediato, completo e incondizionato ritiro di tutte le forze militari della Federazione di Russia dal territorio ucraino all’interno delle proprie frontiere internazionalmente riconosciute e si chiede la cessazione delle ostilità”.
Nessuno di questi testi dichiara l’intervento russo illegale. Entrambi ordinano o pretendono che l’esercito russo si ritiri. 141 Stati su 193 ritengono che la Russia debba cessare l’intervento. Alcuni di questi Stati giudicano l’intervento illegale, ma la maggior parte crede che “non è più necessario” ed è causa di inutili sofferenze. Non è affatto la stessa cosa.
L’ottica degli Stati è diversa da quella dei giuristi. Il diritto internazionale può sanzionare solo ciò che esiste. Gli Stati invece devono proteggere i cittadini dai conflitti che si profilano, prima che sia troppo tardi per porvi rimedio. Per questa ragione il Cremlino non ha ottemperato alle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Non si è ritirato dal campo di battaglia. Per otto anni ha infatti osservato la Nato armare l’Ucraina e preparare la guerra. Sa anche che il Pentagono sta pianificando una seconda puntata della guerra: in Transnistria. Quindi deve proteggere la popolazione da questa seconda operazione. Così come ha deciso la data dell’intervento in Ucraina sulla base di informazioni di un imminente un attacco di Kiev in Donbass, successivamente confermate, ora ha deciso di liberare tutta la Novorossia, Odessa inclusa. Una decisione inaccettabile giuridicamente fino a quando non ci saranno prove dei maneggi occidentali, ma sin da ora necessaria dal punto di vista della responsabilità.
Evidentemente queste ottiche diverse non sono sfuggite agli osservatori. Il fatto di giudicare l’intervento russo “non più necessario” non va confuso con il sostegno all’Occidente. Infatti solo 39 Stati su 191 partecipano alle sanzioni occidentali contro la Russia e inviano armi in Ucraina.

L’Ucraina è una “democrazia”
Il secondo cavallo di battaglia dei dirigenti occidentali è che l’Ucraina è una “democrazia”. Prescindendo dal fatto che il termine democrazia ha perso ogni significato perché le classi medie spariscono e il divario di ricchezza è il più importante di tutta la storia dell’umanità, e quindi è sempre più divergente dall’ideale di uguaglianza, l’Ucraina è tutto meno che una democrazia.
L’Ucraina è l’unico Paese al mondo ad avere una Costituzione razzista. L’articolo 16 stabilisce infatti che “Preservare il patrimonio genetico del popolo ucraino è dovere dello Stato”; un passaggio redatto da Slava Stetsko, vedova del primo ministro nazista ucraino.
Questo è il punto dolente. Almeno dal 1994 i nazionalisti integralisti (da non confondere con i nazionalisti tout court), ossia coloro che si richiamano all’ideologia di Dmytro Dontsov e ll’azione di Stepan Bandera, occupano alti ranghi nello Stato ucraino. Di fatto questa ideologia si è radicalizzata con il tempo. Durante la seconda guerra mondiale ha assunto un significato diverso rispetto alla prima. Fatto sta che dal 1942 Dmytro Dontsov fu uno degli ideatori della “soluzione finale delle questioni ebraica e zigana”. Fu amministratore dell’organo del III Reich incaricato di assassinare milioni di persone per la loro origine etnica, l’Istituto Reinhard Heydrich di Praga. Quanto a Bandera, fu il capo militare dei nazisti ucraini. Ordinò molti pogrom, nonché massacri di massa. Contrariamente a quello che sostengono i suoi attuali seguaci, non fu mai internato in un campo di concentramento, ma fu messo agli arresti domiciliari nella periferia di Berlino, nella sede dell’amministrazione dei campi di concentramento. Peraltro finì la guerra dirigendo le truppe ucraine agli ordini diretti del führer Adolf Hitler.
A un anno dall’inizio dell’intervento militare russo, in Ucraina si vedono simboli nazionalisti integralisti ovunque. Il giornalista di Forward, Lev Golinkin, che ha iniziato una ricognizione in tutto il mondo dei monumenti in memoria di criminali implicati nei crimini nazisti, ha redatto uno sbalorditivo elenco dei monumenti di questo tipo anche in Ucraina. Secondo Golinkin, sono quasi tutti di epoca successiva al colpo di Stato del 2014. È perciò evidente che le autorità uscite dal colpo di Stato fanno riferimento proprio al nazionalismo integralista, non al nazionalismo tout court. E per chi dubita che il presidente ebreo Zelensky celebri i nazisti, rammentiamo che due settimane fa ha conferito alla 10a Brigata d’assalto autonoma da montagna “il titolo onorifico Edelweiss”. Edelweiss fa riferimento alla 1a Divisione da montagna nazista che “liberò” (sic) Kiev, Stalino, i passaggi del Dnepr, nonché Karkiv.
Poche sono le personalità occidentali che hanno assentito alle affermazioni del presidente Putin e del ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, sulla questione. Tuttavia l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett e l’ex ministro della Difesa, Benny Gantz, hanno più volte dichiarato che l’Ucraina doveva sottostare alle ingiunzioni di Mosca almeno su questo punto: Kiev deve distruggere tutti i simboli nazisti esposti. Poiché Kiev si rifiuta di farlo, Israele non consegna armi all’Ucraina: nessun’arma israeliana sarà messa nelle mani dei successori dei massacratori di ebrei. Evidentemente questa posizione può mutare con il governo di coalizione di Benjamin Netanyahu, egli stesso erede dei sionisti revisionisti di Vladimir Jabotinsky che si allearono con i nazionalisti integralisti contro i sovietici.
L’attuale politica del governo di Zelensky è incomprensibile. Da un lato le istituzioni democratiche funzionano; dall’altro, non solo si celebrano ovunque i nazionalisti integralisti, ma sono stati vietati i partiti politici di opposizione e la Chiesa ortodossa che fa riferimento al Patriarcato di Mosca; sono stati distrutti milioni di libri perché scritti o stampati in Russia; sei milioni di ucraini sono stati dichiarati “collaboratori dell’invasore russo” e sono stati uccisi personaggi che li sostengono.
(traduzione di Rachele Marmetti)

 

Mediterraneo: epicentro del conflitto tra civiltà e barbarie atlantica

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

Siamo alle soglie di un’epoca di transizione. La guerra tra USA e Russia in Ucraina, con la relativa crisi energetica, così come la pandemia, a cui ha fatto seguito l’incipit della quarta rivoluzione industriale e della transizione ambientale, sono eventi destinati a sconvolgere gli equilibri geopolitici preesistenti e con essi, il modello economico – politico neoliberista globale. L’area mediterranea, già emarginata nel contesto geopolitico mondiale, è destinata ad assumere un ruolo di protagonista nel futuro nuovo ordine mondiale multipolare, scaturito dal declino dell’unilateralismo americano.
Dopo la fine del bipolarismo della Guerra fredda, le sponde mediterranee del sud e dell’est, oltre ad essere sconvolte dalle guerre mediorientali e dai conflitti delle “primavere arabe”, sono divenute l’epicentro delle migrazioni di massa provenienti dall’Africa e dall’Asia. Il fenomeno migratorio è del tutto connaturato al modello di sviluppo neoliberista globale, che prevede la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali. Pertanto, le migrazioni di massa, comprese le tragedie del mare, sono eventi che si inseriscono in un contesto socio – economico mondiale, in cui i paesi più arretrati vengono deprivati delle migliori risorse umane necessarie al loro sviluppo e i paesi più avanzati importano masse di lavoratori a basso costo al fine di comprimere i salari e rendere più competitive le loro economie nel mercato globale.
Con l’avvento della UE, l’asimmetria economica, culturale e politica tra l’Europa del nord e quella del sud si è accentuata. Allo sviluppo del nord Europa, ha fatto riscontro il depauperamento e la subalternità dell’Europa mediterranea e all’accentuarsi del sottosviluppo dei paesi del Nord Africa. Si è dunque determinata una scala gerarchica dello sviluppo e del potere politico tra il nord e il sud europeo in base ai parametri del sistema economico neoliberista.
Del resto, in virtù del primato dell’asse franco – tedesco in Europa, la UE è sempre stata concepita come una unificazione che avesse il suo baricentro economico e politico nell’Europa carolingia, con relativa marginalizzazione dell’area mediterranea e dei suoi rapporti con il MENA (Medio Oriente – Nord Africa). L’Europa ha sempre denunciato una grave carenza di visione strategica, nel concepire il Mediterraneo un’area integrata nelle logiche ideologiche e strategiche dell’Occidente, prima nel bipolarismo tra Oriente e Occidente scaturito dalla Guerra fredda e in seguito all’interno della divaricazione tra il Nord capitalista e il Sud sottosviluppato del mondo, sancita dall’ordine mondiale unilateralista americano.
La guerra russo – ucraina ha inciso profondamente anche nei rapporti di supremazia interni all’Europa. Con la fine della interdipendenza economica ed energetica tra la UE e la Russia, la Nato ha assunto il controllo politico e strategico dell’Europa, con il declassamento della potenza tedesca e la devoluzione della leadership europea all’Anglosfera britannico – scandinava e dei paesi baltici, con la Polonia assurta a prima potenza militare europea. Il baricentro strategico dell’Europa si è spostato a nord est, con il declassamento del Mediterraneo ad area marginale europea, anche a seguito del disimpegno americano nel MENA.
I mutamenti strategici della Nato in chiave russofobica, potrebbero favorire una maggiore libertà di azione dei paesi dell’Europa mediterranea, nella prospettiva di fuoriuscita dalla condizione post storica di irrilevanza geopolitica in cui oggi appare confinata. La subalternità europea alla Nato è sempre stata funzionale ai disegni imperialisti americani di estendere il proprio dominio assoluto nel Mediterraneo, concepito come lago atlantico. Ben altra configurazione geopolitica esso è invece destinato ad assumere nell’incipiente mondo multipolare. Attraverso il Mediterraneo transita il 28% delle forniture di idrocarburi del mondo ed il “Mare nostrum” è divenuto lo snodo strategico per l’accesso al Mar Rosso e all’area dell’Indo – Pacifico.
Il Mediterraneo è dunque destinato ad assumere il ruolo geopolitico di Medioceano, come ben descritto da Salvo Ardizzone nel suo saggio “Medioceano e Medio Oriente: appunti per un teatro cruciale”: “Il Mediterraneo è sempre stato area di scambi, mare di commerci e traffici per eccellenza ma, da alcuni anni, è evoluto a Medioceano, bacino allargato alle coste atlantiche del Maghreb e della Penisola Iberica a Occidente, fino al Corno d’Africa attraverso il Mar Rosso a sud-est, connessione fra l’area indo-pacifica e l’Atlantico. Di recente amputato del Mar Nero e delle crescenti connessioni con la Russia e l’Asia Centrale dal conflitto ucraino ma, a seguito di esso, elevato ad area di confronto-scontro fra Unipolarismo egemonico e Multipolarismo”.
Il Mediterraneo sarà infatti un’area di confronto tra gli USA e le potenze emergenti del BRICS, da cui dipende anche il suo destino di lago atlantico o di Medioceano. L’Occidente ha concepito il Mediterraneo come l’area dello “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington, quale necessario conflitto per affermare il primato americano nel mondo. In realtà, il conflitto è assai più profondo e non è solo bellico, ma anche culturale ed esistenziale per i popoli dell’area: tra globalismo e sovranità degli stati, cosmopolitismo e identità dei popoli, tra individualismo e comunitarismo, tra materialismo e fedi religiose.

Il pluriverso mediterraneo scomparso

Il Mediterraneo evoca un insieme di tradizioni storico – culturali che sono parte integrante della nostra identità, una sensibilità, una estetica, una concezione della vita e dell’uomo quali valori unificanti dei popoli dell’area.
Le radici storiche della nostra civiltà hanno origine nell’area mediterranea. Il Mediterraneo fu certo teatro di guerre e contrapposizioni tra Islam e Cristianesimo, ma tuttavia fu anche epicentro del connubio tra civiltà diverse, di scambi commerciali e terreno di confronto culturale, religioso, scientifico. L’area mediterranea rappresentò un pluriverso di civiltà, il cui incontro / scontro contribuì alla evoluzione e all’arricchimento dei valori culturali e religiosi dei popoli. Affermò intorno al 1100 Fulcherio di Chartres, nella sua “Historia Hierosolymitana”: “Ora, noi che fummo occidentali, siamo diventati orientali. Chi fu latino o franco, in questa terra è diventato galileo o palestinese. Chi fu cittadino di Reims o di Chartres, ora è diventato cittadino di Tiro o di Antiochia. Ormai ci siamo dimenticati dei nostri luoghi natii: la maggior parte di noi non li ha mai visti, o addirittura mai sentiti nominare. C’è chi già possiede le proprie case e i propri servi come se fossero cose tramandategli in eredità, e c’è anche chi ha preso in moglie non una compatriota, ma una siriana, un’armena e talvolta addirittura una saracena”.
In questo mondo multietnico, aperto alla integrazione tra i popoli, si generò un processo di assimilazione tra due culture: quella islamica, erede delle culture greco – giudaiche e quella europea, dall’identità romano – cristiana. Questa moltitudine di popoli, civiltà, fedi religiose diverse e contrapposte, diede vita ad una particolare simbiosi identitaria identificabile con quel pluriverso mediterraneo, la cui memoria storica oggi è quasi scomparsa. L’era della globalizzazione ha ridotto il Mediterraneo ad una entità geografica, identificabile dalle masse dell’Occidente con le suggestioni virtuali orientalistiche e con l’immagine mediatica dei villaggi turistici.
La disgregazione del Mediterraneo ha origini lontane. Tra l’800 e il ‘900 il MENA fu oggetto delle conquiste coloniali europee e tale dominio si accentuò con la dissoluzione dell’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Il processo di frantumazione del MENA si perpetuò anche in epoca post – coloniale, in concomitanza della Guerra fredda: la Turchia e i paesi del Golfo Persico furono integrati nell’Occidente americano, mentre Egitto, Libia, Siria e Algeria aderirono al blocco sovietico. Aggiungasi, che la fondazione dello stato di Israele generò uno stato di guerra permanente nell’area mediorientale.
Ma fu soprattutto la trasformazione della Nato da alleanza strategica difensiva ad apparato militare aggressivo a determinare un’insanabile frattura tra l’Occidente e il mondo islamico che coinvolse il Mediterraneo, le cui opposte sponde divennero teatro di un conflitto geopolitico ancora in corso. Il nuovo atlantismo si affermò sulla scorta di disegni strategici espansionisti americani su scala globale. Con gli attentati dell’11 settembre, gli USA intrapresero una strategia aggressiva di “guerra al terrorismo” che, oltre alle guerre “preventive” in Afghanistan e Iraq (a cui fecero seguito le aggressioni alla Libia e alla Siria), comportò un espansionismo politico ed economico che si estese anche all’area mediterranea. L’Europa, già emarginata nello status post – storico di irrilevanza geopolitica, divenne, con il moltiplicarsi delle basi Nato sul proprio territorio, una piattaforma strategica per l’espansionismo americano, estesosi, oltre che nel MENA, anche ai confini con la Russia, che, ritenendosi assediata e minacciata nella sua sicurezza dall’Occidente, ha poi invaso l’Ucraina.
Le “primavere arabe”, quale strategia della Nato volta alla destabilizzazione degli stati islamici del MENA, sono fallite. Anzi hanno costituito l’occasione propizia per l’inserimento di nuovi attori dalle mire espansionistiche nell’area mediterranea, quali la Turchia, la Russia, gli Emirati arabi. L’estromissione dell’Europa dall’area è ormai un dato di fatto. La sola Francia mantiene una presenza neocoloniale nei paesi del Sahel e parzialmente in quelli del Maghreb, sempre più osteggiata dai popoli dell’area e contrastata dall’espansionismo in Africa di Russia, Turchia e Cina.

Al disimpegno americano nel MENA, ha fatto riscontro la creazione di una nuova alleanza filoccidentale tra Israele e alcuni stati arabi in funzione anti iraniana, denominata “Patto di Abramo”. E’ stata costituita infatti, una nuova Nato mediorientale, in conformità del mutamento della strategia americana nella geopolitica mediorientale, che prevede l’implementazione di un dominio americano indiretto nel MENA. Questa nuova Nato mediorientale è comunque destinata a sfaldarsi, data la diversificazione delle strategie politiche delle potenze del MENA. Israele e la maggioranza dei paesi arabi sono contrari alle politiche sanzionatorie messe in atto dagli USA nei confronti della Russia e l’Arabia Saudita ha concluso rilevanti accordi economici con la Cina.
L’espansionismo americano concepisce il Mediterraneo come un lago atlantico. Ma il mondo multilaterale avanza. E potranno anche ricomporsi le fratture interne al Mediterraneo, a condizione però che l’Europa possa assumere un ruolo autonomo dalla Nato nell’area. Così si espresse Danilo Zolo al riguardo nel suo saggio “La questione mediterranea”: “Ma tutto questo può diventare possibile solo a un’ultima condizione: che l’Europa, ritrovate le sue radici mediterranee, si mostri capace di erigersi a soggetto internazionale, dotato di una forte identità culturale e politica e perciò libero dai vincoli dell’atlantismo e aperto alla collaborazione con il mondo islamico e al confronto con le potenze asiatiche emergenti. Queste sono le condizioni di un rilancio dell’unità, della originalità e della grandezza civile del Mediterraneo che possono essere ragionevolmente pensate come un’ <alternativa>”.

Il divario economico incolmabile tra l’Occidente e il MENA

Tra le sponde nord e sud del Mediterraneo esiste una evidente asimmetria economica e tecnologica. I paesi europei della sponda nord detengono l’80% del Pil complessivo dell’area mediterranea. E tale divario nello sviluppo ha costituito il pretesto per i progetti di colonizzazione economica del MENA da parte dell’Occidente. Il fenomeno migratorio ne è una tragica conseguenza. Il debito dei paesi arabi nei confronti della UE è aumentato a dismisura negli ultimi decenni.
Alla fine del XX° secolo fu avviato un programma di partenariato economico e per la politica di sicurezza tra la UE e i paesi del MENA, denominato “processo di Barcellona”. Tali accordi avrebbero dovuto condurre all’integrazione economica dell’area mediterranea, con la prospettiva di creare una Zona di libero scambio. Tuttavia tali progetti fallirono, data l’impossibilità per i paesi arabi, dalle economie troppo deboli, di sostenere la competitività con le economie dei paesi più avanzati della UE. Tali forme di cooperazione, nel contesto del sistema neoliberista globale si sono sempre rivelate un capestro i paesi sottosviluppati. Comportano inevitabilmente un indebitamento insostenibile e quindi l’imposizione da parte del FMI di manovre di aggiustamento strutturale che conducono fatalmente i paesi meno sviluppati al default.
Occorre inoltre rilevare che il MENA è afflitto anche dalla dipendenza alimentare dal nord del pianeta, che peraltro si è gravemente accentuata con la guerra russo – ucraina. La UE ha adottato da sempre politiche protezionistiche nel settore agricolo nei confronti del MENA. L’agricoltura dei paesi del sud europeo è da decenni falcidiata dalla concorrenza selvaggia del mercato mondiale, eppure, impone paradossalmente un regime protezionistico alle importazioni dal sud del Mediterraneo.
Il dialogo e la cooperazione tra i popoli del nord e del sud del mondo sono oggi impossibili, dato il differenziale di potenza economica e politica tra l’Occidente e gli stati sottosviluppati. Ma, con l’affermarsi del multilateralismo e la dedollarizzazione dell’economia mondiale, tale divario potrà senz’altro ridursi e il Mediterraneo, trasformatosi in Medioceano, potrebbe divenire assai determinate nella costituzione di un nuovo ordine mondiale. Solo infatti in un ordine multilaterale, in cui a tutti i popoli viene riconosciuta pari dignità, potrà esserci tra gli stati dialogo, cooperazione, pacificazione.

Decostruire il fondamentalismo atlantico

Le due sponde del Mediterraneo sono oggi separate da un abisso socio – culturale incolmabile. Il dialogo è reso impossibile dal fatto che l’Europa si identifica con i valori dell’Occidente. Pertanto, considerando l’Occidente l’incarnazione di valori universali e irrinunciabili, quali i diritti del’uomo, lo Stato di diritto, la liberaldemocrazia, il libero mercato globale, sulla base di tale primato, gli USA e la UE pretendono di imporre i propri valori ai paesi islamici, come a tutto il mondo. L’Occidente americano è dunque da considerarsi un nuovo eurocentrismo atlantico, che, quale civiltà superiore, si ritiene legittimato alla colonizzazione culturale, economica e politica del mondo islamico. In virtù della sua autoreferenza, l’Occidente americano impone al mondo il suo sistema ideologico – politico con sanzioni, propaganda mediatica e guerre umanitarie. Tra l’altro, l’Occidente americano vuole esportare con le armi un sistema democratico ormai degenerato in oligarchia finanziaria e tecnocratica e pertanto assai lontano dal modello originario della democrazia rappresentativa.
Tra le sponde del Mediterraneo è in atto da decenni un conflitto politico – ideologico in cui si contrappongono le modernità occidentale e i paesi islamici, la cui cultura si è rivelata incompatibile con il processo di globalizzazione cosmopolita e neoliberista imposto dall’unilateralismo americano. Anzi, la civiltà islamica si è rivelata un elemento di resistenza al dominio globale della superpotenza americana.
Due visioni del mondo in conflitto, che si rivelano inconciliabili in quanto gli USA sono una potenza geneticamente unilaterale, incapaci di concepire “l’altro da sé”. Un mondo composto da una molteplicità di culture e identità differenziate è per gli USA inconcepibile. All’ordine mondiale unipolare fondato sui diritti dell’uomo, dovrebbe subentrare un mondo multipolare basato sul primato dei diritti dei popoli. In un ordinamento in cui l’uomo, anziché essere considerato un’entità astratta, secondo i dettami dell’ideologia liberale, ma come in individuo appartenente e partecipe di una comunità strutturata su valori culturali, politici e religiosi identitari, potrebbero essere maggiormente tutelate le liberà individuali, i diritti delle minoranze e delle classi subalterne. Allo stesso modo, nel contesto geopolitico, il primato dei diritti dei popoli, conferirebbe pari dignità a tutti gli stati e pertanto si affermerebbe un ordine che garantisca la sovranità e l’indipendenza degli stati e salvaguardi le loro identità culturali, affrancando i popoli più deboli e meno sviluppati dalla schiavitù del debito, che costituisce oggi il principale strumento del dominio occidentale.
Nel Mediterraneo si sono scontrati due fondamentalismi contrapposti. Quello islamico è infatti un fenomeno sorto come reazione esasperata al fondamentalismo del mercato, dei diritti umani, del “destino manifesto”, quale valore identitario degli USA di origine veterotestamentaria. Occorre dunque che l’Europa decostruisca il fondamentalismo dei “valori occidentali” imposto dalla occupazione americana del secondo dopoguerra. Per istaurare un dialogo occorre che ad entrambi gli interlocutori venga riconosciuta pari dignità. Attraverso il dialogo con i popoli del MENA, l’Europa potrebbe ritrovare e riconoscere se stessa, riappropriandosi della propria memoria storica, riscoprire le sue radici identitarie (in primis il cristianesimo), le origini della sua cultura premoderna. Secondo quanto afferma Franco Cassano nel suo saggio “Necessità del Mediterraneo”: “Dal divieto dell’usura al forte rilievo dato ai doveri di assistenza agli altri membri della comunità, l’Islam può essere una sponda importante per decostruire un gioco che è alla base del fondamentalismo dell’Occidente, il solipsismo dell’individualismo radicale, l’apologia di un soggetto totalmente sradicato da qualsiasi legame sociale, un’idea della libertà sempre più anomica, costruita sul modello del consumatore più che su quello del cittadino”.
Dal dialogo con l’Europa gli stessi paesi islamici potrebbero ricavare idee e progetti per creare un modello di sviluppo e modernizzazione compatibile con la propria identità culturale onde far emancipare le loro società dalle attuali condizioni di arretratezza e sottosviluppo che hanno costituito un humus assai fertile per la proliferazione del fondamentalismo islamico.
L’Europa dovrebbe dunque effettuare una decostruzione del fondamentalismo americanista che ha determinato la dissoluzione progressiva della sua identità culturale. Ossia, dar luogo ad una rivoluzione culturale al suo interno, per assumere un ruolo da protagonista nell’era del mondo multipolare ormai alle porte. Il fondamentalismo atlantico è in una fase di declino irreversibile e la UE, mai esistita come entità geopolitica autonoma dalla Nato, è in via di progressiva dissoluzione. Così si esprime al riguardo Serge Latouche nel suo saggio “La voce e le vie di un mare dilaniato”: “Tuttavia, è proprio vero che l’Europa può rinnegare la sua progenie e sciogliere il legame di solidarietà con il “mostro” che essa stessa ha generato? A dispetto delle rivalità e degli antagonismi di ogni sorta, l’Europa resta profondamente complice e solidale con gli Stati Uniti. Per affermare e rafforzare la sua differenza, l’Europa dovrebbe ricollegarsi alle sue radici premoderne e precapitaliste, come la visione mediterranea, e ritrovare la sua parentela con il suo versante orientale e ortodosso che è sempre rimasto ai margini. Queste due Europe, del sud e dell’est, confinano con l’altro: il vicino, il medio, l’estremo Oriente e, soprattutto, confinano con il mondo musulmano nelle sue varianti turca, persiana, curda, mongola, berbera e araba. Gli scambi incessanti, anche violenti, e le complicità di ogni sorta hanno preservato sempre (o almeno per lungo tempo) queste parti d’Europa dall’autismo dell’Europa atlantica che sconfina nella dismisura americana”.
Questa Europa, oggi scristianizzata e ridotta a periferia atlantica, dovrà fuoriuscire dall’Occidente e, onde liberarsi dal dominio dell’Anglosfera oggi imperante nella UE, dovrà riscoprire la sua vocazione mediterranea per poi proiettarsi nel Medioceano.
Non si riscontrano tuttavia ad oggi segni premonitori di una possibile resurrezione dell’Europa dal baratro atlantico della post storia in cui è precipitata. Ma chi farà riemergere dall’oblio secolare il pluriverso mediterraneo?

Nota: I saggi di Danilo Zolo “La questione mediterranea”, di Franco Cassano “Necessità del Mediterraneo” e di Serge Latouche “La voce e le vie di un mare dilaniato” sono stati pubblicati nel libro di AA. VV. “L’alternativa mediterranea” a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo, Feltrinelli 2007.

Snobbare la Cina è oggi un grande errore geopolitico

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Continua già da un mese la fruttuosa collaborazione con i giornalisti professionisti d’area cattolica dell’America Latina, che traducono in spagnolo gli editoriali settimanali di Matteo Castagna e li fanno pubblicare su media online in America Latina, Spagna e alcune volte sul sito del filosofo russo Alexander Dugin. Nel caso di questo articolo, è stato pubblicato, in versione un po’ diversa, anche da Arianna Editrice:

L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna

GLI ANNI DI GUERRA IN UCRAINA SONO 9 E NON 1…

All’ultima seduta dell’ONU, il Ministro degli Esteri ucraino ha chiesto un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’aggressione russa del suo Paese. A stretto giro, gli ha risposto il rappresentante permanente all’ONU della Russia, Nebenzya: “vi chiediamo di onorare la memoria di tutte le vittime in Ucraina, dal 2014 in avanti!”. La memoria corta è, infatti, uno dei principali vizi dell’Occidente liberale, che non fa parte, invece, di quello sincero, che ama sempre la verità storica.

Gli anni di guerra sono 9 e non 1. Un anno fa, dopo aver riconosciuto ufficialmente le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, la Federazione Russa diede il via ad un’ operazione militare speciale per salvaguardare la popolazione del Donbass, che l’Ucraina attaccava da oltre otto anni e impedire all’esercito ucraino di costituire una minaccia per la sicurezza della Russia. Putin chiedeva colloqui con l’Occidente per delineare un piano di sicurezza europeo, rifiutato ad ottobre e dicembre 2021. Intendeva proporre di negare la richiesta di Kiev di entrare nella NATO, di bloccare la richiesta di Kiev di tornare ad avere armi nucleari, di porre fine al massiccio bombardamento della linea di contatto in Donbass. All’operazione speciale, l’Occidente rispose con una serie di misure e dichiarazioni già preparate: condanne, sanzioni, aiuti militari all’Ucraina.

L’Occidente ha gettato la maschera: ha ammesso di avere utilizzato, in questi anni, l’Ucraina e il conflitto in corso in Donbass dal 2014 come un cavallo di Troia in funzione antirussa. Ha ammesso di aver addestrato i soldati e miliziani ucraini. Ha ammesso di aver garantito il rispetto (si fa per dire) degli accordi di Minsk solo per preparare meglio l’Ucraina ad una guerra più grande contro la Russia che l’Occidente voleva già combattere, quasi nove anni fa. Ha dato il via alla più grande campagna russofoba dalla Seconda Guerra Mondiale.

Non serve essere “osservatori speciali” per notare che reali e concreti tentativi diplomatici, da parte della NATO per porre fine a questo conflitto non sono neppure all’orizzonte. I pacifisti nostrani tacciono e osservano i bombardamenti in televisione, esponendo fuori dalle sedi del Pd le bandiere ucraine. La linea assolutamente appiattita sugli Stati Uniti e la liason con Zelensky del premier Giorgia Meloni preoccupano parecchio, sembrano almeno imprudenti e così smaccate da rendersi grottesche. Nella maggioranza, sono poche e marginalizzate le voci di dissenso. I media sembrano quasi tutti allineati con Biden e Von der Leyen, in una propaganda che potrebbe rivelarsi un boomerang nel prossimo futuro.

Incredibilmente, è la Cina comunista, che politici italiani miopi, nani e ballerine non guardano colpevolmente come fattore fondamentale nell’attuale contesto, a proporre un piano di pace in 12 punti che mette al centro il dialogo e i negoziati come unica via d’uscita dalla crisi. La proposta appare molto equilibrata e da sviluppare nei contenuti più generici, assieme agli altri Stati. Particolarmente importante il punto 8: le armi nucleari non devono essere utilizzate e le guerre nucleari non devono essere combattute. La minaccia o l’uso di armi nucleari dovrebbe essere contrastata. La proliferazione nucleare deve essere prevenuta e la crisi nucleare evitata. il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, in una conferenza stampa a Tallin ha detto che «la Cina non ha credibilità perché non ha mai condannato l’invasione della Russia e ha firmato qualche tempo prima dell’invasione russa un accordo per una partnership senza limiti con Mosca». Gli USA non hanno preso neppure in considerazione il piano cinese. Anzi, la CNN informa che gli USA hanno informazioni per cui la Cina fornirà alla Russia droni e munizioni.

E’, perciò, estremamente difficile, intravvedere, umanamente, una soluzione pacifica. Perciò “ogni vero cattolico deve ricordarsi sopra ogni cosa di essere in ogni circostanza e di apparire veramente cattolico, accedendo agli Uffici pubblici ed esercitandoli con il fermo e costante proposito di promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della patria e particolarmente del popolo, secondo le massime della civiltà spiccatamente cristiana e di difenderne insieme gli interessi supremi della Chiesa che sono quelli della Religione e della giustizia” (San Pio X, Enciclica “fermo proposito” ai Vescovi d’Italia, 11/06/1905).

Fonte: Informazione Cattolica.it

Despreciar a China es, hoy, un gran error geopolítico

 

Por Matteo Castagna

En la última sesión de la ONU, el canciller ucraniano pidió un minuto de silencio en memoria de las víctimas de la agresión rusa en su país. Por su parte, el representante permanente de Rusia ante la ONU, Nebenzya, respondió brevemente: “¡Le pedimos que honre la memoria de todas las víctimas en Ucrania, desde 2014 en adelante!”.

La poca memoria es, en efecto, uno de los principales vicios del Occidente liberal, que no forma parte, sin embargo, del sincero Occidente que siempre ama la verdad histórica.

Los años de guerra son 9 y no 1. Hace un año, tras reconocer oficialmente las Repúblicas Populares de Donetsk y Lugansk, la Federación Rusa puso en marcha una operación militar especial para salvaguardar a la población de Donbass, que Ucrania atacaba desde hacía más de ocho años y evitar que el ejército ucraniano represente una amenaza para la seguridad de Rusia. Putin pidió conversaciones con Occidente para delinear un plan de seguridad europeo, que fue rechazado en octubre y diciembre de 2021. Moscú pretendía proponer negar la solicitud de Kiev de unirse a la OTAN, bloquear la solicitud de Kiev de volver a tener armas nucleares, poner fin al bombardeo masivo de la línea de contacto en Donbás. Occidente respondió a la Operación Militar Especial con una serie de medidas y declaraciones ya preparadas: sentencias, sanciones.

Occidente se ha quitado la máscara: ha admitido que en los últimos años ha utilizado Ucrania y el conflicto en curso en Donbass desde 2014 como un caballo de Troya con una función antirrusa. Admitió haber entrenado a soldados y milicianos ucranianos. Admitió que solo garantizó el cumplimiento de los acuerdos de Minsk (por así decirlo) para preparar mejor a Ucrania para una guerra más grande contra Rusia que  el Occidente liberal ya quería pelear hace casi nueve años e Inició la mayor campaña rusofóbica desde la Segunda Guerra Mundial.

No es necesario ser un “observador especial” para darse cuenta de que los esfuerzos diplomáticos reales y concretos de la OTAN para poner fin a este conflicto ni siquiera están en el horizonte. Nuestros pacifistas locales guardan silencio y observan los atentados por televisión, mostrando banderas ucranianas frente a la sede del Partido Demócrata. La línea absolutamente plana sobre los Estados Unidos y el enlace de la primera ministra de Italia, Giorgia Meloni, con Zelensky preocupan mucho, parecen, al menos, imprudentes y tan descarados como para volverse grotescos.

En su mayoría, las voces disidentes son pocas y marginadas. Los medios parecen casi todos alineados con Biden y Von der Leyen, en una propaganda que podría convertirse en un boomerang en un futuro cercano.

Increíblemente, es la China comunista, a la que los miopes políticos italianos no la ven como un factor fundamental en el contexto actual, la que propone un plan de paz de 12 puntos que apuesta por el diálogo y la negociación como única salida a la crisis.

Esta propuesta parece muy equilibrada y debe desarrollarse en términos más generales, junto con los demás Estados. El punto 8 es particularmente importante: no se deben usar armas nucleares y no se deben librar guerras nucleares. Se debe resistir la amenaza o el uso de armas nucleares.

Se debe prevenir la proliferación nuclear y evitar la crisis nuclear. el secretario general de la Alianza Atlántica, Jens Stoltenberg, en una conferencia de prensa en Tallin, dijo que “China no tiene credibilidad porque nunca condenó la invasión de Rusia y firmó, un tiempo antes de la invasion rusa, un acuerdo de asociación ilimitada con Moscú” Estados Unidos ni siquiera ha considerado el plan chino. De hecho, CNN informa que EE. UU. tiene información de que China suministrará a Rusia drones y municiones.

Es, por tanto, extremadamente difícil vislumbrar, humanamente hablando, una solución pacífica. Por lo tanto, “todo verdadero católico debe recordar, sobre todas las cosas, que, en toda circunstancia, debe promover el Bien social y económico de la patria y particularmente el del pueblo” con todo su poder, según las máximas de la civilización netamente cristiana y para “defender juntos los supremos intereses de la Iglesia que son los de la religión y la justicia” (San Pío X, Encíclica “Firme Propósito” a los obispos de Italia, 11/ 06/1905).

Fonte: La Voce del Periodista

Despreciar a China es, hoy, un gran error geopolítico

Photo of Matteo Castagna Matteo Castagna

En la última sesión de la ONU, el canciller ucraniano pidió un minuto de silencio en memoria de las víctimas de la agresión rusa en su país. Por su parte, el representante permanente de Rusia ante la ONU, Nebenzya, respondió brevemente: «¡Le pedimos que honre la memoria de todas las víctimas en Ucrania, desde 2014 en adelante!».

La poca memoria es, en efecto, uno de los principales vicios del Occidente liberal, que no forma parte, sin embargo, del sincero Occidente que siempre ama la verdad histórica.

Los años de guerra son 9 y no 1. Hace un año, tras reconocer oficialmente las Repúblicas Populares de Donetsk y Lugansk, la Federación Rusa puso en marcha una operación militar especial para salvaguardar a la población de Donbass, que Ucrania atacaba desde hacía más de ocho años y evitar que el ejército ucraniano represente una amenaza para la seguridad de Rusia. Putin pidió conversaciones con Occidente para delinear un plan de seguridad europeo, que fue rechazado en octubre y diciembre de 2021. Moscú pretendía proponer negar la solicitud de Kiev de unirse a la OTAN, bloquear la solicitud de Kiev de volver a tener armas nucleares, poner fin al bombardeo masivo de la línea de contacto en Donbás. Occidente respondió a la Operación Militar Especial con una serie de medidas y declaraciones ya preparadas: sentencias, sanciones.

Occidente se ha quitado la máscara: ha admitido que en los últimos años ha utilizado Ucrania y el conflicto en curso en Donbass desde 2014 como un caballo de Troya con una función antirrusa. Admitió haber entrenado a soldados y milicianos ucranianos. Admitió que solo garantizó el cumplimiento de los acuerdos de Minsk (por así decirlo) para preparar mejor a Ucrania para una guerra más grande contra Rusia que el Occidente liberal ya quería pelear hace casi nueve años e Inició la mayor campaña rusofóbica desde la Segunda Guerra Mundial.

No es necesario ser un «observador especial» para darse cuenta de que los esfuerzos diplomáticos reales y concretos de la OTAN para poner fin a este conflicto ni siquiera están en el horizonte. Nuestros pacifistas locales guardan silencio y observan los atentados por televisión, mostrando banderas ucranianas frente a la sede del Partido Demócrata. La línea absolutamente plana sobre los Estados Unidos y el enlace de la primera ministra de Italia, Giorgia Meloni, con Zelensky preocupan mucho, parecen, al menos, imprudentes y tan descarados como para volverse grotescos.

En su mayoría, las voces disidentes son pocas y marginadas. Los medios parecen casi todos alineados con Biden y Von der Leyen, en una propaganda que podría convertirse en un boomerang en un futuro cercano.

Increíblemente, es la China comunista, a la que los miopes políticos italianos no la ven como un factor fundamental en el contexto actual, la que propone un plan de paz de 12 puntos que apuesta por el diálogo y la negociación como única salida a la crisis.

Esta propuesta parece muy equilibrada y debe desarrollarse en términos más generales, junto con los demás Estados. El punto 8 es particularmente importante: no se deben usar armas nucleares y no se deben librar guerras nucleares. Se debe resistir la amenaza o el uso de armas nucleares.

Se debe prevenir la proliferación nuclear y evitar la crisis nuclear. El secretario general de la Alianza Atlántica, Jens Stoltenberg, en una conferencia de prensa en Tallin, dijo que «China no tiene credibilidad porque nunca condenó la invasión de Rusia y firmó, un tiempo antes de la invasión rusa, un acuerdo de asociación ilimitada con Moscú» Estados Unidos ni siquiera ha considerado el plan chino. De hecho, CNN informa que EE. UU. tiene información de que China suministrará a Rusia drones y municiones.

Es, por tanto, extremadamente difícil vislumbrar, humanamente hablando, una solución pacífica. Por lo tanto, «todo verdadero católico debe recordar, sobre todas las cosas, que, en toda circunstancia, debe promover el Bien social y económico de la patria y particularmente el del pueblo» con todo su poder, según las máximas de la civilización netamente cristiana y para «defender juntos los supremos intereses de la Iglesia que son los de la religión y la justicia» (San Pío X, Encíclica «Firme Propósito» a los obispos de Italia, 11/ 06/1905).

Photo of Matteo Castagna

Matteo Castagna

Analista geopolítico, escritor y líder del movimiento italiano Christus Rex, organización que defiende la Enseñanza Tradicional de la Iglesia Católica, el Orden Natural y la Soberanía de los Estados Nacionales.
Fonte: Info Hispania

DESPRECIAR A CHINA ES, HOY, UN GRAN ERROR GEOPOLÍTICO

01.03.2023

En la última sesión de la ONU, el canciller ucraniano pidió un minuto de silencio en memoria de las víctimas de la agresión rusa en su país. Por su parte, el representante permanente de Rusia ante la ONU, Nebenzya, respondió brevemente: “¡Le pedimos que honre la memoria de todas las víctimas en Ucrania, desde 2014 en adelante!”.

La poca memoria es, en efecto, uno de los principales vicios del Occidente liberal, que no forma parte, sin embargo, del sincero Occidente que siempre ama la verdad histórica.

Los años de guerra son 9 y no 1. Hace un año, tras reconocer oficialmente las Repúblicas Populares de Donetsk y Lugansk, la Federación Rusa puso en marcha una operación militar especial para salvaguardar a la población de Donbass, que Ucrania atacaba desde hacía más de ocho años y evitar que el ejército ucraniano represente una amenaza para la seguridad de Rusia. Putin pidió conversaciones con Occidente para delinear un plan de seguridad europeo, que fue rechazado en octubre y diciembre de 2021. Moscú pretendía proponer negar la solicitud de Kiev de unirse a la OTAN, bloquear la solicitud de Kiev de volver a tener armas nucleares, poner fin al bombardeo masivo de la línea de contacto en Donbás. Occidente respondió a la Operación Militar Especial con una serie de medidas y declaraciones ya preparadas: sentencias, sanciones.

Occidente se ha quitado la máscara: ha admitido que en los últimos años ha utilizado Ucrania y el conflicto en curso en Donbass desde 2014 como un caballo de Troya con una función antirrusa. Admitió haber entrenado a soldados y milicianos ucranianos. Admitió que solo garantizó el cumplimiento de los acuerdos de Minsk (por así decirlo) para preparar mejor a Ucrania para una guerra más grande contra Rusia que  el Occidente liberal ya quería pelear hace casi nueve años e Inició la mayor campaña rusofóbica desde la Segunda Guerra Mundial.

No es necesario ser un “observador especial” para darse cuenta de que los esfuerzos diplomáticos reales y concretos de la OTAN para poner fin a este conflicto ni siquiera están en el horizonte. Nuestros pacifistas locales guardan silencio y observan los atentados por televisión, mostrando banderas ucranianas frente a la sede del Partido Demócrata. La línea absolutamente plana sobre los Estados Unidos y el enlace de la primera ministra de Italia, Giorgia Meloni, con Zelensky preocupan mucho, parecen, al menos, imprudentes y tan descarados como para volverse grotescos.

En su mayoría, las voces disidentes son pocas y marginadas. Los medios parecen casi todos alineados con Biden y Von der Leyen, en una propaganda que podría convertirse en un boomerang en un futuro cercano.

Increíblemente, es la China comunista, a la que los miopes políticos italianos no la ven como un factor fundamental en el contexto actual, la que propone un plan de paz de 12 puntos que apuesta por el diálogo y la negociación como única salida a la crisis.

Esta propuesta parece muy equilibrada y debe desarrollarse en términos más generales, junto con los demás Estados. El punto 8 es particularmente importante: no se deben usar armas nucleares y no se deben librar guerras nucleares. Se debe resistir la amenaza o el uso de armas nucleares.

Se debe prevenir la proliferación nuclear y evitar la crisis nuclear. el secretario general de la Alianza Atlántica, Jens Stoltenberg, en una conferencia de prensa en Tallin, dijo que “China no tiene credibilidad porque nunca condenó la invasión de Rusia y firmó, un tiempo antes de la invasion rusa, un acuerdo de asociación ilimitada con Moscú” Estados Unidos ni siquiera ha considerado el plan chino. De hecho, CNN informa que EE. UU. tiene información de que China suministrará a Rusia drones y municiones.

Es, por tanto, extremadamente difícil vislumbrar, humanamente hablando, una solución pacífica. Por lo tanto, “todo verdadero católico debe recordar, sobre todas las cosas, que, en toda circunstancia, debe promover el Bien social y económico de la patria y particularmente el del pueblo” con todo su poder, según las máximas de la civilización netamente cristiana y para “defender juntos los supremos intereses de la Iglesia que son los de la religión y la justicia” (San Pío X, Encíclica “Firme Propósito” a los obispos de Italia, 11/ 06/1905).

Fonte: Geopolitika.ru – sito di Alexandr Dugin

 

Articolo in versione un po’ differente su Arianna Editrice:

Gli anni di guerra sono 9 e non 1: un errore rigettare la proposta di pace della Cina

di Matteo Castagna – 26/02/2023

Gli anni di guerra sono 9 e non 1: un errore rigettare la proposta di pace della Cina

Fonte: Matteo Castagna

All’ultima seduta dell’ONU, il Ministro degli Esteri ucraino ha chiesto un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’aggressione russa del suo Paese. A stretto giro, gli ha risposto il rappresentante permanente all’ONU della Russia, Nebenzya: “vi chiediamo di onorare la memoria di tutte le vittime in Ucraina, dal 2014 in avanti!”. La memoria corta è, infatti, uno dei principali vizi della propaganda, che si contrappone, sempre, alla verità storica.
Gli anni di guerra sono 9 e non 1.
Un anno fa, dopo aver riconosciuto ufficialmente le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, la Federazione Russa diede il via ad un’ operazione militare speciale per salvaguardare la popolazione del Donbass, che l’Ucraina attaccava da oltre otto anni e impedire all’esercito ucraino di costituire una minaccia per la sicurezza della Russia. Putin chiedeva colloqui con l’Occidente per delineare un piano di sicurezza europeo, rifiutato ad ottobre e dicembre 2021. Intendeva proporre di negare la richiesta di Kiev di entrare nella NATO, di bloccare la richiesta di Kiev di tornare ad avere armi nucleari, di porre fine al massiccio bombardamento della linea di contatto in Donbass. All’operazione speciale, l’Occidente rispose con una serie di misure e dichiarazioni già preparate: condanne, sanzioni, aiuti militari all’Ucraina.
L’Occidente ha gettato la maschera: ha ammesso di avere utilizzato, in questi anni, l’Ucraina e il conflitto in corso in Donbass dal 2014 come un cavallo di Troia in funzione antirussa. Ha ammesso di aver addestrato i soldati e miliziani ucraini. Ha ammesso di aver garantito il rispetto (si fa per dire) degli accordi di Minsk solo per preparare meglio l’Ucraina ad una guerra più grande contro la Russia che l’Occidente voleva già combattere, quasi nove anni fa. Ha dato il via alla più grande campagna russofoba dalla Seconda Guerra Mondiale.
Non serve essere “osservatori speciali” per notare che reali e concreti tentativi diplomatici, da parte della NATO per porre fine a questo conflitto non sono neppure all’orizzonte.
I pacifisti nostrani tacciono e osservano in pantofole i bombardamenti trasmessi nei tg, esponendo fuori dalle sedi del Pd le bandiere ucraine.
La linea assolutamente appiattita sugli Stati Uniti e la liason con Zelensky del premier Giorgia Meloni preoccupano parecchio, sembrano almeno imprudenti, e politicamente inutili perché l’Italia, in tutto questo contesto, conta zero. Nella maggioranza, sono poche e marginalizzate le voci di dissenso. La comunicazione sembra quasi tutta il megafono di Biden e Von der Leyen, in una propaganda che potrebbe rivelarsi un boomerang, nel prossimo futuro, sulla pelle dei popoli europei, già col conto corrente alleggerito dall’inflazione e dall’aumento del costo della vita.
Incredibilmente, è la Cina comunista, che politici italiani miopi, nani e ballerine non guardano, colpevolmente, come attore fondamentale nell’attuale situazione, a proporre un piano di pace,  in 12 punti, che mette al centro il dialogo e i negoziati come unica via d’uscita dalla crisi. La proposta appare molto equilibrata e da sviluppare nei contenuti più generici, assieme agli altri Stati. Particolarmente importante il punto 8: le armi nucleari non devono essere utilizzate e le guerre nucleari non devono essere combattute. La minaccia o l’uso di armi nucleari dovrebbe essere contrastata. La proliferazione nucleare deve essere prevenuta e la crisi nucleare evitata. il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, in una conferenza stampa a Tallin ha detto che «la Cina non ha credibilità perché non ha mai condannato l’invasione della Russia e ha firmato qualche tempo prima dell’invasione russa un accordo per una partnership senza limiti con Mosca». Gli USA non hanno preso neppure in considerazione il piano cinese, sottovalutando la più grande superpotenza economica e nucleare del mondo. Anzi, la CNN informa che gli USA hanno informazioni per cui la Cina fornirà alla Russia droni e munizioni.
E’, perciò, estremamente difficile, intravvedere, umanamente, una soluzione pacifica. Occorre prepararsi ad una guerra dagli esiti incerti. In questi momenti difficili torna in mente la saggia frase di Fedor Dostoevskji, secondo il quale “il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive”. Ovvero, quello che la società fluida vorrebbe far dimenticare.

 

Canzoni e cannoni

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di Marcello Veneziani

Mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantavano I Giganti al festival di Sanremo del 1967. Da allora in poi il pacifismo fu uno dei messaggi obbligati al festival dei fiori e dei canti. Da quest’anno invece si fa la retromarcia e Sanremo canta: Donate a Zelensky i vostri cannoni. E’ il messaggio che il presidente ucraino verrà a lanciare dalla tribuna di Sanremo. E’ proprio opportuno che Volodymyr Zelensky venga a Sanremo a perorare la sua richiesta d’armi? Un conto è essere vicini alle sofferenze del popolo ucraino, dice, un altro è alimentare da un palco dedicato alla musica questo scellerato “clima bellicista”, questa “propaganda di guerra” al posto di una vera, seria trattativa. Si può non sposare il pacifismo, ritenerlo puro irrealismo da anime belle e notare che nessun pacifismo ha mai fermato una guerra, ma l’obiezione è sensata.
Mezza Italia e forse più non vuole la nostra attiva partecipazione a questa guerra, con la fornitura di armi e supporti. Perché serve a prolungare la guerra anziché risolverla, ad aumentare il numero di vittime e distruzioni, a inguaiare pure noi e serve soprattutto agli Stati Uniti per indebolire Putin e al tempo stesso l’Unione europea, usandola come strumento subalterno della strategia egemonica degli Stati Uniti. La gente ha visto in passato tante invasioni russe, sotto lo sguardo impietrito dell’occidente: l’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia erano Europa a differenza dell’Ucraina che per secoli è stata russa, ha una lingua affine, i due popoli sono intrecciati da secoli, hanno la stessa religione ortodossa e tanta storia in comune. Abbiamo visto muti e inermi le invasioni cinesi del Tibet, le repressioni di Hong Kong, le invasioni americane in mezzo mondo, portandoci sull’orlo di tante crisi mondiali. E mai si è deciso d’intervenire in difesa dei popoli invasi. Questa volta invece è d’obbligo armare l’Ucraina e intervenire in suo favore, fino a svenarsi e inguaiarsi. Con un battage mediatico senza precedenti. Al gesto scellerato di Putin d’invadere l’Ucraina ha contribuito la linea di Biden ostile a ogni negoziato per rendere neutrale l’Ucraina e riconoscere che due regioni come il Donbass e la Crimeache sono per storia e maggioranza filo-russe. Quando Trump dice che con lui non ci sarebbe stata l’invasione, riconosce di fatto le corresponsabilità americane nella guerra.
E poi, diciamolo francamente: Zelensky non è affatto simpatico a larga parte della platea italiana, anche se si ha timore a dichiararlo perché s’incappa subito, come ieri sui vaccini e la pandemia, nell’accusa di filo-putinismo, che obiettivamente riguarda solo una piccola minoranza. Zelensky non piace per i suoi trascorsi, per il suo cinismo, per il suo vecchio mestiere di guitto, per le repressioni passate del potere ucraino contro i russi e i partiti non allineati, per le sue ingiunzioni al mondo; e poi per il suo governo di corrotti e per le vistose limitazioni alla libertà d’espressione. Agli occhi di tanti è un fantoccio degli Usa. Quanto ha pesato il suo protagonismo, il suo istrionismo narcisista e la sua dipendenza dagli Stati Uniti nella decisione di resistere ad oltranza, mandando allo sbaraglio il suo popolo e generando danni a catena a mezzo mondo? Insomma, per il senso comune della gente, le responsabilità della guerra non sono solo quelle, accertate e inescusabili, di Putin e della sua nostalgia dell’Impero sovietico e zarista. Ma sono anche dall’altra parte. E a farci le spese, nel mezzo, è in primo luogo il popolo ucraino, le città ucraine, l’economia ucraina (su cui sperano di avventarsi per la ricostruzione molti sciacalli, anche nostrani, dopo aver contribuito ad aggravarle). E in secondo luogo ne fanno le spese tanti paesi europei, sul piano economico ed energetico. Un’Europa al rimorchio degli Stati Uniti e succuba delle sue decisioni e dei suoi interessi, priva di una sua strategia autonoma e di una capacità diplomatica e militare di mediazione e dissuasione, mostra in Ucraina la sua incapacità di diventare una Potenza mondiale in grado di trattare a pari condizioni con le altre superpotenze.
Tra poco sarà un anno dall’inizio della guerra in Ucraina e sono in molti a pensare, e in pochi a dire, che sin dall’inizio era chiara l’intenzione degli Stati Uniti di riequilibrare le forze in campo per rendere più lunga possibile ed estenuante questa guerra, in modo da colpire, sfiancare Putin e indebolire l’Europa sul piano energetico, economico e geopolitico, con la scusa di difenderla dall’aggressore russo (ma Putin non vuole espandersi in Europa; mira, con velleità, a restituire i confini passati all’Impero russo).
Infine, una piccola nota su Sanremo. Da anni ormai è diventato il Tempio scemo del Politically correct, il Collettore delle sciocchezze nazionali e globali, la discarica di tutte le ipocrisie, i buonismi e lo scemenzaio delle mode. Le finte trasgressioni, i sessi in transito, i fatui sermoni strappalacrime (e scrotoclasti), la rassegna dei nuovi luoghi comuni. Una trasgressione di massa non è più trasgressione ma conformismo; è come se per ogni infrazione ti arrivasse a casa non una multa ma un bonus. Sanremo misura il tasso di minchioneria che è nell’aria e inscena una serie di carri allegorici: la Vittima Nera, il Trans virtuoso, la Femminista indignata, l’Accoppiata omosex, il Predicatore antimafia, il Menagramo pandemico, il Pugno chiuso, il Blasfemo, la legalizzatrice della droga. Mancava solo Zelensky…

Un anno di guerra in Ucraina: il bilancio dalla prima alla quarta fase (“trasformativa”)

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di Roberto Buffagni

Fonte: L’Antidiplomatico

In questo scritto ripercorro, con la massima brevità e chiarezza, il percorso e le dinamiche strategiche che hanno condotto alla presente quarta fase della guerra in Ucraina, una fase che ritengo trasformativa. Non inserisco note tranne una, relativa a un significativo studio della RAND Corp., pubblicato mentre elaboravo questo testo, a fine gennaio 2023. Chi desidera informarsi sulle mie analisi precedenti, e trovare la documentazione dei fatti e delle interpretazioni a cui qui mi riferisco, può visitare i siti italiaeilmondo.com e l’antidiplomatico.it, inserendo nella funzione di ricerca il mio nome e la parola “Ucraina”, e/o le altre parole chiave presenti nel testo.
Ringrazio sentitamente il generale Marco Bertolini, lo storico Giacomo Gabellini, e il responsabile del sito italiaeilmondo.com Giuseppe Germinario, che mi hanno usato la bontà di leggere in bozza questo testo e consigliarmi. Ovviamente è solo mia la responsabilità dei difetti e dei limiti dell’articolo.

Eziologia della guerra in Ucraina. Natura e scopi della guerra dai punti di vista russo e occidentale.
Sull’eziologia della guerra in Ucraina condivido l’interpretazione storica del prof. John Mearsheimer. È la conseguenza dell’espansione a Est della NATO, e della volontà statunitense di creare un bastione militare occidentale alla frontiera russa, integrando l’Ucraina nella NATO: una strategia che la Federazione russa ha dichiarato assolutamente inaccettabile sin dal Summit NATO di Bucarest 2008 in cui venne annunciata l’intenzione di integrare nell’Alleanza Atlantica Georgia e Ucraina.
Negli anni tra il 2008 e il 2022, gli USA integrano gradualmente l’Ucraina nella NATO, sebbene de facto e non de jure. Nel 2014 danno impulso alla destabilizzazione del governo in carica e all’insediamento di un governo ucraino a loro favorevole, e negli anni seguenti portano a livello di preparazione e armamento NATO le FFAA ucraine. Nel 2014 la Federazione russa si annette la Crimea, senza conflitto militare. Il 2021 vede una significativa accelerazione del processo di integrazione de facto dell’Ucraina nella NATO: importanti forniture di armamenti, grandi esercitazioni militari in comune, e nel novembre 2022 rinnovo della convenzione bilaterale USA – Ucraina che ribadisce la comune intenzione di integrare l’Ucraina nella NATO anche de jure.
Secondo questa interpretazione eziologica, dal punto di vista russo la guerra in Ucraina è una guerra preventiva in difesa di interessi vitali russi, e non una guerra imperialistica di annessione/conquista che, se coronata da successo, può preludere a ulteriori espansioni territoriali russe in Europa. Quest’ultima è invece la definizione della natura e degli scopi dell’intervento russo adottata dagli Stati occidentali.

Prima fase della guerra (dal 24 febbraio alla primavera 2022). Escalation militare russa: invasione dell’Ucraina. Escalation politica occidentale: rifiuto di ogni trattativa diplomatica.
Nel dicembre 2022 la Federazione russa, che nei mesi precedenti ha schierato alla frontiera ucraina un contingente militare pronto all’intervento, propone agli USA una soluzione diplomatica, nell’insolita forma di bozza di trattato resa pubblica. Le principali richieste russe sono, in sostanza: Ucraina neutrale e applicazione effettuale degli accordi di Minsk per la tutela delle popolazioni russofone del Donbass, dove dal 2014 è in corso una guerra civile appoggiata ufficiosamente dai governi ucraino e russo. Gli Stati Uniti non rispondono alla proposta in forma ritenuta soddisfacente dai russi (rinviano, traccheggiano, ricorrono alla “strategic ambiguity”).
Il 24 febbraio 2022 la Federazione russa interviene militarmente in Ucraina. Non è possibile sapere con certezza perché abbia scelto proprio questo momento. Forse – ma è solo una mia inferenza logica – perché in base alle informazioni in suo possesso, la Federazione russa ritiene che l’esercito ucraino stia per intervenire in forze contro le milizie del Donbass, schierando poi il grosso delle truppe nelle postazioni difensive fortificate ivi costruite nel corso degli anni, in modo da prevenire il possibile intervento militare russo e renderlo molto più difficile, costoso, incerto.
I russi intervengono con un contingente militare di circa 180-200.000 uomini, in condizioni di inferiorità numerica di 3:1 circa rispetto all’esercito ucraino, sebbene i manuali tattici prescrivano una proporzione inversa attaccanti/difensori (almeno 3:1 a favore dell’attaccante, per compensare il vantaggio della difesa). Sviluppano attacchi su cinque direttrici, sia al Sudest, sia al Nordovest dell’Ucraina. Gli attacchi nel Nordovest sono attacchi secondari, un’ampia manovra diversiva volta a fissare truppe ucraine a difesa di Kiev e degli altri centri interessati dalla manovra, per modellare il campo di battaglia nel Sudest, nel Donbass, dove si dirigono gli attacchi principali. Così interpretando la manovra russa aderisco all’articolata interpretazione che ne ha dato “Marinus”, probabilmente pseudonimo del Ten. Gen. (a riposo) Paul Van Riper, Corpo dei Marines, nello studio pubblicato sui numeri di giugno e agosto 2022 della “Marine Corps Gazette”, che ho tradotto in italiano, commentato e pubblicato sui siti citati in apertura.
Nel giro di tre-quattro settimane la manovra diversiva russa ha successo. A fine marzo, le truppe russe che hanno sviluppato gli attacchi secondari nel Nordovest si ritirano, mentre il grosso delle forze russe si schiera in quasi tutto il Donbass, infliggendo pesanti perdite anzitutto materiali all’esercito ucraino grazie alla netta superiorità nella potenza di fuoco d’artiglieria e missilistico. L’azione militare russa evita accuratamente di coinvolgere i civili, non tocca le infrastrutture a doppio uso civile e militare (es., la rete elettrica) e si configura insomma come “diplomazia armata”: i russi tentano di ottenere, con una moderata pressione militare, gli obiettivi che non hanno raggiunto con la pluriennale, crescente pressione diplomatica.
Fino alla fine di marzo 2022 pare che la “diplomazia armata” russa possa avere successo: tra il 24 febbraio e la fine di marzo si tengono sette incontri diplomatici tra Russia e Ucraina, e a fine marzo il presidente Zelensky dichiara ufficialmente a media russi indipendenti di essere pronto a trattare la neutralità dell’Ucraina e la soluzione del problema delle popolazioni russofone del Donbass.

Prima escalation politica occidentale
Ma il 7 aprile 2022 il Premier britannico Boris Johnson fa visita al presidente ucraino Zelensky, e dichiara ufficialmente che “L’Ucraina ha rovesciato i pronostici [“defied the odds”] e ha respinto le forze russe alle porte di Kiev, realizzando il più grande fatto d’armi del 21° secolo “. Da quel momento in poi, cessa ogni rapporto diplomatico tra Ucraina e Federazione russa.
L’interpretazione conforme la quale la piccola Ucraina ha sconfitto sul campo la grande Russia si fonda su una lettura delle prime settimane di guerra radicalmente diversa da quella che ho proposto più sopra. Secondo questa interpretazione, obiettivo russo sarebbe stato la presa di Kiev e il “regime change”, il rovesciamento del governo ucraino e la sua sostituzione con un governo fantoccio favorevole alla Russia, e gli attacchi nel Nordovest sarebbero attacchi principali falliti, non attacchi secondari nel quadro di un’ampia manovra diversiva. È una interpretazione possibile, che se rispondente al vero denuncia una grave inadeguatezza militare e politica della Federazione russa: impossibile raggiungere obiettivi tanto ambiziosi con un dispiegamento di forze così ridotto e una così bassa intensità del conflitto.
Su questa interpretazione dei fatti militari, errata o corretta, in buonafede o strumentale che sia, fanno leva le fazioni più oltranziste nel campo occidentale e nel governo ucraino. Si cristallizza in Occidente la certezza ufficiale che sia possibile infliggere una sconfitta militare decisiva alla Russia, e che sia dunque realistico proporsi obiettivi strategici massimalisti, quali il dissanguamento della Russia e la sua destabilizzazione politica per mezzo sia della pressione militare, sia delle sanzioni economiche, sia dell’attivazione delle forze centrifughe. Obiettivo finale, l’espulsione della Russia dal novero delle grandi potenze, l’insediamento di un governo favorevole all’Occidente, eventualmente la frammentazione politica della Federazione russa.
Questi obiettivi massimalisti vengono rivendicati ufficialmente il 24 aprile dai Segretari alla Difesa e di Stato USA. I paesi europei e NATO, tranne la Turchia e l’Ungheria, si allineano senza fiatare e votano con maggioranze parlamentari schiaccianti durissime sanzioni economiche alla Russia e l’invio di armi all’Ucraina. Le storicamente neutrali Svezia e Finlandia annunciano la loro intenzione di chiedere l’adesione alla NATO.

La “diplomazia armata” russa è fallita.
Seconda fase della guerra (primavera – metà estate 2022). Conquista russa del Donbass. La condizione di possibilità di una vittoria ucraina.
Prosegue con successo la conquista russa del Donbass, con scontri urbani molto violenti, casa per casa, a Mariupol e altrove. Le truppe russe impegnate sulla linea di contatto col nemico sono principalmente le milizie del Donbass, le formazioni di volontari ceceni, e il gruppo Wagner. Le formazioni dell’esercito regolare russo agiscono anzitutto (non solo) in appoggio, con l’artiglieria, i missili e il comando operativo. L’azione militare russa continua a non interessare le infrastrutture a doppio uso, militare e civile, dell’Ucraina.
Il rapporto tra le perdite ucraine e le perdite russe è nettamente sfavorevole agli ucraini, sia per la superiorità della potenza di fuoco russa, sia perché le operazioni militari ucraine sono fortemente influenzate dalla necessità di giustificare, presso i governi e le opinioni pubbliche occidentali, il colossale e quasi unanime sostegno politico e finanziario all’Ucraina, che ha gravi ricadute politico-economiche sui paesi europei, anzitutto la Germania che si vede esclusa dalla fornitura di energia russa a basso prezzo sulla quale basa le sue fortune economiche da decenni.
In sintesi gli ucraini sono costretti a “vendere” con i risultati sul campo, con una inflessibile resistenza e una costante aggressività, la sostenibilità politica dell’indispensabile appoggio occidentale: deve essere e restare plausibile la prospettiva di una futura vittoria militare dell’Ucraina sulla Russia.
Ovviamente la valorosa resistenza ucraina non va ascritta a ciò soltanto: per un’ampia quota della popolazione, il conflitto con la Russia è divenuto una guerra di liberazione nazionale, che si integra con una guerra civile e con una guerra per procura tra Russia e Stati Uniti d’America – NATO.

La condizione di possibilità di una vittoria militare ucraina
La condizione di possibilità una vittoria militare decisiva dell’Ucraina sulla Russia, però, si fonda su un presupposto.
È il presupposto che fa da principio ordinatore della strategia di deterrenza du faible au fort elaborata dal gen. Gallois in vista della creazione della force de frappe nucleare francese: rendere sfavorevole, per il fort (la potenza più forte), il rapporto costi/benefici della vittoria sul faible (la potenza più debole). Impiegando a fondo le sue maggiori risorse, la grande potenza nucleare che aggredisse la Francia potrebbe senz’altro distruggerla totalmente, ma l’attivazione della force de frappe nucleare del faible infliggerebbe comunque al fort danni politicamente inaccettabili.
In parole povere ma chiare: per vincere, la potenza più debole deve fare in modo che per la potenza più forte, il gioco della vittoria non valga la candela di una guerra a oltranza. L’Ucraina è il faible, la Russia il fort.
Anche con l’aiuto occidentale, le risorse strategiche ucraine (popolazione, potenza latente economica, potenza manifesta militare, truppe mobilitate e mobilitabili, profondità strategica) restano di interi ordini di grandezza inferiori alle risorse strategiche russe, perché la Russia ha 145 MLN di abitanti, può mobilitare un massimo di 25 MLN di uomini, ha enormi risorse naturali e la capacità di trasformarle, un’ampia base industriale militare, e una profondità strategica di 11 fusi orari. (“Profondità strategica” è lo spazio amico entro il quale un esercito attaccato e respinto può ripiegare, riorganizzarsi, passare al contrattacco, come fecero appunto i sovietici dopo la devastante serie di sfondamenti della Wehrmacht all’esordio dell’Operazione Barbarossa, quando i sovietici trasferirono oltre la catena degli Urali milioni di uomini e numerose industrie strategiche situate nella Russia europea, e fecero affluire verso il fronte i reparti militari di stanza in Oriente, integrandoli con i reparti sfuggiti agli accerchiamenti tedeschi).
Ripeto: una potenza nettamente più debole può vincere contro una potenza nettamente più forte solo se rende il rapporto costi/benefici della vittoria sfavorevole per la potenza nemica. È una vittoria a caro prezzo (guerra del Vietnam: caduti USA 58.000, caduti Vietnam 849.000 + 300-500.000 dispersi, stime governative) ma è una vittoria possibile.
È così che Vietnam e Afghanistan hanno vinto contro USA e URSS, che disponevano entrambe di risorse strategiche di gran lunga superiori. Se le due potenze maggiori avessero deciso di impegnare a fondo le loro risorse strategiche, Vietnam e Afghanistan non avrebbero potuto evitare una sconfitta totale. USA e URSS non lo hanno fatto perché lo hanno ritenuto politicamente insostenibile: perdite troppo elevate, impegno politico, economico e militare a lunga scadenza inaccettabile, crescente opposizione interna alla guerra, etc. In sintesi USA e URSS hanno deciso di perdere perché hanno valutato che per loro, il rapporto costi/benefici della sconfitta fosse più vantaggioso del rapporto costi/benefici della vittoria.

La posta in gioco per la Russia
Ma gli obiettivi strategici dichiarati ufficialmente dal governo USA e rilanciati da NATO e paesi europei sono obiettivi massimalisti: dissanguamento e permanente indebolimento della potenza economica e militare russa, destabilizzazione del governo, attivazione delle forze centrifughe interne alla Federazione russa, espulsione della Russia dal novero delle grandi potenze, possibile sua frammentazione politica. Particolarmente temibile, per la Russia che si è formata storicamente come impero multietnico, multinazionale, multireligioso, la possibilità di un’attivazione delle forze centrifughe etniche, religiose, nazionali, in uno scenario analogo allo jugoslavo degli anni Novanta.
Gli obiettivi dichiarati dall’Occidente configurano insomma una minaccia esistenziale per il governo, lo Stato, la società e le nazioni russe. I dirigenti russi dunque si persuadono che nella guerra ucraina sia in gioco la posta assoluta, sono disposti letteralmente a tutto per vincerla, e lo dicono ripetutamente in forma ufficiale. Saranno dunque disposti, anzi costretti a impiegare a fondo tutte le risorse strategiche russe per vincere la guerra: per vincere l’Ucraina, ed eventualmente, se si arrivasse a un conflitto diretto, anche la NATO.
Viene così a cadere la condizione di possibilità di una futura vittoria ucraina: che per la Russia il gioco della vittoria sull’Ucraina non valga la candela della guerra a oltranza. Per vincere la Russia, l’Ucraina e i suoi alleati occidentali devono ottenere la vittoria decisiva su una Federazione russa disposta o meglio obbligata ad impegnare a fondo, per tutto il tempo necessario, tutte le sue risorse strategiche: in sintesi, farla capitolare.
Al contempo gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, impegnandosi pubblicamente a raggiungere obiettivi massimalistici, si chiudono lo spazio di manovra diplomatica e fanno salire fino al cielo la posta politica in gioco per le loro classi dirigenti, che rischiano di essere spazzate via da una sconfitta; malgrado che un esito sfavorevole della guerra non danneggi, in quanto tale, gli interessi vitali delle loro nazioni, nessuna delle quali rischia la destabilizzazione o peggio in seguito a una sconfitta ucraina.
L’unica nazione del campo occidentale che rischia tutto è l’Ucraina, che da una prosecuzione della guerra a oltranza e da una probabile sconfitta può attendersi solo terribili sciagure.

Terza fase della guerra (fine estate – autunno 2022). Successo della controffensiva ucraina. Escalation politica russa: annessione di quattro oblast del Donbass. Escalation militare russa: bombardamento degli obiettivi a doppio uso militare e civile. Guerra di manovra e guerra d’attrito.
Le forze russe si attestano nel Donbass, occupando quasi il 20% dell’intero territorio ucraino e schierandosi su un fronte di 1.500 km circa. Il dispositivo militare ucraino si riorganizza, amplia la mobilitazione richiamando i riservisti ed estendendo la coscrizione obbligatoria fino ai 60 anni, viene rifornito di nuovi armamenti occidentali (in larga misura equipaggiamenti ex – sovietici) in sostituzione di quelli distrutti nelle fasi precedenti del conflitto, viene innervato da un più vasto e intenso coinvolgimento di personale di comando NATO e da una più capillare strutturazione delle funzioni ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance), e nel settembre 2022 sferra una controffensiva in forze con direttrice principale su Kharkiv.
La controffensiva ucraina ha successo. I russi devono arretrare su tutto il fronte, ripiegando più o meno ordinatamente. Motivo: la coperta russa è troppo corta. I reparti russi hanno conquistato vasti territori che non sono in grado di tenere con l’esiguo numero di truppe impegnate nella “operazione militare speciale”. Essi dunque devono resistere ripiegando il più ordinatamente possibile, accorciare il fronte, ridurre i territori da difendere e fortificarli per attestarvisi, riconfigurare il dispositivo militare e rinforzarlo.
La Russia si adatta alla nuova realtà sul terreno. Viene nominato un comandante generale delle operazioni in Ucraina, il gen. Surovikin. Il governo propone alla Duma, che la vota all’unanimità, la mobilitazione parziale di 300.000 riservisti. Vengono mobilitate anche le industrie militari, che lavoreranno su tre turni di otto ore.

Escalation politica russa: annessione dei quattro oblast del Donbass
Il governo propone alla Duma, che nell’ottobre la vota all’unanimità, l’annessione di quattro oblast del Donbass: le regioni di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhya e Kherson, previo plebiscito organizzato dalle autorità di occupazione russe.
È la più decisiva escalation politica di tutta la guerra, perché con essa la Russia si brucia le navi alle spalle e annuncia implicitamente la propria ferma volontà di impegnare a oltranza tutte le proprie risorse strategiche per ottenere la vittoria sull’Ucraina e sui suoi alleati. Per far recedere la Russia dall’annessione, riconsegnando all’Ucraina territori che per la Federazione russa sono formalmente divenuti territorio nazionale, l’Ucraina e i suoi alleati dovrebbero infliggere una sconfitta decisiva a tutta la Federazione russa, e farla capitolare.

Escalation militare russa. Bombardamento degli obiettivi a doppio uso militare e civile
Riconfigurato il dispositivo militare intorno all’unità di comando e consolidato il fronte, mentre si svolge tra varie difficoltà la mobilitazione dei riservisti (è la prima mobilitazione da ottant’anni e l’apparato amministrativo e logistico russo non è pronto; centinaia di migliaia di russi varcano le frontiere per evitare il richiamo) il comandante generale Surovikin decide l’escalation militare. Per la prima volta vengono interessati da una serie incessante di fitti bombardamenti missilistici gli obiettivi a doppio uso, civile e militare, in particolare la rete elettrica ucraina ma in generale le infrastrutture quali ferrovie, fabbriche, depositi di materiale militare e civile, etc. La Russia non prende di mira i civili, ma bersagliando le infrastrutture a doppio uso provoca gravi disagi alla popolazione, compromette il normale svolgimento della vita quotidiana, e ovviamente provoca “danni collaterali”, vittime civili colpite per errore dai suoi missili e dal fuoco contraereo ucraino.
Il gen. Surovikin prende anche la decisione, politicamente difficile e impopolare ma corretta, di abbandonare Kherson, importante centro testé formalmente annesso al territorio nazionale russo, e di far ripiegare le truppe che la occupano sulla sponda meridionale del fiume Dnepr. La decisione operativa consente di non sprecare forze per prevenire una controffensiva in un punto delicato, concentrando invece gli sforzi nel Donbass. Ne conseguiranno vantaggiosi risultati concreti sul campo di battaglia.

Guerra di manovra, guerra d’attrito. L’ esempio storico dell’Operazione Barbarossa
La “guerra di manovra”, in tedesco Bewegungskrieg, “guerra di movimento”, è l’opposto simmetrico della “guerra d’attrito”, Stellungskrieg, “guerra di posizione”. Ogni guerra combina, in percentuali diverse, manovra e attrito. La guerra d’attrito punta a logorare gradualmente le capacità di combattimento del nemico con l’applicazione prolungata e costante di una forza superiore; la guerra di manovra punta a distruggere rapidamente le capacità di combattimento del nemico trovando o creando, e sfruttando abilmente, lo Schwerpunkt, il punto decisivo vitale e debolmente difeso dello schieramento nemico, contro il quale sferrare un rapido, determinante attacco in forze.  Il vantaggio della manovra sull’attrito sembra ovvio: la manovra offre la possibilità di una vittoria rapida e decisiva, ma minaccia anche la possibilità di una sconfitta altrettanto rapida e decisiva, perché attaccare è sempre rischioso e il nemico può sempre dire la sua. Come sottolinea Clausewitz, non esiste la “scienza della vittoria”, e la logica che governa la guerra non è lineare ma paradossale, come illustra il detto romano “si vis pacem para bellum”. La guerra di manovra viene privilegiata degli eserciti che scontano un evidente svantaggio nella guerra d’attrito: eserciti meno numerosi, con capacità materiali o logistiche inferiori a quelle del nemico.
In questa fase il conflitto ucraino, che nelle due fasi precedenti ha visto una combinazione di manovra e attrito, si stabilizza in forma di guerra d’attrito, il tipo di conflitto dove pesa di più la disparità di risorse strategiche tra i contendenti. Nella guerra d’attrito, infatti, quel che più conta per la vittoria è la rispettiva capacità di generare durevolmente forze umane e materiali. È il campo in cui la Russia ha il maggior vantaggio relativo sull’Ucraina.
Accresce il vantaggio russo il fatto politico essenziale che l’Ucraina dipende in tutto e per tutto dall’appoggio occidentale, e che i dirigenti occidentali devono giustificare presso le opinioni pubbliche e l’elettorato il crescente costo politico-economico di questo appoggio. Dunque gli ucraini sono costretti dalla ragion politica a inviare costantemente truppe, anche insufficienti o impreparate, sulla linea di contatto con i russi, mantenendo vivo il conflitto, rinnovando in Occidente l’ammirazione per la loro capacità di resistenza, e alimentando la persuasione che la vittoria finale ucraina sia possibile.
Dal punto di vista militare, in realtà, agli ucraini converrebbe prendersi una pausa, riorganizzare le riserve, rinforzarle e addestrarle, e risparmiare uomini e mezzi in vista di controffensive future. Una potenza dotata di risorse strategiche nettamente inferiori al nemico, infatti, può sperare di vincerlo soltanto con un’abile, aggressiva e rapida, soprattutto rapida guerra di manovra: in una guerra d’attrito, il tempo lavora per la potenza con le maggiori risorse strategiche.
Furono queste considerazioni fondamentali a dettare la forma in cui si è sviluppata e ordinata la potenza militare prussiana prima e tedesca poi, ossia dei maestri di un’aggressiva e rapida guerra di manovra. Sia la Prussia sia la Germania, infatti, hanno dovuto fare i conti con la propria situazione geopolitica: esposizione su più fronti al centro d’Europa, frontiere indifese da ostacoli naturali, limitate risorse naturali e umane; e hanno tentato di risolvere la difficile equazione mettendo a punto un dispositivo militare altamente preparato a condurre con la massima aggressività e perizia rapide guerre di manovra. Esemplari dei successi dello stile germanico le magistrali Blitzkrieg contro Polonia e Francia nella IIGM.  Esemplare, però, anche il fallimento dell’Operazione Barbarossa. La Germania invade l’URSS, ottiene per sei mesi schiaccianti vittorie ma non riesce a provocare il collasso politico e sociale del nemico, e tocca il limite delle proprie capacità logistiche. L’URSS non capitola, si riorganizza, e comincia a generare forze umane e materiali in misura via via crescente e superiore rispetto alle forze che è in grado di generare la Germania.  Saranno necessari quattro anni di durissimo conflitto, ma il destino della Germania è segnato.
Si noti bene che al tempo dell’Operazione Barbarossa tutti gli Stati Maggiori del mondo, abbagliati dai precedenti, splendidi successi tedeschi, davano per scontata la vittoria della Wehrmacht. Essa però avrebbe potuto verificarsi soltanto se l’URSS fosse collassata in seguito ai primi mesi di devastanti sconfitte. L’Operazione Barbarossa è dunque stata un’azzardata scommessa strategica, in cui la vittoria finale dipendeva interamente dal crollo della coesione politica, militare e sociale del nemico. L’Alto Comando tedesco non ha invece tenuto nella dovuta considerazione sia le risorse strategiche attuali dell’URSS, sia, e soprattutto, la sua capacità di generare nuove forze, maggiori delle proprie, per tutto il tempo necessario a concludere vittoriosamente la guerra.
È lo stesso tipo di errore che hanno commesso gli Alti Comandi occidentali in questo conflitto ucraino.
Essi hanno gravemente sottovalutato le risorse attuali della Russia: da questo errore dell’intelligence militare i continui proclami che la Russia starebbe per terminare le sue scorte di missili, proietti d’artiglieria, etc., rivelatisi via via sempre più grotteschi e difformi dalla realtà; hanno gravemente sottovalutato la sua capacità di generare nuove forze umane e materiali nel breve, e nel medio-lungo periodo: di qui l’errata valutazione dell’impatto delle sanzioni economiche sulla Russia, a torto creduto rapidamente incapacitante; hanno gravemente sottovalutato la coesione politica e sociale della compagine russa, la sua volontà di combattere e di stringersi intorno alla bandiera: di qui gli annunci, via via più ridicoli, di un prossimo rovesciamento del governo russo in seguito al dissenso della popolazione e di decisivi settori della classe dirigente.
Quarta fase trasformativa della guerra (fine autunno 2022 – inverno 2022/23). Due fazioni nei centri direttivi statunitensi: escalation o de-escalation del conflitto? Tre fatti significativi. Stime delle perdite ucraine e russe. Previsioni. La doppia trappola strategica.
Ritengo trasformativa la presente fase della guerra perché soltanto in questa fase viene chiaramente in luce la sua natura di doppia trappola strategica.
Nella quarta fase della guerra si verificano tre fatti significativi.

Sabotaggio del Northstream 2
Nel novembre 2022 un sabotaggio subacqueo rende inutilizzabile il Northstream 2, il gasdotto costruito per trasportare il metano russo in Germania attraverso il Mar Baltico, senza passare per l’Ucraina. L’inchiesta entra subito in stallo, per l’impossibilità politica di individuarne gli autori: infatti la logica del cui prodest suggerisce che responsabili ultimi dell’attentato siano gli Stati Uniti. Probabilmente, l’operazione è frutto di una collaborazione tra Royal Navy britannica e forze speciali polacche. Motivo del sabotaggio: nella classe dirigente tedesca crescono le preoccupazioni per i disastrosi effetti a lunga scadenza (progressiva disindustrializzazione della Germania) della cessazione di forniture d’energia russa a buon mercato. Il sabotaggio del gasdotto è un vero e proprio atto di guerra contro la Germania, volto a intimidirla perché si allinei senza esitazioni alla strategia di contrapposizione frontale alla Russia decisa dagli USA. L’intimidazione ha successo. Intimidita la Germania, l’unico Stato europeo che non aderisca perinde ac cadaver alla linea statunitense è la piccola Ungheria; nella NATO, l’unico Stato con un elevato grado di autonomia politica è la Turchia.

Dichiarazioni pubbliche del gen. Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto USA
Nel novembre e di nuovo nel dicembre 2022 il gen. Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto statunitense, rilascia irrituali dichiarazioni pubbliche, invitando all’apertura di una trattativa diplomatica con la Russia, e asserendo che “agli ucraini non si può chiedere di più”. Le dichiarazioni irrituali di Milley sono evidente indizio che nei centri decisionali statunitensi confliggono due grandi fazioni: una incentrata nell’establishment bipartisan che dirige la politica estera, favorevole alla prosecuzione a oltranza della guerra in Ucraina ed eventualmente a una sua escalation; e un’altra, incardinata nel Pentagono, favorevole a una de-escalation del conflitto. Il fatto che Milley comunichi pubblicamente le sue posizioni prova che nel dibattito interno all’Amministrazione USA la posizione del Pentagono è minoritaria e teme di restarlo, e che lo scontro tra le due posizioni è molto aspro.
A ulteriore riprova dell’esistenza di questi schieramenti interni alla direzione statunitense, il recentissimo studio pubblicato dalla RAND Corp., Avoiding a Long War: U.S. Policy and the Trajectory of the Russia-Ukraine Conflict[1], [in nota riferimento bibliografico e traduzione italiana dell’abstract] che analizza, dal punto di vista dell’interesse nazionale USA, i costi di un prolungamento della guerra ucraina, raccomanda la de-escalation, e la cauta instaurazione di un processo diplomatico che porti a una conclusione negoziata del conflitto. La RAND Corporation è un importante e prestigioso centro studi che sin dalla sua fondazione fornisce analisi e progetti soprattutto al Pentagono.

Riconfigurazione della struttura di comando russo, annuncio di riforma delle FFAA russe
Nel gennaio 2023, il governo russo riconfigura il comando militare delle operazioni in Ucraina, e annuncia una più generale riforma strutturale delle sue Forze Armate. Il militare russo più alto in grado, generale Gerasimov, Capo di Stato Maggiore delle FFAA russe, viene insignito del comando generale delle operazioni in Ucraina, mentre il gen. Surovikin riprende il suo precedente ruolo di Comandante delle Forze Aerospaziali. Il governo ristabilisce i distretti militari di Mosca e Leningrado, ordina la formazione di un nuovo gruppo d’armate in Carelia, alla frontiera finlandese, e la creazione di dodici nuove divisioni dell’esercito. Annuncia altresì che entro il 2026 aumenterà le dimensioni del suo dispositivo militare in servizio permanente effettivo, portandole a 1,5 MLN di uomini. Nel contempo, i massimi dirigenti russi iniziano a dichiarare pubblicamente che la guerra in corso in Ucraina è, in realtà, una guerra tra Russia e NATO. Queste inedite dichiarazioni pubbliche hanno anche – come sempre in guerra – una valenza propagandistica interna, ma interpretate alla luce delle riforme militari in corso suggeriscono con un elevato grado di plausibilità che i decisori russi si preparano per il caso peggiore, ossia per un intervento diretto delle forze occidentali nel conflitto ucraino.

Prosegue la guerra d’attrito. Stime delle perdite ucraine e russe
Nel frattempo, sul terreno ucraino la guerra d’attrito continua. Continuano gli attacchi missilistici alle infrastrutture ucraine a doppio uso, civile e militare. Il dispositivo militare russo si consolida sulle posizioni difensive occupate e rafforzate dopo il ripiegamento. Continua e si perfeziona l’addestramento dei riservisti richiamati, e la logistica si adegua gradualmente all’arrivo dei rinforzi e alla prosecuzione degli intensi, costanti attacchi missilistici. I reparti russi sferrano attacchi incrementali sulle linee difensive ucraine, con ridotto impiego di truppe e larghissima, prolungata preparazione d’artiglieria, per limitare il più possibile le proprie perdite. Gli ucraini, intrappolati dalla necessità politica di resistere sempre e comunque e appena possibile attaccare, per giustificare il sostegno occidentale, cordone ombelicale della prosecuzione della guerra, non sono in grado di contrattaccare in forze, ma resistono anche oltre i vantaggi militari della resistenza e subiscono gravissime perdite di uomini e di materiali.
È impossibile, finché dura la guerra, avere dati certi delle perdite. Mentre scrivo, a fine gennaio 2023, fonti occidentali quali Strategic Forecasting, un’importante agenzia di intelligence privata che abitualmente collabora con la CIA, parla di più di 300.000 morti ucraini, per un totale di perdite irrecuperabili intorno ai 400.000 uomini. Le più recenti valutazioni occidentali, non ufficiali, delle perdite irrecuperabili russe parlano di 20.000 morti e 30.000 tra dispersi e feriti gravi. Pur con tutte le necessarie cautele, è abbastanza verisimile che il rapporto tra perdite ucraine e perdite russe si situi tra 10:1 e 5:1. Nelle grandi battaglie della IIGM, il rapporto di perdite tra lo sconfitto e il vincitore fu intorno a 1,3 – 1,5: 1. L’esercito ucraino non sembra essere in grado di preparare, nel prossimo futuro, una controffensiva su grande scala: per l’elevatissimo numero di perdite, soprattutto di ufficiali e sottufficiali veterani; per la scarsità di materiale bellico, nonostante i rinnovati invii di armi occidentali; per la crescente disorganizzazione delle strutture di comando militare; per la crescente, progressiva degradazione delle condizioni economiche e sociali dell’intera Ucraina.

Scelte operative dell’Alto Comando russo. Previsioni.
In sintesi, nella quarta fase della guerra comincia a risultare chiaro che il dispositivo militare russo ha raggiunto, o è sul punto di raggiungere, le condizioni necessarie e sufficienti a imprimere al conflitto la direzione voluta dal suo comando militare e politico.
Ovviamente, solo l’Alto Comando russo sa, o saprà, quale sia questa direzione, ma attualmente esso pare in grado di:
proseguire la guerra d’attrito, applicando costantemente sul dispositivo militare ucraino, e sull’intera società ed economia ucraine, la sua forza superiore: così risparmiando la propria risorsa più preziosa, gli uomini. Gli uomini sono la risorsa russa più preziosa dal punto di vista politico, per evidenti ragioni rafforzate dall’approssimarsi delle elezioni presidenziali russe del 2024. Sono la risorsa più preziosa anche dal punto di vista militare, e in special modo lo sono i veterani, che devono addestrare e integrare nei reparti i riservisti richiamati, nessuno dei quali ha esperienza diretta di una guerra a così alta intensità (non ce l’ha nessuno al mondo tranne chi vi ha partecipato, nell’uno o nell’altro schieramento)
passare all’offensiva su grande scala, su una o più direttrici. Prevedibili obiettivi strategici, l’annientamento progressivo della capacità di combattere dell’esercito ucraino; la riconquista delle porzioni territoriali dei quattro oblast annessi alla Russia, e riprese dall’Ucraina in seguito al ripiegamento russo; l’occupazione e l’annessione alla Russia di Odessa e dell’intero territorio della Novorossiya, in modo da escludere l’Ucraina dall’accesso al mare.
Probabilmente, nelle valutazioni dell’Alto Comando russo sono presenti, e non in secondo piano, le previsioni sulla reazione occidentale all’una e all’altra decisione operativa russa. Proseguire la guerra d’attrito consente alle direzioni occidentali di rinviare le decisioni strategico-politiche su escalation o de-escalation, e probabilmente avvantaggia la fazione favorevole alla de-escalation, dandole il tempo di organizzarsi meglio, trovare alleati, diffondere pubblicamente i suoi argomenti. Passare all’offensiva le obbliga a scegliere in tempi brevi, brevissimi se l’offensiva ha presto un chiaro successo. La fazione statunitense favorevole alla de-escalation è tuttora minoritaria: la situazione sul campo la favorisce, ma le manca l’appoggio aperto di almeno uno tra i più importanti alleati europei.
A mio avviso, per la Russia è vantaggioso evitare un’accelerazione del conflitto, sia per i rischi di fallimento e i costi umani sempre associati alle azioni offensive su grande scala, sia per non servire una carta decisiva al “partito della guerra a oltranza” statunitense, che sull’onda dell’emozione potrebbe iniziare una diretta, formale implicazione di forze occidentali nella guerra; per esempio, il varo di una “coalizione dei volonterosi” come proposto nel novembre 2022 a dal gen. (a riposo) David Petraeus, ossia con truppe polacche, rumene, baltiche, etc. che intervengano sotto la propria bandiera, ma non in quanto membri della NATO, in seguito a una richiesta di aiuto militare del governo ucraino: un escamotage giuridico per evitare un aperto conflitto diretto NATO – Russia, che rischierebbe di interessare anche il territorio statunitense.
Quindi, se devo arrischiare una previsione, penso che la Russia continuerà ancora a lungo la guerra d’attrito.

Vittoria decisiva della sola Ucraina. Vittoria decisiva con intervento diretto occidentale. Possibilità e probabilità
In estrema sintesi, a un anno dall’inizio della guerra risulta chiaro che una decisiva vittoria militare ucraina sulla Russia è materialmente impossibile, per quanto possano proseguire, o anche aumentare, nelle forme attuali, gli aiuti occidentali. La situazione può cambiare solo con un diretto coinvolgimento di truppe occidentali.
Comincia però ad albeggiare il dubbio, anche nelle direzioni politico-militari occidentali, che un diretto coinvolgimento di truppe occidentali nella guerra non basti ad assicurare, o almeno a rendere altamente probabile, la vittoria decisiva sulla Russia. Dubbiosi sono soprattutto i militari: per questo la fazione statunitense favorevole alla de-escalation si incardina sul Pentagono. Motivi:
l’attuale dispositivo militare dell’intera NATO, Stati Uniti compresi, non è concepito e preparato per una guerra convenzionale ad alta intensità contro un nemico capace di condurla, come la Russia. Dalla fine della Guerra Fredda, tutte le nazioni NATO hanno fortemente ridotto i loro eserciti, dismesso gran parte delle strutture logistiche militari, indirizzato la struttura e l’addestramento delle loro FFAA, e la produzione delle loro industrie militari, a conflitti di breve durata contro nemici nettamente inferiori, in genere appartenenti al “Grande Sud del mondo”; una decisione tutto sommato ragionevole, finché la NATO non si è contrapposta alla Russia, che in effetti non la minacciava affatto.
La Russia, invece, ha strutturato le sue FFAA e la sua industria militare in vista di una guerra difensiva contro la NATO, come è nella tradizione storica di un paese che da sempre deve fronteggiare e respingere grandi invasioni del suo territorio. Sinora ha privilegiato la difesa di ultima istanza, la triade nucleare, ma come prova la guerra in Ucraina non ha abbandonato la preparazione convenzionale e la sta rafforzando. Essa ha inoltre guadagnato, in settori decisivi come la missilistica e la difesa contraerea, la superiorità relativa rispetto agli Stati Uniti. Per compensare lo svantaggio ci vogliono anni.
Un riarmo occidentale è molto arduo, il suo esito incerto, i tempi lunghi. I finanziamenti, anche massicci, non bastano: il denaro può comprare solo quel che già esiste, e quel che già esiste non basta. Per far esistere quello che manca, è necessario anzitutto determinare politicamente la strategia di sicurezza collettiva della NATO, un processo molto complicato e difficile anche per la frammentazione dei centri decisionali. Se il nemico principale della NATO è la Russia, è indispensabile, come minimo, e giusto per cominciare: costruire un alto numero di cacciabombardieri da impiegare in appoggio alla fanteria, e in grado di sopravvivere alle difese missilistiche russe; costruire le infrastrutture logistiche necessarie a un’ampia proiezione delle forze in caso di crisi, con la relativa pianificazione; varare un grande programma di difesa antiaerea integrata del territorio europeo; varare un vasto programma di reclutamento e addestramento truppe, in specie di ufficiali e sottufficiali. Al riguardo, è bene tenere presente che la rinuncia da parte di tutti i paesi NATO alla coscrizione obbligatoria ha provocato la perdita di ingenti riserve addestrate alle quali far ricorso in caso di necessità. In sostanza, in caso di una guerra che ci coinvolga, prenda tempi lunghi e sconti perdite rilevanti, mobilitazioni come quelle indette da Mosca e dall’Ucraina sono quasi impossibili, per i paesi dell’Europa Occidentale. Segue un lungo eccetera.
Ovviamente, un diretto coinvolgimento occidentale nella guerra impedirebbe agli Stati Uniti di concentrarsi sul contenimento della Cina, rinsalderebbe l’alleanza di quest’ultima con la Russia, esporrebbe gli USA a una possibile guerra su due fronti contro due grandi potenze nucleari, e aumenterebbe progressivamente il rischio che nel conflitto con la Russia facciano capolino le armi atomiche. Quanto più diretto e intenso il conflitto convenzionale tra due grandi potenze nucleari come Russia e USA, tanto più probabile che il contendente che si credesse esposto a una probabile sconfitta decisiva mediti seriamente di impiegare le armi nucleari.
Altrettanto ovviamente, in un conflitto diretto tra forze occidentali e Russia le perdite occidentali si conterebbero a decine di migliaia, un costo umano difficile da giustificare politicamente.

La doppia trappola strategica
Con l’allargamento a Est della NATO, e insistendo per includervi l’Ucraina, gli Stati Uniti hanno teso una trappola strategica alla Russia, costringendola a scegliere tra due alternative, entrambe molto pericolose nel medio-lungo periodo: accettare il divieto di avere una sfera d’influenza, e la minacciosa presenza di un bastione militare occidentale sulla soglia della Russia europea; oppure intervenire militarmente, assumendosi il grave rischio di un conflitto con la NATO, e compromettendo i propri rapporti politici ed economici con l’Europa. Questa è la prima ganascia della trappola strategica in cui la Russia è entrata ad occhi aperti, dopo aver tentato per quattordici anni di evitarla.
Gli Stati Uniti, però, hanno gravemente sottovalutato le capacità di resistenza e di reazione, militari, economiche, politiche e sociali della Federazione russa, e altrettanto sopravvalutato sia il prestigio deterrente della propria forza, sia le proprie attuali capacità e potenzialità militari ed economiche.  Si trovano dunque a dover scegliere tra due alternative, entrambe molto pericolose nel medio-lungo periodo.
La prima alternativa è la riduzione del danno, una de-escalation del conflitto ucraino che si risolve in una netta sconfitta politico-diplomatica, una pesante perdita di prestigio deterrente, la possibile apertura di faglie di crisi nel sistema di alleanze, e seri contraccolpi politici interni, es. una grave delegittimazione complessiva della classe dirigente.
La seconda alternativa è la fuga in avanti, una escalation a oltranza del conflitto, con l’eventuale – anzi probabile, perché necessario – coinvolgimento diretto di truppe occidentali; il rischio di una guerra convenzionale ad alta intensità per la quale gli USA e la NATO non sono preparati; il possibile futuro interessamento del territorio nazionale statunitense, e in prospettiva, la crescente possibilità di una degenerazione nucleare dello scontro.
Questa è la seconda ganascia della doppia trappola strategica, e ora si richiude sugli Stati Uniti che l’hanno tesa: ma vi sono entrati a occhi chiusi, e solo ora cominciano a vederla.
Ate, la dea che acceca, «da principio seduce l’uomo con amiche sembianze, ma poi lo trascina in reti donde speranza non c’è che mortale fugga e si salvi» (Eschilo, I persiani, 96-100)

[1] Charap, Samuel and Miranda Priebe, Avoiding a Long War: U.S. Policy and the Trajectory of the Russia-Ukraine Conflict. Santa Monica, CA: RAND Corporation, 2023. https://www.rand.org/pubs/perspectives/PEA2510-1.html

Gli anni della vergogna

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di Franco Maloberti

Mi chiedo se saranno i futuri storici a definire questi anni come “gli anni della vergogna” o molto prima, per nuova consapevolezza, saremo noi stessi a parlare della vergogna di questi tempi. Gli anni in questione sono quelli successivi la Seconda guerra mondiale. I vincitori della guerra, invece di puntare a uno sviluppo armonico, hanno operato per il dominio del mondo, per diventare egemoni e tenere saldo il potere con la forza. Una egemonia che non può che essere instabile e incapace di resistere alla erosione dei tempi. La vergogna è di tutti, noi compresi, che abbiamo assistito, silenti, ai vergognosi comportamenti dei principali attori della involuzione: i cosiddetti scienziati, i giornalisti, e i politici. Sarà la gente comune, quella che proverà la vergogna, per l’essersi sentita inadeguata a porre rimedio ai disastri fatti da altri.

Ho messo al primo posto gli “scienziati”, perché la scienza ha smesso di essere scienza e si è prostituita a interessi militari, al potere e al denaro.

Attorno agli anni 1930 ci furono grandi scoperte nella fisica dell’atomo. Nonostante gli scarsi finanziamenti, i “ragazzi di via Panisperna”, dove era ubicato il Regio Istituto di Fisica dell’Università di Roma, scoprirono le proprietà dei neutroni lenti usando anche, oltre alla paraffina, la vasca dei pesci rossi per usare l’acqua come elemento idrogenato che rallenta i neutroni. A capo dei “ragazzi” c’era Enrico Fermi che per quella scoperta ricevette il premio Nobel nel 1938. In Italia in quel periodo c’era una crescente persecuzione degli ebrei e, immediatamente dopo l’assegnazione del Premio, Fermi e la moglie, di origine ebraica, emigrarono negli USA, partendo direttamente da Stoccolma.

Nello stesso periodo Robert Oppenheimer fece scoperte importanti sull’effetto tunnel, che è la base del funzionamento di vari dispositivi elettronici e di memorie a semiconduttore. Sia Fermi che Oppenheimer ebbero importanti collaborazioni con i fisici dell’epoca e trascorsero un periodo di studi in Germania a Göttingen.

Nel 1939 i fisici Bohr e Rosenfeld portarono negli USA la notizia che in Germania altri fisici avevano ottenuto la fissione dell’uranio bombardandolo con neutroni lenti. La notizia confermò l’idea che una reazione a catena di fissione potesse portare a una superbomba di potenza enorme. Un tale pericolo fu manifestato in una lettera, firmata anche da Einstein, mandata al Presidente Roosevelt.

Dopo l’invasione della Francia da parte della Germania nel 1940 Roosevelt creò il “National Defence Research Committee” per ricerche riguardanti la difesa nazionale e la progettazione di nuove armi. Il progetto specifico riguardante la bomba atomica, chiamato Manhattan, diretto per la parte scientifica da Oppenheimer e sviluppato con un contributo non trascurabile di Fermi, realizzò poi il ben noto risultato. Il progetto avrebbe dovuto costare 133 milioni di dollari ma alla fine del 1945 arrivò a più di due miliardi con più di 130 mila persone impiegate.

Quella sottomissione delle capacità scientifiche di numerosi scienziati a richieste belliche fu il primo caso di profanazione di massa del significato di scienza, come era condiviso fino ad allora da tutti. Furono pochi quelli che si dissociarono. Max Born si disse convinto fin dall’inizio che quella era un’invenzione diabolica. Franco Rasetti, uno dei “ragazzi” emigrato in Canada, criticò duramente i colleghi e, dopo Hiroshima e Nagasaki disse “La fisica non può vendere l’anima al diavolo.” Joseph Rotblat si ritirò dal progetto. Tra le ragioni di quel ritiro c’erano le affermazioni del generale Groves, il comandante del progetto per la parte militare, che diceva che la bomba non era per battere la Germania, ma l’Unione Sovietica, allora alleata degli USA. Alla fine, molti espressero “pentimento”. Oppenheimer giorni prima il lancio di prova “Trinity Test” disse: “Sono diventato Morte. Il distruttore dei mondi“. e, dopo Hiroshima e Nagasaki, “I fisici hanno conosciuto il peccato“. Fermi, invece, diede solo deboli segnali e, quando gli fu richiesto, lavorò per la bomba ad idrogeno.

Recentemente, la prostituzione a interessi mercantili o militari ha ripreso vigore. Per fare ricerca serve denaro: le risorse umane e le attrezzature sono costose. Quello che conta nei tempi moderni è la quantità dei risultati, molto più della qualità. Nelle università si è rispettati e apprezzati solo se si scrivono tanti articoli e, questo è reso possibile da una larga schiera di studenti e ricchi finanziamenti. Non è infrequente trovare ricercatori che sovrintendono una ventina di studenti. Supponendo che la settimana lavorativa sia di quarantotto ore, tenendo conto del tempo per lezioni, riunioni, scrittura di proposte e altre incombenze, si ha che il tempo dedicato a un singolo studente non arriva a un’ora alla settimana. Il ricercatore è quindi un manager alla spasmodica ricerca di denaro. E il denaro raccolto corrisponde spesso a lavori con valenza industriale o militare. Per il denaro, una buona frazione di ricercatori fa di tutto, sviluppa software per controllare le menti, studia sistemi di controllo dei proiettili, favorisce il volo senza pilota di droni assassini, crea virus mortali dispersi casomai da uccelli o da insetti. Molti, troppi, ricercatori sono finanziati da progetti di sviluppo militare, e questo è una vergogna, anche se alcuni usano dire che gli avanzamenti tecnologici sono per il bene dell’umanità.

Nel 1864, a 17 anni, Joseph Pulitzer emigrò dalla nativa Ungheria negli USA. In breve tempo divenne giornalista e poi editore. Il successo di Pulitzer, pur osteggiato da concorrenti, fu dovuto al suo convincimento che la difesa del diritto costituzionale di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e della incorruttibilità della giustizia dipendesse dalla qualità della informazione. Di lui, c’è la seguente riflessione:

La nostra repubblica e la sua stampa progrediscono o cadono assieme. Un capace e disinteressato spirito pubblico di stampa, con intelligenza allenata a conoscere il diritto e con coraggio, può preservare quella pubblica virtù senza la quale il governo popolare è una farsa e un raggiro. Una stampa cinica, mercenaria, demagogica produrrà col tempo un popolo vile quanto lei stessa. Il potere di plasmare il futuro della Repubblica sarà nelle mani dei giornalisti delle generazioni future.

Quello che Pulitzer auspicava si è attuato solo per un periodo breve. Ai tempi di Pulitzer il giornalismo negli USA, come racconta Eric Burns nel suo libro “Scribacchini infami“, era “selvaggio” con i giornali colmi di bugie, di accuse non provate ed esagerazioni. Erano, in pratica, armi partigiane usate per colpire oppositori politici.

Pulitzer fu un giornalista e un editore controverso. Nel tempo la sua linea editoriale mutò da populista e sensazionalista a “dedicata alla causa del popolo anziché a quella dei potenti”. Alla sua morte lasciò alla Columbia University due milioni di dollari per istituire la Scuola di Giornalismo e, dopo sei anni la Columbia istituì i premi in suo onore. Alcuni di questi erano anche per proteggere il giornalismo indipendente e premiare piccole organizzazioni giornalistiche che fanno inchieste e operano come organi di controllo dei governi e dei potenti.

Negli anni successivi molti giornalisti seguirono le raccomandazioni di Pulitzer. Negli USA ci furono clamorose inchieste in opposizione al potere e alle ingiustizie. Agli inizi del 1900 Ida Tarbell denunciò i metodi di spionaggio, ricatti e coercizioni usati da Rockfeller e i suoi collaboratori per sbarazzarsi della concorrenza. Il “Plain Dealer” di Cliveland svelò il massacro di My Lai in Vietnam. Il Washington Post portò alla luce il Watergate.

In Europa la vita del giornalismo fu contrastata, comunque, mostrò coraggio e determinazione come fu per il caso Dreyfus, in Francia, difeso da Émile Zola con il suo articolo “J’accuse“. In Italia ci furono giornalisti di coraggiosi e determinati, come Pier Paolo Pasolini, Giancarlo Siani, Oriana Fallaci, Giorgio Bocca, che si opposero, pur con diverse connotazioni politiche, alle ingiustizie e alle prevaricazioni.

Il giornalismo era effettivamente un “quarto potere”, inteso nella sua forma più positiva del termine, ma poi, quasi bruscamente, è diventato arte da palcoscenico guidata dalla regia degli editori, sempre più sensibili alla influenza politica e del grande capitale. L’inizio del declino iniziò con il caso Monica Lewinsky quando la stampa chiuse gli occhi e balbettò giustificazioni per salvare Clinton. Ora i giornali sono il megafono del potere vengono usati per sostenere l’una o l’altra fazione politica. Non vale più quanto descritto da Davide Caleddu su Huffpost nel 2013,

Per noi italiani è normale che il giornale o telegiornale A la racconti come piace al partito A e che per sapere la versione politica B occorra leggere o ascoltare le notizie del mass media B. È normale che la musica, da una parte e dall’altra, sia sempre la stessa. È normale ragionare di politica in termini sportivi, essere elettori e dunque supporters. È normale aspettarsi la menzogna, la versione dei fatti distorta (talvolta fino al ridicolo), la cosiddetta ‘disonestà intellettuale’. È normale. Così va il mondo.

Quella normalità è abbondantemente superata. Esiste solo “l’opinione A” dato che “quella di B” è definita, casomai dalla “saggia Ursula”, come trita disinformazione e “giustamente” e risolutivamente censurata. Le notizie sono quelle preconfezionate da A e supporter, con grande spreco di ricostruzioni cinematografiche e fantasiose interpretazioni. C’è uno sparuto numero che resiste ma devono limitare la loro attività a battaglie da poco, come scacciare gli occupanti abusivi di case. Chi supera una certa soglia viene censurato e bloccato, come è successo all’americano Eric Zuesse, che è stato bannato da “Modern Diplomacy” diventando una “non person”. Zuesse spiega che, nonostante il primo emendamento americano garantisca la libertà di parola, ma se questa viene espressa su entità private queste possono censurare. Ne consegue che un privato che controlla l’informazione può impunemente infischiarsene di Pulitzer. I Twitter files insegnano.

Il quarto potere è stato poi scalzato dal quinto (informazione via WEB) e dal sesto (pubblicità) che risponde solo a una regola: fare gli interessi degli inserzionisti. Come sottolineato da alcuni conduttori di talk show televisivi, bisogna fare cassa: attendere sessanta secondi, cinquantanove, cinquantotto, …

Tutta la vicenda informazione è deprimente. Sarà nel futuro ritenuta una grande vergogna?

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E della politica, che dire? Penso che i politici non godano di una grande reputazione. Cosa è successo allora negli anni recenti per provare ulteriore vergogna? Non è certo possibile riferirsi alla visione arcaica della politica, quella che la legava alla religione e all’etica. Ai tempi in cui la giustizia serviva a conseguire, assieme alla politica, il “buon ordine” della città. La cultura politica greca avversava la tirannide, ovvero il dominio di uno sui molti, e fece leggi miranti all’equità sociale e politica, pensate non per i singoli ma per la salvezza e la dignità della città, per sottrarla alla guerra civile e per tenerla lontana dalla tirannide.

Ora la situazione è molto, molto peggio. Nel recente passato, almeno, la politica seguiva una propria “etica” che era di certo rilassata rispetto al senso comune, ma rimaneva entro i limiti di un “onesto banditismo”. Ad esempio, la parola data era sacra, il rispetto dei propri affiliati assoluto. I politici avevano degli uffici nelle zone di loro “protezione” dove i questuanti loro seguaci andavano per essere raccomandati. Per trovare un lavoro o per avere un permesso occorreva fare anticamera in qualcuno di quegli uffici. La cosa aveva però aspetti positivi. Il politico, normalmente più istruito e anziano dei postulanti, riceveva informazioni sulle necessità della gente comune e, a seguito di una subconscia elaborazione, arrivava a decisioni che danneggiavano in misura accettabile i sottoposti. I politici erano un certo riferimento per gli affiliati, grosso modo la stragrande maggioranza della gente, inclusi i molti che “facevano i furbi”. Un vantaggio, pur di un comportamento di “furfante onesto”, era che esisteva il feedback: i “clienti” valutavano in modo positivo o negativo il favore ricevuto. Il costo dei “servizi” era poi modesto: una qualche bottiglia di olio, del vino, un capretto o un maialino o, per le poche politiche femmine, una boccetta di profumo.

Negli ultimi decenni la situazione è grandemente peggiorata. Il campo di azione dei cosiddetti politici si è allontanata dai “clienti”, anche per gli strepiti di chi diceva che la raccomandazione toglie a chi merita per darlo a chi non sa o chi non ha fatto nulla. Tutto vero, ma il risultato è che si sono evitate piccole malefatte, ma si è allontanato dalla vista della gente le grandi malefatte. L’attività del politico, invece che fare favori ai propri associati, è diventata quelli di fare favori a grandi lazzaroni, seguendo le moine (pagate profumatamente) dei cosiddetti lobbisti. Le raccomandazioni sono comunque rimaste, ma solo per delle seggiole importanti, tipo la presidenza di una azienda controllata, una banca o una azienda sanitaria.

Il lobbismo è quella “nobile” attività svolta da individui o gruppi di interesse privati per influenzare le decisioni del governo. Esso è svolto da persone, associazioni e gruppi organizzati, società, o gruppi di difesa di specifici interessi. Dagli anni ’70 il lobbismo è cresciuto enormemente sia negli USA che nella UE. La cultura americana, basata sul denaro, ammette il fenomeno che è alla luce del sole, anche se soggetto a regole facilmente eludibili. Comunque, si stima che negli USA tra lobbisti registrati e clandestini ci siano quasi centomila persone con un giro di denaro di parecchi miliardi di dollari. Si facilitano affari di tutti i tipi, e in particolare, l’acquisto e il consumo di armi sempre più costose e lucrose. Negli organi UE, popolati da “trombati in patria” il fenomeno è cresciuto a dismisura. Ogni decisione, incluse quelle che riguardano le dimensioni delle arance e delle zucchine, è “guidata” da decine di migliaia di lobbisti che guidano amorevolmente quei giovani “troppo intelligenti” che si sono trovati catapultati in una nuova Babilonia.

Per cosa si proverà vergogna, allora? Gli antichi greci erano di gran lunga migliori degli attuali politici per due ragioni: usavano la ragione e avevano vicini gli “utenti”. Ovvero, c’era “feedback”, quel meccanismo che mantiene la stabilità dei sistemi. L’aver lasciato che i centri di potere si allontanassero dagli “utenti” è la ragione principale dell’attuale disastro e vergogna.

Franco Maloberti Professore Emerito presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Informatica e Biomedica dell’Università di Pavia; è Professore Onorario all’Università di Macao, Cina.

NOTE

https://www.washingtonpost.com/archive/lifestyle/2006/05/10/the-muck-started-here/0c4d1f4c-edcb-4929-a5e8-8af2fcd2e384/

https://www.ilpost.it/2022/05/09/joseph-pulitzer/

Pubblicato in partnership su ComeDonChisciotte

Foto: Katehon.com

29 gennaio 2023

Fonte: https://www.ideeazione.com/gli-anni-della-vergogna/

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