Come sarà il 2024 dei mercati e dell’economia

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Mariangela Tessa

Come sarà il 2024 sul fronte economico e geopolitico? Una risposta arriva da Visual Capitalist che, per il quinto anno di fila ha rappresentato in una infografica gli eventi attesi, le previsioni e i pronostici di analisti ed economisti, passando al setaccio oltre 700 analisi condotte da banche d’affari, società di consulenza, ma anche siti finanziari. Vediamo di seguito le principali previsioni per economia e mercati per il 2024.

Inflazione sempre in calo

Dopo il raffreddamento dei prezzi, che si è verificato in tutte le economie mondiali nel corso 2023, la maggior parte degli analisti si aspetta per quest’anno un proseguimento del trend verso i livelli target. Sebbene alcuni osservatori mettono in conto che l’ultimo tratto di questi obiettivi potrebbe essere il più difficile, pochi prevedono la possibilità che l‘inflazione torni a salire come nel 2022.

Tassi di interesse: iniziano i tagli

Con un’inflazione che dovrebbe essere in gran parte domata nel 2024, tutte le principali banche e istituzioni prevedono, entro la metà dell’anno, tagli dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e della Banca d’Inghilterra.  Le previsioni degli analisti sull’entità del taglio dei tassi variano da tre a sei.

Mercati positivi, ma occhio alla diversificazione

In vista di un anno caratterizzato da politiche monetarie espansive, la maggior parte degli analisti ha formulato previsioni provvisoriamente positive sia per le azioni che per le obbligazioni. Il calo dei tassi dovrebbe far scendere anche i rendimenti obbligazionari, mentre le azioni dovrebbero continuare a beneficiare  della crescita dell’Intelligenza Artificiale.

La parola d’ordine per chi vuole investire è diversificazione del portafoglio. Quest’ultimo è un approccio chiave condiviso dalla maggior parte degli analisti per gli investimenti nel 2024, soprattutto in presenza di un clima geopolitico preoccupante.

Pil mondiale: si rallenta

Le prospettive di crescita in tutto il mondo non sono particolarmente brillanti. Per quanto riguarda il PIL mondiale, le stime oscillano tra il 2,5 e il 3%, leggermente inferiori alla media decennale (2013-2022) del 3,1%.

Anche per gli Stati Uniti si prevede un rallentamento della crescita: l’FMI stima un aumento del Pil dell’1,5% dal 2,4% del 2023. Peggio andrà in Europa: nel Vecchio Continente il consensus stima una crescita dello 0,9%.

Spostando lo sguardo all’Asia, molti esperti prevedono il sorpasso dell’India sulla Cina in termini di crescita del PIL reale, soprattutto se continuerà il trend di riduzione degli investimenti esteri visto a Pechino.

Geopolitica sempre più centrale per i mercati

Dopo che negli ultimi due anni la geopolitica è tornata in primo piano con l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra di Israele contro Hamas, gli esperti non si aspettano un miglioramento del quadro a livello mondiale.

Non a caso, molti analisti citano, quello geopolitico, come il rischio principale a cui prestare attenzione nel 2024. Motivo per il quale, come già anticipato, è richiesto, negli investimenti, un posizionamento agile e diversificato.

Le prospettive per le guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono altrettanto incerte: pochi o nessun esperto prevede una vera soluzione per entrambi i conflitti nel 2024, mentre la maggior parte cita come scenari più probabili un’ulteriore escalation e il coinvolgimento di altri Paesi.

Sul fronte politico, il 2024 si prospetta come un anno chiave per via delle elezioni. Oltre che negli Stati Uniti, il 2024 sarà un anno di consultazioni politiche in Russia, l’Ucraina, l’India, il Messico e molti altri Paesi.

Intelligenza artificiale: dopo boom, norme più stringenti

Uno sguardo infine all‘Intelligenza Artificiale. Dopo il boom del 2023, l’intelligenza artificiale dovrà affrontare un altro anno cruciale. Se da un lato, anticipano gli esperti, i progressi sul fronte tecnologico saranno inevitabili, dall’altro normative più rigide e controversie legali saranno sempre più centrali, come dimostra la causa intentata dal New York Times contro OpenAI.

Inoltre, il crescente potenziale di uso malevolo dell’IA in occasione delle numerose elezioni mondiali di quest’anno potrebbe stimolare le richieste di una maggiore e più stringente regolamentazione.

Autunno nero per le famiglie italiane. Stangata da quasi 3.000 euro

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Segnalazione Wall Street Italia

di Pierpaolo Molinengo

Dopo un’estate contrassegnata dai rincari, la stangata per i consumatori è destinata a proseguire anche in autunno. L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha stimato che con l’arrivo dell’autunno le famiglie dovranno far fronte ad una stangata pari a 2.924 euro. Un importo più alto di 252,92 euro rispetto all’autunno 2022, quando era già iniziata l’ondata dei rincari.

Diversa, invece, è la previsione di Assoutenti, che ha preso in esame cinque voci di spesa ed ha stimato un maggior esborso di 1.600 euro per le famiglie. Ma vediamo un po’ nel dettaglio dove sono previsti gli aumenti a partire dal prossimo autunno.

Indice:

  1. La stangata d’autunno
  2. Le stime di Federconsumatori
La stangata d’autunno

Le famiglie devono mettere in conto una vera e propria stangata dal prossimo autunno. Ad aiutarci a capire dove saranno i maggiori aumenti ci hanno pensato Assoutenti e Federconsumatori, anche se hanno fatto delle analisi diverse.

Stando alle stime effettuate da Assoutenti, i prodotti alimentari, nel loro insieme costano il 10,7% in più rispetto al 2022. Il trend, nel caso si dovesse confermare nel corso dei prossimi mesi, porterebbe le famiglie a spendere per cibi e bevande – nel periodo compreso tra settembre e dicembre 2023 – 205 euro in più. Tra i prodotti che segneranno i maggiori aumenti ci sono l’olio di oliva e prodotti che sono conservazione, come ad esempio il tonno. Cresce anche il costo della birra e dei prodotti fatti con il grano di importazione e i prodotti per l’infanzia.

Sono previsti degli aumenti – sempre secondo Assoutenti – per quanti decidono di mangiare nei ristoranti e consumare nei bar: nel corso dei prossimi quattro mesi le famiglie devono mettere in conto un aggravio di 28 euro.

Spostarsi in auto

Stangata prevista anche per quanti hanno necessità di spostarsi in auto. Nel caso in cui i listini alla pompa dovessero mantenersi ai livelli attuali, le famiglie che dovessero effettuare due pieni al mese dovrebbero mettere in conto, secondo Assoutenti, una spesa maggiore di 103 euro nell’arco dell’ultimo quadrimestre, rispetto agli ultimi quattro mesi del 2022.

Ma non solo. Le famiglie dovranno fare i conti anche con i rincari delle assicurazioni. Aiped, l’Associazione Italiana Periti Estimatori Danni, ha segnalato alcuni aumenti dei costi delle Rc auto, che costano mediamente il 3,3% in più rispetto allo stesso periodo del 2022. La tariffa media della polizza, a questo punto, arriva a 374 euro.

La stangata sui mutui

Purtroppo i rialzi dei tassi della Bce potrebbero non essere finiti. Andando ad ipotizzare un ritocco dello 0,25% nel corso delle prossime riunioni, Assoutenti ha previsto che la spesa per le rate mensili – sempre nel periodo compreso tra settembre e dicembre 2023 – possano aumentare complessivamente di 1.170 euro rispetto al 2022. L’Euribor a 3 mesi nelle ultime settimane ha rallentato la sua salita, ma da qui alla fine dell’anno continuerà a crescere raggiungendo il picco tra novembre e dicembre.

Il caro energia e la scuola

Il mercato del gas tende al rialzo. Il governo ha rinnovato gli aiuti contro il caro energia per il terzo trimestre dell’anno: il quarto trimestre, però, al momento è scoperto. Questo potrebbe significare che da fine settembre gli aumenti di luce e gas potrebbero pesare di più nelle tasche degli Italiani.

Secondo Assoutenti un’altra stangata arriverà dalla scuola: i prodotti di cartoleria hanno registrato un incremento medio pari al 9,2% su base annua. A pesare su questi prodotti sono i rincari delle materie prime e i maggiori costi di produzione. Le famiglie che devono acquistare da zero tutto il corredo per il figlio che va a scuola devono mettere in cantiere di spendere 50 euro in più rispetto al 2022. A questa spesa si deve aggiungere il rincaro dei libri di testo, che arrivano a costare 45 euro in più. Per i manuali delle scuole medie si registra un incremento dell’8% dei prezzi medi di copertina, che sono stati imposti dagli editori. Per alcuni titoli gli aumenti hanno sfiorato il 12%.

Le stime di Federconsumatori

La stangata per le famiglie è stata confermata anche da Federconsumatori, che ha sottolineato che dovrà essere messo in conto una stangata pari a 2.924,70 euro, ben 252,92 euro in più rispetto all’autunno 2022.

Ma quali sono le voci di spesa che vanno a pesare di più sulle famiglie. Secondo Federconsumatori sono le seguenti:

  • scuola (libri, dizionari, parte del corredo): 906,59 euro;
  • esami/visite mediche: 274,00 euro;
  • bollette di acqua, luce, gas e telefonia: 1.144,11 euro;
  • tari (seconda rata): 171,00 euro;
  • riscaldamento (prima rata): 429,00 euro.

Complessivamente stiamo parlando di una stangata pari a 2.924,70 euro. A cui devono essere aggiunte le spese per la benzina, pari a 586,20 euro, e per l’alimentazione, che ammontano a 1.594,00 euro

 

Inflazione e caro vita erodono i depositi nei conti correnti

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Segnalazione di Wall Street italia

di Pierpaolo Molinengo
9 Giugno 2023

Diminuiscono le somme depositate sui conti correnti dalle famiglie. I risparmiatori sono sempre più condizionati dalle scelte effettuate dalla Banca Centrale europea, che ha letteralmente frantumato il potere d’acquisto.

L’inflazione e l’aumento dei tassi hanno costituito, senza dubbio, un mix perfetto che sta letteralmente spazzando via la ricchezza accumulata nel corso di questi anni dai risparmiatori. In estrema sintesi, questo è quanto emerge dalla recente ricerca realizzata da Fabi (Federazione Autonoma Bancari Italiani), “L’inflazione e la forbice dei tassi d’interesse: i rialzi della Bce e i vantaggi delle banche”. 

I prezzi che aumentano sempre di più, i prestiti sempre più onerosi e la continua perdita del potere d’acquisto sono alcuni dei meccanismi che stanno minando dalle fondamenta il tesoretto costruito nel corso degli anni dagli italiani.

Solo per avere un’idea, nel periodo compreso tra dicembre 2021 e marzo 2023, il saldo totale dei conti correnti delle famiglie e delle imprese è calato di oltre 61 miliardi di euro, passando dai 2.076 miliardi a 2.015 miliardi. Nell’arco dei tre mesi compresi tra dicembre 2022 e marzo 2023 il saldo negativo sui conti correnti è stato pari a 50 miliardi di euro.

Conti correnti sempre più vuoti

Le famiglie per far fronte alle spese devono sempre di più utilizzare i risparmi depositati sui conti correnti. Cos’è che sta determinando questa forte emorragia di risparmi?

Nel corso degli ultimi due anni le famiglie e le imprese sono state obbligate a far ricorso ai salvadanaio per far fronte al caro vita e all’inflazione, che come riporta Fabi nel suo report “non solo hanno invertito la tendenza al risparmio delle famiglie, pressoché prossima allo zero nei primi cinque mesi (in media pari allo 0,2% da gennaio a maggio) e con tassi di decrescita crescenti nel restante semestre, ma hanno dunque cominciato a erodere le riserve accumulate dal sistema produttivo italiano (per una percentuale pari all’1,4% ovvero 4,4 miliardi di euro), privo ormai di risorse finanziarie da devolvere agli investimenti”.

Se si vanno ad analizzare le giacenze sui conti correnti, tra il mese di dicembre 2021 e marzo 2023 sono stati saccheggiati qualcosa come 61 miliardi di euro: fondi utilizzati per far fronte ai danni economici subiti per l’inflazione e il ridotto potere d’acquisto.

Si utilizzano sempre di più i risparmi

Le famiglie e le imprese fanno sempre uso di quanto depositato sui conti correnti per far fronte alle spese quotidiane. Il report Fabi mette in evidenza che “il saldo complessivo di depositi e conti correnti a dicembre 2021 era di 2.076,8 miliardi di euro, contratto a 2.065,5 miliardi già a dicembre del 2022, per poi diminuire ulteriormente a scarsi 2.000 miliardi alla fine del primo trimestre del 2023”.

Un vero e proprio allarme rosso sui conti correnti delle famiglie viene registrato nel corso del primo trimestre 2023: in questo periodo diventa quanto mai difficile per i consumatori far fronte alla sfrenata risalita dei prezzi con la propria capacità reddituale. Per poter tenere il passo con l’aumento dei prezzi devono continuare ad erodere pesantemente la liquidità depositata sui conti correnti. Secondo Fabi, a fine marzo dell’anno in corso, i depositi delle famiglie si contraggono del 2,14% – raggiungendo il valore di 1.149 miliardi di euro – e quello delle imprese di un 7,56%, attestandosi a scarsi 390 miliardi.

Le conseguenze

I risparmi continuano a diminuire per far fronte al caro vita e all’inflazione. Sicuramente la prima conseguenza di questa situazione è il rischio che le famiglie non abbiano da parte un gruzzoletto sufficiente a far fronte a delle spese impreviste.

Secondo Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, il protrarsi di questa situazione potrebbe avere una conseguenza pesante:

vedere aumentare le disuguaglianze sociali. Il potere d’acquisto degli stipendi, purtroppo, è tornato indietro di 25 anni. La soluzione va quindi cercata nel rinnovo dei contratti collettivi di lavoro, alcuni scaduti anche da più di cinque anni, con importanti aumenti economici. Chi ha liquidità sul proprio conto corrente è particolarmente colpito perché i suoi soldi valgono sempre meno. Per questo è fondamentale che le banche, che hanno beneficiato dell’aumento del costo del denaro, adesso restituiscano alla clientela una parte di quei benefici alzando i tassi d’interesse sui conti correnti. Sono argomenti importanti per la collettività e ne parleremo da lunedì 12 giugno, al nostro congresso nazionale, quando avremo l’occasione di confrontarci con gli amministratori delegati di tutti i più importanti gruppi bancari italiani e con i rappresentanti dell’Abi.

Inflazione, quanto costa all’anno agli italiani?

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di Alessandra Caparello

L’inflazione è alle stelle e solo nel mese di dicembre 2022, in Italia, i prezzi sono cresciuti dell’11,6% rispetto al dicembre dell’anno precedente, un valore a cui non si assisteva dalla prima metà degli anni Ottanta. La realtà, però, è che per molti risparmiatori l’inflazione è salita fino al 18,3% e i costi, in termini assoluti, fino a 363 euro in più al mese, 4 mila euro in più in un anno.

A fare i calcoli è Moneyfarm, società di gestione del risparmio con approccio digitale, che ha utilizzato l’indicatore di “inflazione effettiva” per affrontare la questione più urgente, oggi, per le finanze personali delle famiglie italiane.

I calcoli di Moneyfarm

Partendo dagli ultimi dati Istat sull’aumento dei prezzi nel 2022 e incrociandoli con la fotografia 2021 dei consumi di 52 diversi profili di famiglie e di consumatori, Moneyfarm ha stimato, con il supporto di Smileconomy, l’inflazione effettiva.

A dicembre 2022 l’inflazione misurata da Istat è stata in aumento dell’11,6% rispetto al dicembre 2021, ma per i 52 profili tracciati l’inflazione effettiva va dall’11,5% al 18,3%, poiché i consumi effettivi delle famiglie esaminate “battono” l’indice dei prezzi al consumo medio del paniere Istat. Ragionando in termini assoluti, dai calcoli di Moneyfarm emerge che l’inflazione costa alle famiglie da 188 a 363 euro in più al mese, che, su base annua, significa tra i 2 mila e i 4 mila euro in più.

Considerando questa cifra, per poter continuare a mantenere il proprio stile di vita e neutralizzare gli effetti di un aumento dei prezzi eccezionalmente alto, una famiglia italiana dovrebbe risparmiare tra il 10% e il 15% delle sue entrate (“tasso di risparmio antidoto”).

Pertanto le famiglie che, prima del 2022, risparmiavano meno hanno dovuto rinunciare ad alcuni consumi o attingere ai propri risparmi per mantenere inalterati i propri consumi. Attualmente, però, gli italiani risparmiano mediamente il 7% del loro reddito, quindi non sarebbero in grado di affrontare una nuova ondata di inflazione nel 2023. Andrea Rocchetti, head of investment advisory di Moneyfarm, ha commentato:

“Purtroppo ancora il 35% degli italiani fatica a comprendere gli effetti dell’inflazione, come emerge dall’ultimo rapporto Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane. Considerando che a livelli di inflazione come quelli attuali non si assisteva dagli anni Ottanta e che le implicazioni sulla gestione delle finanze personali delle famiglie sono notevoli, è fondamentale che gli operatori del risparmio si impegnino sul fronte dell’educazione finanziaria. Le conoscenze degli italiani risultano carenti sia quando si tratta di concetti basilari – per esempio il concetto di ‘diversificazione’, compreso da appena un italiano su due – sia quando si vanno a indagare gli strumenti o i rischi finanziari. Questa situazione rende ancora più indispensabile rivolgersi a un consulente finanziario per ragionare su una gestione efficiente dei propri risparmi”.

L’inflazione del 2022 non è democratica: ecco chi perde di più

L’indagine di Moneyfarm inoltre rivela che tra le 52 tipologie di consumatori analizzate, sono i disoccupati ad avere l’inflazione effettiva più elevata, al 18,3%. Quando il capofamiglia è disoccupato l’inflazione agisce come una tassa occulta di 241 euro al mese su una spesa media mensile che alla fine del 2021 era di 1.319 euro al mese. Una tassa che, in assenza di aiuti e di bonus, significa probabilmente dover tagliare ulteriormente i consumi per la famiglia.

Quando il capofamiglia è un lavoratore dipendente, invece, l’inflazione effettiva è del 13,1% e la spesa mensile aggiuntiva ammonta a 308 euro.

Chi è disoccupato spende, in proporzione, molto di più in beni essenziali come energia e prodotti alimentari: le due voci con maggiore aumento dei prezzi. Chi invece può contare su entrate stabili come i lavoratori dipendenti, spende in modo più bilanciato, su più voci di consumo, e risulta quindi meno colpito dall’inflazione.

Se si guarda ai nuclei familiari, sono i single ad avere la peggio, con un’inflazione effettiva del 16,8% e una spesa aggiuntiva mensile di 208 euro, ma per gli anziani soli la situazione è purtroppo ancora peggiore: 17,6% l’inflazione effettiva e 188 euro la spesa aggiuntiva mensile. All’estremo opposto si collocano le coppie con due figli, con un’inflazione effettiva del 13%.

Oltre a categorie occupazionali e nuclei familiari, Moneyfarm ha preso in esame anche la dimensione territoriale in cui vivono le famiglie, da cui è emerso che l’inflazione effettiva è più alta nelle aree metropolitane, dove raggiunge il 16,2% e comporta una spesa aggiuntiva di 309 euro al mese. Mentre le famiglie che vivono in piccoli comuni (sotto i 50.000 abitanti), hanno un’inflazione effettiva al 13,9%. A livello regionale, la Liguria (13,9%) è in cima alla classifica delle regioni con inflazione effettiva più alta, con un incremento mensile di spesa di 277 euro. In fondo alla classifica troviamo invece la Provincia Autonoma di Trento, dove il dato è più basso di oltre due punti percentuali (11,5%).

Lo stato dell’economia Usa: verso il punto di non ritorno?

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di Giacomo Gabellini

Fonte: L’Antidiplomatico

Gli Stati Uniti hanno un serio problema di statistiche, specialmente in materia di rilevazione della disoccupazione. Nonostante le autorità di Washington e i mezzi informativi continuino a parlare di “miracolo occupazionale”, i dati indicano che su una popolazione di circa 332 milioni di persone e una forza lavoro che alla fine di gennaio annoverava 265,92 milioni di individui, ben 100,130 milioni di adulti risultavano inoccupati. Il tasso di partecipazione della forza lavoro alla crescita economica oscilla ormai da anni tra il 62 e il 63%, attestandosi ai livelli più bassi dalla fine degli anni ’70, quando ancora si avvertiva pesantemente l’impatto generato dallo sganciamento del dollaro dall’oro e dagli shock petroliferi.

L’economista e statistico John Williams ha richiamato l’attenzione sull’inadeguatezza dei metodi di rilevazione impiegati dalle autorità nazionali, evidenziando che il tasso ufficiale di disoccupazione (U-3) adoperato dalla Federal Reserve tiene conto soltanto del totale dei disoccupati in percentuale rispetto alla forza lavoro. Il Bureau of Labor Statistics (Bls) prende invece in esame un bacino più ampio (U-6), ricavabile dalla sommatoria tra il numero dei disoccupati e l’ammontare complessivo degli individui impiegati con contratti part-time ma anelanti a lavorare a tempo pieno, oltre al computo delle persone che hanno lavorato per un certo periodo negli ultimi 12 mesi ma che al momento non lavorano né sono alla ricerca di un’occupazione e soffrono di questa condizione di disagio dovuta al particolare stato del mercato del lavoro. Nell’ottica di Williams, una statistica capace di riflettere il reale stato occupazionale del Paese deve tassativamente ricomprendere tanto il tasso U-6 quanto i lavoratori scoraggiati di lungo termine.

Qualora Federal Reserve e Bls applicassero un simile metodo di rilevazione, il tasso di disoccupazione effettivo lambirebbe attualmente la soglia critica del 24,5%. Una percentuale di ben sette volte superiore al tasso ufficiale stimato dalla Fed (3,4%), che ridicolizza la narrazione dominante propugnata da istituzioni e organi di stampa circa il “rivoluzionamento” del mercato del lavoro statunitense, asseritamente passato dall’offrire appena un posto di lavoro per ogni 3,1 disoccupati nel dicembre 2012 a garantire due posti di lavoro per ogni disoccupato nel dicembre 2022. Il rapporto tra disoccupati e posti di lavoro disponibili rappresenta un indicatore tutt’altro che affidabile, perché si presta a una serie di distorsioni particolarmente insidiose. Tanto per cominciare, non tiene conto dei criteri di accessibilità, né del fatto che molti statunitensi svolgono due o addirittura tre lavori simultaneamente.

Allo stesso tempo, l’entità del dato concreto relativo alla disoccupazione ridimensiona enormemente la spinta equilibratrice prodotta dai fenomeni in forte crescita della sindacalizzazione – giunta a coinvolgere gli impiegati presso colossi quali Amazon, Alphabet, Microsoft e Starbucks – e degli scioperi. Il marxiano “esercito di riserva” del capitale rimane assai cospicuo, e continua a fungere – a dispetto della ostentata crescita dei salari reali registrata nel 2022 – da calmieratore delle retribuzioni. L’ostentata crescita dei salari nominali registrata nel 2022 è infatti stata ampiamente compensata dall’aumento vertiginoso dei prezzi al consumo, delle bollette elettriche, delle auto (sia nuove che usate), del carburante e dei generi alimentari verificatosi entro lo stesso arco temporale. Si parla di un crollo dei salari reali pari all’1,7% su base annua, tradottosi non in un proporzionale e concomitante decremento dei consumi, ma in un colossale ridimensionamento degli “accantonamenti prudenziali”.

Combinandosi alla penalizzazione del consumo prodotta dai provvedimenti governativi atti a limitare la diffusione del virus Covid-19, le misure straordinarie a sostegno di famiglie e imprese approvate in seguito allo scoppio della crisi pandemica dall’amministrazione Biden in accordo con il Congresso hanno agevolato un ingente accumulo di risparmi da parte della popolazione statunitense che tendevano ad assottigliarsi in coincidenza con ogni singola riapertura. Lo si evince dai dati, attestanti la sincronia tra le chiusure e i maggiori incrementi della percentuale di risparmio rispetto al reddito. All’aumento dall’8,7 al 26,4% tra il quarto trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2020 fece seguito un crollo al 13,7% al quarto trimestre dello stesso anno. Si verificò quindi una risalita al 20,4% al primo trimestre 2021, anticipatrice di una caduta rovinosa e costante che ha ridotto la disponibilità di risparmi rispetto al reddito ad un “misero” 2,9% alla fine del quarto trimestre 2022.

All’aumento incontrollato dell’inflazione, alimentata dalla doppia spinta esercitata dai sostegni straordinari alla popolazione erogati dal governo e da una bulimia di consumo non compensata da produzione autoctona, la Federal Reserve reagì intraprendendo un processo di “normalizzazione monetaria” implicante l’aumento graduale dei tassi di interesse associato a una brusca stretta creditizia.

Per i nuclei famigliari che avevano beneficiato dei sussidi pubblici e dei tassi a zero applicati in epoca pandemica dalla Federal Reserve per contrarre mutui immobiliari, la manovra della Fed si è tradotta in un vero e proprio bagno di sangue, perché ha comportato un drastico aumento degli oneri debitori a carico di nuclei familiari con disponibilità di risparmio già falcidiate dall’inflazione. La situazione appare enormemente problematica, specialmente alla luce dei dati emersi da un recente sondaggio condotto da Lending Club secondo cui il 64% dei consumatori statunitensi — circa 166 milioni di persone — si vede costretto ad operare sistematici razionamenti alle proprie spese, e il 51% dei cittadini statunitensi (contro il 42% registrato lo scorso anno) che percepisce un reddito annuo pari o superiore ai 100.000 dollari non riesce ad accantonare il becco di un dollaro.

All’atto pratico, più che a placare le fiammate inflazionistiche e le rivendicazioni salariali, l’incremento tendenziale dei tassi varato dalla Federal Reserve sembra rispondere alla necessità tassativa che gli Usa hanno di richiamare capitali dall’estero per finanziare i loro squilibri strutturali. Gli Stati Uniti hanno chiuso il 2022 con un disavanzo commerciale pari a 1.181 miliardi di dollari, un deficit di bilancio pari a 1.400 miliardi di dollari e un debito federale pari a 31.420 miliardi di dollari. Ma non è tutto. Dopo esser migliorata, passando da 18.124,293 a 16.285,837 miliardi di dollari di passivo (-1.838,456 miliardi) tra il quarto trimestre del 2021 e il secondo trimestre del 2022, la loro posizione finanziaria netta è tornata a peggiorare rapidamente, giungendo a 16.710,798 miliardi di dollari di passivo nel terzo trimestre 2022 (+424,961 miliardi), nonostante l’immane deflusso di capitali dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico verificatosi in seguito alla degenerazione del conflitto russo-ucraino.

I dati indicano che, tra il settembre e l’ottobre 2022, l’esposizione in Treasury Bond statunitensi del Giappone era diminuita da 1.120,2 a 1.064,4 miliardi di dollari; quella della Repubblica Popolare Cinese, da 933,6 a 877,8 miliardi; quella del Regno Unito, da 664,8 a 641,3 miliardi; quella delle Isole Cayman, da 301,5 a 291,5 miliardi; quella del Lussemburgo, da 299,6 a 298,1 miliardi; quella della Svizzera, da 277,7 a 258,4 miliardi; quella dell’Irlanda, da 265,4 a 244,9 miliardi; quella del Brasile, da 226,4 a 220,1 miliardi; quella di Taiwan, da 216,9 a 214,6 miliardi; quella di Singapore, 177,5 a 175,8 miliardi; quella della Corea del Sud, da 105,3 a 98,7 miliardi; quella della Norvegia, da 99,6 a 95,7 miliardi. Complessivamente, il volume delle detenzioni internazionali di Treasury Bond statunitensi era diminuito tra settembre e ottobre di ben 170,9 miliardi di dollari (da 7.302,6 a 7.131,7 miliardi di dollari), che andavano a sommarsi ai 243 miliardi di dollari (da 7.545,6 a 7.302,6 miliardi) di passivo registrati il mese precedente, nonostante la Federal Reserve avesse portato i tassi di interesse dallo 0,25 al 2,5% tra marzo e settembre. Posta di fronte all’evidenza, la Banca Centrale Usa ha quindi impresso una ulteriore accelerata al processo di “normalizzazione monetaria”, con ben sei correzioni che hanno portato i tassi al 4,75% al febbraio 2023 e il volume complessivo degli investimenti internazionali in Treasury Bond a quota 7.273,6 miliardi di dollari ad ottobre. Un incremento su base mensile (141,9 miliardi) piuttosto modesto se rapportato allo sforzo profuso dagli Usa per accumularlo (una stretta creditizia potenzialmente letale per milioni di cittadini statunitensi), che certifica per di più le crescenti difficoltà in cui Washington va imbattendosi nel tentativo di perpetuare il funzionamento del sistema parassitario instaurato con il ripudio degli Accordi di Bretton Woods ad opera dell’amministrazione Nixon.

Specie a fronte delle allarmanti statistiche fornite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che in un rapporto redatto nel marzo 2022 parlò esplicitamente di «erosione del dominio del dollaro» in riferimento al netto ridimensionamento (dal 71 al 59% tra il 2000 e il 2021) della quota di riserve valutarie mondiali espresse in valuta statunitense dovuto a una migrazione generalizzata verso monete alternative alle tradizionali “big four” (dollaro, euro, sterlina e yen). Da un altro documento datato dicembre 2022 emergeva che il volume dei crediti espressi in dollari detenuti dalla rete bancaria globale era calato da 7.092,31 a 6.441,65 miliardi di dollari tra il terzo trimestre del 2021 e il terzo trimestre 2022.

Le quattro P dell’inflazione: Politica, Politiche, Priorità e Povertà

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di Alexander Azadgan

Vi racconto una storia: l’anno è il 1933. L’economia tedesca è in crisi. La guerra ha lasciato il Paese malconcio e ammaccato. Il Trattato di Versailles ha costretto Berlino a pagare le riparazioni di guerra. Quanto? 132 miliardi di marchi d’oro. Che corrispondono a circa 31,4 miliardi di dollari USA. La Germania ha un debito enorme. I tedeschi sono demoralizzati. Ci sono disordini sociali. Due successive tornate elettorali non sono riuscite a ripristinare la stabilità. C’è un’iperinflazione postbellica. C’è disoccupazione. Ci sono enormi incertezze sociali, politiche ed economiche. Adolph Hitler e il partito nazista decidono di sfruttare questa crisi. Il 30 gennaio 1933, Hitler giura come nuovo leader della Germania. Il resto, come si dice, è storia.

Morale della favola: la crisi finanziaria e l’inflazione hanno il potere di cambiare il corso della storia. In questo articolo cercherò di raccontarvi cosa sta accadendo nel mondo. Come le azioni stanno scendendo, come le valute stanno perdendo valore, come il carburante sta diventando più prezioso, come i prezzi dei beni di prima necessità stanno salendo. Cercherò di spiegarvi cosa significa realmente inflazione in termini più ampi. Non l’inflazione per il vostro potere d’acquisto o per il denaro che avete in banca. Ma per il mondo di oggi in cui viviamo.

Cosa significa l’inflazione per l’ordine mondiale? Il nostro mondo è un conglomerato di democrazie, regimi autoritari e monarchie costituzionali. Rimarrà così anche dopo questa situazione? Oggi il nostro mondo è interconnesso. È strettamente legato. C’è un libero flusso di scambi. Rimarrà così anche dopo la fine di questa crisi finanziaria?

L’inflazione influenza la politica, le politiche, le priorità globali e la povertà. Le quattro P: politica, politiche, priorità e povertà. Parlerò di tutte e quattro, iniziando dalla prima P: Politica. L’inflazione è spesso definita la madre dei cambiamenti politici. Ho spiegato brevemente cosa è successo nella Germania del dopoguerra. Con l’Europa di nuovo in guerra, queste ostilità hanno contribuito all’inflazione. Ci sono proteste in tutto il mondo a causa delle condizioni economiche. I manifestanti possono essere spietati. Chiedete all’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. Quando era in carica, i prezzi del petrolio e dei generi alimentari erano saliti alle stelle. La disoccupazione e l’inflazione fecero cadere Carter. Perse la rielezione contro Ronald Reagan. Oggi i prezzi dei generi alimentari negli Stati Uniti sono aumentati del 20%, quelli del carburante del 10%, anche se stanno scendendo. E arrivò il novembre del 2022. Joe Biden dovette affrontare le elezioni di midterm. I Democratici hanno perso la Camera ma hanno conservato per poco il Senato. È probabile che l’inflazione possa sottrarre a Biden le elezioni presidenziali del 2024. Questo potrebbe cambiare il corso della politica americana!

Ora che avete capito cosa può fare l’inflazione ai governi, considerate questo: A seconda del luogo in cui si vive, l’inflazione globale supera il 15%. I prezzi aggregati dei generi alimentari sono aumentati di almeno il 13%, sempre a seconda del luogo in cui si vive. Circa 50 Paesi andranno alle urne quest’anno e il prossimo. Tra questi ci sono Stati Uniti, Brasile, Israele, Pakistan, Bangladesh, Turchia, ecc. Se i prezzi continueranno a salire, questi leader potrebbero trovarsi fuori dal loro incarico, perché l’aumento dei prezzi può far cadere i governi. Possono anche cambiare il destino di un Paese.

Si pensi al Venezuela. Ha le maggiori riserve di petrolio al mondo. Ma dove si trova sulla mappa globale? È in preda a una crisi politica e a un’insondabile iperinflazione. Tra il 1973 e il 2022, i prezzi in Venezuela sono aumentati del 3.729%. Lasciatevelo dire. Questo non è il dato peggiore. Secondo la Banca Mondiale, nel febbraio 2019 l’inflazione in Venezuela aveva raggiunto il 344.509%. A quel punto, la valuta venezuelana era ormai spazzatura. Dicevano che usare i contanti come carta igienica era più prudente che comprare un rotolo di carta igienica! Che cosa è successo? Più di sei milioni di venezuelani hanno lasciato la loro casa. Si tratta di quasi il 20% della popolazione del Paese.

Quello che una volta era il Paese più ricco dell’America Latina ora sta lottando per rimanere rilevante. Nessun Paese vuole andare incontro a questo destino. Nessun Paese vuole essere spazzato via dall’inflazione. Quindi cosa fanno?

Arriviamo alla seconda P: politiche. Le contee cambiano le loro politiche o, per meglio dire, l’inflazione costringe i Paesi a cambiare politica. Molti Paesi hanno vietato l’esportazione di alcuni prodotti alimentari. Dall’inizio del conflitto in Ucraina, l’Argentina ha vietato l’esportazione di soia, olio e carne. Algeria: pasta, derivati del grano, olio vegetale e zucchero. Egitto: olio vegetale, grano di base, farina, oli, lenticchie, pasta e fagioli. Indonesia: olio di palma e olio di palmisti. Serbia: grano, farina di mais, olio, mais, olio vegetale. Il mondo nel suo complesso ha aumentato i prezzi di tutte queste materie prime. Per i governi di tutto il mondo, la priorità è controllare i prezzi in patria per garantire la sicurezza alimentare, perché gli elettori affamati possono essere spietati e nessun governo vuole rischiare la loro ira. Quindi, con l’inflazione, le politiche commerciali diventano invariabilmente più nazionalistiche e protezionistiche. Il mercato interno diventa la priorità. A volte la diplomazia passa in secondo piano, e anche in questo caso l’inflazione tende a imporre un cambiamento nella diplomazia.

Consideriamo l’Europa. L’inflazione nell’Eurozona ha toccato un livello record. Cos’è l’Eurozona? È un’unione monetaria di 20 paesi dell’UE. Attualmente l’UE conta 27 Paesi. Sette di questi non fanno parte dell’Eurozona. Gli altri hanno l’euro come valuta principale e unica moneta legale. Attualmente l’inflazione nell’Eurozona è ai massimi livelli dalla creazione dell’Euro. Quando è stato? L’anno 1999. Significa che l’inflazione ha toccato un massimo di tre decenni, per gentile concessione del conflitto in Ucraina. Un sondaggio pubblicato nel giugno del 2022 ha chiesto agli europei [in 10 paesi] cosa pensassero del conflitto in Ucraina. Più di un terzo ha dichiarato di volere che finisca il prima possibile, anche se ciò significa che l’Ucraina cede un territorio. Questo conflitto ha influenzato la vita quotidiana di centinaia di milioni di europei. Oltre il 40% del gas europeo proviene dalla Russia. Così come il 26% del petrolio. Le sanzioni contro la Russia e i divieti sulle importazioni russe hanno colpito duramente gli europei. Quest’inverno, avranno bisogno di riscaldare le loro case e non tutti potranno permettersi un’energia alle stelle. La guerra ha fatto lievitare le spese per i pasti. In Italia, i prezzi della pasta sono aumentati del 40%! Non sorprende quindi che gli europei siano quasi equamente divisi quando si tratta del conflitto in Ucraina. Altri dicono di volere “giustizia”.

Ai recenti vertici della NATO e del G7, i leader europei si sono impegnati a sostenere l’Ucraina ad ogni costo. Ma non tutti gli elettori sono pronti a sostenere questo costo. Secondo i sondaggisti, il sondaggio influenzerà la politica europea prima che poi.

L’Europa deve ripensare le proprie priorità, il che ci porta alla terza P: priorità. L’inflazione costringe a spostare non solo le priorità nazionali, ma anche quelle globali. Si pensi al cambiamento climatico. Fare dell’azione per il clima una priorità globale non è facile. Ci sono voluti molti “poliziotti del clima” per convincere il mondo a diventare verde. L’inflazione ha invertito la tendenza. Il carbone diventa grande quando l’inflazione colpisce il settore energetico. L’Europa potrebbe tornare al carbone. L’Austria riapre le centrali a carbone nonostante gli obiettivi climatici. Gli esperti avvertono dei rischi climatici. Gli Stati Uniti fanno marcia indietro sulle promesse ecologiche. Quando l’inflazione colpisce l’energia, quando il gasolio e il gas diventano costosi, i Paesi si affidano a fonti energetiche più economiche come il carbone. Anche se questo significa inquinare la Terra e accelerare il cambiamento climatico.

Non avreste mai pensato che l’inflazione contenesse così tanto, vero? È questo il punto. Tendiamo a limitare la definizione di inflazione a una variazione del potere d’acquisto. L’aumento dei prezzi è sicuramente il significato fondamentale dell’inflazione, ma anche la prima conseguenza. L’inflazione cambia molto di più del denaro nel vostro conto in banca ed è questo il punto che sto cercando di sottolineare.

Concludiamo con l’ultima P: povertà. 1,1 miliardi di persone nel mondo non possono permettersi beni essenziali come il cibo. Vivono al di sotto della soglia di povertà. Con l’aumento dei prezzi, un numero maggiore di persone viene spinto verso la povertà, che comporta una serie di problemi sociali come la malnutrizione, l’aborto, la mortalità infantile, la criminalità, la mancanza di lavoro. L’inflazione scatena una reazione a catena che richiede anni per essere fermata. Questo è l’ABC dell’inflazione.

Foto: Idee&Azione

28 gennaio 2023

Inflazione Usa rallenta. Quale impatto per la Fed?

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Segnalazione Wall Street Italia

di Gianmarco Carriol

I consumatori hanno speso meno a dicembre, nonostante una misura dell’inflazione considerata chiave dalla Federal Reserve abbia mostrato un rallentamento nell’aumento dei prezzi, ha riferito nel primo pomeriggio il Dipartimento del Commercio. La spesa per i consumi personali, esclusi cibo ed energia, è aumentata del 4,4% rispetto a un anno fa, in calo rispetto al 4,7% di novembre e in linea con le previsioni. Questo è stato il tasso di aumento annuo più lento dall’ottobre 2021.

Su base mensile, il cosiddetto core PCE è aumentato dello 0,3%, rispettando anche le stime. Allo stesso tempo, la spesa dei consumatori è stata persino inferiore alle stime già modeste, indicando che l’economia ha rallentato alla fine del 2022 e contribuendo alle aspettative di una recessione del 2023.

La spesa corretta per l’inflazione è diminuita dello 0,2% nel mese, peggio del calo dello 0,1% previsto da Wall Street. Il reddito personale è aumentato dello 0,2% per il mese, come previsto.

I numeri arrivano con i funzionari della Fed, che osservano attentamente per misurare l’impatto che i loro aumenti dei tassi hanno avuto sull’economia. In linea con altri dati economici recenti, mostrano che l’inflazione persiste, ma a un ritmo più lento rispetto al livello che aveva portato gli aumenti dei prezzi a metà del 2022 al ritmo più veloce in oltre 40 anni.

Tuttavia, i dati mostrano anche che la spesa dei consumatori, che guida oltre i due terzi di tutta l’attività economica degli Stati Uniti, sta diminuendo. Al netto dell’inflazione, la spesa reale dei consumatori è diminuita dello 0,3%.

“Anche se il consumo reale torna a crescere nei primi mesi di quest’anno, la fine disastrosa del trimestre precedente significa che la crescita del consumo reale nel primo trimestre sarà prossima allo zero”, ha affermato Paul Ashworth, capo economista del Nord America per Capital Economics. Ashworth ora prevede che la crescita del Pil nel primo trimestre diminuirà a un ritmo annualizzato dell’1,5%.

I consumatori potrebbero trarre un po’ di aiuto dal ritmo rallentato degli aumenti dei prezzi. L’inflazione complessiva è aumentata dello 0,1% su base mensile e del 5% rispetto a un anno fa. Questo numero, che include le componenti volatili di cibo ed energia, è il tasso annuale più basso dal settembre 2021.

“Il calo complessivo della spesa dei consumatori non è stato drammatico, e allo stesso tempo i redditi sono aumentati e l’inflazione è diminuita”, ha dichiarato Robert Frick, economista aziendale della Navy Federal Credit Union. “Soprattutto se l’inflazione continuerà a scendere a un ritmo costante, gli americani dovrebbero iniziare a sentire un po’ di sollievo finanziario quest’anno”.

L’impatto dell’inflazione sulle mosse della Fed

La Fed segue con attenzione il PCE core, in quanto questa misura tiene conto dei cambiamenti nel comportamento dei consumatori, come la sostituzione di beni a basso prezzo con altri a prezzo più elevato, ed elimina la volatilità dei prezzi di cibo ed energia. Il dato di oggi mostra il continuo spostamento delle pressioni inflazionistiche dai beni, che erano molto richiesti nei primi giorni della pandemia, ai servizi, dove tradizionalmente si concentra l’attività economica. Filippo Diodovich, senior market strategist di IG Italia, commenta:

“I dati di dicembre sull’andamento dei prezzi sulle spese per consumi confermano un rallentamento delle pressioni inflazionistiche. Tuttavia, i prezzi core rimangono ancora elevati, soprattutto su base mensile. Le nostre aspettative sulle prossime mosse della Fed sono rafforzate con il dato macroeconomico sull’inflazione di dicembre. Crediamo che il FOMC nella prossima riunione possa decidere per incrementare il costo del denaro di ‘soli’ 25 punti base, portando i tassi di riferimento dal range 4,25%-4,50% al nuovo 4,50%-4,75%, come ampiamente scontato anche dal mercato.”

Usa in recessione, prevedono Burry e Fmi. Ma non andrà meglio in Ue

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di Mariangela Tessa

Il 2023 si preannuncia come un anno nero sul fronte macroeconomico con un terzo dell’economia globale, che sarà colpita dalla recessione. Lo prevedono Michael Burry, fondatore di Scion Asset Management e la direttrice generale del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva.

Le previsioni di Burry

Burry in un tweet di stamane ha affermato che l’inflazione, pur avendo raggiunto il picco massimo, è destinata a risalire in risposta agli stimoli governativi.

“Gli Stati Uniti sono in recessione per qualsiasi definizione. La Fed taglierà e il governo stimolerà. E avremo un altro picco di inflazione”.

A settembre, Burry aveva avvertito di ulteriori cali per il mercato azionario, affermando che “non abbiamo ancora toccato il fondo”. Nel secondo trimestre dell’anno scorso, la sua società ha scaricato tutta la sua esposizione azionaria, a parte una società.

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Anche l’Fmi prevede la recessione

Dal canto suo la direttrice dell’Fmi Georgieva, durante un’intervista alla Cbs, ha spiegato che tutte e tre le tre grandi economie (Usa, Ue, Cina), stanno rallentando contemporaneamente.

“Per la maggior parte dell’economia mondiale questo sarà un anno duro, più duro di quello che ci lasciamo alle spalle. Gli Stati Uniti sono i più resilienti e potrebbero evitare la recessione”. Negli Usa “vediamo che il mercato del lavoro rimane abbastanza forte. Questa è, tuttavia, una benedizione a metà, perché se il mercato del lavoro è molto forte, la Fed potrebbe dover mantenere le strette sui tassi più a lungo per far scendere l’inflazione“.

Unione europea: metà sarà in recessione

Quanto all’Unione europea, l’Fmi si attende che “la metà dei Paesi dell’Ue sarà in recessione nel corso dell’anno”, ha detto Georgieva. L’istituzione di Washington ha già rivisto al ribasso lo scorso ottobre le previsioni di crescita per il 2023, frenate in particolare dalle pressioni inflazionistiche e dai conseguenti rialzi dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. Ma le affermazioni di ieri, primo gennaio, di Georgieva potrebbero preludere a un ulteriore taglio delle previsioni nel prossimo aggiornamento, atteso al World Economic Forum di Davos di questo mese.

Cina: per prima volta in 40 anni crescerà meno del Pil mondiale

La Cina infine è vista in ulteriore rallentamento quest’anno. Per la prima volta da 40 anni a questa parte, ha evidenziato la direttrice dell’Fmi, la crescita annuale della Cina sarà probabilmente alla pari se non al di sotto del livello di crescita globale. E questo avrà riflessi negativi a livello globale. “Quando guardiamo ai mercati emergenti nelle economie in via di sviluppo, lì il quadro è ancora più fosco. Perché oltre a tutto il resto, vengono colpiti dagli alti tassi di interesse e dall’apprezzamento del dollaro”, conclude Georgieva.

Vale la pena ricordare che nel suo ultimo World Economic Outlook pubblicato ad aprile 2022, il Fondo monetario internazionale prevedeva una crescita globale del 3,6% nel 2022 e nel 2023, al ribasso rispetto al 4,4% e del 3,8% del report di gennaio dello stesso anno.

Lagarde (Bce): inflazione troppo alta, nuovi rialzi dei tassi in vista

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Alessandra Caparello

Le prospettive economiche si fanno sempre più fosche. Non usa mezzi termini il numero uno della Bce, Christine Lagarde, a margine della audizione alla commissione Affari economici del Parlamento europeo. La presidente della Bce ha sottolineato anche che l’eurozona non è in recessione e lo strumento migliore per combattere l’inflazione è l’aumento dei tassi. Per Lagarde è importante che la politica di bilancio si focalizzi sugli aiuti ai più poveri. L’aumento dei tassi, ha proseguito, resta lo strumento migliore per ancorare le aspettative di inflazione e “alla Bce continueremo fino a quando raggiungeremo l’obiettivo del 2% di inflazione nel medio termine”. Poi ha aggiunto:

“Le conseguenze economiche della guerra in Ucraina per l’area euro hanno continuato a farsi sentire dal nostro ultimo incontro in giugno e le prospettive si fanno più fosche. Allo stato attuale prevediamo di aumentare ulteriormente i tassi di interesse nei prossimi incontri per smorzare la domanda e prevenire il rischio di un persistente spostamento al rialzo delle aspettative di inflazione”

Le parole di Lagarde

La presidente della Banca centrale europea è intervenuta anche nella sessione autunnale dei lavori del Fmi e della banca mondiale al meeting annuale dell’Institute of International Finance (Iif), illustrando tutta la sua preoccupazione sulle attuali condizioni economiche ma al contempo sottolineando l’impegno della banca centrale:

“L’inflazione nell’area dell’euro è troppo elevata ed è probabile che rimanga al di sopra dell’obiettivo della Bce per un lungo periodo di tempo. Continueremo quindi il nostro percorso di normalizzazione della politica monetaria. […] I tassi di interesse chiave della Bce sono stati aumentati di 50 punti base a luglio e di 75 punti base a settembre. Ciò ha anticipato la transizione da tassi ufficiali altamente accomodanti verso livelli che garantiranno il tempestivo ritorno dell’inflazione al nostro obiettivo di medio termine del 2%. Il Consiglio direttivo della Bce prevede di aumentare ulteriormente i tassi di interesse nei prossimi incontri, sulla base di un approccio basato sui dati e riunione per riunione.

La crescita del Pil dell’eurozona è stata robusta nella prima metà del 2022, supportata dalla riapertura delle economie nel secondo trimestre con l’abolizione delle restrizioni legate alla pandemia. Tuttavia, da allora le prospettive sono peggiorate a causa dell’inflazione elevata, del calo degli effetti di riapertura, dell’indebolimento della domanda globale e del calo della fiducia. […] E’ probabile che questi fattori causino un rallentamento significativo della crescita del Pil nell’area dell’euro nella seconda metà dell’anno e all’inizio del 2023. Ma vi sono anche fattori che sostengono la crescita del Pil, come il livello di risparmio accumulato delle famiglie, un mercato del lavoro solido e il sostegno fiscale, compreso il dispiegamento in corso dei fondi del meccanismo di ripresa e resilienza della Ue. Nel complesso, tuttavia, i rischi per la crescita sono principalmente al ribasso, in particolare a causa delle conseguenze economiche della guerra in Ucraina”.

Lagarde ha poi sottolineato come i mercati finanziari potrebbero stare prezzando prospettive eccessivamente ottimistiche per l’economia, rendendo il settore vulnerabile a una brusca correzione:

“Questo rende le valutazioni vulnerabili a una serie di possibili sorprese negative, sia per quanto riguarda la crescita, l’inflazione, la politica monetaria che la redditività delle imprese”.

Queste le parole della presidente della Bce sulla percezione negativa che si ha negli Usa della situazione in Europa:

“In Europa ci sono molte difficoltà, ma ci sono anche delle buone notizie. In primo luogo l’economia dell’area euro non è in recessione e anche negli ultimi due trimestri ha prodotto numeri positivi di crescita, sebbene in chiaro rallentamento, mentre negli Usa si è avuta una contrazione. Inoltre il tasso di disoccupazione è ai minimi e il tasso di partecipazione al lavoro è tornato ai livelli pre-Covid. […] Certamente non avere un’unione fiscale, un’unione dei mercati e un’unione bancaria completa non è un aiuto, ma questo non ci impedisce di fare quello che dobbiamo fare, ovvero impegnarci per rispettare il nostro mandato di stabilità dei prezzi”.

Estate calda: dai timori per l’inflazione a quelli per la crescita

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Segnalazione Wall Street Italia

di Nadège Dufossé (Candriam)

L’aumento dei prezzi continua a sorprendere al rialzo, ma la dinamica è cambiata e dovrebbe rallentare nei prossimi mesi. L’inflazione fuori controllo sembra ormai un fattore secondario per i mercati, come dimostra il livello dell’IPC di giugno attestatosi al 9,1% negli Stati Uniti. La credibilità delle banche centrali nella lotta all’inflazione e le preoccupazioni per la crescita aumentano la pressione al ribasso sui rendimenti obbligazionari.

Inoltre, i dati macroeconomici statunitensi hanno sorpreso negativamente, un fattore in genere associato a un calo dei rendimenti obbligazionari Usa.

Manteniamo un approccio globale ampiamente bilanciato prima di posizionarci per la prossima fase del ciclo, a prescindere da che si tratti di un soft o hard landing. Manteniamo una posizione neutrale sull’azionario e da questa primavera, abbiamo gradualmente aumentato la duration dell’esposizione obbligazionaria. Inoltre, prevediamo che, in un contesto di volatilità, gli investimenti alternativi continueranno a sovraperformare gli asset tradizionali.

Secondo le previsioni, i prezzi del gas in Europa dovrebbero restare più alti ancora a lungo, poiché i mercati prevedono ora una crisi più prolungata rispetto a quella verificatasi subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Dato lo sfavorevole rapporto rischio/rendimento, abbiamo leggermente ridotto l’esposizione alle azioni dell’Eurozona. Le prospettive per l’azionario continuano a deteriorarsi, poiché i ricavi, i margini e, in definitiva, gli utili potrebbero essere rivisti al ribasso a causa dell’inflazione elevata e del rallentamento economico.

In quali settori investire in tempi di inflazione?

Il settore sanitario dovrebbe garantire una certa stabilità nell’attuale scenario volatile perché non ha subito alcun impatto negativo a causa della guerra, ha un carattere difensivo, dipende in misura limitata dal contesto economico, ed è caratterizzato da innovazione e valutazioni interessanti. Il contesto attuale favorisce le società con potere di determinazione dei prezzi nel settore dei beni di prima necessità.

All’interno dell’universo tecnologico, i segmenti di software e servizi presentano un rischio sugli utili inferiore, ma dipendono maggiormente dall’evoluzione dei tassi di interesse a lungo termine. Riteniamo che l’aumento dei rendimenti (reali) stia rallentando, dopo il forte impatto esercitato sulle valutazioni dei titoli Tech durante il primo semestre. Inoltre, non c’è una ragione particolare per cui il comparto hardware dovrebbe performare peggio del comparto dei semiconduttori o dei software. La tendenza dovrebbe essere favorevole a tutti i settori.

Attualmente abbiamo una leggera preferenza per i segmenti meno ciclici e meno dipendenti dalla fiducia dei consumatori. I semiconduttori rivelano un rischio sugli utili più elevato, ma data la significativa correzione subita dall’inizio dell’anno, unita alle reazioni positive agli annunci sugli utili di Samsung e Micron, riteniamo che molte notizie negative siano già state scontate.

Come investire nell’obbligazionario

Poiché prevediamo un rallentamento della crescita, aspettative di inflazione ai massimi e banche centrali pronte alla stretta, continuiamo a pensare che una duration più lunga nell’obbligazionario sembri sempre più interessante.

Abbiamo incrementato la duration tramite le obbligazioni sovrane Usa, per avere così una duration complessiva neutrale, poiché la stretta monetaria della Fed è ora ampiamente scontata nella parte breve della curva dei rendimenti. Preferiamo il credito investment grade europeo rispetto a quello statunitense.

Sul fonte monetario, negli ultimi mesi, il dollaro Usa si è progressivamente rafforzato, una tendenza principalmente ascrivibile ai movimenti di risk-off, alla guerra russo-ucraina e ai lockdown in Cina. Tuttavia, Osservando i precedenti storici, più saremo vicini a una recessione, più il dollaro Usa potrebbe indebolirsi rispetto allo yen, all’euro e al franco svizzero.

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