Pensioni, nel 2024 quota 103 con alcune variabili

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Giulia Schiro

A partire da oggi, mercoledì 3 gennaio, i pensionati stanno ricevendo l’assegno di gennaio, che sarà più sostanzioso grazie alla rivalutazione legata a quella che viene comunemente definita inflazione prevista. In base ai calcoli dell’Istat, la percentuale di rivalutazione delle pensioni per il 2024 è stata fissata al 5,4%. Gli assegni conterranno anche l’adeguamento alle nuove aliquote Irpef in vigore appunto da questo mese.

Nel dettaglio, le pensioni pari o inferiori a 4 volte il minimo, cioè fino a 2.272,76 euro, saranno rivalutate del 100%, come stabilito nel decreto firmato dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e dalla ministra del lavoro Maria Elvira Calderone: l’aumento effettivo nel caso della rivalutazione piena sarà dunque pari al 5,4% dell’assegno. Se, ad esempio, la pensione è di 1.500 euro lordi mensili, moltiplicandoli per 5,4% si riceveranno 1.581 euro lordi al mese, quindi un aumento di 81 euro.

Per le pensioni più alte, invece, la percentuale scende man mano che aumenta l’importo.
Nello specifico, le pensioni da 4 a 5 volte il minimo, il cui assegno va da 2.271,76 a 2.839,70 euro, saranno rivalutate dell’85%. L’aumento effettivo in questo caso è di 4,59%. Ad esempio, una pensione di 2.500 euro, moltiplicata per 4,59%, diventerà di 2.614 euro, sempre lordi mensili, con un aumento di 114 euro.
Le pensioni da 5 a 6 volte il minimo, da 2.839,70 a 3.407,64 euro, avranno una rivalutazione del 53%, con un aumento pari al 2,862%. Esempio: pensione da 3.000 euro x 2,862% = 3.085,86, con un aumento di +85 euro.
Le pensioni da 6 a 8 volte il minimo, che variano da 3.407,64 a 4.543,52 euro, saranno rivalutate del 47%, con un aumento del 2,538%. Esempio pratico: pensione da 4.000 euro x 2,538% = 4.101,52 euro, con un aumento di 101 euro.
Le pensioni da 8 a 10 volte il minimo, da 4.543,52 a 5.679,40 euro, avranno una rivalutazione del 37%, con un aumento pari al 1.998%. Esempio: una pensione da 5000 euro x 1,998% = 5.099,9 euro, quindi un assegno più ricco di quasi 100 euro.
E infine, le pensioni oltre 10 volte il minimo, con un assegno che supera i 5.679,40 euro, avranno una rivalutazione del 22%, con un aumento effettivo del 1,188%. Esempio: pensione da 6000 euro x 1,188% = 6.071, quindi 71 euro in più.
L’aliquota di quest’ultimo scaglione rappresenta la novità più rilevante riguardante la rivalutazione delle pensioni contenuta nella legge di bilancio 2024: per le pensioni di importo elevato, quindi esclusivamente per la classe di importo superiore a 10 volte il trattamento minimo Inps, viene fissata l’aliquota di rivalutazione del 22% invece che del 32% come nel 2023.

Come ogni anno, anche a fine 2024, l’inflazione attesa sarà confrontata con quella effettiva. Se, come avvenuto nel 2023, l’aumento del costo della vita reale dovesse essere diversa da quella prevista sarà versato un conguaglio (una tantum) nella pensione di gennaio 2025 pari alla differenza fra i due valori: se positiva ci saranno soldi in più, se negativa, purtroppo, soldi in meno.

La rivalutazione delle pensioni post rimodulazione aliquote Irpef

Un altro piccolo aumento nel 2024 arriverà grazie alla rimodulazione delle aliquote Irpef (passate da 4 a 3). La riforma Irpef avvantaggerà ovviamente anche i pensionati (al pari dei lavoratori), visto che l’imposta sul reddito delle persone fisiche viene corrisposta da chiunque abbia un reddito. In questo caso il calcolo è meno semplice, così come l’aumento relativo, perché si tratta sostanzialmente di un accorpamento dei primi due scaglioni. Non esisterà più la fascia 15.000-28.000 euro di reddito, che viene unita a quella fino ai 15.000 euro. Il nuovo schema è il seguente: prima fascia fino a 28.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 23% di Irpef; seconda fascia da 28.000 a 50.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 35% di Irpef; terza fascia al di sopra dei 50.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 43% di Irpef.

Per chi ha un reddito annuo lordo di 25.000 euro, il vantaggio fiscale sarà di 200 euro annui e salirà a 260 per i redditi superiori a 28.000 euro. Per chi ha un reddito complessivo superiore a 50.000 euro dovrebbe essere previsto un taglio lineare alle detrazioni da 260 euro che dunque vanificherà (sopra questa soglia) gli effetti della riforma, mentre i lavoratori con un reddito sotto i 15.000 euro potrebbero beneficiare di un incremento delle detrazioni dei redditi da lavoro (da 1.880 euro a 1.955 euro).

Vie di uscita anticipata più strette nel 2024

Ma la nuova legge di Bilancio non incide solo sulla rivalutazione degli importi delle pensioni, ma anche sulle possibilità d’uscita anticipata, per cui il Governo Meloni ha stabilito una vera e propria stretta, tanto che, in base alle stime, si prevede un dimezzamento delle uscite con anticipi e scivoli.

Nel dettaglio, è stata confermata Quota 103 (composta da 62 anni di età e 41 di contributi) e, nel corso dell’anno appena cominciato, potranno lasciare il lavoro anche i nati nel ’62 che raggiungeranno i 62 anni, a condizione anche di conquistare i 41 anni di attività.
Ma i lavoratori di questa classe rischiano in larga maggioranza di dover attendere di fatto il 2025 per poter lasciare effettivamente il lavoro, perché le finestre mobili fanno slittare in avanti di 7 o 9 mesi (rispettivamente per i dipendenti privati e pubblici), rispetto ai 3 e 6 mesi previsti nel 2023, la conquista del primo assegno dal momento della maturazione dei requisiti.
Solo i lavoratori privati che raggiungono le condizioni richieste nei primi 5 mesi, o nei primi 3 mesi se pubblici, potranno uscire nell’anno. Non basta. Chi andrà via con questa formula dovrà accettare anche il calcolo interamente contributivo del trattamento e non più il sistema misto (retributivo per gli anni sino al 31 dicembre 1995 o al 31 dicembre 2011 se si avevano almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), con penalizzazione dell’importo anche fino al 20 per cento. I nati nel ’61, invece, sono potuti andare via fin dall’anno appena chiuso, perché i 62 anni richiesti li hanno già conquistati nei mesi scorsi. Ma se non dovessero aver raggiunto i 41 anni di contributi, anche per loro la prospettiva è quella dei nati nel ’62. E questo vale anche per le classi di età precedenti.
Inoltre, la misura del trattamento non potrà superare i 2.272 euro lordi mensili (quattro volte il trattamento minimo Inps) sino al compimento dell’età di 67 anni.

Con il 2024 entrano nell’area di accesso all’Ape sociale i nati del 1961 (oltre che quelli degli anni precedenti che si dovessero trovare in una delle situazioni previste dalla formula nel corso dell’anno appena cominciato), ma non tutti potranno utilizzare lo strumento. L’aumento del requisito dell’età da 63 a 63 anni e 5 mesi fa sì che potranno effettivamente chiedere l’Ape sociale i nati nel ’61 che compiono gli anni fino a luglio. I nati nei mesi successivi potranno conquistare l’assegno solo dal 2025. Riguarda, come nel passato, coloro che si trovano in condizioni di disagio: disoccupati, coloro che assistono familiari disabili, persone con invalidità pari almeno al 74% e chi, con 36 anni (o con 30) di contributi, svolge lavori gravosi (come, per esempio, operai edili, autisti di mezzi pesanti, badanti, infermieri ospedalieri, maestre d’asilo, macchinisti, addetti alle pulizie). Sono stati esclusi però gli appartenenti alle 23 ulteriori categorie di lavoratori che svolgono attività gravose inserite nel biennio 2022-2023, come i professori di scuola primaria, i tecnici della salute, le estetiste e via di seguito. E sono state cancellate le riduzioni contributive per edili e ceramisti.
Non basta: è stata introdotta l’incumulabilità totale della prestazione con i redditi di lavoro dipendente o autonomo a eccezione del lavoro occasionale entro un massimo di 5.000 euro annui. Resta fermo che l’assegno non potrà superare l’importo massimo fino a 1.500 euro lorde mensili, senza tredicesima e senza gli adeguamenti dovuti all’inflazione, fino alla pensione di vecchiaia a 67 anni.

Anche Opzione Donna subisce una nuova stretta: l’età minima sale da 60 a 61 anni, con uno sconto di un anno per figlio fino a un massimo di due. Dunque, potranno utilizzare la via di uscita (uscita anticipata ma pensione ricalcolata con il metodo contributivo, con una penalizzazione tra il 20 e il 25 per cento) le donne dipendenti e autonome con almeno 59 anni (se con due figli), 60 (se con un figlio) e 61 (senza figli) al 31 dicembre 2023, purché abbiano anche almeno 35 anni di contributi e rientrino in una delle seguenti categorie: invalide per almeno il 74%, disoccupate (licenziate o dipendenti di aziende in stato di crisi) o caregiver. Quest’ultime poi al momento della richiesta e da almeno sei mesi, devono dimostrare di assistere il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità. Per le lavoratrici dipendenti il posticipo dalla data di maturazione dei requisiti è di almeno 12 mesi.
Il risultato è che potranno utilizzare questa via d’uscita le lavoratrici che potevano utilizzarla anche nel 2023: le nate dal 1962 al 1964, con 59-61 anni a fine 2023. Dunque, la platea delle candidate sarà anche più ristretta di quella comunque limitata dell’anno passato.

Alla fine, il solo canale che è stato confermato in tutte le sue caratteristiche è il canale precoci che permette di andare in pensione anticipatamente con 41 anni di contributi ai lavoratori dipendenti e autonomi, che abbiano lavorato prima dei 19 anni per almeno 12 mesi. Potranno lasciare il lavoro coloro che, a prescindere dall’età anagrafica, abbiano cominciato a lavorare entro il 1983. Sempre che rientrino nelle categorie dell’Ape sociale.

Come riporta la relazione tecnica della legge di Bilancio 2024, l’anno prossimo dovrebbero accedere a Quota 103 circa 17 mila persone, a Opzione donna 2.200 e all’Ape sociale 12.500 per un totale di circa 31.200 uscite anticipate. Circa la metà rispetto alle 60 mila prospettate nel 2023.

Fisco, pronta la riforma: ecco tutte le novità

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di Giulia Schiro

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha sintetizzato la legge delega, strutturata in quattro parti, con 21 articoli in tutto, sulla riforma del fisco a cui sta lavorando il Governo, che rinnoverà gli scaglioni Irpef, le aliquote Ires e Iva e il sistema fiscale per gli enti locali. La proposta è pronta per essere portata in consiglio dei ministri, se non ci saranno intoppi, già la prossima settimana.

Con la delega, l’Esecutivo chiede al Parlamento 24 mesi di tempo per ripensare in modo complessivo le tasse italiane, dall’Irpef che si riduce a tre aliquote all’Ires che invece si sdoppia; rafforzare lo Statuto dei diritti del contribuente; semplificare i procedimenti dichiarativi, accertativi, di riscossione e del contenzioso; ristrutturare le sanzioni amministrative e penali e infine riordinare le norme in testi unici. Fra i principi cardine tornano dunque molti dei temi a cui ha lavorato il governo Draghi, tranne la riforma del catasto che ha fatto alzare al centrodestra le barricate.

Obiettivo flat tax per tutti i lavoratori

Sull’Irpef l’obiettivo è in due tempi. Il primo passo è quello della riduzione a tre scaglioni, con una riduzione delle aliquote da finanziare attraverso una revisione delle tax expenditure. Il contatore del Mef, a caccia di coperture per una riforma che non può andare in deficit proprio mentre i tassi salgono e le regole fiscali europee ritornano in campo, si è fermato a poco più di 600 voci che oggi costano 165 miliardi di euro ogni anno. Per ridurre questa spesa, si legge nei documenti preparati dal Mef, il Governo lavorerà a una “forfetizzazione” per scaglioni di reddito, che in pratica dovrebbe diminuire le detrazioni all’aumentare dell’imponibile: le ipotesi tecniche parlano per esempio di un tetto alla fruizione degli sconti che potrebbe essere fissato al 4% dell’imponibile per i redditi più bassi, per poi scendere a percentuali inferiori quando i guadagni dichiarati salgono. Dal vincolo sarebbero escluse le detrazioni più delicate come quelle sanitarie e per l’istruzione e le deduzioni sugli interessi passivi dei mutui prima casa e dei contributi ai collaboratori famigliari.

L’idea del Governo sarebbe quindi quella di accorpare la seconda e la terza aliquota dell’Irpef, fissate oggi al 25% e al 35%, in una fascia con una percentuale di prelievo pari al 27% o al 28%. Chi oggi guadagna tra i 15 mila e i 28 mila euro, quindi, andrebbe a pagare il 2% in più di tasse, percependo uno stipendio netto inferiore. Beneficeranno invece della misura quelli che hanno un reddito imponibile compreso tra i 28 mila e i 50 mila euro. Le tre aliquote, nelle intenzioni del governo, dovrebbero però appunto rappresentare solo il primo passo verso la flat tax, indicata dalla delega come punto di approdo a lungo termine.

Doppio livello per la tassa sulle imprese

Il progetto del Governo sdoppia l’Ires, l’imposta sui redditi delle società. Con una filosofia simile a quella che ha ispirato nell’ultima manovra la flat tax incrementale, la delega prospetta di affiancare all’aliquota ordinaria del 24% una tassazione agevolata per la quota di reddito che nei due anni successivi viene destinata alle assunzioni o agli investimenti in beni strumentali innovativi o qualificati. Anche in questo caso le distanze politiche fra destra e sinistra sembrano superate da un meccanismo che prova a introdurre nel sistema fiscale una versione strutturale del programma Industria 4.0. Nel capitolo sulle imprese troverà poi spazio una semplificazione della disciplina sulla deducibilità degli interessi passivi e il riordino del regime di compensazione delle perdite fiscali.

Iva e Irap

La delega mette poi nel carnet dei propri obiettivi la razionalizzazione delle aliquote Iva e delle operazioni esenti. Il riordino dei panieri punterà a garantire trattamenti fiscali omogenei per beni simili fra loro, e proverà anche a semplificare le regole sulle detrazioni e le complesse normative sul gruppo Iva (che attualmente ad esempio impongono aliquota massima a beni di prima necessità come l’acqua minerale). Il Codacons stima che un eventuale azzeramento dell’Iva su alimentari e beni di prima necessità produrrebbe risparmi diretti fino a 300 euro annui a famiglia, oltre a positivi effetti indiretti sul fronte delle tariffe al pubblico praticate da attività ed esercizi commerciali se i commercianti non faranno i furbi.

Il ridisegno del fisco guarderà poi ai meccanismi, oggi giudicati ancora troppo lenti e farraginosi, dei rimborsi per cittadini e imprese. Torna poi l’idea di mettere in archivio l’Irap, per trasformarla in una sovraimposta da applicare alla base imponibile dell’Ires. Anche in questo caso, si tratta della riedizione di un obiettivo già presente nella delega Draghi.

Redditi finanziari

Per quanto riguarda i redditi di natura finanziaria, si prevede, tra le altre cose, il raggruppamento dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria in un’unica categoria reddituale soggetta a tassazione in base al principio di cassa e di compensazione e un’imposta sostitutiva agevolata sui redditi di natura finanziaria conseguiti dalle casse di previdenza.

Addio mini-imposte, arriva il tributo unico

Addio infine all’imposta di bollo, a quelle ipotecaria e catastale, ai tributi speciali catastali e alle tasse ipotecarie: saranno sostituite da un tributo unico, “eventualmente in misura fissa”. Nell’ottica di una generale razionalizzazione, è prevista l’estensione dell’autoliquidazione anche per l’imposta di successione e per l’imposta di registro.

Pensioni: con la riforma Irpef aumenti fino a 744 euro annui

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Alessandra Caparello

Con la riforma dell’Irpef prevista dalla legge di Bilancio 2022, le pensioni avranno aumenti medi di 210 euro annuo. A dare i numeri è il ministero dell’economia e delle Finanze rispondendo ad un question time in Commissione Finanze alla Camera.

Riforma Irpef 2022: cosa prevede

Soffermandoci in primo luogo sulla riforma dell’Irpef, l’Imposta sul reddito delle persone fisiche, l’ultima Legge di bilancio ha introdotto 4 nuovi scaglioni che sono nel dettaglio:

  • fascia di reddito fino a 15mila: resta al 23%,
  • fascia di reddito 15-28mila: passa dal 27% al 25%,
  • fascia di reddito 28-50mila: passa dal 38% al 35%,
  • oltre i 50mila: si passa direttamente al 43%.

Vengono quindi tagliate le aliquote Irpef per i redditi tra 15.000 e 55.000 euro (che rappresentano il 50% dei contribuenti italiani), il che significa che chi ha un reddito compreso in questa fascia pagherà il 2% o il 3% di tasse in meno rispetto a prima. Nulla cambia per i redditi più bassi, fino a 15.000 euro, e per quelli più alti, da 75.000 euro in su: le aliquote restano invariate, pertanto pagheranno all’incirca la stessa Irpef.

Riforma Irpef: cosa cambia per le pensioni

Cosa cambia per le pensioni lo illustra sempre durante il question time il sottosegretario all’Economia, Federico Freni che con l’occasione ha fornito le tabelle con le proiezioni realizzate dal Mef.

Ebbene, i pensionati interessati dalla misura sono in totale 10 milioni e 292mila e la media di incremento dell’assegno è di 211 euro all’anno, ma con una ripartizione diversa base agli scaglioni di reddito. Il beneficio maggiore spetta a redditi medio alti, mentre per le fasce più basse l’aumento è di poche decine di euro al mese. Ma andiamo nei dettagli.

Per lo scaglione compreso tra 15mila e 30mila euro, circa 4 milioni e 900mila pensionati, l’aumento medio è di 167 euro all’anno, sotto i 14 euro mensili.

Per i 2 milioni di pensionati con reddito tra 30mila e 55mila euro, l’aumento annuale è di 308 euro, pari a 25 euro al mese.

Poi ci sono 95mila pensionati, con una fascia di reddito inclusa tra i 50mila e i 55mila euro e con assegno aumentato di ben 744 euro. E ancora, per i pensionati che rientrano nella fascia di reddito tra i 55mila e i 70mila euro, il ritocco annuo è di 495 euro, circa 41,25 al mese  da ultimo  i pensionati sopra i 75mila euro, che avranno un aumento di 270 euro annui, pari a 22,5 in più sull’assegno mensile.

In sostanza, nella fascia di reddito 15-28 mila euro (la più numerosa con 4,9 milioni di contribuenti) il beneficio medio annuo è stimato in 167 euro. Mentre il vantaggio più corposo è di 744 euro medi annui nella fascia 50-55mila euro, dove però i contribuenti sono poco meno di 96mila.

Si tratta di un primo passo, certamente non sufficiente, anche perché non spalmato in maniera progressiva, che ci impegna per il futuro a fare di più e meglio”, spiega Fragomeli del PD, primo firmatario del question time commentando le tabelle del Mef.

Fonte: https://www.wallstreetitalia.com/pensioni-con-la-riforma-irpef-aumenti-fino-a-744-euro-annui/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter:%20Wall%20Street%20Italia&utm_content=pensioni-con-la-riforma-irpef-aumenti-fino-a-744-euro-annui&utm_expid=24d0ca8f6aa04e501a1696e2bb16eb15a1464a4f6d2645e107c1efc8f8ee3e0f

Taglio Irpef e assegno unico, ecco chi risparmia fino a 3mila euro

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di Lorenzo Palma

I vantaggi saranno significativi: tenendo conto del taglio dell’Irpef, dell’introduzione dell’assegno unico e dello sgravio contributivo dello 0,8% per le retribuzioni lorde inferiori a 35mila euro, i vantaggi maggiori, in percentuale, dovrebbero andare ai redditi medio – bassi, con un aumento del 2,8% del reddito disponibile per i nuclei monoreddito con 15 mila euro di retribuzione lorda; per scendere all’1,6% per redditi da 10 mila e 20 mila euro, e risalire al 2,4% per chi guadagna 40 mila euro lordi. Oltre i 50 mila euro, le percentuali calano, fino allo 0,3% per chi guadagna oltre 80 mila euro. Tabelle queste elaborate dai tecnici del MEF e pubblicate dal Corriere della Sera che cita una “fonte governativa”.

Per i lavoratori dipendenti con coniuge e un figlio a carico: a 10 mila euro di retribuzione, il risparmio sarà al top con il 5,4%; subito dietro si colloca la fascia di reddito di 40 mia euro, con un risparmio del 4,4%; quindi i 30 mila con 3,7% di risparmio; i 25mila con il 3,4% e i 15mila con il 3,1%.

Ben maggiori i risparmi se i figli a carico sono due, con le retribuzioni fino a 10 mila euro che potranno contare su un risparmio dell’11,9%, che scende al 7,5% per chi guadagna 40 mila e 5,4% per i 30 mila.

Altre percentuali sono quelle che riguardano le famiglie con due redditi. Abbreviando il discorso: i risparmi maggiori (+ 6,4%) si hanno con 30 mila euro di reddito; a 40 mila si scende al 4,5% e a 60 mila al 3,6%. Inoltre a 40 mila euro di reddito, con due figli a carico, si risparmiano 3 mila euro. Parlando in valore assoluto.

Per una famiglia monoreddito da lavoro dipendente di 40 mila euro lordi, con un figlio a carico, i risparmi del taglio dell’Irpef ammonteranno a 945 euro a cui si sommano gli 827 euro dell’assegno unico.

Se i figli a carico sono due, il risparmio totale arriva a 3 mila euro (con lo sconto Irpef che rimane uguale, chiaramente, ma l’assegno unico che sale a 2 mila euro circa). Per le famiglie con due redditi totali di 60 mila euro, il risparmio sarà di 2.138 euro se in casa c’è un figlio solo, o di 2.455 euro se i figli sono due.

Discorso diverso invece se le famiglie in questo caso sono bireddito, di cui uno fermo a 15mila, con un figlio a carico, i benefici maggiori si hanno a 30mila euro (+6,4% di reddito disponibile), poi a 40mila euro (+4,5%) e a 60mila (+3,6%). Con due figli a carico, l’aumento complessivo del netto tocca il 9% a 30mila euro di retribuzione lorda totale, il 7,7% a 40mila e il 6,2% a 50mila.

L’emendamento del governo sulle nuove tasse dovrebbe essere presentato oggi dal governo al Senato, dove è in discussione la legge di Bilancio. Il nuovo assegno unico è invece già legge. Le tabelle contengono infine una stima dei benefici cumulati del bonus Renzi di 80 euro, di quello Conte-Gualtieri (fino a 100 euro) e della riforma in arrivo. I vantaggi maggiori sono per le classi di reddito tra 13mila e 20mila euro lordi: da 1.400 a quasi 1.600 euro di tasse in meno all’anno.

Lorenzo Palma, 16 dicembre 2021

Fonte: https://www.nicolaporro.it/economia-finanza/economia/taglio-irpef-e-assegno-unico-ecco-chi-risparmia-fino-a-3mila-euro/

Adesso lo certificano i numeri: i migranti sono solo un costo

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I numeri del’l’ultimo rapporto di Itinerari Previdenziali, realizzato dal centro studi di Alberto Brambilla: a pesare sono le spese sanitarie per i migranti

di Claudio Cartaldo

I numeri parlano chiaro: i migranti non sono un guadagno. O almeno non lo sono per come ce l’hanno sempre raccontata.

La favoletta “ci pagheranno le pensioni“, per quanto formalmente corretta, non tiene infatti conti di altri fattori. Come le spese mediche per gli immigrati (anche irregolari).

Andiamo con ordine. Secondo l’ultimo rapporto di Itinerari Previdenziali, realizzato dal centro studi di Alberto Brambilla, è vero che il saldo tra contributi versati e pensioni erogate ai migranti è positivo. Ma non bisogna fermarsi a questo. “Se si prova a fare un bilancio complessivo tra entrate e uscite del 2015 e si sommano le relative poste per gli immigrati extra comunitari e neo-comunitari – si legge nel rapporto, come riporta Libero – otteniamo una stima per le entrate contributive che ammonterebbero a circa 9,5 miliardi di euro, di cui la quota a carico dei lavoratori è di circa 2,6 miliardi. Le entrate fiscali che riguardano salari tra i 10mila-12mila euro superano di poco la soglia di esenzione Irpef, le uscite stimate per pensioni e prestazioni a sostegno del reddito sarebbero di circa 1,9 miliardi di euro, con un saldo positivo dell’anno di circa 700 milioni di euro”. Continua a leggere