Foibe: quando il Ricordo non basta

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di Giovanni Perez

La memoria delle foibe carsiche e istriane e l’esodo della popolazione italiana dalla Venezia-Giulia e dalla Dalmazia, che si protrasse fino alla fine degli anni Cinquanta, si è tramandata attraverso un sottilissimo filo, che ha rischiato più volte di spezzarsi; un filo che si rinforza soprattutto grazie a coloro che raccolgono in qualche modo l’eredità di quella pagina di storia lacerata da ferite non ancora rimarginate e che tali rimarranno, forse per sempre.

A rinforzare quel sottilissimo filo sono libri come quello recentemente edito dalle Edizioni Vita Nova, scritto da Lamberto Maria Amadei, in cui sono state raccolte le “giovani memorie fiumane” di Marina Smaila, quando fu strappata da quel mondo in cui muoveva i suoi primi passi e assaporava le prime gioie di bambina. Siamo in questo racconto di fronte al sovrapporsi delle vicende di una famiglia che viveva a Fiume, perciò italianissima, che cercò di sfuggire ad un destino di morte, catapultati così nella Storia, con la “S” maiuscola, che si consumò nei confini orientali di un’Italia uscita sconfitta dal conflitto mondiale. Furono anni terribili, in cui la realpolitik dei vincitori, soprattutto di quelli legati alla Russia sovietica, mai si coniugò con il più elementare sentimento di umanità, fino a perseguire, per ragioni ideologiche, il progetto di un annientamento totale della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, anche distr ggendo gli archivi, i monumenti su cui era impressa l’italianità di quei luoghi, trasmessa nel corso dei secoli attraverso innumerevoli generazioni.

Il 10 febbraio 1947, l’Italia stipulò con la Jugoslavia l’oneroso Trattato di pace con cui vennero cedute le terre istriane fiumane e dalmate, da secoli italianissime, e la creazione del Territorio Libero di Trieste.    A Fiume, Pola, Zara, Capodistria, Pirano, Parenzo e in tante altre città da sempre italiane e venete, i giovani sono stati educati all’idea, invece, che quelle terre furono sempre state abitate da sloveni e croati.

Le questioni delle foibe e dell’Esodo, che insanguinarono l’Istria e il Carso, la Venezia Giulia e la Dalmazia, sono intimamente connesse tra loro, sebbene ancora oggi vi sia chi tenta di negarlo. Entrambi sono l’esito di due cause, anche queste tra loro intimamente collegate. Da una parte un radicale odio anti-italiano, dalle radici antiche, ed ora scatenatosi senza alcun argine militare, dopo la ritirata dell’esercito italiano, dall’altra parte, lo svelamento della natura intrinsecamente criminogena dell’ideologia comunista, che, questa volta, aveva assunto il volto delle bande partigiane del maresciallo Tito.

Se non si comprende il concorso di questi due elementi, la Legge del 30 marzo 2004, istitutiva del Giorno del Ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati, presto o tardi diverrà carta straccia. Di ciò, purtroppo, si cominciano ad intravvedere i primi segnali, unitamente al prevalere delle tesi non più negazioniste delle foibe, ma di quelle giustificazioniste, che attribuiscono la reazione criminale degli slavi alla precedente politica fascista. Fortunatamente, sempre a sinistra, non mancano le eccezioni, e i vari Giampaolo Pansa hanno avuto il coraggio intellettuale di ammettere come sono andate veramente le cose, confutando alla radice quella assurda e insostenibile tesi.

Per i trecentocinquantamila esuli, iniziò un’odissea senza ritorno, negata non solo dal Partito comunista italiano, per il quale essi altro non erano che “criminali fascisti sfuggiti alla giustizia popolare jugoslava”. E l’identificazione tra le vittime delle foibe e quanti dovettero abbandonare case, affetti, ricordi e una loro presunta appartenenza ideale al fascismo, ha ispirato la storiografia negazionista e giustificazionista. Tale tesi ancora oggi non è stata affatto definitivamente confutata e si ritrova nelle volgari e squallide parole di un Tomaso Montanari e di altri epigoni e nostalgici del socialismo reale.

Il Partito comunista di Togliatti si schierò naturaliter con le bande partigiane del Maresciallo Tito, sebbene il loro odio anti-italiano, più forte dello stesso antifascismo, fosse ben noto agli stessi partigiani comunisti italiani che operarono nella Venezia-Giulia, costretta dalle necessità politiche ad un complice e omertoso silenzio. L’episodio di Malga Porzûs, che non fu affatto un caso isolato, ha fatto completa giustizia di questo aspetto tra i più esecrabili della lotta partigiana, e non solo di quella combattuta sul confine orientale.

Di Togliatti, il cosiddetto “Migliore”, si dovranno sempre ricordare le ignobili parole scritte nella lettera inviata il 7 febbraio del 1945 a Ivanoe Bonomi, in cui finì anche per riconoscere che a difendere gli italiani di quelle terre erano rimasti i fascisti e tedeschi! Un lapsus, si dirà, sicuramente tragico, per non dire comico.

Sono fin troppo note le angherie commesse in seguito, nell’Italia liberata, dai militanti comunisti ai danni degli esuli al loro arrivo in Italia, mentre ancora oggi non è stata adeguatamente considerato l’altrettanto orribile e sostanzialmente complice atteggiamento assunto dalla Democrazia cristiana, in ossequio alle scelte dei vincitori statunitensi e inglesi, come risultò evidente con la cessione della Zona B di Trieste alla Jugoslavia del novembre 1975. Le lacrime di Sandro Pertini sulla bara di Tito, poi, sono un episodio talmente inqualificabile, che merita solo disprezzo e silenzio; esso fu talmente sconcertante, che si commenta da solo.

Tragicamente sincere le parole di Oskar Piskulic, uno dei peggiori infoibatori, trascinato in giudizio presso il Tribunale di Roma dal giudice Giuseppe Pititto, che arrivò ad ammettere la verità, sostenendo che, in fondo, di italiani e fascisti, i partigiani comunisti avrebbero dovuto assassinarne ancora di più, fino alla completa loro estinzione, in quanto nemici di classe, ossia ostacolo da eliminare per realizzare finalmente la società comunista secondo le indicazioni di Tito.

Purtroppo, se vogliamo essere sinceri, ai tanti esuli che per ragioni molteplici, umanamente addirittura comprensibili, occultarono il proprio passato, la propria identità, si aggiunsero quelli che finirono per accettare la tesi che la responsabilità dei crimini commessi contro gli italiani, era da attribuire effettivamente alla politica del governo fascista, così assolvendo i propri carnefici, per ragioni perciò ideologiche. Non solo, perché contribuì anche un meccanismo ben noto alla psicologia e ben noto anche al coraggioso Giovannino Guareschi, che fu tra i primi a denunciarlo.

Più difficile, ovviamente, è riuscire ad imporre, nonostante l’evidenza storica, la tesi dell’intrinseca natura criminogena dell’ideologia comunista, per cui le foibe e i circa cento milioni di vittime dei tanti socialismi compiuti in nome del celebrato “Sol dell’avvenire”, non furono affatto effetti indesiderati dello stesso tentativo di realizzare sulla terra il paradiso socialista.

Secondo una leggenda balcanica, al termine di una uccisione e aver scaraventato nelle foibe i morti, i moribondi e le vittime ancor vive, si gettava anche la carcassa di un cane nero, affinché facesse la guardia alle anime delle vittime impedendo loro di affiorare e reclamare giustizia. Una leggenda, appunto, che dimostra però come, ancor oggi, la storia viene raccontata dai vincitori, violentando da cima a fondo la verità.

Spetta a noi fare in modo che le anime dei quindicimila infoibati non saranno mai dimenticate, perché se dovesse vincere l’oscuro guardiano della leggenda, sarebbe per tutti loro come morire una seconda volta.

Preghiera per le vittime delle Foibe

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Segnalazione del Centro Studi Federici

O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre, dalla profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te. Ascolta, o Signore, la nostra voce. “De profùndis clamàvi ad te, Dòmine; Dòmine, exàudi vocem meam”.
 
Oggi tutti i Morti attendono una preghiera, un gesto di pietà, un ricordo di affetto. E anche noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche apprendere l’insegnamento che sale dal sacrificio di questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché Tu hai raccolto l’ultimo loro grido, l’ultimo loro respiro.
 
Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace.
 
In trent’anni due guerre, come due bufere di fuoco, sono passate attraverso queste colline carsiche; hanno seminato la morte tra queste rocce e questi cespugli; hanno riempito cimiteri e ospedali; hanno anche scatenato qualche volta l’incontrollata violenza, seminatrice di delitti e di odio.
 
Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua pace, una pace che sia riposo tranquillo per i Morti e sia serenità di lavoro e di fede per i vivi.
 
Fa che gli uomini, spaventati dalle conseguenze terribili del loro odio e attratti dalla soavità del Tuo Vangelo, ritornino, come il figlio prodigo, nella Tua casa per sentirsi e amarsi tutti come figli dello stesso Padre.
 
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo Nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà.
 
Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi Morti, profonda come le voragini che li accolgono.
 
Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire della splendore del Tuo volto.
 
E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci hai detto: “Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia, beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati, ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell’iniquità.
 
O Signore, a questi nostri Morti senza nome, ma da Te conosciuti e amati, dona la Tua pace. Risplenda a loro la luce perpetua e brilli la Tua luce anche sulla nostra terra e nei nostri cuori. E per il loro sacrificio fa che le speranze dei buoni fioriscano.
 
Domine, coram te est omne desiderium meum et gemitus meus te non latet. Amen
 
Mons. Antonio Santin, Arcivescovo di Trieste-Capodistria, 1959.
 

Ora revochiamo l’onorificenza al macellaio Tito

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In un mondo in cui a sinistra si fa la classifica politica dei morti di serie A e morti di serie B, sarebbe ora di togliere onorificenze ai macellai (n.d.r.)

Il 10 febbraio ricordiamo la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo, ma non abbiamo mai cancellato la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito

di Fausto Biloslavo

Il 10 febbraio ricordiamo la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo, ma non abbiamo mai cancellato la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito, il capo degli aguzzini che massacrarono migliaia di connazionali costringendo alla fuga 350mila persone dall’Istria, Fiume e Dalmazia.

Il Giorno del Ricordo deve essere simbolo di pacificazione senza nascondere le colpe precedenti del regime fascista, ma è giunto il momento di cancellare la vergognosa medaglia. L’onorificenza campeggia sempre sul sito del Quirinale ricordando che il 2 ottobre 1969 il presidente jugoslavo, che aveva le mani sporche del sangue degli infoibati, veniva decorato come «Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l’aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese. Il capo dello Stato di allora, Giuseppe Saragat, aveva consegnato a Belgrado, fra sorrisi, brindisi e abbracci, l’onorificenza in una custodia verde a un compiaciuto Tito. E mai nella prima visita in Jugoslavia dopo la guerra osò accennare anche lontanamente alle foibe e all’esodo preferendo alzare i calici «alle fortune dei popoli jugoslavi e all’amicizia fra i nostri Paesi». Tremenda realpolitik, ricambiata dalla visita di Tito a Roma un anno dopo, accolto come una star del socialismo reale distanziato da Mosca.

Dopo la storica immagine di Francesco Cossiga inginocchiato davanti alla foiba di Basovizza, gli omaggi dei capi di stato che sono seguiti al monumento nazionale sul Carso triestino e la mano nella mano di Sergio Mattarella con lo sloveno Borut Pahor dello scorso luglio è anacronistico, paradossale e oltraggioso non cancellare l’onorificenza a Tito. Ancor più a diciott’anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo con il voto quasi unanime del Parlamento. Un insulto alle vittime delle foibe e discendenti, che in molti casi non hanno neanche una tomba dove deporre un fiore e agli esuli e loro figli. Un obiettivo che, almeno in teoria, dovrebbe essere condiviso in maniera bipartisan dalla politica, ma che viene sempre rispedito al mittente grazie a un cavillo legislativo. Si può togliere un’onorificenza per «indegnità» solo se il personaggio insignito è ancora in vita. Nel 2012 l’Italia lo ha fatto, giusto o sbagliato che sia, con il presidente Bashar al Assad, accusato di massacrare il suo popolo nella guerra civile in Siria. Per Tito, che sarà pur stato un grande leader della Jugoslavia, ma ha lanciato la pulizia etnica e politica contro gli italiani e una parte del suo popolo «non è ipotizzabile alcun procedimento essendo il medesimo deceduto» scriveva nel 2013 il prefetto di Belluno, a nome del governo. In Parlamento langue da tempo una proposta di legge di un paio di righe per cambiare la (folle) norma, che esalta Tito.

Se vogliamo onorare veramente i martiri delle foibe girando una volta per tutte questa triste pagina volutamente strappata della storia e guardare avanti, senza strumentalizzazioni, togliamo la medaglia della vergogna al boia degli italiani.

Fonte: https://www.ilgiornale.it/news/politica/ora-revochiamo-lonorificenza-macellaio-tito-2009486.html