Memento vivere

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di Livio Cadè

Fonte: EreticaMente

“Aspirate alle cose di lassù e non a quelle che sono sulla terra”

La vita è sogno?

“Ogni causa si decida sulla parola di due o tre testimoni”, prescrive il Deuteronomio. Anche un solo testimone, secondo Crisostomo, è però sufficiente, se è degno di fede e se testimonia non di materia estranea ma di ciò che ha in sé. Poniamo dunque che mille persone, senza rapporto tra loro, mi dicano d’aver visto uno strano animale, e tutti concordino nel descriverne le dimensioni, la forma, i colori, il modo di muoversi ecc.. È più logico credere che quell’animale esista o che tutti costoro stiano mentendo, o che siano tutti vittime di un’allucinazione? Credo che concedere un assenso preliminare sarebbe la soluzione più intelligente.

Mi appoggio a questa premessa in relazione alle testimonianze di coloro – ormai migliaia –  che (come quell’Er di cui narra Platone) hanno avuto un’esperienza di morte e l’hanno potuta raccontare. Si parla, in questi casi, di premorte, di prossimità al morire, convenzionalmente NDE, acronimo di Near Death Experiences. Espressioni incongrue, visto che si tratta di persone clinicamente morte per alcuni minuti, alcune ore, in certi casi addirittura alcuni giorni. Ma l’ambiguità terminologica vorrebbe lasciare uno spiraglio alle spiegazioni razionali. Di fatto, alcuni di questi soggetti sembrano misteriosamente resuscitare. Altri, tornando dal regno dei morti, si trovano inspiegabilmente guariti da patologie gravissime. I medici, che non credono ai miracoli, attribuiscono tali eventi straordinari al ricorrere di minime probabilità statistiche.

Questi casi, un tempo rarissimi, stanno diventando grazie alle moderne tecniche di rianimazione sempre più frequenti. L’aspetto singolare è che alcuni dei soggetti riportati in vita non riemergono da uno stato di assenza mentale (che sembrerebbe ovvio, vista la mancanza di attività cerebrale), ma dicono d’aver vissuto esperienze meravigliose, stati di coscienza straordinari. Di solito ne parlano dopo lunghe reticenze, temendo d’esser presi per pazzi. La ‘scienza’ cerca di darne una spiegazione in termini fisiologici (carenza d’ossigeno, accumulo di anidride carbonica nel sangue, scompigli neuronali) o psicologici (fantasie, immagini che il cervello elaborerebbe in extremis per rimuovere l’idea della morte). Questo è coerente con una neurologia che assimila la mente al sistema nervoso (come se un Corale di Bach stesse nelle corde di budello d’un violino) e con una psicologia che rinnega la psiche, ossia con i dogmi di scienze ostili a ogni prospettiva metafisica.

Tali esorcismi razionalistici hanno qualcosa di assurdo e insieme di maligno. Sembrano ispirati dalla volontà di negare ogni trascendenza, ogni realtà dello spirito, come se evocare Dio o l’anima minacciasse la Weltanschauung bio-meccanicista e la sua trionfale marcia verso il futuro. Sintomi di una follia, che vorrebbe dimostrare e misurare l’essere con strumenti scientifici. V’è però chi cerca di conciliare le NDE con le nuove prospettive della fisica, magari usando “informazione quantistica” invece di termini compromettenti come anima o spirito. Ma anche dietro questa apparente apertura è chiara l’intenzione di rimettere il problema all’onnipotente Dea Ragione.

V’è poi chi relega le testimonianze di premorte – insieme ad avvistamenti Ufo, sedute medianiche, fantasmi e altri fenomeni detti ‘paranormali’ – in una sub-cultura indegna di rientrare negli interessi di una mente colta e razionale. Alcuni anzi sembrano avere come missione nella vita il dimostrare l’inconsistenza o la falsità di tutto ciò che non può addurre ‘prove scientifiche’ o che esce dalle maglie del sedicente ‘metodo scientifico’ (creando di fatto una nuova superstizione).

Sulla scorta della mia premessa, io parto invece dal presupposto che la NDE sia un’esperienza spirituale, come afferma chi l’ha vissuta. Certo è probabile che esistano narrazioni contraffatte, ma le persone coinvolte mi sembrano in genere degne di fede  e sicuramente non parlano di materia estranea ma di qualcosa che hanno in sé (non c’è niente che ci è più nostro della nostra anima, dice Aristotele). Gli scettici diranno che dar peso a questi racconti è una forma d’escapismo, di fuga dalla realtà  (la loro idea di realtà) o un credere ai sogni. Ma può un morto sognare? O non è al contrario la morte un ridestarsi? I protagonisti della NDE affermano proprio questo: il morire induce in loro ex abrupto la sensazione di un risveglio, una consapevolezza più vivida e convincente di ogni altra. Come quando si apron gli occhi al mattino e si sa d’aver dormito, così l’anima, uscendo dal garbuglio delle vicende terrene, capisce che la vita era un sogno.

Mentre i sogni son guazzabugli d’immagini diverse per ciascun dormiente, le NDE presentano una uniformità, una coerenza interna e una vasta serie di concordanze. Non hanno affatto l’aria di allucinazioni prodotte da un soggettivo disordine cerebrale. Sembrano piuttosto il resoconto obiettivo di un viaggio in uno stesso luogo. Raccogliendone i contenuti, si potrebbe organizzare una sorta di scienza tanatologica. Inoltre, a differenza di esperienze prodotte da droghe e da farmaci, la NDE induce quasi sempre nel soggetto una riforma spirituale. Molti riscoprono il valore della preghiera, del meditare, dell’aiutare gli altri. Se ci accostiamo a queste narrazioni senza pregiudizi, potremmo di fatto trovarvi conferme empiriche di un viaggio iniziatico e di una philosophia perennis. E chi non può credervi, la prenda come una ricca allegoria dell’ignoto.

Indistruttibilità dell’essere

La morte è un argomento difficile, specie per una cultura come la nostra, che fa della morte un mero decesso biologico, che spinge a evacuarne il senso, ad alienare l’uomo dal suo morire. Ognuno si pone di fronte alla morte come evento limite e teorico, che non lo riguarda personalmente. Sa razionalmente d’esser mortale, ma intimamente lo nega. La morte è qualcosa che riguarda gli altri. Solo gli altri muoiono – io non sono un altro – io non muoio. Questo rifiuto istintivo toglie valore alla vita stessa, diviene il viatico di un’esistenza banale e dimentica. Ma è in fondo il riflesso, lontano e deformato d’una verità. Perché v’è un altro sillogismo, latente nel profondo d’ogni uomo, che dice: l’essere non può morire – io sono – quindi io non posso morire. Del resto, sarebbe strano essere anime eterne e non saperlo.

Questo io sono è un’evidenza segreta e indimostrabile. Non ci serve la testimonianza di nessuno. Se rientrassimo in noi stessi – nuotando contro la corrente del pensiero dominante – vedremmo che la vita è il tocco dell’essere e che il corpo è solo lo strumento con cui il sé si esprime, un mezzo e insieme un limite che comprime la coscienza entro strutture biologiche. Tutto ciò che esiste occupa uno spazio. Ma non è difficile capire che questa coscienza non è in nessun luogo. E dunque, come dell’anima di cui parla Eraclito, non possiamo trovarne i confini. Tuttavia, la coscienza è sempre associata a organi e funzioni. Quindi, finché dimora in un corpo terreno, può percepire la realtà solo per quel tanto che un cervello umano ne può cogliere. Non è perciò impossibile che, svincolata dai suoi limiti fisici, faccia esperienza di un aldilà, forse attraverso gli organi di un corpo più sottile.

Qualcuno ha sottolineato le coincidenze delle NDE col Bardo Thodol, Libro Tibetano dei morti, dove la casistica del dopo-morte è ampiamente trattata. Ma anche nella storia occidentale, fin dall’antichità, abbiamo testimonianze di mistici che escono dal proprio corpo (“l’anima, spogliatasi della carne, cominciò a contemplare il suo corpo che giaceva immoto sul letto”, scrive Alpais di Cudot, mistica del XII secolo) e comunicano con esseri ultraterreni, vedono cose sorprendenti, attingono a una conoscenza divina. Rapiti in cielo, assorbiti in una luce e in un amore ineffabili. Come se il mistico anticipasse, nella sua estasi, l’esperienza della morte.

Sappiamo che da sempre la dimensione mistica si scontra con l’impotenza delle parole. Così, anche chi ha una NDE incontra difficoltà nel tradurla in concetti umani. Si svolge in un regno dove non valgono più le nostre leggi di tempo e di spazio né i nostri automatismi logici, dove l’intelligenza si allarga, i sensi sembrano acuirsi e intensificarsi. Così, alcuni narrano di indicibili policromie e iridescenze, profumi inebrianti, musiche celestiali, giardini e paesaggi meravigliosi, sorta di Campi Elisi. Tutto si direbbe circonfuso di un’aura primaverile, di dolci brezze. La coscienza è colpita da una bellezza oltremondana che appaga il suo senso estetico più pienamente di ogni bellezza terrena. Ogni cosa sembra emanare un fluido risanante e riparatore. Il buono e il bello si fondono in uno stato di grazia. Anche la sete di conoscenza sembra abbeverarsi in solenni edifici simili a scuole o biblioteche in cui è raccolta ogni forma di scibile. Alcuni  contemplano l’universo, con le sue stelle, le sue galassie, le sue strutture matematiche, ne intuiscono la fonte soprannaturale. A volte hanno premonizioni o rivelazioni sul futuro, visitano epoche remote, vedono antiche civiltà (“l’anima mia si eleva fino all’altezza del firmamento, in aure mutevoli e diverse, e si estende a popolazioni molteplici, in spazi e paesi amplissimi e lontani da me” scrive Hildegard).

La stessa sfera affettiva pare dilatarsi. L’anima non solo ritrova coloro che ha amato (“è impossibile che la morte cancelli dal cuore quello che l’amore vi ha impresso” diceva Angela da Foligno) ma fa anche conoscenza di esseri luminosi – sorta di tutori e maestri che qualcuno definisce angeli o spiriti guida – che la accolgono e la accompagnano, figure sprigionanti amore e comprensione. Fin qui, tutto coincide con ciò che diremmo ‘paradisiaco’. Più rare, ma non meno significative, sono le visioni di ripugnanti figure demoniache, laghi di fuoco, abissi spaventosi in cui brulicano anime cieche e straziate, o altre situazioni ‘infernali’.

È facile supporre che queste descrizioni riflettano gli sfondi culturali, religiosi e immaginativi dei soggetti coinvolti. Se vediamo qualcosa di anomalo o di incomprensibile siamo infatti inclini a ricondurlo entro modelli a noi noti. Come potrebbe un uomo primitivo che vedesse un aereo o un computer descriverli ai suoi simili? Il confine tra un ‘fatto obiettivo’ e la sua ‘interpretazione’ è labile. Questa non è un’obiezione alla sincerità di tali esperienze. È però plausibile che tali rappresentazioni siano trasposizioni su un piano corporeo di realtà immateriali e forse intraducibili, e non vadano prese rigidamente alla lettera.

Un identico cielo può apparire diverso a molteplici occhi. Come dice Dionigi, “è impossibile che il raggio divino brilli per noi altrimenti che avvolto da molteplici veli”. Non sappiamo quali di questi veli la morte sollevi e se altri ne cali su di noi. E la memoria, una volta rientrata nella coscienza fisica e rimessi i suoi vecchi abiti, potrebbe anche alterare involontariamente i dati della sua esperienza nell’aldilà. Tuttavia, questi argomenti han poco peso di fronte alla massiccia sistematicità dei racconti e alle loro regolari consonanze.

Invariabili del morire

Volendo tracciare un canovaccio delle NDE e dei suoi elementi costanti, occorre senz’altro partire dall’uscita dell’io dal corpo fisico al momento della morte (“come una mano si sfila dal guanto” dice la Bhagavad Gita). L’anima – o ‘corpo eterico’ – si ritrova a fluttuare nell’aria, vede e ode le altre persone, percepisce i loro pensieri, le loro emozioni, cerca di comunicare con loro, ma esse non vedono e non sentono lei. Scopre di possedere una forma eterea, che può attraversare i solidi, volare, muoversi nello spazio alla velocità del pensiero. Questa separazione dello psichico dal fisico sembra confermare il sostanziale dualismo sostenuto anche da alcuni studiosi del cervello, cioè l’idea che corpo e mente sono entità distinte, benché connesse, e che la coscienza non è materia neurologica.

Ricorrente è anche l’esperienza di un tunnel attraverso il quale l’anima pare scivolare rapidamente dalla dimensione terrena a quella ultraterrena e al fondo del quale brilla una luce. Secondo gli scettici, il tunnel sarebbe una reviviscenza postuma dell’utero materno da cui si esce al momento della nascita, o effetto di una contrazione pupillare. La luce lontana dipenderebbe invece dall’illuminazione dell’ambiente, lampade, riflessi ecc. Direi che possiamo tranquillamente ignorare simili farfugliamenti (una volta esisteva una scienza ermetica, oggi purtroppo ve n’è una emetica).

Alcuni, non molti, vengono attirati in una zona grigia, desolante e angosciosa, in cui vedono frotte di ombre trascinarsi in un’esistenza larvale, incombere come immateriali vampiri sui corpi viventi, assetate ancora di esperienze terrene, in preda a parossismi di disperazione e di collera per l’incapacità di godere di quei piaceri di cui la morte li ha privati. Succede talvolta che tali spettri sfoghino la loro impotenza maligna sul nuovo arrivato o cerchino di aggregarlo alla loro compagnia di sventura. Risolutivo, in questi casi, sembra essere il potere della preghiera o l’intervento di entità benigne, forti e protettive, che disperdono i fantasmi e conducono l’anima nella sua vera dimora.

Un leit-motiv frequente, e assai più rasserenante, è il senso di ritorno a casa provocato dal morire. “I fiumi ritornano al luogo da dove sono nati”. Così, l’anima, alla morte del corpo, par ritrovare il suo habitat naturale, rientrare in patria dopo un esilio più o meno lungo. Alcuni, pur restando consapevoli, godono di uno sperdimento cullante, assoluta pace vuota di immagini. Altri si sentono beatamente sospesi in una tenebra divina (“vidi Dio in una tenebra … perché egli è un bene più grande di quanto si possa pensare o capire” dice ancora Angela da Foligno) o godono di visioni beatifiche. Ognuno secondo le sue possibilità attinge qualcosa di eterno e infinito.

È una sensazione di totale benessere e libertà, tanto che nessuno vorrebbe più regredire alla claustrofobica dimensione terrena. Anche il ricordo dei figli, del coniuge, delle persone più care, sembra scivolare nella dimenticanza, senza far nascere alcuna nostalgia. Rientrare nel corpo non è quasi mai una scelta spontanea, ma l’adempimento di un dovere, obbedienza a un’autorità tenera e inflessibile insieme. Tutti descrivono la rianimazione, l’esser trascinati indietro, come un’esperienza penosa. Questo però non implica una svalutazione gnostica della fisicità. Il corpo non è visto come prigione dell’anima. Non è neppure il “frate asino”, da bastonare e mortificare. Appare piuttosto lo strumento di cui l’anima dispone per compiere il suo viaggio terreno, sorta di interfaccia tra lo spirito e il mondo, riflesso psicosomatico di entrambi.

Bisognerà dunque vedere cosa l’anima ha fatto di questo strumento, quali suoni ne ha tratto. E difatti la maggioranza delle NDE riferisce di una sorta di anamnesi rituale, prammatico esame della vita passata, cui bisogna sottoporsi par quasi per burocratica necessità, come nel Libro egiziano dei morti si pesa il cuore del defunto. L’anima rivede fatti, pensieri, sentimenti spesso completamente dimenticati, e diviene consapevole delle loro conseguenze. Ancor più, prova in sé quello che i suoi comportamenti hanno causato in altre creature viventi. Quindi, se ha fatto del male a qualcuno ne sentirà la sofferenza, anzi la avvertirà in forma immensamente amplificata, perché è nuda, spogliata di ogni armatura protettiva. Per alcuni è un momento di grande sofferenza, di interiori lacerazioni.

Questo giudizio postumo che l’anima dà di sé stessa pone una questione cruciale. Noi pensiamo che l’universo sia retto da leggi fisiche. Qui invece ci vien detto che non solo la nostra vita ma lo svolgersi dell’intera vicenda cosmica è regolata da un’etica trascendente, e da un sistema retributivo – lo si chiami karma, contrappasso, giudizio divino – che ripaga ognuno con la sua stessa moneta. Ogni nostro minimo atto ci ritorna come un’eco, moltiplicato. Saremmo quindi particelle di un universo morale, alla cui base non v’è una rotazione di protoni e di elettroni ma una fisica del bene e del male.

Una questione controversa riguarda la metempsicosi, concetto naturale per una mente orientale ma che mal si concilia coi dogmi della nostra educazione religiosa. Durante la NDE alcuni hanno visioni delle loro vite passate, anche remote, e viene loro mostrato come l’anima debba passare attraverso varie nascite, morti e rinascite, in un incessante processo di apprendimento e purificazione. Il tunnel che si attraversa dopo la morte è detto esser lo stesso che si ripercorrerà in senso contrario per rientrare in un utero materno. E pare sia l’anima stessa a decidere, prima di reincarnarsi, quale sarà la sua missione, il suo compito nella vita, a definire una sorta di progetto esistenziale che spesso verrà drammaticamente dimenticato e tradito.

La reincarnazione è una dottrina basilare in molte culture, benché nelle stesse filosofie orientali  l’idea di una continuità personale tra vita e vita presenti aspetti controversi. Questa difficoltà è ovviamente inevitabile in quelle dottrine che negano l’esistenza di un sé personale, o atman. La NDE sembra tuttavia avvalorare un concetto popolare di trasmigrazione, dimostrando come l’anima sia un’entità distinta dal corpo fisico, dal quale può sia uscire che entrare. È dunque plausibile che, a tempo debito, l’anima si possa introdurre in un nuovo embrione e rinascere. Secondo le antiche teorie buddhiste, è l’atto sessuale che attira e trascina l’anima nel grembo femminile. Francamente, non so come questa idea si possa armonizzare con lo sviluppo delle nuove tecnologie fecondative, con feti prodotti in laboratorio, magari congelati e impiantati artificialmente in un utero (che forse diventerà meccanico).

Accettare la reincarnazione significa dissolvere il nostro senso di una costante identità corporea (o forse dovremmo definirlo il nostro miraggio, dato che le cellule del corpo muoiono e rinascono in continuazione). Potremmo però ammettere la continuità di un “corpo spirituale”, per usare l’espressione paolina. L’ipotesi di un progetto vitale che l’anima elaborerebbe prima di riprendere forme fisiche, assommato all’influsso delle sue esistenze pregresse, con il loro retaggio karmico, spiegherebbe ciò che comunemente chiamiamo ‘destino’ o casualità. Non saremmo costretti ad attribuire disuguaglianze di vario tipo all’arbitrio di una natura ingiusta o di una cieca fortuna. Ma forse è meglio dubitarne. Chissà che il dubbio non sia una regola del gioco.

La luce vivificante

Il ogni caso, cuore delle NDE mi pare l’incontro con la Luce, da tutti descritto come esperienza di immersione beatifica in un amore incondizionato (“son così posta e sommersa nella fonte del suo immenso amore”, dice Caterina da Genova delle sue estasi). Questo splendore caldo, avvolgente, assume a volte forma umana, a volte quella di globo o caligine, nube lucente. In certi casi ha natura particolare, come nel caso dei cosiddetti angeli, in altri è un oceano luminoso, un Sole spirituale. Ogni cosa, dall’atomo alla stella, ogni realtà fisica o spirituale, sembra una sua emanazione. Si ha qui l’impressione di toccare il ne plus ultra di ogni possibile conoscenza.

Qual è la natura propria di questa luce? Una volta ancora si è costretti a parlar per metafore e approssimazioni. È “abisso della chiarità” nel quale l’anima è inghiottita, per usare le parole dello Pseudo-Agostino. Per Dionigi è “raggio sovrannaturale”. Non è una luce fisica, ci vien detto. È viva, pulsante, intelligente, e non ha altra fonte che sé stessa. “La luce è una sola, e quella luce è coscienza … ed è la vera natura di Shiva. Quella luce nel suo splendore non dipende da null’altro che da sé stessa”, scrive Abhinavagupta, filosofo tantrico del X secolo.

La dialettica tra la Luce e lo sguardo varia nelle NDE secondo i casi. La luminosità è ora sentita come una realtà esterna e indipendente dal soggetto, ora come un’effusione della sua interiorità. Nel primo caso permane una separazione, nel secondo il soggetto confluisce nella luce, in una crasi ontologica. Alcuni sembrerebbero convalidare la formula di Meister Eckhart, secondo cui “l‘occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede”. Vedere Dio ed essere Dio coincidono. Altri ricordano il Prologo di Giovanni: “la luce risplende nelle tenebre”. La tenebra è complemento della luce come l’ignoranza lo è della sapienza, è infatti il buio a permettere che la luce brilli. Questa necessaria oscurità è secondo me la superficie opaca dell’io, che riceve la luce e ne viene illuminata. Questa rifrazione produce un’espansione della coscienza individuale, la rischiara. L’io, tuttavia, è libero di non accogliere la luce, di chiudersi nella sua natura oscura, infera.

Un altro aspetto essenziale è l’identità tra Luce e verità. Essa è quindi una via di conoscenza e di perfezione intellettuale. Ma è anche forza da cui emana spontaneamente e incessantemente il tutto, matrice e cibo della vita. Alcuni identificano questo bagliore immateriale col Cristo, col mistero trinitario, col Logos. Ma, più che farne argomento metafisico, coloro che contemplano la Luce la vivono in sé come esperienza di amore assoluto, un abbraccio che li colma di ineffabile pace e felicità. Direbbe Agostino che “esperimentano la dolcezza delle cose divine”.

Presi nell’amplesso spirituale, vedono che la vita non nasce da una serie di casuali reazioni fisico-chimiche ma da questo amore sorgivo, il cui fine è la beatitudine. “Vi dico queste cose perché la vostra gioia sia completa”. Ma non può esservi gioia dove non c’è amore, né gioia completa dove non vi sia un amore perfetto. Dio è Colui che ti cerca e che vuol essere amato. Perciò Gesù incalza Pietro: “tu mi ami?”, “tu mi ami?”. Il verbo che usa, agapáō, è la traduzione greca di un ebraico‘ahàv, dall’aramaico chàv che significa “accendersi, prendere fuoco”. “Chi è vicino a me è vicino al fuoco” dice Cristo nel vangelo di Tommaso. L’intero cosmo, immensa sfera pulsante di indistruttibile coscienza, appare dunque il fiammeggiare di un impulso creativo in cui conoscenza e amore sono inseparabili, come luce e calore nel fuoco.

Si può pensare che identificare la Luce con Dio, con tutto ciò che questo termine comporta, soddisfi un preconcetto religioso. Anche ‘amore’ è un termine ambiguo, che evoca un ampio, eterogeneo spettro di associazioni. Potremmo forse tradurlo con ‘compassione’ o ‘empatia’, emarginando quegli aspetti erotici e sessuali che non sempre implicano cura e affetto dell’altro.  È ancora una volta un problema di parole. In realtà, la luce rappresenta un Mistero incomunicabile, “al di là dell’essere, del divino, del bene”, citando Dionigi. La si potrebbe credere nella sua essenza incomprensibile, e pensare che si riveli ad alcuni come Persona, ad altri come Idea, Forza o Vuoto fecondo, secondo le loro inclinazioni soggettive.

Ma in sostanza, indipendentemente dal fatto che prima della NDE fosse ateo, agnostico o bigotto, ognuno sperimenta in Sua presenza un puro, illimitato, indefettibile Amore. In Lei non v’è né giudizio né condanna. Non si acciglia di fronte alle debolezze umane ma le comprende, a volte ne sorride. Questo Oltre-divino che tutto perdona, tutto ama, anche i peggiori criminali, può deludere chi crede in un Dio maestoso e terribile, Dio degli eserciti, vendicativo e giustiziere. Inoltre, come conciliare tale infinita misericordia con le moltitudini di anime che vediamo scontare nell’aldilà pene spaventose? Alcuni credono che siano tormentate dalle loro stesse passioni, condannate dal loro rifiuto dell’amore divino. Del resto, se si ammette che certe patologie del corpo fisico, anche gravi, dolorose e mortali, abbiano origine in inconsci conflitti, a maggior ragione è concepibile che coscienze incorporee si auto-torturino, ostinate nel male, recalcitranti davanti alla medicina del perdono.

Carattere epifanico della morte

Dice Hildegard di Bingen che la visione mistica non insegna a parlar da filosofi. Le parole ispirate non sono umane, ma somiglianti “a una fiamma che oscilla”. Qualcuno cerca nelle NDE risposte teologiche o la conferma di posizioni confessionali o dogmatiche. Volendo vi potremmo trovare un’escatologia comune, un’apologetica dell’amore come destino ultimo dell’universo. Ma in una prospettiva ultraterrena pare non esistano religioni migliori di altre. Vengono considerate vie per avvicinarsi a Dio, alla Verità. Hanno valore strumentale, come la zattera usata per traghettarsi all’altra riva e poi abbandonata, secondo la nota metafora buddhista. Questo può certo dispiacere a chi trova nell’essere cristiano, induista o maomettano motivo di distinzione e superiorità.

Le NDE presentano una sorta di trascendente unità delle religioni, distillazione e semplificazione delle varie dottrine. Il loro messaggio ce ne dà una sintesi, un promemoria: siamo esseri liberi, spirituali ed eterni, la cui essenza è amore. Non siamo macchine o prodotti di un’evoluzione senz’anima; ogni forma secolare deve intonarsi alla volontà divina; scopo della vita non è sopravvivere, fare carriera o arricchirsi ma coltivare compassione e saggezza. E la morte non esiste. Cose già dette, che già sapevamo, ma che il mondo ci fa dimenticare.

Perciò i casi di NDE sembrano costituire un’aurorale epifania dello spirito. Invitano l’uomo a uscire dal suo soffocante immanentismo e riaprire un dialogo vivente con Dio, con l’oltremondano. Son parte di quei segni per ora minimi, seminali, quasi inavvertibili, dell’avvicinarsi di un’alba che dissiperà la tenebra del vecchio mondo. L’uomo di oggi ha bisogno d’una nuova rivelazione, di una metanoia che lo salvi dalle sue febbri vaneggianti, dalla totale alienazione e dall’autodistruzione. Lo spirito cerca dunque di parlargli ancora, di ricordargli antiche verità, ma la nostra epoca non favorisce certo il nascere di maestri e di profeti. Quindi si serve di morti, persone portate di là, istruite e rimandate di qua come stupefatti protagonisti di una abduction metafisica.

È forse un tentativo di curare le nostre follie. Forse ci vuol dire che il transumano verso cui tendere non è fatto di mostri bio-meccanici, dei deliri del Metaverso o della polisessualità, ma è un umano che realizza la sua interiore trascendenza. Insegnare che in ognuno di noi c’è un valore che tende all’infinito, che vuol esprimersi in forme sempre più compiute. Perciò non addita nel morire una fine ma uno sconfinato procedere. Non v’è alcun “essere per la morte”. Nulla può morire, ovvero, solo il nulla può cessare d’esistere, come svanisce un miraggio. Nascita e morte sono solo il battere e il levare di una vibrazione ritmica, sistole e diastole di un incessante flusso vitale. Un ampliarsi e un rinnovarsi inesauribile della visione, una tensione fra l’abisso luminoso che è in noi e le zone buie della nostra immanenza, attrito da cui sprizza ogni fiamma creativa. Ora l’essere si restringe in una forma corporea, si fa nervi e sangue, ora si dilata nel respiro dell’anima liberata dalla carne. È un’alternanza di contrazioni ed espansioni, ruota samsarica che attende forse un definitivo nirvana, quella dissoluzione d’ogni vincolo che rende la meditazione della morte meditazione della libertà.

Esiste dunque un’inscindibile solidarietà tra cose ultime e cose prime. E questo legame si manifesta nel pensiero rammemorante dell’essere. L’uomo non può chiudersi in un orizzonte finito senza perdere la sua umanità. Si è detto che la civiltà contemporanea congiura contro il silenzio e il raccoglimento. È vero, ma io direi anche che tesse trame oscure a danno della memoria. Non intendo semplicemente la memoria storica dei fatti, ma il ricordo di sé. La società produce in noi un’esiziale amnesia dell’essere, impigliandoci in una rete di apparenze, di realtà esteriori. Allora, solo morendo puoi ricordare. Il memento mori diventa un memento vivere. Non perché un retorico sensus finis ci permetta di godere più voluttuosamente dei piaceri della vita. Non v’è alcun bisogno di stimolare un simile edonismo. È piuttosto un richiamo alla serietà della vita: ricordati che sei eterno e che devi vivere secondo la dignità del tuo spirito.

L’uomo contemporaneo, tecnologico, è condannato a un vivere nella dimenticanza, a un’esistere la cui memoria è delegata ad algoritmi, a processori elettronici o a meccaniche informazioni neuronali. Ma i ricordi non sono semplici archivi, sono pulsazioni di una coscienza vivente, messaggeri di immortalità. L’anima accoglie in sé fatti mortali e li impregna di una sostanza ideale, immune al morire. Così, tutto – volti, affetti, dolori –  sopravvive in lei. Non è solo flusso di rievocazioni coscienti, è il formarsi di un centro, di un cuore che è continuità personale di memorie e di attese. “Io sono stato – io sono – io sarò”, certezza silenziosa che si incarna in Questo, ma affonda le sue radici in Quello da cui eternamente rinasce.

 

Il girone dei Filantropi

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di Livio Cadè

Fonte: EreticaMente

Dice un antico proverbio arabo che quando il povero parla nessuno lo ascolta, ma se il ricco fa un peto la gente esclama: “che profumo sublime!”. Oggi non è diverso. Le persone più ricche del mondo ammorbano il pianeta con le loro flatulenze, ma la gente annusa con reverente ammirazione. Questo ha prodotto un generale discredito della filosofia. Il nesso tra i due fenomeni può non essere evidente, ma diventa chiaro non appena si consideri la fondamentale incompatibilità tra l’esser filosofi e l’esser enormemente ricchi.

Il filosofo, anche se non è un Diogene, dovrebbe guardare con un certo disincanto al denaro. L’uomo occupato ad accumulare ricchezze materiali vede invece la filosofia come una perdita di tempo, quindi di denaro. Il filosofo è uomo di astrazioni. Il capitalista è uomo pratico, d’azione, il suo cervello è nutrito con principi rigidamente utilitaristici. Non utilitarismo speculativo, fatto di concetti filosofici, ma istintivo, come quello di un predatore. Il suo pensiero non ammette astrazioni, a parte il calcolo di profitti e interessi.

Viviamo ormai in un’epoca in cui il vero e più influente maître à penser è il grande capitalista. E il prestigio di cui gode il suo magistero è pari al capitale di cui dispone. Il sistema capitalistico, con le sue regole, i suoi valori, i suoi obiettivi, è diventato più o meno consciamente modello di vita, profezia di progresso sociale, tutore di un’Umanità dipendente in tutto dal denaro. Poiché è dunque il pensiero delle persone più ricche, per le quali ‘speculazione’ ha un significato esclusivamente finanziario, a determinare i generali processi sociali, si produce nella società un vuoto culturale e umanistico.

Tuttavia, alcuni miliardari refrattari alle consolazioni della filosofia sembrano nobilitarsi oggi con l’esser filantropi, preoccupandosi attivamente del benessere dell’Umanità. Tale filantropia ovviamente non si nutre di ideali filosofici, e il benessere che si prefigge di ottenere non implica piaceri intellettuali o spirituali.

Secondo il Filantropo-capitalismo l’uomo non ha bisogno di metafisici, santi o filosofi, ma di banchieri, medici, tecnici, ingegneri. Non gli servono relazioni umane appaganti, libertà, armonia interiore, ma tecnologie più efficienti e sistemi di produzione più razionali. Che solo i beni monetizzabili favoriscano un vero progresso umano appare una verità lapalissiana, che non serve argomentare.

È sufficiente convincere l’Umanità che la sua felicità non è legata a fruizioni immateriali come l’amore, la saggezza etc. ma alla disponibilità di cibo, di denaro, di protocolli sanitari. Naturalmente nessuno nega che vi siano nella vita necessità pratiche da soddisfare. Un tempo si diceva primum vivere deinde philosophari. Ma secondo i nuovi Filantropi solo i bisogni materiali sono essenziali e non differibili. Il resto – arte, filosofia, religione etc. – rappresenta un accessorio superfluo, diversivo cui eventualmente dedicarsi per soprammercato.

Si potrebbe obiettare che anche l’ammucchiar denaro è un gioco e non risponde ad alcuna reale esigenza umana; che macchine sempre più sofisticate o connessioni sempre più veloci non hanno una diretta relazione con la felicità; che i sedicenti progressi della medicina sono contraddetti da un’Umanità sempre più malata o malaticcia, afflitta da patologie croniche, terrorizzata da pandemie, dipendente dai farmaci; che una Filantropia materialista non ha certo mitigato il problema della fame del mondo etc.

Sollevare queste obiezioni significa però mettere in discussione alcuni postulati fondamentali, minacciando il collasso di un’intera visione del mondo. Come per l’uomo del Medioevo era inconcepibile mettere in dubbio l’esistenza di Dio, dell’inferno o del paradiso, oggi è impossibile non credere che la salvezza dell’uomo dipenda dal denaro, dai farmaci, dalle macchine. Anche la politica, ormai convertita alla Filantropia, non si interessa più di temi astratti come la giustizia o la libertà, ma di aumentare la disponibilità di computer e vaccini, di trovare ogni giorno nuovi pericoli da cui proteggere l’Umanità per poi “metterla in sicurezza”.

Su questo esubero di buone volontà nutro però vari dubbi. Ho detto infatti che alcuni moderni plutocrati sono filantropi – ossia persone che amano il genere umano – ma insieme disprezzano la filosofia, che è amore della sapienza. V’è dunque in loro un certo philèin – termine greco per amare – che ne escluderebbe un altro. Non è questa una contraddizione? Infatti ciò che più distingue l’uomo nel vasto insieme delle forme naturali è la sua ricerca del sapere. Disprezzare tale anelito comporta un disprezzo per l’Umanità che mal si concilia con l’amore.

Riconosco però che spregiare la filosofia può essere un ottimo esercizio filosofico. E d’altro canto, gli stessi Filantropi che detestano il filosofare amano il sapere che serve, ad esempio, per produrre un vaccino o un’antenna 5G, e che può tradursi in un sostanzioso guadagno. Quindi, potremmo considerarli esponenti di una filosofia sui generis, positivista, pragmatica, utilitaristica, forse poco accademica ma in grado di produrre notevoli effetti.

La mia perplessità più profonda è però un’altra. Di fatto, da quando questi grandi Benefattori se ne prendono cura, le condizioni generali dell’Umanità sono drammaticamente peggiorate. Come dice Solone, «in ogni cosa bisogna indagare la fine». E se era intenzione dei Filantropi applicare una terapia ai mali del mondo, il rimedio sembra alla fine aver prodotto più danni che benefici. Mi sono perciò convinto che il peggior male sia proprio la Filantropia. Penso vivremmo molto più serenamente senza questa opprimente sollecitudine per il nostro bene, senza chi si preoccupa così assiduamente della nostra salute, della sicurezza, del clima, dell’ambiente etc., imponendoci (per il nostro bene) sempre più oneri e austerità, restrizioni e impedimenti. Ci fossero più misantropi al mondo, penso saremmo tutti più liberi e felici.

E se osservo lo scempio della nostra civiltà, la sua devastazione interna ed esterna, mi viene il sospetto che i Filantropi amino l’Umanità come Gilles de Rais amava i bambini. Mi riferisco storicamente alla figura del Barone che emerge dagli atti del processo a suo carico. In realtà, non credo che quel virile uomo d’armi si abbandonasse alle efferatezze, ai rituali satanici e agli abomini di cui si dichiarò colpevole sotto tortura e per cui l’Inquisizione lo impiccò.

Viceversa, mi pare che i cosiddetti Filantropi nascondano, sotto una dichiarazione di sentimenti umanitari, una melma di desideri perversi, stupri mostruosi e commerci diabolici. Capisco che un’accusa tanto grave andrebbe provata. Ma è assurdo aspettarsi che una moderna Inquisizione sottoponga a processo i Filantropi e li torturi per indurli a una confessione. Ogni struttura inquisitoria oggi operante – politica, giuridica o mediatica – è infatti sotto il loro controllo.

Purtroppo questa malefica filantropia si è diffusa ovunque, contagiando gran parte dell’Umanità. Dall’alto di una piramide gerarchica, scendendone i vari gradi, i suoi vischiosi sentimenti son colati giù verso gli strati inferiori, fino alla base dell’edificio, appiccicandosi alla gente comune. Nessuno può sfuggire a questo  filantropismo coatto, sottrarsi ai doveri e al senso di responsabilità verso il genere umano senza avvertire un senso di colpa e di indegnità. Tutti siamo chiamati a combattere i grandi nemici dell’uomo: virus, batteri, raggi solari, anidride carbonica etc.

L’opinione pubblica non sa quanto i Filantropo-capitalisti guadagneranno da questa guerra, né di quanto costerà alla povera gente. Nessuno osa contestare il fatto che la soluzione di grandi problemi umanitari richieda grandi quantità di soldi, di sforzi e sacrifici economici. Chiunque provasse a suggerire altri approcci, meno venali e più spirituali, verrebbe preso per pazzo o considerato un ingenuo sognatore. Sembra che l’amore dell’Umanità, senza denaro, debba restare lettera morta, come una fede senz’opere. Par dunque si debba esser grati ai grandi Filantropi che investono in settori cruciali per il benessere dell’uomo e la sua sopravvivenza, come la bio-tecnologia, la vaccinazione di massa, i flussi migratori, l’economia green etc.

È possibile cogliere qui un’altra peculiarità della Filantropia moderna, intendo la lontananza. Il suo amore si rivolge non al prossimo ma a soggetti lontani nel tempo e nello spazio, persone che non possiamo né vedere né toccare, la cui esistenza resta per noi un valore astratto. Veniamo mobilitati per rispetto verso qualcuno mai conosciuto, oppure verso le future generazioni, entità inesistenti cui bisogna lasciare in eredità un mondo migliore. È necessario far continue spese e rinunce, mettere pesanti ipoteche sul presente a favore di un ipotetico domani.

Alcuni potrebbero pensare che le donazioni dei Filantropi siano destinate a sollevare le condizioni dei poveri e dei bisognosi. In realtà son elargite a Governi, Società, Organizzazioni, perché ne facciano uso filantropico. Questi Governi etc. trasferiscono una parte del lascito ad altri filantropi e questi ad altri ancora. Della somma elargita beneficia dunque un circolo chiuso di filantropi i quali ne usano secondo le necessità umanitarie per loro più urgenti (oggi in genere farmaci, dispositivi elettronici, sistemi di sorveglianza etc.). Nessun soldo finisce mai nelle tasche dei non abbienti. Ma è proprio così che il Filantropo conta di aumentare la ricchezza e il benessere complessivo dell’Umanità.

La sua intenzione è far sì che la ricchezza e il benessere che si creano nel mondo restino al 99% proprietà dei Filantropi. La ragione di ciò è che i piani per la salvezza dell’Umanità sono immensi, e quindi solo persone immensamente ricche se ne possono far carico. Se la ricchezza totale fosse distribuita in maniera equa, si disperderebbe in una moltitudine di rivoli senza forza, senza coesione. Il Filantropo prende dunque su di sé le ricchezze dell’Umanità come una missione (non oso dire una croce) per poterla amare più efficacemente. Questo stabilisce un legame necessario tra Filantropia e plutofilia. Non si diventa infatti immensamente ricchi senza amare il denaro.

Buddha o Cristo non potevano certo esser Filantropi. Né un san Francesco, che proibiva ai suoi frati di maneggiar denaro, “merda del diavolo” (solo dopo la sua morte i francescani, liberati da quel rifiuto intransigente, poterono arricchirsi e diventar filantropi). E non poteva esser Filantropo il beato Cottolengo, che di giorno raccoglieva offerte per sfamare i suoi poveri malati e la sera, con irrazionale fiducia nella Provvidenza, gettava dalla finestra i soldi avanzati.

Il vero Filantropo capitalizza, accumula, sa che l’uomo è ciò che possiede. Il suo motto potrebbe essere “io ho quel che ho donato, più gli interessi”. E non bisogna immaginare in ciò interessi di natura morale, come la soddisfazione e la consapevolezza di aver fatto del bene. Piuttosto il compiacimento del buon seminatore, cui i raccolti «fruttano il trenta, il sessanta e il cento per uno». Di fatto, non si può interpretare correttamente il fenomeno della Filantropia moderna se non rovesciando i nostri tradizionali concetti di amore, altruismo, fratellanza, solidarietà etc.,  ancora legati a una vecchia etica religiosa.

Solo così ci apparirà perfettamente logico il progetto filantropico di una drastica riduzione della popolazione umana. Razionalmente non è infatti possibile conciliare l’amore per l’Umanità con un crimine contro l’Umanità. Se però accettiamo la prospettiva del Filantropo vedremo che la contraddizione è solo apparente. Il Filantropo ama infatti l’Umanità ma non i singoli uomini, che di solito disprezza. Perciò elabora e sostiene ogni programma che, pur danneggiando le persone reali, favorisca un’ottimizzazione ideale della società secondo criteri più razionali e produttivi. Dal suo punto di vista, il depopolamento globale è giustificato da ragioni superiori che lo rendono, per così dire, una ‘strage umanitaria’.

Dovremmo per questo considerare il ricco Filantropo un assassino? O sospettare di lui solo perché, come dice Balzac, “dietro ogni grande fortuna c’è un crimine”? Per la gente semplice è molto difficile comprendere i moventi dei Grandi Filantropi, i valori che li ispirano. Anch’io forse ne parlo muovendomi più sul piano della fantasia che della cognizione di causa. Ammetto che per me sono esseri sconosciuti, entità misteriose, quasi metafisiche, di cui posso supporre l’esistenza solo attraverso deduzioni di natura teologica. Ad esempio argomentando che vi sia una Causa Prima o un primum movens che determini una catena di movimenti ed effetti filantropici.

Se fisso lo sguardo verso l’Olimpo dei Filantropi non vedo nulla, se non la luminosa caligine che l’avvolge. Più sotto divengono man mano visibili filantropi di livello inferiore – uomini d’affari, politici, giornalisti, medici etc. – investiti della missione di informarci e ammonirci, sorvegliarci e correggerci. Ma i gradi più sublimi restano arroccati su altezze inaccessibili, nascosti alla vista dei mortali. Non credo però che tale ritrosia sia dettata dall’umiltà. La mia teoria è che serva a nascondere gli effetti più ripugnanti e deformi della Filantropia.

Il passaggio dall’antropos al filantropos implica infatti delle mutazioni genetiche. Basta essere afflitti da una lieve sintomatologia filantropica per mostrare i segni di un’incipiente metamorfosi. Modificazioni quasi impercettibili per un occhio inesperto. Se però esaminiamo fasi più avanzate del processo – come appaiono in certi giornalisti, politici, scienziati etc. – diventa più facile cogliere nel volto, nella mimica, nel tono della voce, i sintomi di una degenerazione psico-somatica.

E salendo verso filantropi di grado ancor più elevato vedremo la corruzione interiore riflettersi in modo progressivo e sempre più evidente nei tratti esteriori. Come se un demone prendesse graduale possesso del loro corpo e ne alterasse le espressioni naturali. Faccio dunque l’ipotesi che chi sta all’apice dell’Ordine Filantropico, ormai integralmente posseduto dal demone, abbia sembianze e comportamenti non più umani.

La mia teoria coincide in parte con quanto si legge nel Canto XXXIII dell’Inferno dantesco. Giunto nella zona Tolomea, dove stanno i traditori degli ospiti, Dante rimane infatti sconcertato nel trovarvi due dannati – frate Alberigo e Branca Doria – che sa essere ancora vivi. Quegli uomini camminano ancora sulla terra, si chiede, quindi come possono essere qui? Gli viene spiegato che nel loro corpo è entrato un demone che ne guida i movimenti, simulando un’apparenza di vita, benché la loro anima sia da tempo precipitata tra le pene eterne.

Quindi, anche i corpi dei grandi Filantropi potrebbero essere involucri disanimati, abitati da una forza infera. Compiono i normali gesti della vita pur essendo interiormente già morti. Parole, pensieri, atti, tutto proviene dal demone che li abita. Questo spiegherebbe il fatto che nei loro programmi filantropici venga esclusa ogni preoccupazione per l’anima e la sua immortalità. È naturale invece che progettino forme di tecno-vita, cioè di non-vita, in cui proiettano un’immagine di sé stessi, della loro natura di automi disumanizzati. E provano uno sterile piacere nel privare gli altri di essenziali prerogative vitali come la libertà, la ricerca della felicità, l’amore, persino il respiro.

Si può dunque presumere che il Filantropo sia solo un simulacro biologico la cui anima è già ospite della zona Tolomea, rinserrata in un lago di ghiaccio che raggela le sue stesse lacrime. Questa congettura sarebbe suffragata da una tradizionale esegesi secondo cui la colpa lì punita è quella di chi “servendo tradisce il servito”; di chi, fingendo di beneficare, tradisce il beneficato. E appunto questo è l’intento reale, il volto vero della Filantropia.

Non possiamo tuttavia sapere chi, tra quelli che oggi dicono di agire per il bene dell’Umanità, sia ancora umano e chi sia già uno spettro, un golem maligno. Questo pone un fondamentale problema etico, cui Dante forse non pensò. Infatti, se accettassimo la sua teoria, uccidendo alcune persone non commetteremmo un reale omicidio, dato che sono già morte. Dovremmo tuttavia aver la completa certezza che la loro anima sia già all’inferno. Nel dubbio, ci si offre questa alternativa: adottare il metodo dell’abate Amaury – “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi” – o più prudentemente astenerci, lasciando tale incombenza al tempo e alla natura.

Apologia della capra

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QUINTA COLONNA

di Livio Cadè

Fonte: Ereticamente

I. Elogio dell’ignoranza

“Getta il sapere e non avrai tristezza“.

Si suol dire “ignorante come una capra”. Credo che alla capra poco o nulla importi di questo stupido pregiudizio. Ma a coloro che vi credono va ricordato un episodio della Patrologia Latina ove si narra della capra che salvò un santo eremita del deserto. Costui, non sapendo distinguere le erbe buone da quelle velenose, sarebbe morto se una capra, che per antico istinto sapeva riconoscere le piante non mangiabili, brucando in silenzio non gli avesse insegnato a riconoscerle. Il sant’uomo fu dunque soccorso dalla sapienza di una capra.

La nostra civiltà vive nel culto del sapere. Ma il nostro sapere è a volte nemico di una naturale saggezza e di una vera sapienza. Quella che chiamiamo conoscenza è spesso ignoranza, e viceversa. In tal senso Lao-Tze dice: “rinnega la conoscenza e il popolo cento volte ne trarrà giovamento”, massima che troverebbe oggi ben pochi seguaci. Tutti sembran infatti d’accordo nel dire che l’ignoranza è un male. Tuttavia è chiaro che siamo tutti ignoranti, in quanto ogni conoscere ha dei limiti e i campi del conoscere sono infiniti.

Parlando di sapere, oggi si intende di solito la competenza scientifica, conoscenza del mondo par excellence, ritenuta ormai motore imprescindibile dell’evoluzione sociale. Sono invece svalutate altre forme di conoscenza: saperi tradizionali, saggezza popolare, intuizione spirituale ecc. A questi saperi stabili, abbarbicati nel profondo dell’esperienza umana, si è sostituita una conoscenza priva di radici, di carattere incerto e volatile.

Tale conoscenza, essendo amministrata da una ristretta cerchia di esperti, lascia l’uomo medio in uno stato di perenne minorità e lo consegna alla tutela di un nuovo clero scientifico. Ma mentre il pensiero della Chiesa poggiava su basi ferme, quello della scienza, da Galileo in poi, ha sempre mostrato natura provvisoria. Nel suo tendere verso un progresso infinito determina una continua precarietà, e ci costringe a spingere i massi del sapere come in un supplizio di Sisifo.

Guardando alla storia, si può dubitare che questa conoscenza abbia contribuito alla nostra felicità e alla creazione di un mondo migliore. Si potrebbe anzi credere il contrario. I più tuttavia sostengono l’innocenza e la verginità della scienza. Sembrano ignorare che oggi la conoscenza non è, come poteva essere per i greci, pura teoria e contemplazione intellettuale ma, sulla traccia di Bacone,  ricerca del potere che nasce dal sapere, strumento di dominio sulle cose. Una conoscenza che fosse disinteressata comprensione del reale, filosofica meditazione sul senso della vita, ci sembrerebbe una perdita di tempo. Il sapere deve essere finalizzato a scopi pratici, tradursi in una tecnica, generare un profitto. Perciò il tempio della scienza si è riempito di mercanti e prostitute. Continua a leggere

Alice nel paese delle mascherine

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di Livio Cadè 

Fonte: Ereticamente

«Chi vuole ingannare gli uomini, deve prima di ogni altra cosa rendere plausibile l’assurdo».
(Johann Wolfgang Goethe)

Alice si presentò alla festa della sua amica Titti con una bellissima maschera da gatto. Il suo amico Tommy indossava una maschera da topo e Alice si mise a inseguirlo fingendo di volerlo afferrare. Titti, mascherata da cane mastino, li rincorse abbaiando. Corsero a perdifiato finché Alice, esausta, si levò la maschera che le toglieva il respiro e si lasciò cadere sulla grande poltrona del salotto. “Alice, sei una bambina sciocca!” si rimproverò da sola “non dovevi mangiare tre fette di torta!”. Così, mentre si riposava vide passare un buffo ometto. Portava una maschera da coniglio e ripeteva “È terribile, è terribile!”.

“Scusate signore” chiese educatamente Alice “che cosa è terribile?”

“Non ho alcun sintomo. Neanche uno! È terribile! Il Re mi chiuderà in gabbia. O mi farà mozzare la testa!”

“Neppure io ho sintomi, signore, e non mi pare così terribile” disse Alice cercando di rassicurare il coniglio, visibilmente angosciato.

“Dovevi dire ‘nemmeno io’ e ‘non mi sembra’! Non ti hanno insegnato il risfetto degli altri?” “Cosa vuol dire risfetto?” chiese Alice, ma quello corse via ripetendo “è terribile, terribile!”.

Alice, incuriosita, decise di seguirlo. “Aspetti!” gridò. I muri risposero “asfetti… asfetti”. “Che strana eco! Ha un difetto di pronuncia”. Come Titti, che diceva ‘cavamella’ e ‘fiovellino’. Rincorrendo il coniglio, che si infilava ora in una porta ora in un’altra, Alice si perse in un dedalo di corridoi sconosciuti. “E ora come farò a tornare a casa?” pensò. “Dovrei chiedere consiglio a qualcuno ma non c’è anima viva!” Vide una porta su cui stava scritto ‘residenza del consiglio’. “È proprio quello che cercavo!” si disse. Bussò, ma nessuno le aprì. Così si fece coraggio ed entrò. “Forse ho sbagliato a leggere” pensò “forse c’era scritto residenza del coniglio”. Si ritrovò in un salone pieno di persone mascherate sedute a un lungo tavolo che discutevano animatamente. Nessuno sembrò accorgersi di lei. Alice diede due piccoli colpi di tosse. Nessuno la sentì. Provò allora a tossire un po’ più forte. Tutti si girarono verso di lei. Continua a leggere