C’era una volta il saluto romano

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di Marcello Veneziani

Non prendete questa cicalata sul saluto romano per un pezzo di nostalgismo politico e nemmeno per una chiosa alla cerimonia di Acca Larenzia, di cui abbiamo già scritto, e un commento alle previste condanne per apologia di fascismo. Sarebbe surreale e insensato, fuori luogo, fuori tempo. Questo è puro vintage, racconto di colore, dove la nostalgia assume tratti sentimentali, emotivi ed estetici, non politici, storici e ideologici; temperati dall’ironia.

Novantanove anni fa entrava in vigore un decreto governativo che rendeva obbligatorio il saluto romano nei luoghi pubblici e nelle sedi amministrative. Non fu una trovata di qualche oscuro gerarca; l’idea originaria veniva da D’Annunzio ed evocava il romano Ave Caesar.

Ci restano nelle memorie degli anni passati, distese di saluti romani ai funerali di Almirante e Romualdi, di Rauti e di Buontempo, ma anche di Giano Accame e di altri meno famosi personaggi. Il camerata officiante gridava il nome del defunto e la comunità ripeteva in coro “Presente!”, facendo tutti il saluto romano.  Anche a chi era estraneo al piccolo mondo antico del cameratismo, quel rito d’addio pareva avere una forza liturgica e rituale così intensa e corale che nemmeno la funzione religiosa riusciva a esprimere. Raccontava una vita e una morte, una storia e una comunità. Nulla di retorico o di minaccioso. Mi colpirono da ragazzo i saluti romani indirizzati alla bara del Principe Junio Valerio Borghese. Erano allora un atto di epica strafottenza verso il mondo e il potere, la viltà dei benpensanti e l’arroganza dei pugni chiusi accompagnati da spranghe e catene. Li vedevo con gli occhi di un ragazzo colpito dai gesti simbolici in luoghi sacri. Erano gli anni settanta, duemila anni fa.

“Selva di braccia tese”, cantava Lucio Battisti e i ragazzi con la testa “fasciata” pensarono orgogliosi che si riferisse a loro. Vero o falso, come poi mi disse il suo paroliere, Mogol, quella frase entrò nel mito, nei cuori e nelle mani di molti ragazzi. Lucio è nostro, Lucio è nostro…

I più teatranti allungavano il braccio al cielo, i più ispirati ne rivolgevano pure lo sguardo, i più timidi accennavano una manina atrofizzata, i più fanatici salutavano alla tedesca, i più coreografici accompagnavano il saluto romano con un batter di tacchi e il mento in alto. Comodi, riposo, dicevano i più ironici e chi sapeva distinguere tra la storia e la parodia. Al saluto romano i più scettici con licenza ginnasiale rispondevano: Ave Caesar morituri te salutant. E il camerata dopo il saluto romano usava la stessa mano per una più prosaica grattata ai genitali. “A noi!” gridavamo in sezione al vecchio camerata sordastro. “Tutto a noi e niente a loro”, rispondeva sempre lui. Un altro lo chiamavano Mani di fata, l’unico gay capitato tra i virili camerati, che salutava romanamente con la manina delicata; poco fascio ma tanta grazia. Se a un democristiano stringere le mani in campagna elettorale portava voti, a un candidato missino li toglieva. Ogni mano stretta era un saluto romano in meno. Sarà un traditore, un badogliano, non avrà le mani pulite. I camerati duri e puri, invece, non si accontentavano del Saluto Romano, preferivano il saluto personale con l’avambraccio, uno avvinto all’altro. L’intensità del saluto misurava il camerata in purezza. Ammazza che forza, sarà un camerata de core e de fegato, un centurione.

Il saluto romano cominciò a declinare quando cominciarono le vie di mezzo, i saluti a mezz’asta, le manine ambigue con leggera motilità, per dissimulare l’atto impuro, come quelle che si usavano nelle auto kitsch di un tempo appiccicate ai lunotti.

Sono grotteschi i saluti romani a babbo morto in epoca democratica e antifascista. Ma ancora più ridicolo era far scattare la denuncia d’apologia di fascismo per un saluto innocuo e antico, come se il folclore fosse criminalità; per giunta in una cerimonia funebre. Il fatto che le cerimonie fasciste coi saluti romani siano avvenute tutte ai funerali dimostra ancora di più che il fascismo è terra dei morti e in articulo mortis non c’è articolo di legge che regga. La nostalgia è un sentimento, a volte un risentimento, ma non un delitto, e nemmeno un reato. Si può esser giudicati fessi per un saluto romano, non delinquenti. Anacronisti, non terroristi. Tanto per fare archeologia comparata, non mi dispiace neanche il pugno chiuso, ha una forza simbolica raccolta e concentrata, una promessa che coincide con una minaccia, ma indica la fierezza di un movimento in lotta. Il saluto romano è un segno più estroverso, meno cattivo, più classico, più latino, più naturale, più socievole e più teatrale, perfino autoironico…

Il saluto romano evitava con un gesto unico e collettivo giri prolissi con fastidiose strette di mano, scambi di cortesi e sudate ipocrisie del tipo “piacere, onorato, molto lieto”, e via coglionando il prossimo con ricevuta di ritorno. 

Mi sovvenne il saluto romano dopo una conferenza in un Lions o in un Rotary club, quando alcune persone stringendomi la mano, mi tastarono con un dito il polso; pensai che fossero medici ma poi mi dissero che era un saluto massonico. Se era ridicolo il primo, non vi pare ridicolo pure il secondo? Erano un po’ comici i camerati che a fascismo sepolto andavano in camicia nera, ma non trovate un po’ comici pure i fratelli col cappuccio e il grembiulino nelle loro sedute segrete?

Rimpiansi, invece, il saluto romano affacciandomi a Bologna da osservatore a un’assemblea nazionale di An. Dovevo urinare con una certa urgenza (fui precursore della Meloni incontinente) ma entrando in bagno fui bloccato da una fiumana di postfascisti reduci dai gabinetti – si vede che dopo Fiuggi la parola d’ordine, categorica e impegnativa per tutti, era: Mingere e Mingeremo – e mi strinsero tutti calorosamente la mano. Considerando che, secondo statistica, uno su due uscendo dal bagno non si lava le mani, e la statistica non mi pare limitata all’arco costituzionale, fu una catastrofe sanitaria. Rimpiansi allora i tempi d’oro del saluto romano, più rapido, più igienico, come diceva Trilussa e poi Almirante. Memorie prostatiche alla ricerca del tempo perduto.

La Verità – 13 gennaio 2024

L’impossibile famiglia queer

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di Marcello Veneziani

Michela Murgia aveva talento, carattere e ispida umanità. Agli antipodi dal suo modo di pensare, di vedere e di sentire, riconosco la passione civile che ci metteva nelle sue battaglie. Poi era insopportabile la sua intolleranza verso chi non la pensava come lei e che lei riduceva a fascista. Il suo ultimo libro postumo, Dare la vita (ed. Rizzoli) è un appassionato inventario della sua vita e delle sue idee. La bestia nera del suo libro è la famiglia naturale, che reputa “la cosa più fascista che esista” perché la riproduzione è “un fatto di sangue nel sangue”. In realtà la Murgia dà del fascista alla natura, al cammino dell’umanità dall’inizio a oggi e alla riproduzione di ogni specie.
Alla riproduzione secondo natura, come sempre è accaduto, lei oppone i figli per scelta reciproca, frutto di amore libero, volontà e nessun “destino genetico”.  Non si limita a rivendicare la libertà di vivere come crede, ma condanna i “genitori biologici” perché esercitano a suo dire un potere inscritto nella famiglia nucleare o tradizionale: “il potere di controllare le figlie e i figli col proprio denaro, coltivando anche inconsciamente il loro senso di dipendenza”. Quel che Murgia chiama potere, controllo e dipendenza è in realtà la legge antica e naturale della cura, della premura, dell’affetto per i propri figli, che precede ogni questione economica e ogni prevaricazione. Ed è una legge reciproca d’amore, finalizzata al bene di chi ami. Poi ci sono le eccezioni, le incomprensioni, gli abusi e le violenze; ma non possiamo condannare l’amore nella generalità delle situazioni solo perché in alcuni casi qualcuno ne abusa. Come sempre succede nell’ideologia radical si solleva l’eccezione per colpire la regola, si enfatizza il caso per criminalizzare il vivere comune e le leggi naturali e universali di sempre. E’ come se condannassimo le storie d’amore solo perché ci sono i femminicidi. Questi sono centinaia ogni anno, quelli sono migliaia, milioni negli anni.

La figura chiave per la Murgia è la Queer: “è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera e rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale”. La queerness è “una scelta radicale di transizione permanente”: oggi mi sento maschio, domani femmina, poi chissà. La realtà, la natura, il corpo si riducono a mio desiderio volubile e così i miei partner. Io sono ciò che desidero essere al momento. Pensate che si possa costruire su queste basi una società? Pensate che possa avere un futuro durevole? I desideri sono soggettivi e volubili; e come si riproduce una società del genere, se rinuncia alla biologia? La famiglia verticale, da genitori a figli non può essere sostituita dalla famiglia orizzontale dove si decide liberamente di essere madri e figli, a tempo e in geometria variabile. Si deve allora ricorrere agli uteri in affitto, alle gravidanze altrui, quelle che Murgia chiama gestazione per altre (con la e rovesciata in senso di fluidità sessuale). Ma chi fa figli in questo modo, di solito, non li desidera ma per li fa per bisogno, cioè per soldi, su commissione; dietro le unioni fondate sul desiderio ci sono maternità coatte, indesiderate, schiavizzate, di chi vende i propri figli. La Murgia riconosce che l’aborto come la gestazione per conto terzi sono “due espressioni di arbitrio assoluto sulla vita nascente”, ovvero usano il nascituro come strumento dei propri desideri. Così fallisce la famiglia elettiva fondata sul desiderio volubile.

Eppure è bella la definizione di “figli d’anima” riferita a chi è figlio/madre per scelta, senza passare dalla procreazione e senza vincoli di sangue. Ci sono sempre stati figli, padri o madri “d’anima”; si chiamavano allievi, discepoli, figliocci, adottivi o  “adelphi”. Si chiamava amicizia, affinità elettiva, rapporto tra maestro e apprendista. Bellissimi rapporti, confesso che mi mancano. Non sono rapporti sostitutivi di quello naturale tra genitori e figli ma ulteriori, integrativi, complementari. Magari a volte più pregnanti e intensi di quelli biologici. La follia è reputarli alternativi e considerare becero, primitivo, patriarcale, prevaricatore, fascista, il rapporto genitoriale e filiale secondo natura e tradizione. Abbiamo bisogno di una madre e di un padre, anche per criticarli; una famiglia ci vuole anche per andarsene via, potremmo dire parafrasando Pavese.
Al modello queer della Murgia opponiamo il modello patriarcale di una mente rivoluzionaria pensante che pure era ideologicamente contrario alla famiglia, alla sacra famiglia e alla famiglia borghese. E ben centocinquant’anni prima della Murgia.

Era un signore con la barba e la chioma bianca che fuori sognava il comunismo, le lotte operaie, la rivoluzione proletaria ma in casa era patriarca, regnante nella sua famiglia, amato e rispettato dalle figlie. Karl Marx era in tutto e per tutto “un patriarca”, come lo definì il compagno Kautskij in visita da lui, e “una figura paterna”. La famiglia ruotava intorno a lui, l’amatissima moglie, le amatissime figlie, la donna di servizio, i nipoti. Fu nonno premuroso, padre esemplare (nonostante alcuni figli illegittimi di gioventù), vedovo inconsolato, le sue figlie assecondavano i desideri del pater familias. Quando era lontano da casa, Karl sognava di avere “intorno a sé tutti i suoi cari, in particolare i nipotini”. I legami d’amore e di sangue non li rinnegava nemmeno Marx e non sostituiva i suoi affetti familiari con i “compagni” o con l’amico Engels…

(Panorama n.3)

In treno verso il nulla, stranieri a casa propria

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

L’altra sera ho preso un treno locale tra Foggia e Bari. Ero nella mia terra, dovevo raggiungere il mio paese natale, ho preso l’ultimo regionale della sera. Non ero in prima classe, non leggevo Proust, non ero tra lanzichenecchi, come era capitato ad Alain Elkann ed ero curioso di chi mi stava intorno. Ero l’unico anziano in un treno zeppo di ragazzi, pendolari della movida, che si spostavano per andare a fare nottata in paesi vicini. Ero su una tratta che un tempo mi era famigliare, ma mi sono sentito straniero a casa mia. No, non c’erano stranieri sul treno, come spesso capita nei locali. Ricordo una volta su un locale, ero l’unico italiano tra extracomunitari, in prevalenza neri, con forte disagio perché ero pure l’unico ad avere il biglietto. Stavolta invece ero tra ragazzi dei paesi della mia infanzia e prima giovinezza, eppure mi sentivo più straniero che in altre occasioni.
Li osservavo quei ragazzi e soprattutto quelle ragazze, erano sciami urlanti che agitavano il loro oggetto sacro, la loro lampada d’Aladino e il loro totem, lo smartphone. Si chiamavano in continuazione, la parola chiave per comunicare era “Amò”, ed era un continuo chiedersi dove siete, dove ci vediamo. Era come parlare tra navigatori che si dicevano la posizione.
Le ragazze erano vestite, anzi svestite, scosciatissime, come se fossero cubiste o giù di lì, con corpi inadeguati. Era il loro dì di festa, il loro sabato del villaggio, ma in epoca assai diversa da quella in cui Leopardi raccontava l’animazione paesana che precede la domenica. Dei loro antenati forse avevano solo la stessa pacchianeria prefestiva, ma nel tempo in cui ciascuno si sente un po’ ferragnez e un po’ rockstar. Parlavano tra loro un linguaggio basic, frasi fatte e modi di dire sincopati. Mai una frase compiuta, solo un petulante chiamarsi, interrotto da qualche selfie, si mandavano la posizione e si apprestavano a incontrarsi e poi a stordirsi di musica, frastuono, qualche beverone, fumo, e non so che altro. Li ho visti in faccia quei ragazzi, erano seriali, intercambiabili, dicevano tutti le stesse cose, ciascuno in contatto col branco di riferimento. Cercavo di trovare in ciascuno di loro una differenza, un’origine, un qualcosa di diverso dal branco; ma forse erano i miei occhi estranei, la mia età ormai remota dalla loro, però non ravvisavo nulla che li distinguesse, che li rendesse veri, non dico genuini. Eppure parlavano solo di sé, si specchiavano nei loro video, si selfavano, un continuo viversi addosso senza minimamente preoccuparsi di chi era a fianco, insieme o di fronte. Sconnessi.
Magari è una fase della loro vita, poi cambieranno; magari in mucchio danno il peggio di sé, da soli sono migliori. Però non c’era nulla che facesse vagamente pensare al loro futuro e al loro piccolo passato, alle loro famiglie, ai loro paesi, al mondo circostante; tantomeno alla storia, figuriamoci ai pensieri, alla vita interiore, alle convinzioni. Traspariva la loro ignoranza abissale, cosmica; di tutto, salvo che dell’uso dello smartphone. Anche i loro antenati, mi sono detto, erano ignoranti; ma quella era ignoranza contadina, arcaica e proletaria, carica di umiltà e di fatica, di miseria e di stupore; la loro no, è un’ignoranza supponente e accessoriata, non dovuta a necessità, con una smodata voglia di piacere e vivere al massimo il piacere, totalmente immersi nel momento. Salvo poi cadere negli abissi della depressione, perché sono fragilissimi.
Mi sono detto che i vecchi si lamentano sempre e da sempre dei più giovani, li vedono sempre peggiori di loro e dei loro nonni. Però, credetemi, la sensazione più forte rispetto a loro, era un’estraneità assoluta, marziana: nulla in comune se non il generico essere mortali, bipedi, parlanti. In comune non avevamo più nulla, eccetto i telefonini. Per confortarmi mi sono ricordato di quei rari ragazzi che mi è capitato di conoscere e che smentiscono il cliché: sono riflessivi, pensanti, leggono, studiano con serietà, sanno distinguere il tempo del divertimento dal tempo della conoscenza, hanno curiosità di vita, capiscono l’esistenza di altri mondi e altre generazioni, capaci di intavolare perfino una discussione con chi non appartiene alla loro anagrafe. Però ho il forte timore che siano davvero eccezioni. E mille prove personali e altrui confermano questa impressione. Raccontava un amico che fa incontri nelle scuole che davanti a una platea di trecento ragazzi, chiese loro se leggessero giornali, o addirittura libri, se vedessero qualche telegiornale, se sapessero di alcuni personaggi, non dico storici o i grandi del passato, ma almeno importanti nella nostra epoca. Uno su cento, e poi il silenzio. Hanno perso la loro ultima piazza, il video, ognuno si vede il suo film e la sua serie su netflix o piattaforme equivalenti, segue il suo idolo, ha vita solo social.
Qualunque cosa in chiave politica e sociale, storica o culturale, non li sfiora, non li tocca, non desta il loro minimo interesse. Certo, sono sempre le minoranze a seguire attivamente la realtà o a coltivare una visione del mondo e condividerla con un popolo, un movimento, una comunità. In ogni caso non è “colpa loro”, se sono così. E’ anche colpa nostra; anzi non è questione di colpe. E l’impossibilità di comunicare con loro dipende pure da noi. Però, mi chiedo: cosa sarà tra pochi decenni di tutto il mondo che si è pazientemente e faticosamente costruito lungo i secoli, attraverso scontri, guerre, sacrifici, fede, conoscenza, lavoro, lavoro, lavoro? Nulla, il Nulla. Sono questi i cittadini, gli italiani, di domani? Sono forse diversi, e più nostrani, rispetto agli stranieri extracomunitari che sbarcano da noi a fiumi? Tabula rasa, zero assoluto, il postumano si realizza anche senza manipolazioni genetiche, robot sostitutivi, intelligenze artificiali e mostri prodotti in laboratorio. Quel treno della notte non portava da un paese a un altro, portava solo nella notte.

Il 25 luglio nacque dalle bombe del 19 luglio

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di Marcello Veneziani

L’Italia si sfasciò, in ogni senso, tra il 25 luglio e l’8 settembre di ottant’anni fa. Ma prima ci fu il 19 luglio, un antefatto che di solito non viene collegato alla caduta del regime fascista. Che successe il 19 luglio? Roma fu pesantemente bombardata dagli americani; dai tempi delle invasioni barbariche, e poi del sacco di Roma di cinque secoli fa, a opera dei Lanzichenecchi, non era stata messa a ferro e fuoco in quel modo. Tremila morti nella popolazione, di cui la metà nel solo quartiere di San Lorenzo, migliaia di feriti, case distrutte, terrore. Cinquemila bombe sganciate sulla capitale da cinquecento bombardieri, un secondo bombardamento fu effettuato il 13 agosto. La fatidica immagine del Papa Pio XII a San Giovanni in Laterano che allarga le braccia in un atto estremo di paternità e soccorso; la Città Eterna ormai si raccomanda a Dio, avendo perso l’incrollabile fiducia nella storia e nella sua gloriosa incolumità.
Di solito si collega allo sbarco angloamericano in Sicilia iniziato pochi giorni prima, la spinta decisiva alla svolta del 25 luglio. Ma si sottovaluta l’impatto emotivo, la paura e la percezione di vulnerabilità che il bombardamento del 19 luglio ha procurato nell’establishment, tra le gerarchie militari e sulla stessa Corona. Tutti, dal Re ai capi e capataz avvertono di essere ormai in balia degli eventi, esposti alla tragedia, ormai insicuri fin dentro casa, nei palazzi del potere romano…
Il fatidico 25 luglio, spartiacque nella storia del novecento italiano e punto di svolta nella seconda guerra mondiale, ebbe però un significato storico proverbiale e paradigmatico nella storia d’Italia. Se non fosse per la galoppante amnesia che ci prende ormai da anni e cancella rapidamente pagine e pagine di storia e memoria, dovremmo ricordare gli ottant’anni del 25 luglio perché è una data “fondativa” che rivela l’indole italiana ed è soprattutto il tormentone della storia d’Italia, il suo archetipo.
Il giorno in cui cadde il regime fascista, per voto democratico del Gran Consiglio, quando il Re Vittorio Emanuele III passò da Imperatore per grazia del Duce a carceriere del Duce medesimo, diventò la data ufficiale dello sbandamento e dello sdoppiamento nazionale. Il 25 luglio è il paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo. Ogni leader deposto nella nostra repubblica ha subito la sindrome del 25 luglio: da Craxi a d’Alema, da Berlusconi a Bossi, da Letta a Renzi, fino a Salvini e perfino Di Maio, solo per dire dei più recenti. Forse fa eccezione Giuseppe Conte, che si tradì da solo, e non fu, come un film biblico famoso, “Giuseppe venduto dai fratelli”.
Per i missini la replica del 25 luglio era la scissione di Democrazia Nazionale dal Msi, compiuta dai “migliori” della classe dirigente missina nel 1976; Giorgio Almirante ripeteva a loro proposito che era stato coniato dopo il 25 luglio un verbo in inglese, To Badogliate, per indicare il tradimento, usando come verbo il nome del Maresciallo Badoglio, colui che assunse la guida del governo dopo la caduta di Mussolini. Poi venne il caso Fini, divenuto in Alleanza Nazionale il nuovo Badoglio per antonomasia.
Il 25 luglio fu un mezzo golpe, come del resto era stato ventun anni prima la Marcia su Roma. Metà istituzionale e metà atto di forza, ma incruenti in ambo i casi, all’inizio e alla fine del regime fascista nel XXI anno della sua era (per essere un’era, durò pochino). Il 25 luglio è anche un evento paradossale: un dittatore va al Gran Consiglio consapevole del destino che lo attende, cade democraticamente, con voto di maggioranza, rimette il suo mandato nelle mani del Re e poi si fa arrestare senza alcuna reazione, forse concordando il suo esautoramento e perfino scegliendo la destinazione della sua prigionia. Perfino Donna Rachele, che non era un raffinato politologo ma una vivace donna del popolo, aveva capito il tranello e lo aveva scongiurato di non andare a quella seduta. Lui invece ci va, come se volesse quel che poi accadde; era un modo per dimettersi e per lasciare che l’Italia avesse le mani libere dall’alleato tedesco. Seguono due anni di orrori ma non sono solo legati ai campi di sterminio, alle esecuzioni naziste e fasciste ma ai bombardamenti americani sulle città e sulle popolazioni, alle migliaia di ragazze stuprate dai marocchini francesi e agli eccidi partigiani (foibe incluse).
Il 25 luglio ad abbattere il regime fascista sono i suoi quadrumviri superstititi della Marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi (Italo Balbo e Michelino Bianchi erano morti), le migliori intelligenze del regime, da Dino Grandi a Giuseppe Bottai, personalità di valore come l’economista Alberto de’ Stefani, il giurista Alfredo de Marsico, il sindacalista Edmondo Rossoni, il nazionalista Luigi Federzoni; quella che si potrebbe chiamare la destra del regime, sotto l’egida del Re, più qualche spurio. Con il Duce al Gran Consiglio restano in pochi. Mussolini è stanco e sfiduciato, non ama la prospettiva di andare al rimorchio dei tedeschi, magari voterebbe anche lui per la caduta del regime… Poi con l’8 settembre verranno le tragedie, da Salò al processo di Verona, gli eccidi rossi, i rastrellamenti tedeschi, la guerra civile, il tentativo di riprendere con la Repubblica sociale, con Mussolini metà prigioniero di Hitler e metà intenzionato a creare uno Stato cuscinetto, come dissero alcuni storici come Renzo De Felice, per impedire che i tedeschi, i nazisti prendessero il diretto controllo del nord d’Italia e si accanissero sugli italiani. Ma il Paese spaesato e decapitato, con la classe dirigente che si squaglia e va a vendersi l’Italia, comincia in quel dì, il 25 luglio (salvo antichi precedenti). Il 25 luglio, facendosi poi 8 settembre, non finì più, diventò un black friday in cui compiere periodicamente la svendita del magazzino morale e istituzionale del nostro Paese.

La Verità – 19 luglio 2023

Canzoni e cannoni

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di Marcello Veneziani

Mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantavano I Giganti al festival di Sanremo del 1967. Da allora in poi il pacifismo fu uno dei messaggi obbligati al festival dei fiori e dei canti. Da quest’anno invece si fa la retromarcia e Sanremo canta: Donate a Zelensky i vostri cannoni. E’ il messaggio che il presidente ucraino verrà a lanciare dalla tribuna di Sanremo. E’ proprio opportuno che Volodymyr Zelensky venga a Sanremo a perorare la sua richiesta d’armi? Un conto è essere vicini alle sofferenze del popolo ucraino, dice, un altro è alimentare da un palco dedicato alla musica questo scellerato “clima bellicista”, questa “propaganda di guerra” al posto di una vera, seria trattativa. Si può non sposare il pacifismo, ritenerlo puro irrealismo da anime belle e notare che nessun pacifismo ha mai fermato una guerra, ma l’obiezione è sensata.
Mezza Italia e forse più non vuole la nostra attiva partecipazione a questa guerra, con la fornitura di armi e supporti. Perché serve a prolungare la guerra anziché risolverla, ad aumentare il numero di vittime e distruzioni, a inguaiare pure noi e serve soprattutto agli Stati Uniti per indebolire Putin e al tempo stesso l’Unione europea, usandola come strumento subalterno della strategia egemonica degli Stati Uniti. La gente ha visto in passato tante invasioni russe, sotto lo sguardo impietrito dell’occidente: l’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia erano Europa a differenza dell’Ucraina che per secoli è stata russa, ha una lingua affine, i due popoli sono intrecciati da secoli, hanno la stessa religione ortodossa e tanta storia in comune. Abbiamo visto muti e inermi le invasioni cinesi del Tibet, le repressioni di Hong Kong, le invasioni americane in mezzo mondo, portandoci sull’orlo di tante crisi mondiali. E mai si è deciso d’intervenire in difesa dei popoli invasi. Questa volta invece è d’obbligo armare l’Ucraina e intervenire in suo favore, fino a svenarsi e inguaiarsi. Con un battage mediatico senza precedenti. Al gesto scellerato di Putin d’invadere l’Ucraina ha contribuito la linea di Biden ostile a ogni negoziato per rendere neutrale l’Ucraina e riconoscere che due regioni come il Donbass e la Crimeache sono per storia e maggioranza filo-russe. Quando Trump dice che con lui non ci sarebbe stata l’invasione, riconosce di fatto le corresponsabilità americane nella guerra.
E poi, diciamolo francamente: Zelensky non è affatto simpatico a larga parte della platea italiana, anche se si ha timore a dichiararlo perché s’incappa subito, come ieri sui vaccini e la pandemia, nell’accusa di filo-putinismo, che obiettivamente riguarda solo una piccola minoranza. Zelensky non piace per i suoi trascorsi, per il suo cinismo, per il suo vecchio mestiere di guitto, per le repressioni passate del potere ucraino contro i russi e i partiti non allineati, per le sue ingiunzioni al mondo; e poi per il suo governo di corrotti e per le vistose limitazioni alla libertà d’espressione. Agli occhi di tanti è un fantoccio degli Usa. Quanto ha pesato il suo protagonismo, il suo istrionismo narcisista e la sua dipendenza dagli Stati Uniti nella decisione di resistere ad oltranza, mandando allo sbaraglio il suo popolo e generando danni a catena a mezzo mondo? Insomma, per il senso comune della gente, le responsabilità della guerra non sono solo quelle, accertate e inescusabili, di Putin e della sua nostalgia dell’Impero sovietico e zarista. Ma sono anche dall’altra parte. E a farci le spese, nel mezzo, è in primo luogo il popolo ucraino, le città ucraine, l’economia ucraina (su cui sperano di avventarsi per la ricostruzione molti sciacalli, anche nostrani, dopo aver contribuito ad aggravarle). E in secondo luogo ne fanno le spese tanti paesi europei, sul piano economico ed energetico. Un’Europa al rimorchio degli Stati Uniti e succuba delle sue decisioni e dei suoi interessi, priva di una sua strategia autonoma e di una capacità diplomatica e militare di mediazione e dissuasione, mostra in Ucraina la sua incapacità di diventare una Potenza mondiale in grado di trattare a pari condizioni con le altre superpotenze.
Tra poco sarà un anno dall’inizio della guerra in Ucraina e sono in molti a pensare, e in pochi a dire, che sin dall’inizio era chiara l’intenzione degli Stati Uniti di riequilibrare le forze in campo per rendere più lunga possibile ed estenuante questa guerra, in modo da colpire, sfiancare Putin e indebolire l’Europa sul piano energetico, economico e geopolitico, con la scusa di difenderla dall’aggressore russo (ma Putin non vuole espandersi in Europa; mira, con velleità, a restituire i confini passati all’Impero russo).
Infine, una piccola nota su Sanremo. Da anni ormai è diventato il Tempio scemo del Politically correct, il Collettore delle sciocchezze nazionali e globali, la discarica di tutte le ipocrisie, i buonismi e lo scemenzaio delle mode. Le finte trasgressioni, i sessi in transito, i fatui sermoni strappalacrime (e scrotoclasti), la rassegna dei nuovi luoghi comuni. Una trasgressione di massa non è più trasgressione ma conformismo; è come se per ogni infrazione ti arrivasse a casa non una multa ma un bonus. Sanremo misura il tasso di minchioneria che è nell’aria e inscena una serie di carri allegorici: la Vittima Nera, il Trans virtuoso, la Femminista indignata, l’Accoppiata omosex, il Predicatore antimafia, il Menagramo pandemico, il Pugno chiuso, il Blasfemo, la legalizzatrice della droga. Mancava solo Zelensky…

Abbiamo bisogno di verità

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di Marcello Veneziani

Cosa ti manca di più in questi mesi da cittadino, da giornalista e da “pensatore”? La verità. Sì, la verità, questa importuna signorina che sembra troppo antica, troppo perentoria, troppo assoluta per sposarsi e adattarsi al microclima dei nostri giorni, anzi al clima micragnoso e velenoso del presente. La vedo fuggire indignata e ferita dal circo mediatico-politico, rattrappirsi nelle bocche dei politicanti di Palazzo, spegnersi nelle menti degli intellettuali e pervertirsi sulle colonne infami dei giornali. Lo dico per esperienza quotidiana ripensando a troppi fatti recenti, tra pandemia, guerra e crisi economica, energetica e ambientale e che ritrovo esattamente rovesciati nella rappresentazione che ne hanno dato testimoni, attori e narratori. La realtà è una cosa, la rappresentazione dei media è un’altra. La storia è una cosa, la ricostruzione è un’altra. A nulla vale tentare di restituire la verità delle cose, resta solo quel che è sostenuto con mezzi più forti. L’ideologia vince sulla realtà, la ragion politica sulla verità. L’organizzazione sistematica della non-verità, fino al capovolgimento dei fatti e delle responsabilità vince sulla verità: la fiction si insinua anche nella vita e nella comunicazione e risponde a scopi propagandistici, manipolazioni dei fatti. Il falso vale più del vero, anche perché è più duttile e dunque si adatta a chi lo indossa. Chi detiene l’egemonia ideologica dell’informazione ti può far passare per vittima o per censore, per eroe o asservito, indipendentemente dalla verità dei fatti. Se la verità non coincide con i loro interessi ideologici o materiali, tanto peggio per la verità.

Troppo spesso allontanata dai Palazzi, compresi quelli di giustizia, la verità non viene risarcita nelle piazze, nelle case e nei luoghi pubblici e privati della vita odierna; ma anche qui svanisce perché prevale nella quotidianità corrente la simulazione e la dissimulazione, l’apparenza e il travestimento, l’ipocrisia e lo sdoppiamento. Anche il senso comune alla lunga cede alle convenienze. Anzi non c’è un mondo comune, ognuno vede le cose dal suo punto di vista e di utilità. Soggettivismo puro e relativismo. Chi pensa che la fine della verità oggettiva e comune sia l’inizio della libertà e la garanzia della democrazia, rovescia la realtà: senza una verità condivisa e fondata sulla realtà, vince la verità del più forte, fino a che è più forte. Altro che libertà e diritti umani.
E’ il problema più urgente dei nostri anni: la perdita della verità. E la sua subordinazione ad altro: alla volontà di dominio, alla necessità del Fatturato, al primato del Piacere o, più modestamente, della Comodità, alla vittoria del Partito, dell’Apparato o dell’Azienda, comunque del Potere. Non riusciremo più a dialogare se continueremo a disattendere la verità; smetteremo di vivere con gli altri, di condividere sorte e lavoro, vita, amore e morte, se continueremo questa demolizione della verità a scopo d’utile individuale o di parte. E’ stata costruita negli anni la giustificazione scientifica per la perdita della verità: da tempo ormai ci insegnano sin dalle scuole che la verità non esiste; esiste l’interpretazione, l’opinione, il punto di vista. Non c’è una verità che valga per tutti e per sempre, la mia verità diverge dalla tua e muta col mutare del tempo; così relativizzata, la verità viene ridotta ad uso singolo e temporaneo, e quindi sottomessa prima allo sguardo e poi alla volontà del soggetto. Sembra ormai una verità acquisita e indiscutibile che non ci sia una verità oggettiva; ma non è così, credetemi.

C’è una sfera di cose incerte e opinabili ma c’è anche una sfera di cose chiare ed evidenti, senza le quali non riusciremmo a vivere e a comunicare; e nel mezzo c’è una processione infinita di realtà che si avvicinano alla verità, che si incamminano verso di lei. Per vivere, per dialogare, per avere un rapporto con gli altri e per stare al mondo, non possiamo partire che dalle cose certe e vere: la certezza di essere uomini e mortali, in primo luogo, e poi la certezza della nostra identità come ce la disdegna il corpo, l’origine, la provenienza, il luogo in cui siamo nati, le persone da cui proveniamo, il mondo. La certezza dell’esperienza passata, la certezza di aver pronunciato certe parole, di aver assunto certi impegni, di aver compiuto certe scelte: il nostro passato presenterà pure zone d’incertezza dovute alla labilità della memoria, agli inganni delle apparenze e alla opinabilità di alcune cose, ma è anche un luogo di verità e di realtà realmente accadute che non possiamo revocare o relativizzare. Certo è il richiamo della natura, la comune certezza di vedere le cose che vediamo, di sentire le cose che sentiamo. Certo è il presente. I sensi, gli affetti, i bisogni mostrano esperienze reali. Anche quando ci neghiamo alle verità della vita, ne siamo dentro, fino in fondo. Nascere, invecchiare, morire, creare, distruggere non sono illusioni o punti di vista.

Prima della libertà e della giustizia, prima del pluralismo e dei diritti, c’è il riconoscimento della verità. Non è vero che la verità uccida la libertà. I dispotismi del passato non nascevano nel nome della verità ma dall’arroganza soggettiva di chi pretendeva di identificarsi nella verità e decidere in suo nome sugli altri: nessuno incarna la verità, tutti siamo in varia misura dentro la verità, ma nessun essere umano è la verità. I dispotismi e i terrorismi non nascono nemmeno dalla pretesa di rappresentare la verità, ma al contrario dalla distorsione della verità e dalla sua sottomissione ad un Assoluto: il Partito, il Potere, l’Assoluto, la Classe, la Razza, il Paradiso in terra. In nome di una supremazia, la verità viene modificata e cancellata.
La verità attiene alla conoscenza e non alla potenza, è una ricerca e non un monopolio, è un fine e non è un mezzo, e dunque non può essere usata per colpire, ma per sapere. Oggi, dicevamo, viviamo tra pensiero debole e poteri forti: la verità è il suo contrario, un pensiero forte in un corpo fragile.

Dante di destra? È la pena del contrappasso

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di Marcello Veneziani

Ora che avete finito di sganasciarvi dalle risate di scherno e di superiorità per la boutade del ministro dei beni culturali, Gennaro Sangiuliano su Dante Alighieri fondatore del pensiero di destra, proviamo a dire qualcosa di serio.

Si può condividere in pieno, in parte o per niente la sua provocazione, come lui stesso l’ha definita, ma alla fine si è trattato di una ritorsione, ovvero Sangiuliano ha applicato in senso contrario una pratica assai diffusa, soprattutto a sinistra. Anzi, per usare una categoria dantesca, ha usato la pena del “contrappasso”.

Dunque, come si esprime il monopolio ideologico della sinistra sulla cultura quando affronta temi, opere e autori del passato? Lo schema prevalente è il riduzionismo, ovvero tutto viene riportato al presente. Parlano di Gesù Cristo come del primo rivoluzionario della storia, difensore degli ultimi. Parlano di Enea come del primo migrante e profugo di guerra, sbarcato clandestinamente. Parlano delle lotte tra patrizi e plebei come un esempio di lotta di classe. Parlano del tumulto dei ciompi come il debutto della Cgil nel medioevo… Parlano di san Francesco come un profeta dell’uguaglianza, un difensore dei poveri e un nemico delle gerarchie, e gli affiancano per rispettare le quote e la parità dei sessi, Santa Chiara, come se fosse una femminista ante litteram. Non c’è opera lirica o dramma teatrale che oggi non venga rappresentato con l’allusione all’oggi, travestito nel presente, su tematiche del politically correct di oggi: i migranti, i transgender, l’antifascismo. Ci sono nazisti pure nella tragedia greca. E nella lotta politica, nel 1948, i socialcomunisti trascinarono perfino Garibaldi come simbolo del Fronte popolare, loro che erano stalinisti e lui che difendeva al patria e la libertà.

Tutto viene ridotto al presente, o nei più colti diventa una metafora allusiva del presente. Dal ’68 in poi, a scuola e ovunque, per misurare il valore e la grandezza di un autore si pesa la sua attualità: ricordo menate indecorose proprio su Dante per tirarlo nell’attualità o per dannarlo col metro dell’inattualità. Dire che Dante sia il fondatore del pensiero di destra è l’applicazione coerente, e forse inconsapevole, di quello schema ideologico retroattivo.

Mi pare perfino ovvio obiettare che destra e sinistra sono categorie moderne, mentre Dante è in tutto medievale e i classici vanno preservati i dagli usi e gli abusi di chi li costringe nel letto di Procuste del presente. Ma se serve a denunciare l’immiserimento dei grandi nelle gabbiette del nostro tempo, allora il paragone è utile, anzi didattico. E poi, se è sbagliato abbassare il Sommo Poeta al nostro oggi, è invece lodevole tentare di innalzare la bassezza dell’oggi a una dignità superiore. Dopo tante ricerche affannose e ridicole dei pantheon d’autori, per rivendicare, dantescamente, “chi fuor li maggior tui” ovvero chi sono i padri nobiii a cui riferirsi, partire da Dante significa perlomeno guardare in alto. E liberare il pensiero di destra dal tentativo altrui di ricacciare le sue radici nel fascismo. Chi ama la tradizione viene da più lontano.

Mi sono occupato a lungo del pensiero di destra e a Dante ho dedicato vari scritti e un libro. Mai ho sostenuto che Dante fosse il padre della destra, l’ho definito “nostro padre” riferendomi a noi italiani. Per dirla in breve, in un suo intervento sul Corriere della sera, Sangiuliano citava dal mio libro questo passo: “La fonte principale, più alta e vera della nostra identità è Dante Alighieri. A lui dobbiamo la lingua, il racconto, la matrice, la visione. L’Italia intesa più che nazione, come civiltà”. La nostra identità, intendevo, di noi italiani.

Dante è trascinato nell’attualità da almeno due secoli. Anzi, la riscoperta di Dante la dobbiamo proprio all’uso di Dante nella vicenda risorgimentale. Dopo l’uso che ne fece il Risorgimento, Dante fu usato per dare un fondamento all’Italia unita, col pullulare di monumenti e toponimi danteschi e la nascita della società Dante Alighieri. Il fascismo fece largo uso della “vision de l’Alighieri”, come cantava Giovinezza nella versione fascista. Lo faceva avvalendosi di letture carducciane e dannunziane, dei saggi di Giovanni Gentile e di altri eminenti studiosi, che non trascinavano Dante nell’attualità ma elevavano il momento storico e l’idea fascista al rango dell’ispirazione dantesca. E Dante si prestava ai fascisti, ai carducciani, ai risorgimentali? Lui no, naturalmente, ma ciò che aveva detto e fatto poteva prestarsi a quella lettura, nel nome dell’amor patrio e della civiltà, della nostalgia del sacro romano impero, della passione per la romanità e per la fierezza, per l’avversione ai mercanti e all’usura, alla “gente nova e i subiti guadagni che orgoglio e dismisura han generato”. Per questo, citavo nel mio libro, Sanguineti lo reputò un reazionario e Umberto Eco lo definì “un intellettuale di destra”, sottolineando che predicava il ritorno all’Impero mentre fiorivano i liberi comuni. E Giorgio Almirante, appassionato di Dante, lo citava sempre in parlamento e nei comizi, a memoria, e a lui si richiamava più che a ogni altro autore o pensatore.

Dunque? Dante è universale e universale resta. Dante è eterno e non è di questo o di quel tempo. Dante è grandissimo poeta, ma anche pensatore e scrittore civile, e pur vivendo e scontando le sue passioni politiche, fino alla faziosità più sanguigna, non si può ridurre a questa o a quella fazione attuale. Però ora capite meglio che succede quando si piega la storia e la letteratura al nostro oggi. Perciò non atteggiatevi a superiori, voi danteggiatori di sinistra, perché ogni giorno tacete sulla forzata attualizzazione di storie e autori.

Quanto a Dante, non s’è crucciato, vede le cose da lontano e dall’alto per indignarsi. Ne ha passate troppe nei secoli per arrabbiarsi di un’innocua richiesta di affiliazione. I grandi autori sono come fontane aperte ai viandanti, notava Nietzsche ne la Gaia Scienza, ciascuno si abbevera come vuole, “i ragazzi la sporcano coi propri pastrocchi” e altri passanti la intorbidano, gettandovi la loro attualità; ma noi siamo profondi e “diventiamo di nuovo limpidi”.

La Verità – 18 gennaio 2023

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/dante-di-destra-e-la-pena-del-contrappasso/

Il ritorno del padre e della madre

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di Marcello veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Con l’anno neonato verranno ripristinati il padre e la madre, rispetto alle loro controfigure fluide, genitore 1 e genitore 2, che ne avevano usurpato il posto per dare priorità alle coppie omosessuali. Per “includere” poche centinaia di coppie dello stesso sesso, con prole adottata, si voleva escludere dal gergo burocratico e di riflesso dal lessico “corretto”, il nome del padre e della madre. Sostituiti con quel grottesco e neutrale riferimento alla genitorialità, differenziata solo dal numeretto, come le file alla posta e dal salumiere: Genitore 1 e genitore 2, dove paradossalmente si faceva una peggiore discriminazione di genere, se assegnavi per esempio al padre il numero 1 e relegavi la madre nel ruolo secondario di numero 2; e lo stesse valeva se il criterio si fosse applicato all’inverso, comunque un’inaccettabile gerarchia ai fini della parità dei diritti.
Quella diversa designazione dei genitori sulla carta d’identità, applaudita dalla sinistra, aveva trovato conferma in una sentenza del tribunale di Roma che nello scorso novembre aveva riammesso la dicitura genitore 1/genitore 2, già propagata anche in altri ambiti “sensibili”, come le scuole, e ambiva sostituire in modo definitivo le denominazioni di sempre, padre e madre. Non più onora il padre e la madre, ma ometti il padre e la madre.
La definizione sostitutiva di genitore 1 e genitore 2 era stata già introdotta in precedenza. Un decreto Salvini del 2019, quando era Ministro dell’Interno, aveva ripristinato il riferimento al padre e alla madre. La sentenza recente aveva invece riportato la dicitura neutrale.
Ma il ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha annunciato che la dicitura corrente sulle carte d’identità e sui documenti pubblici, non si adeguerà a quella sentenza, che ha valore individuale, cioè vale solo per la singola coppia che ha fatto ricorso. Il sottinteso è che chiunque voglia rifiutare la denominazione tradizionale, tra le coppie dello stesso sesso, dovrà fare ricorso e ottenere il riconoscimento; ben sapendo che la decisione si applicherà solo nel suo caso, non farà giurisprudenza né sistema. Come è giusto, altrimenti il potere legislativo passerebbe definitivamente al potere giudiziario: le leggi sarebbero fatte o corrette dai giudici e non più dal Parlamento, espressione del popolo sovrano nel rispetto della separazione dei poteri, tra esecutivo, legislativo e giudiziario.
Le organizzazioni gay insorgono perché ricorrere ai giudici per ottenere la dizione neutra significherebbe perdere tempo e denaro; ma l’obiezione chiara ed elementare è che non si può cancellare la paternità o la maternità per riconoscere l’omogenitorialità. Anzi, l’ipotesi che si possa richiedere un diverso riconoscimento giuridico preserva la libertà dei singoli e sancisce un buon equilibrio tra diritti privati, individuali, e diritto pubblico e universale. Per semplificare, il diritto privato non può prevaricare sul diritto pubblico, modificarlo e imporre che il secondo si adegui al primo. Ma i movimenti omotrans annunciano class action e confidano nella Commissione Ue che sta approvando un regolamento filo-gay e anti-famiglia tradizionale a cui gli Stati nazionali dovrebbero conformarsi. E magari studiano in alternativa il ricorso alla Corte europea dei diritti umani, che come è noto e come dimostrano non pochi suoi pronunciamenti, svolge ormai una funzione di correzione ideologica nel segno del politically correct, scavalcando i tribunali e i canoni giuridici nazionali.
Insomma, la partita è aperta, e probabilmente assisteremo a conflitti, rovesciamenti, sballottamenti che alla fine non sono solo giuridici, formali, burocratici ma incidono sulla visione reale dei rapporti famigliari e genitoriali. Si fronteggiano due visioni opposte: una fondata sulla natura, la tradizione, la realtà di sempre; l’altra sull’ideologia, la correzione della realtà, il predominio di una sparuta minoranza sulla larga maggioranza delle famiglie.
Ma per una volta soffermiamoci sul significato simbolico di questo “ritorno del padre e della madre” seppure nel linguaggio formale della legge.
Certo, la crisi della famiglia, della figura paterna e materna, non vengono certo attenuate da un cambio di dizione formale; così come la dicitura imposta dalla legge di genitore 1 e genitore 2, non modificava certo l’uso nel linguaggio corrente del riferimento alla mamma e al papà. È inimmaginabile pensare che la prima parola pronunciata da un lattante non sia un monosillabo riferito alla mamma (o al babbo) ma un vago riferimento a genitore uno o due. Il linguaggio della natura, degli istinti e di una tradizione che si è fatta quasi corredo genetico, non può essere surrogato da un lessico finto, artificiale, burocratico. E penso che la stessa cosa valga anche per i bambini adottati dalle coppie omosessuali.
Resta però vero che per restituire vitalità al ruolo paterno e materno, da qualche parte bisogna pur cominciare. E riconoscere già la parola è comunque un primo segnale. Dopo le parole magari verranno i fatti. In ogni caso, è più difficile ripensare alla paternità e alla maternità se già la loro denominazione è cancellata, rimossa, negli atti pubblici, nei tribunali, negli uffici comunali e nelle scuole. Intanto Le Sezioni Unite della Cassazione, hanno ribadito in una sentenza che la maternità surrogata – anche laddove avvenga in forma gratuita ‒ è sempre da considerarsi una pratica “che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. Una bella svolta.
Il sottinteso che il concepimento, la gravidanza e il parto, il legame di sangue, l’eredità genetica siano irrilevanti, è un’erosione progressiva e malefica del naturale e affettivo legame tra un padre, una madre, un figlio e una figlia, con tutto ciò che ne deriva.  Adeguiamo la legge e il suo linguaggio alla natura, alla civiltà e alla realtà di sempre.

Cancellate il Natale, abortite Gesù, ce lo chiede l’Europa

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Il Natale è cancellato, Gesù è abortito, e la Corte europea per i diritti dell’uomo acconsente, anzi risarcisce colei che aveva profanato la Chiesa urinando sui gradini dell’altare. D’ora in poi, seguendo le direttive dell’Europa e della sua corte suprema, anziché celebrare la Nascita di Gesù Bambino, faremo meglio a celebrarne l’aborto, nel nome dei diritti della donna. E la cancellazione del Natale, grado supremo della cancel culture, con il patrocinio della massima corte europea.

Se dovessi riassumere il senso peggiore del nostro tempo, e racchiudere in un episodio lo spirito capovolto con cui si compendia il corrente e morente anno 2022 alle porte di Natale, dovrei risalire a quell’episodio accaduto in Francia e conclusosi davanti alla corte europea. Dunque, in un infausto giorno del 2013 (lo stesso anno maledetto in cui uno scrittore, Dominique Venner, si suicidò in Notre Dame), una donna in topless, Eloise Bouton, fece irruzione nella chiesa della Madeleine a Parigi, con la scritta sulle spalle “Il Natale è cancellato” e dopo aver mimato l’aborto di Gesù bambino, concluse la sua performance urinando sui gradini dell’altare. I tribunali francesi avevano condannato l’attivista femminista e abortista a una pena pecuniaria e detentiva. Ma la Corte europea dei diritti umani, lo scorso 13 ottobre, ha ribaltato la sentenza del tribunale francese e dopo aver riconosciuto il proposito della donna come “molto nobile” e prezioso per i diritti delle donne, in particolare sul diritto all’aborto, ha “condannato” la Francia a pagare circa 10mila euro per danni morali, e sottolineo morali, più spese legali. Risarcita ed elogiata, con tante scuse dell’Europa.

In verità la stessa corte europea, in sigla CEDU, si era pronunciata in precedenza in modo assai diverso, anzi opposto: una donna aveva equiparato il rapporto sessuale di Maometto con Aicha che aveva allora nove anni, a una forma di pedofilia. La Corte in quel caso riconobbe colpevole la donna di “dolosa violazione dello spirito di tolleranza” perché alimentava un pregiudizio che attentava alla pace religiosa. E la condannò a una pena detentiva e pecuniaria. Fateci capire: se si profana una Chiesa, si urina sull’altare, si inneggia all’aborto di Gesù, è libertà di espressione e merita un elogio; si è invece deplorati e condannati se s’insinua che Maometto il profeta dell’Islam, fu pedofilo (affermazione sconveniente, ne convengo, e non solo perché ferisce credenti islamici ma non tiene conto della differenza di tempi e luoghi, di culture, storie e religioni). Un paese e un continente per millenni cristiano, unito dalla civiltà cristiana, assolve chi profana in Chiesa Gesù Cristo e condanna chi in luogo laico offende la suscettibilità degli islamici. Ma che mondo è?

Torno ai nostri giorni, e paragono questa sentenza assolutoria all’esemplare condanna del tifoso che davanti alle telecamere dette addirittura una pacca sulle chiappe di una giornalista sportiva davanti allo stadio di Empoli: un anno e mezzo di detenzione, diecimila euro di risarcimento alla giornalista offesa e perfino 5mila euro all’ordine dei giornalisti che si era costituito parte civile. E’ un altro tribunale, ma il paragone viene spontaneo: pensate, una pacca sui glutei è peccato mortale e reato atroce mentre la profanazione di una Chiesa, di una Religione, della figura di Gesù Cristo, del Santo Natale, con una serie di atti osceni in luogo sacro, è libertà d’espressione e diritto inviolabile. Capite in quali mani siamo noi europei, a quale Corte sono affidati i Diritti Umani?

E’ un episodio, direte, ma mi sembra il simbolo più rappresentativo, alle soglie di Natale, dello spirito dell’epoca: la giustizia europea è intollerante se trasgredisci al catechismo politicamente corretto ma è compiacente e garantista se profani la religione che ha permeato per millenni la nostra civiltà, che è ancora seguita da milioni di fedeli, che è alle origini perfino degli stessi diritti umani, del rispetto sacro della persona e della vita umana, della solidarietà e della carità…

Con un precedente del genere sarà difficile nella giurisprudenza europea tornare alla realtà, ai principi e al diritto come l’abbiamo conosciuto nei secoli. Ad aggravare la situazione è il silenzio dei media, la rara o inesistente d’indignazione, il freddo e neutrale sguardo da cronisti con cui si è freddamente annotato e archiviato la sentenza.

Tornando alla sentenza natalizia, è spiegato che “lo scopo dell’esibizione a seno nudo” della manifestante, “organizzata secondo le procedure previste dal movimento Femen, era quello di trasmettere in un luogo di culto simbolico, un messaggio relativo a un dibattito pubblico e sociale sulla posizione della Chiesa cattolica su una questione delicata e controversa, ossia il diritto delle donne di avere il libero controllo sul proprio corpo, compreso il diritto d’abortire”. Capite? Avendo applicato la protesta a Gesù bambino, è conseguente il rimprovero alla Madonna di aver accettato, senza batter ciglio, un figlio non voluto e non procreato in una relazione umana, mentre avrebbe dovuto chiamare i gendarmi all’apparizione dell’angelo molestatore, che annunciava la nascita e avrebbe dovuto sporgere denuncia contro Ignoti perché lo Spirito Santo l’aveva ingravidata violando “il libero controllo del proprio corpo”.

Dunque se dobbiamo attenerci fedelmente e scrupolosamente alle direttive europee, quando tornate a casa, trasformate il presepe della Natività in una manifestazione multietnica in favore della libertà di abortire. Celebrate la nascita dell’aborto più che del Bambinello, e vergognatevi della civiltà cristiana, perché se al posto della Natività avesse sancito il Diritto d’Aborto, avremmo un Gesù Cristo in meno nella storia del mondo e duemila anni di diritti della donna in più. E il bue e l’asinello non più costretti dalla bestia umana a star lì a sfiatarsi per giorni e giorni…

La Verità – 22 dicembre 2022

Il deserto occidentale a colpi di Oscar e Nobel

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Che noia, che nausea dover ancora parlare del politically correct e dei suoi effetti che si abbattono inesorabili nella vita civile e culturale d’occidente. “Siamo stanchi di parlar male di questa cosa, ma questa cosa non si stanca di esistere” diceva Michel Houellebecq: infatti a conferma di quel che diceva, ha perso il Nobel assegnato invece all’autrice politically correct, Annie Ernaux, con una motivazione espressamente ideologica, come del resto la sua dichiarazione seguente.
Puntuale come la morte, il politically correct non risparmia l’arte, il cinema e la letteratura, è il giurato supremo e decisivo dei festival, degli oscar e dei nobel, che è la più grande fabbrica di Falsi Autori che ci sia al mondo, ma da decenni. Una volta ci divertimmo a censire il Novecento letterario: gran parte dei grandi del secolo non sono stati premiati dal Nobel e gran parte dei premiati sono spariti nell’oblio perché erano meteore minori, inconsistenti rappresentanti di “cause” etniche, gender e ideologiche, senza un loro peso specifico. Ma non vorrei ripetere cose già scritte e rivendicare rivincite e rivalse per i discriminati. C’è da notare una cosa più grave e più sconfortante: che deserto lascerà agli occhi dei posteri il busto correttivo, la maschera ipocrita del Politically correct? Col passare degli anni quanti autori grandi ma rimasti poco conosciuti, marginali, evitati, non tradotti, verranno cancellati perché di loro non sarà rimasto traccia in nessun premio Nobel, in nessun riconoscimento pubblico, in nessun paradiso degli autori? Chi riscoprirà con pietà, giustizia e senso critico la loro grandezza? Nel novecento, accanto alle storie ufficiali scritte a colpi di premi nobel e di altri riconoscimenti istituzionali, sussisteva ancora la possibilità di sopravvivere alla negazione: benché pubblicamente deprecati Céline e Pound, Junger e Mishima, D’Annunzio e tanti altri autori, restano nonostante l’ostracismo. Perché s’intrecciavano alla storia controversa, perché furono riconosciuti grandi dai loro contemporanei, anche da quelli a loro ostili, perché in epoca di furenti ideologie si attaccavano le sue idee, ma non si negava la loro esistenza.
Oggi invece, tutto è appiattito e velocemente dimenticato, si può passare inosservati, perfino Proust o Kraus sarebbero obliati l’uno per razzismo e l’altro per misoginia. Cosa resterà della letteratura, dell’arte, della filosofia, se gli annali ricorderanno solo i palloni gonfiati e i premiati, detentori di cariche pubbliche o di omaggi istituzionali, purché conformi e devoti al politically correct? Resterà una landa desolata in una società imbarbarita, con l’intelligenza atrofizzata. Certo, qualcuno tra i premiati magari sarà meritevole di lode e di lettura, anche se la motivazione del premio è la sua conformità ideologica; e qualcuno tra i dimenticati si rifarà con il mercato o con qualche vicenda eccezionale che lo porterà alla ribalta, nonostante la sua cancellazione.
Ma quel codice di conformismo schiaccia col rullo compressore ogni altezza non conforme, peggio di un regime autoritario e addirittura di un sistema totalitario. I dissidenti russi, in fondo, sopravvissero alla dannazione.
Gli ingenui pensavano che stavolta sarebbe stato premiato Michel Houellebecq. Ma chi ha solo annusato le sue opere, da Particelle elementari a Sottomissione e Piattaforma, sapeva che sarebbe stato impossibile. Per capire come la pensa l’ispido autore francese, vi invito a leggere Interventi, uscito ora da La Nave di Teseo. Dove ci sono scorci di grande letteratura – penso a Opera Bianca, per esempio – ma soprattutto scritti e interviste taglienti sul nostro tempo. Chi avrebbe scelto il Nobel tra una femminista militante del MeToo e uno scrittore che definisce le femministe “amabili stronze” dai risultati desolanti, che, come Valerie Solanas, hanno un disprezzo “infinito, assoluto illimitato per la natura”? Si può premiare un autore che definisce l’Islam la religione più stupida, fondata sulla sottomissione e ritiene l’integralismo islamico perfettamente coerente al Corano? Si può accettare un’analisi sociale che reputa il malessere odierno frutto del mix tra consumismo, sfrenatezza dei desideri e influenza della cultura di sinistra, anzi i misfatti della “feccia goscista”? L’egemonia della sinistra nella cultura dura dal ’45, fa notare, e il suo impegno politico ha prodotto una grave “imbarbarimento”. Houellebecq critica il nichilismo occidentale, denuncia la decrepitezza degli States sotto l’apparenza di una energia febbrile, disprezza gli occidentali che hanno paura di riconoscere la superiorità della loro civiltà. Critica infine l’individualismo notando che “L’io occupa il campo da cinque secoli; è venuto il momento di cambiare direzione”. Si autodefinisce conservatore e reputa che l’uomo non “sia fatto per vivere in un mondo in costante mutazione”. E non risparmia nemmeno il Nobel per il premio preventivo per la pace dato a Obama, mentre elogia Trump, “uno dei migliori presidenti che l’America abbia avuto”, mentre ritiene che “l’Europa non esiste, e non rappresenterà mai un unico popolo”. Anche sulla Chiesa Houellebecq ritiene, come Ratzinger, che debba rompere col relativismo, non diventare una ONG, vagamente caritatevole, non competere col cinema o i concerti ma svolgere la sua missione, “annunciare Dio e condurre gli uomini alla vita eterna”. In tema di migranti clandestini, arriva perfino a difendere Salvini come ministro dell’interno…
A chi gli faceva notare la scomparsa del suo nome dalla liste del premio Gouncourt dell’Académie francaise, per ragioni ideologiche, Houllebecq rispondeva: “La cosa terribile è che si sia arrivati al punto di non poter più dire niente. Il politicamente corretto “rende inaccettabile la quasi totalità della filosofia occidentale. Sempre più cose diventano impossibili da pensare. E’ spaventoso”. Si, spaventoso, stiamo atrofizzando la libertà, la dignità e l’intelligenza.

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