L’età dell’impotenza

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Il ghiacciaio si scioglie e genera una tragedia sui monti, sulla Marmolada. Il clima impazzisce e genera disastri atmosferici nel pianeta. Il contagio del covid riprende a correre per il terzo anno. In Ucraina la guerra continua e nessuno riesce a fermarla. E aspettiamo la solita, inevitabile catena di incendi d’estate, che di solito partono da errori o colpe ma si ripetono sempre, e non c’è efficace prevenzione e dissuasione.
Per completare il quadro e aggiungere benzina sul fuoco, non c’è giorno che la follia di un uomo non si scateni su vittime innocenti, dagli Stati Uniti al mondo. I sistemi di sorveglianza e controllo nulla possono davanti all’imprevedibile follia, alla malvagità senza movente. Si pensa che il rimedio sia solo vietare le armi, e può essere un mezzo per limitare le occasioni e il numero delle vittime, ma non estirpa certo il male.
Eventi disparati, atmosferici, sanitari, storici, delitti ambientali, umane follie ma che rivelano una cosa: siamo entrati nell’Età dell’Impotenza. Qualcuno dirà che siamo rientrati nell’Età dell’Impotenza e altri, più accorti, diranno che in realtà non ne siamo mai usciti. Da sempre ci dominano fattori ingovernabili, che un tempo chiamavano Sorte, Fato, Necessità. E ad essi si aggiunge il fattore ineliminabile che potremmo definire con tono biblico malvagità, umana o non solo. Ma quel che più colpisce è la percezione della nostra Impotenza rispetto agli accadimenti, in un’epoca che invece è culturalmente dominata dalla Volontà di Potenza e dai desideri illimitati. Ci hanno allevato alla libertà e ai diritti come principi assoluti, ci hanno insegnato che la modernità si distingue dall’antichità perché l’uomo domina e non subisce il destino e gli eventi, e invece ecco rivelata tutta la nostra impotenza. In che senso nostra? In senso personale, prima di tutto. Poi in senso sociale. Nulla possiamo da soli, ma anche insieme, pur essendo preziosa la solidarietà e pure il conforto comunitario. Ma anche riferita agli Stati, al Potere delle Istituzioni, della Scienza, della Tecnica, della Terapia, la condizione impotente non cambia. Nessuno riesce a fermare queste emergenze, e non dico solo quelle impreviste, ma anche – e soprattutto – quelle previste, annunciate da tempo o temute da anni. Non c’è possibilità di prevenzione, non ci sono protocolli e misure per frenare e nemmeno per rispondere agli eventi che si abbattono su di noi. I vaccini non bastano, o forse non servono, si insinua perfino il dubbio che siano la principale causa delle varianti e della ripresa dei contagi. Ovvero il rimedio non frena o estingue il male, e forse addirittura lo provoca (senza considerare gli inquietanti e rimossi effetti collaterali). I discorsi sull’ecosostenibilità, sul riscaldamento del pianeta, sul tracollo climatico sono montagne di parole che partoriscono topolini, impotenti rispetto al funesto evento di un ghiacciaio che si scioglie e trascina gli uomini nella rovina. Grandi mobilitazioni, piccoli risultati. Anche perché per sperare di ottenere risultati sensibili, ammesso che si sia ancora in tempo, si dovrebbe rimettere radicalmente in discussione il modello di società in cui viviamo. Non solo arrestare lo sviluppo, ma arretrare perfino. Anche i più scalmanati sostenitori della svolta ambientalista non riuscirebbero ad accettare le implicazioni e le limitazioni enormi al nostro attuale modo di vivere.
Vanamente i media, i poteri, cercano di colpevolizzare i popoli e i cittadini, e quasi scaricare sulla loro incuria e refrattarietà a seguire i protocolli di sicurezza, se la pandemia riprende, se la terra impazzisce, se accadono incendi e se non si sopportano le conseguenze delle misure per dissuadere i malvagi e i guerrafondai. In realtà la responsabilità dei singoli è morale più che reale. Il raggio d’incidenza dei singoli comportamenti è quasi impercettibile. E comunque agisce in minima misura sugli effetti ma è del tutto inerme rispetto alle cause, ai processi in corso, alle minacce incombenti. Il senso di impotenza scatena inevitabilmente l’ansia fino all’angoscia che non è uno stato provvisorio, limitato nel tempo e alle circostanze, ma coinvolge interamente la nostra mente, la nostra persona e il nostro tempo presente e futuro. L’ansia ci avverte di un pericolo, l’angoscia ci dice che non c’è scampo. Dunque, lo stato dell’angoscia è legato alla percezione dell’impotenza. Che è poi il senso proprio della tragedia, dove non c’è rimedio, non c’è via d’uscita. È l’età dell’Impotenza.
Ma si può vivere con questa spada di Damocle pendente sulle nostre teste, si può essere cittadini leali e osservanti delle norme se il potere non ci garantisce la prima delle fonti su cui sorge lo Stato, ossia la sicurezza o l’argine alla paura? Ecco il pericolo che si aggiunge a quelli legati agli eventi: che si possa allentare o sciogliere il patto su cui regge l’alleanza tra potere e popolo, tra governanti e governati, visto che gli Stati non garantiscono effettivi argini ai cataclismi e alle tragedie. E allora, non ci resta che convivere con la catastrofe? Dobbiamo comunque reagire, prevenire, aumentare la soglia di attenzione e di sicurezza, ma dobbiamo cambiare mentalità. L’uomo non è il signore dell’universo, la nostra vita non è assoluta e permanente, ricacciamo la volontà di potenza e i desideri illimitati, recuperiamo il senso del limite, accettiamo il nostro destino con amor fati. Siamo fragili, mortali, esposti al pericolo. Solo un dio ci può salvare. O peggio, solo un dio si può salvare.

L’Occidente si è ristretto

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Qualunque sia il giudizio sulla guerra in Ucraina e qualunque sarà l’esito della rovinosa crisi che sconvolge il mondo, possiamo già dire una cosa: è profondamente sbagliato continuare a credere che l’Occidente sia il mondo e che i suoi modelli, i suoi canoni, le sue linee siano la guida del pianeta.
I governi euro-atlantici e l’industria dell’informazione prefabbricata – che lavorano da noi a pieno regime come le macchine propagandistiche dei regimi autocratici e dispotici – ci hanno dato in questi mesi una falsa rappresentazione della realtà: Putin isolato, la Russia contro tutti. La realtà, invece, è ben diversa: i quattro quinti del mondo, e anche di più se ci riferiamo al piano demografico, non hanno adottato alcuna sanzione, alcuna condanna nei confronti della Russia di Putin. Gigantesche democrazie come l’India, potenti Stati totalitari come la Cina, grandi nazioni islamiche come l’Iran, interi continenti come l’Asia e l’Africa, con poche eccezioni, non hanno condiviso il piano di controguerra, minacce e ritorsioni della Nato e dell’Amministrazione Biden degli Stati Uniti. Solo l’Europa s’è accodata, e in alcuni paesi di malavoglia, frenando o cercando di stabilire una doppia linea.
Fino a ieri pensavamo che globalizzazione volesse dire occidentalizzazione del mondo, se non americanizzazione del pianeta: e sicuramente per molti anni questa identificazione ha largamente funzionato, la globalizzazione era l’estensione planetaria di modelli, prodotti, stili di vita, forme politiche ed economiche occidentali. Ma ora si deve onestamente riconoscere che non è più così. E non aveva avuto torto Donald Trump a cambiare direzione di marcia agli Stati Uniti: se globalizzazione oggi vuol dire espansione commerciale e politica della Cina e del sud est asiatico, e non più egemonia americana, meglio mutare registro, giocare in difesa, concentrarsi sul proprio paese e avviare una politica di protezione delle proprie merci per tutelarle dal selvaggio mercato globale e dalla sua crescente inflessione cinese.
L’Occidente si è ristretto, e il ritrovato filo-atlantismo dell’Europa e in particolare dell’Italia, suona davvero anacronistico, come l’accorrere sotto l’ombrello della Nato, come se fosse la Salvezza del Mondo. Che la Nato ci protegga dalle minacce altrui è vero almeno quanto il suo contrario: che con le sue posizioni e pretese egemoniche, ci espone a conflitti e ritorsioni. Lo provano del resto i numerosi conflitti a cui la Nato ha partecipato in questi decenni di “pace”, i numerosi bombardamenti effettuati su popolazioni e paesi ritenuti criminali, la mobilitazione periodica di apparati militari.
Ma usciamo dal frangente della guerra in corso, e usciamo pure dalle considerazioni pratico-commerciali sulla globalizzazione deviata, che ha cambiato egida e direzione di marcia. Affrontiamo il tema sul piano dei principi, degli orientamenti di fondo e delle visioni del mondo: il punto di vista occidentale, il modello culturale e ideologico d’Occidente, i temi dei diritti umani e dei diritti civili, agitati in Occidente, non sono più la chiave del mondo. Della spinta occidentale verso la globalizzazione sono rimasti due grandi strumenti, la Tecnologia e il Mercato, ma non s’identificano più con l’Occidente; sono due mezzi e sono stati trasferiti in contesti sociali e culturali differenti, cinesi, giapponesi, coreani, indiani, asiatici in generale. Anche i due antefatti della globalizzazione non hanno più una precisa matrice universalistica e imperialistica di tipo occidentale: vale a dire la colonizzazione del mondo, grazie alle imprese militari, e l’evangelizzazione del mondo, grazie alle missioni religiose. Oggi gli apparati bellici più aggressivi non sono patrimonio esclusivo dell’Occidente. E la missione di convertire i popoli e portare il cristianesimo ovunque, si affievolisce, ottiene risultati fortemente minoritari, subisce ritorsioni e persecuzioni in tutto il mondo; per non dire della massiccia offensiva islamica. E altrove patisce l’impermeabilità, la refrattarietà di molte società provenienti da altre culture e tradizioni. Il cristianesimo tramonta in Occidente ma non attecchisce più massicciamente nel resto del mondo.
L’Occidente è la parte e non il tutto, si è come rimpicciolito; l’America non è più culturalmente la guida del pianeta, oltre che il guardiano del mondo e l’Impero del Bene, pur disponendo ancora di apparati culturali, commerciali e militari di tutto riguardo. L’Europa è un vecchio ospizio, dove ci sono le popolazioni più anziane del pianeta (col Giappone e gli Stati Uniti), dove la denatalità è forte, e dove la popolazione complessiva sta riducendosi addirittura alla ventesima parte del pianeta o poco più.
Insomma, abituiamoci a pensare in futuro che l’Occidente non sia il Signore del Mondo, il Faro dell’Umanità, ma solo una delle sue opzioni. E abituiamoci a temere che il mondo rimpiazzi l’egemonia occidentale con l’egemonia cinese, l’importazione di merci, modelli e mentalità dalla Cina e dalla sua inquietante miscela di capitalismo e comunismo, dirigismo e controllo capillare. Auguriamoci invece che il mondo riprenda la sua pluralità di civiltà e di culture, che risalgono almeno a una decina di aree omogenee, di spazi differenziati: la Cina e il sud est asiatico, l’India e il Giappone, l’Africa e il Medio Oriente, l’Australia, la Russia. E l’Occidente sia ormai una categoria forzata e obsoleta, perché è più realistico vederlo distinto tra Stati Uniti (e Canada), Europa e America latina. Accettare un mondo plurale, multipolare, diviso in quegli spazi vitali di cui scrisse Carl Schmitt e la miglior geopolitica, e di recente Samuel Hungtinton, è il modo migliore di accettare la realtà e rigettare ogni mira egemonica ed espansionistica. Ciò non ci ripara da guerre, soprusi e pretese; ma perlomeno parte dal riconoscere con realismo l’equilibrio delle differenze.

(Il Borghese, giugno)

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Neurovision

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Che succede se in ogni gara o selezione non vengono premiati i migliori ma chi rappresenta un popolo colpito o una minoranza offesa?

C’è un Mostro travestito di Bontà che si aggira nel mondo occidentale e rischia di alterare la realtà e la verità. E’ un mostro che sostituisce la vita reale col moralismo correttivo; l’intelligenza, il valore, la bellezza, l’eccellenza con la retorica del vittimismo. Ne abbiamo avuto un esempio recente. Il trionfo della canzone ucraina all’Eurovision, in seguito a una richiesta di Zelensky, è l’effetto di una tendenza che serpeggia da tempo nel mondo dello sport, dello spettacolo, del cinema, della cultura e della letteratura, fino a propagarsi nella scuola e nella vita. Investe le competizioni, le gare, i premi letterari. E’ la sostituzione dell’eccellenza con l’emergenza, della bravura con la solidarietà, del Migliore con la Vittima, del Competere col Compatire. Finisce lo spirito della sfida e lo sprone a dare il meglio di sé: l’importante è partecipare perché a vincere sarà comunque la vittima del momento, secondo i canoni umanitari del politically correct. Naturalmente non si verifica la stessa mobilitazione per tante altre tragedie che si sono consumate in questi anni. Quanti premi e quanti campionati avrebbero dovuto vincere i paesi invasi e le popolazioni massacrate e bombardate nel mondo?

Immaginate cosa accadrebbe se alle Olimpiadi, ai Mondiali di Calcio, di Tennis o di qualunque altro sport, al Giro d’Italia, ma anche ai festival del cinema, del teatro, della canzone, ai premi letterari, non vincessero i migliori, i più meritevoli, i più forti, ma il riconoscimento fosse assegnato alle nazioni invase, agli atleti che hanno patito violenza, fame e sofferenza, agli scrittori disabili o agli artisti di paesi dove ci sono genocidi, agli attori, ai cantanti o alle miss che provengono da paesi sinistrati, che hanno subito sopraffazioni, eccidi, terremoti, calamità di ogni genere, miseria inclusa. Il criterio umanitario applicato ovunque produce mostri e uccide gli ambiti a cui si applica. E quel criterio minaccia pure la scuola, l’università, il mondo del lavoro: il riconoscimento non deve più andare a chi esprime il meglio, ma a chi se la passa peggio; non a chi ha meritato per il suo impegno e le sue capacità ma a chi è ritenuto vittima di qualcosa, di una guerra o di una discriminazione, vera o presunta.

Se si sa già in anticipo chi premiare per ragioni umanitarie, che senso ha gareggiare, cercare di dare il meglio, raggiungere primati, battere avversari, se poi non viene riconosciuto alcun talento ma tutto è prestabilito a tavolino in nome della solidarietà?

Qualcuno dirà che comunque nel caso dell’Eurovision ha votato una giuria popolare: ammesso che il voto elettronico sia davvero attendibile, ammesso pure che non sia manipolabile, ammesso perfino che non vi siano pressioni psicologiche o d’altro tipo per incanalare verso quella scelta, il problema non cambia. Se in qualunque competizione prevalgono motivazioni estranee al campo di gioco, è finita ogni gara, ogni premio, ogni campionato. Finiremo col premiare solo i danneggiati, gli emarginati, i discriminati, allora addio gara e addio riconoscimento a chi vince sul campo. Già da tempo ormai una corsia preferenziale, un trattamento privilegiato è assegnato al Nero, alla Donna, al Gay, al Migrante,e via dicendo; ancor più se accede allo statuto di vittima di violenze, abusi, ingiustizie. La bravura conta sempre meno, la qualità è sottoposta alla correttezza etica.

Quando ho scritto un tweet sulla vittoria “corretta” dell’Ucraina all’Eurovision, il presidente della Regione Emilia-Romagna, il piddino Stefano Bonaccini, è insorto dicendo che in Ucraina ci sono migliaia di vittime e di profughi, e dunque è doverosa la solidarietà. Non ha capito o ha finto di non capire che non si tratta di dimenticare i fatti tragici di questi giorni e nemmeno la solidarietà alle vittime. Ma tutto questo non può ricadere su una competizione canora, sportiva o letteraria. L’ottundimento ideologico non riesce a vedere la realtà, a capire le differenze, a distinguere gli ambiti. E’ una deviazione mentale, anzi una mentalità totalitaria e propagandistica travestita da bigottismo morale. Ma si manifesta anche in altri ambiti. Per esempio se stai parlando di argomenti religiosi, filosofici, culturali, c’è sempre un’anima bella che dice: mentre voi state discutendo di queste cose, c’è gente che muore, qualcuno sta invadendo l’Ucraina, qualche donna viene stuprata, o stanno abbattendo alberi in Amazzonia. Ma che c’entra, che nesso c’è?

Ogni giorno sulla terra ci sono delitti, catastrofi, brutture; che facciamo, smettiamo di vivere e di fare altro, per pensare al male del giorno? E ammesso che l’assurda prescrizione sia adottata, quando abbiamo pensato a questo, abbiamo parlato e solidarizzato con le vittime anziché occuparci del resto della vita, del mondo, del pensiero, cambia qualcosa per le vittime, abbiamo realmente mutato il corso degli eventi, abbiamo impedito violenze e catastrofi? Allo stesso modo, pensate che la vittoria all’Eurovision aiuterà l’Ucraina a vincere la guerra e a scacciare l’invasore russo? E’ un modo stupido e falso di solidarizzare, del tutto infruttuoso, subdolamente propagandistico, che cancella ogni differenza fondata sul merito, il talento, le capacità. Se diventa il nuovo metro di giudizio, il nuovo metodo di valutazione universale, allora scivoliamo per troppo buonismo nella barbarie, per troppo umanitarismo nella morte della civiltà. Attenti alla neurovision.

Ridateci il diritto di essere contro

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di Marcello Veneziani 

Fonte: Marcello Veneziani

Il diritto vale anche a rovescio; ossia tutela e garantisce anche chi dissente dal potere e diverge dall’opinione dominante. Ma da qualche tempo i diritti si vanno restringendo, le imposizioni crescono insieme al conformismo coatto. Prima con la pandemia, l’infinito strascico di restrizioni e obbligazioni, vaccini e green pass, sorveglianza e controllo; poi con la guerra in Ucraina e l’allineamento generale ai falchi della Nato e degli Stati Uniti. Ma ci sono anche altri precedenti e altre vicende collaterali che hanno spinto in quella direzione.
Ugo Mattei, giurista, ordinario di diritto civile, ha pubblicato un libro che già nel titolo contiene la sua tesi, Il diritto di essere contro (Piemme), dedicato al dissenso e alla resistenza nella società del controllo. Si comincia dai vaccini, dai controlli e dai pass, nel nome di una religione scientista, sanitaria e supponente, e si arriva a estenderli ad altri ambiti, fino a instaurare un bieco regime di sorveglianza.
Mattei è tra i firmatari del documento “Dupre” che esprime dubbi e preoccupazione sul regime sanitario e i suoi inquietanti sviluppi. Come lui sono firmatari anche l’oncologo e biologo Mariano Bizzarri e il filosofo Massimo Cacciari; il primo è autore di un recente, affilato pamphlet, Covid-19 un’epidemia da decodificare. Tra realtà e disinformazione (Byoblu edizioni), con un saggio di Cacciari che ne esalta il rigore scientifico e la libertà di giudizio. Per restare nella linea del dissenso è da segnalare un libro-dialogo tra Francesco Borgonovo e lo storico Luciano Canfora, che si occupa dell’altro versante scottante, La guerra in Europa, L’Occidente, la Russia e la Propaganda (Oaks editrice), offrendo una lettura divergente rispetto all’Informazione ufficiale e istituzionale.
A Mattei, Bizzarri, Cacciari, Canfora e Borgonovo, persone di diversa estrazione, non è negato il diritto di essere contro, i loro libri non saranno vietati. Neanche quelli di Alessandro Orsini e di Toni Capuozzo, di Giorgio Agamben e di Carlo Freccero (neanche i miei, se è per questo). Ma saranno ignorati, emarginati o disprezzati e derisi in coro dall’Intellettuale Collettivo. Chi è fuori dalla cappa o dalla cupola, costeggia ai bordi l’editoria, i social e magari si affaccia pure in tv; ma è fuori dal sistema che non ammette contraddittori al suo interno, ma solo ai margini, fuori. La linea divisoria tra insider e outsider è sempre più marcata, come un fossato.

E non si tratta di voci isolate, minoranze esigue in via d’estinzione; ma esprimono un pensiero, un sentire, un’opinione assai larga, forse perfino maggioritaria. Che emerge nei social, affiora nei sondaggi, si trasmette col passaparola. A volte attraversa anche categorie come i medici, i ricercatori, gli intellettuali, i diplomatici, i militari ma il timore di sanzioni, problemi alla carriera e gogna mediatica, li induce a confessare in privato opinioni, dubbi e preoccupazioni che in pubblico sono prudentemente nascoste o stemperate.
Con la scusa dell’emergenza ormai permanente, anche se mutano le sue ragioni, si instaura un regime. Mattei accusa Draghi e Mattarella, ma anche Monti e Napolitano, la magistratura compiacente, i piani scellerati di svendita pubblica e privatizzazione, il servilismo atlantista verso gli Stati Uniti, Big Pharma, i colossi della finanza e del capitalismo globale. Siamo entrati nell’era della Sottomissione, definizione fino a ieri riferita al fanatismo islamista (si pensi al libro omonimo di Michel Houellebecq). Secondo Mattei l’Italia è il luogo in cui l’Occidente sta sperimentando la sostituzione del diritto con l’antidiritto, una forma di controllo sociale sul tipo cinese o coreano, tramite ricatti, tracciamenti, algoritmi, censure. Stiamo arrivando tramite il neo-liberismo a una nuova forma di “dispotismo occidentale”.
Il limite dell’invettiva di Mattei è che da un verso non vede il ruolo parallelo e decisivo che ha avuto l’ideologia progressista e i suoi cascami, il politically correct, la cancel culture sulla distorsione della mentalità, la negazione della realtà e della varietà, i divieti e la fabbrica dell’intolleranza. E dall’altro si ostina a giudicare tutto questo come fascismo, contro cui auspica una nuova resistenza e un nuovo comitato di liberazione. Ora, dai residui ideologici che ne sono il sostrato, dagli interessi privati che si perseguono, dai modelli adottati (come quello cinese), tutto si può dire meno che sia un nuovo fascismo. E quando Mattei vede Draghi come il nuovo fascismo, asservito al capitalismo finanziario, all’atlantismo e all’apparato liberista, va del tutto fuori strada; il fascismo è agli antipodi. Sarebbe invece molto più proficuo interrogarsi sul perché il nuovo globalismo armato e sanitario, finanziario e tecnocratico, abbia trovato nei progressisti la loro guardia bianca, nei dem il loro partito-regime e i falchi nella salute, nella censura come nelle armi. Il regime si fonda sulla saldatura tra sinistra radical e capitalismo global, tra liberal e liberisti.
Il quadro che ne traccia è veritiero: in Occidente un oligopolio finanziario globale controlla i mass media, procede al gran reset, sfonda i confini tra il pubblico e il privato. E si accinge a imitare il modello cinese, abolendo il contante per sorvegliarci con la carta elettronica, inserendo la cittadinanza a punti, censurando il dissenso. Ma poi Mattei si lascia prendere la mano e confessa di preferire “un partito unico funzionale” come quello cinese, a “un finto pluralismo di pagliacci, nani e ballerine”. Allora si, che “il diritto di essere contro” verrebbe del tutto sradicato…

Il diritto di cambiare età

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Il signor Renato Giovine, di anni 64, si è presentato all’ufficio anagrafe del suo comune di cittadinanza e ha chiesto di modificare la sua età dimezzandola a 32. L’impiegato, sbigottito, non sapendo cosa fare, ha chiamato il capo dell’ufficio per ascoltare la richiesta insolita del cittadino. I due hanno guardato allibiti il signor Giovine come se fosse un malato di mente o in stato di alterazione mentale. Ma il Signor Renato ha esposto con calma e lucidità le sue motivazioni, e di fronte al diniego imbarazzato dei due dipendenti comunali, si è riservato di inoltrare la sua richiesta alla prefettura e al tribunale. Il ragionamento del Giovine non fa una piega perché si fonda su analoghi precedenti, già vigenti sul piano anagrafico e sul piano biologico.
Per le prime, è noto che in Italia è possibile cambiare i propri connotati, il proprio cognome. Il Ministro dell’Interno, sul sito prefettura.it prevede infatti che ogni cittadino italiano che abbia l’esigenza di cambiare il proprio nome o cognome, perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o per motivi diversi da quelli indicati, possa intraprendere il procedimento predisposto dal Regolamento per la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile (DPR 396 del 3/11/2000), così come modificato dal DPR n.54/2012. Compiuto l’iter, trascorsi trenta giorni dall’affissione della richiesta, in modo da verificare se ci sono opposizioni al riguardo, il Prefetto, accertata la regolarità delle affissioni e vagliate le eventuali opposizioni, provvede a emanare il decreto di concessione al cambiamento del cognome richiesto.
Non diversa possibilità è concessa a chi decide di cambiare sesso.
Per accertare la “disforia di genere” occorre attestare l’estraneità rispetto al proprio sesso biologico e dimostrare malessere e disagio per il sesso attribuito alla nascita. Dal 2015 non è più necessario per il cambiamento di sesso che vi sia un’operazione chirurgica. Con sentenza della corte di Cassazione n.15138/2015, e con sentenza della Corte Costituzionale n.221/2015, è stabilito che l’intervento chirurgico non è obbligatorio per il cambio di sesso e la scelta se eseguirlo o no spetta esclusivamente alla persona interessata. Presentato il ricorso e superato il percorso stabilito il tribunale italiano competente per territorio, procede alla rettificazione del sesso e al relativo cambio del nome.
Se è possibile cambiare cognome e mutare sesso perché non dev’essere possibile, si è chiesto il signor Renato Giovine, cambiare lo stato anagrafico e biologico di persone come lui che dimostrano e sentono di avere un’età inferiore o comunque diversa da quella indicata dall’anagrafe e dalla biologia e soffrono malessere e disagio per l’età?
Ma non solo. Se il fondamento metagiuridico delle norme è ormai nella libera volontà del soggetto, ovvero “come io mi sento” e non come sono per gli altri, per l’anagrafe o per la biologia, perché non dev’essere possibile mutare l’età, retrodatare o postdatare la propria età a quella che si sente realmente di avere? Certo, devi sottoporti a un iter e a una serie di controlli, come accade per i cambi di sesso e di cognome, e dimostrare che non hai finalità diverse nella richiesta di modificare i connotati anagrafici (per esempio, usufruire in anticipo della pensione o viceversa tardare il pensionamento e restare in età lavorativa; o scaricarti di responsabilità verso terzi). Ma la richiesta è legittima.
Se non avrà soddisfazione dalla prefettura e dal tribunale, il signor Giovine ricorrerà alla Corte Costituzionale, forte della sua comprovata sensibilità a modificare con sentenze, come quella recente sui doppi cognomi, assetti giuridici ritenuti ormai stantii e superati dalla realtà.
Anche sulla cittadinanza si sta stabilendo il principio che ciascun abitante della terra possa andare a vivere dove ritiene di farlo, senza limitazioni e senza essere considerato un clandestino (il reato fu abolito). Ovvero, nessun obbligo, nessuna restrizione nell’accoglienza, dicono molti giuristi ed esponenti umanitari (Papa incluso) ma solo la volontà del soggetto di trasferirsi dove vuole. Siamo o no cittadini del mondo, senza frontiere?
Renato Giovine sente di avere energie, impulsi, che corrispondono alla metà dei suoi anni biologici; non accetta il carcere anagrafico a cui la natura matrigna lo sottopone. Ma la molla profonda e segreta che lo ha spinto alla richiesta è un trauma infantile: da ragazzino gli rimase impressa la canzone dei Cugini di Campagna, Quando avrò 64 anni. Avendo temuto per una vita il fatidico passaggio, allo scoccare dei 64 ha deciso di cambiare un’età che non sente di avere e che gli procura sofferenza.
Come forse avrete sospettato, il signor Renato Giovine non esiste, anche se quattro anni fa in Olanda un quasi settantenne, Emile Ratelband, si rivolse davvero al tribunale di Arnhem, a sud-est di Amsterdam, per chiedere di spostare in avanti la sua data di nascita all’anagrafe avanti di vent’anni, dal 1949 al 1969. E sulla sua scia in Italia inventarono un fantomatico comune di Bugliano, che aveva già predisposto i moduli per richiedere il cambio d’età.
Ma scherzi a parte, l’assurda, pirandelliana situazione lascia un bel dubbio: ma se la realtà, la natura, la biologia, la consuetudine, contano meno della volontà soggettiva e dei desideri individuali, se tutto quel che è dato in natura o in anagrafe possiamo revocarlo, perché non dovremmo relativizzare anche l’età e adattarla ciascuno al proprio sentire?

Tutti pazzi per Hitler

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Da quando le competizioni sportive mondiali sono azzoppate dall’esclusione dei russi, un nuovo sport appassiona il pianeta e lo coinvolge per intero, russi inclusi. Possiamo chiamarlo “il lancio del Fuhrer” e consiste nel lanciare Hitler sul terreno dell’avversario. Si guadagna punti se il lancio tocca terra; l’avversario deve attrezzarsi di padel e rimandare Hitler nella brace del competitore, evitando che tocchi terra nel proprio terreno di gioco.
Lo sport è stato definitivamente sancito dopo l’infelice paragone del ministro degli esteri russo Lavrov tra Zelenskij e Hitler, attraverso la tesi delle origini ebraiche di ambedue, per dimostrarne l’affinità genetica. Lo scopo era quello di dimostrare che sotto sotto il premier ucraino è come Hitler, non a caso nel suo paese ci sono ancora i nazisti. La comunità mondiale è insorta indignata per il blasfemo paragone. Ma con un’omissione: i primi a tirare in ballo a vanvera Hitler a proposito della Russia di Putin sono stati americani ed europei, per non dire dei media di tutto l’Occidente.
Se ragionassimo senza paraocchi con puro buon senso sapremmo infatti cosa rispondere a questa elementare domanda: cosa vi ricorda l’invasione dei carri armati russi di un paese vicino? La risposta facile, anzi elementare, è l’invasione russa sovietica dell’Ungheria nel 1956, l’invasione di Praga nel 1968, la repressione di Danzica e Stettino in Polonia nel 1970. Invasioni che non risalgono al famigerato Baffone Stalin, che era morto nel ’53, salutato perfino dai socialisti nostrani Nenni e Pertini come Eroe della pace e dei popoli; ma al comunismo che ne seguì, con l’avallo dei partiti comunisti di tutto il mondo, aderenti all’Internazionale. E’ il paragone più diretto, viene quasi spontaneo, tanto più che l’Ucraina era stata annessa all’Urss dal comunismo sulla scia della Russia zarista, già nel ’22 quando non c’era ancora al potere il Baffone Cattivo, ma c’era il Padre Fondatore, Lenin.
E invece, con uno slalom storico, geografico, ideologico, il paragone ricorrente anche nelle caricature dei disegnatori è Putin come Hitler. Che obiettivamente non c’entra un tubo, riguarda la Germania e un altro mondo; e per giunta è più distante nel tempo perché risale agli anni ’40 mentre le suddette invasioni sono nel nostro dopoguerra, tra gli anni cinquanta e gli inizi degli anni settanta.
Così paradossalmente si attribuisce alla Russia di Putin lo statuto di nazista, proprio mentre si accinge a celebrare con la massima enfasi, la sconfitta del nazismo da parte della Russia il 9 maggio del 1945. Non vi pare grottesco? O si vogliono rimpiangere i bei tempi in cui c’era il regime totalitario in Unione sovietica, i deportati nei gulag e in Siberia, i massacri di popolazioni ostili e dissidenti di quel tempo, rispetto alla becera Russia di Putin? Anche qui, se ci fosse un po’ di buon senso, non dico amor di verità perché non conoscono cosa sia, si direbbe che al paragone con l’Urss comunista perfino un regime autocratico e autoritario come la Russia di Putin, sembra una società liberale e democratica, incruenta.
Ma il comunismo non è mai esistito, se non nei pensieri delle anime belle, il solo totalitarismo è quello nazi-fascista anche se arriva pure cronologicamente dopo il regime totalitario sovietico. E anche se tecnicamente, ma qui appena lo dici ti cacciano da qualunque luiss, programma o consesso, il regime totalitario compiuto fu quello comunista sovietico perché tutta la società rientrò sotto l’egida dello stato. Mentre i regimi fascista e nazionalsocialista, tra loro diversi, mantennero in vita, non cancellarono il capitale (il mercato e il privato restarono in piedi, pur dovendo fare i conti con uno Stato interventista), le istituzioni antecedenti (da noi sopravvisse pure la monarchia) e la Chiesa (nessuna dichiarazione di ateismo di stato, con relativa persecuzione, come invece fu nell’Urss). Ciò non toglie i crimini, la guerra, le persecuzioni, ecc ecc. Ma la verità è questa e se volete approfondirla leggete Hannah Arendt (ebrea ed esule dalla sua Germania).
Però, niente da fare, lo sport mondiale più in voga è il lancio del Fuhrer, e appena vuoi discreditare il nemico, non devi dimostrare nulla, basta citare la password per l’inferno: Hitler, sei un seguace di Adolf. E il discorso finisce lì. E se appena ti inoltri a tentare qualche distinguo, l’indignazione ti sommerge e l’accusa di razzismo ti giunge spontanea, fino a decretare la sconfitta a tavolino nella partita di lancio del Fuhrer in campo avverso. E’ possibile definirlo pensiero unico? Qualcuno dice di no, solo perché nei talk show, per alzare gli ascolti, si invitano anche quelli che non la pensano come la Vulgata di Stato. Ma non rendendosi conto, o non volendo guardare, a una sostanziale, militare, conformistica unificazione da parte degli Apparati, del Sistema vigente e delle Interpretazioni ufficiali e istituzionali. Poi, se qualcuno fa qualche marachella in video, beh serve solo per affermare il contrario; anche Lavrov, se è per questo, ha parlato nelle nostre tv, e vedete che inferno ne è derivato…
Ora vorrei dire una cosa: ma se ritenete che la Shoah sia un evento unico e imparagonabile con ogni altra tragedia dell’umanità, se insorgete appena qualcuno osa accostare altri orrori a quelli compiuti nei campi di sterminio, allora perché non lasciamo da parte gli incauti paragoni con Hitler che vengono fatti da Lavrov come da Biden, da Putin come dai suoi nemici e dall’intero apparato propagandistico occidentale? Se si tratta di un Evento Unico, spartiacque della storia, secondo il giudizio dominante, non ne offendiamo la memoria a paragonarlo a tutto quanto succede oggi? Di Hitler ce n’è stato uno, e ci basta e ci avanza.

Marx è andato a vivere a New York

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di Marcello Veneziani

La Verità ha riproposto uno stralcio dal libro-antologia di Karl Marx Contro la Russia, che le edizioni de Il Borghese pubblicarono per primi negli anni settanta. Ma c’è un’integrazione essenziale, e attualissima, da fare: in queste pagine emerge il Marx filo-americano, persuaso che il suo pensiero radicale potesse meglio attecchire in una società nuova, moderna, priva di storia, radici e tradizione come gli Stati Uniti. Non a caso questi scritti furono pubblicati tra il 1858 e il 1861, sul New York Tribune, poi raccolti dalla figlia Eleanor con il titolo The eastern question; articoli antirussi, filoamericani, occidentalisti, che auspicavano l’avvento del mercato libero globale e del pensiero radicale. Per la rivoluzione comunista Marx non pensava alla Russia zarista ma all’America descritta da Tocqueville, che era poi l’espansione “giovanile“ dell’Inghilterra, da Marx non a caso eletta a sua residenza, rispetto alla natia Treviri, in Germania.

Marx è il filosofo che più ha inciso nella storia del ‘900 attraverso la tragedia mondiale del Comunismo. Poi tramontò nel fallimento del comunismo, precipitò con l’impero sovietico, sopravvisse ibrido nella Cina mao-capitalista. Ma fu davvero archiviato? Da anni sostengo la tesi opposta che esposi in Imperdonabili.

Il marxismo separato dal comunismo è lo spirito dominante dell’Occidente. Scrive Marx nel Manifesto: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti”. E’ la prefigurazione della nostra epoca volatile e mondialista. Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione, la natura e i suoi limiti. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni come la Russia e la Cina, la Cambogia o Cuba. Il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno subito il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e a cui si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato. Non scardinò il sistema capitalistico ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista e globale, dal vecchio liberalismo al nuovo spirito radical. Marx definisce il comunismo: “è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E’ lo spirito radical del nostro tempo, cancel e correct.

Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo “è la liberazione di ogni singolo individuo” dai limiti e dai legami locali e nazionali, famigliari, religiosi, economici. Non le comunità ma gli individui. Il giovane Marx onora un solo santo e martire nel suo calendario: Prometeo, liberatore dell’umanità. Padre dell’Occidente faustiano e irreligioso, proteso verso la volontà di potenza.

Il giovane Marx auspica nei Manoscritti economico-filosofici l’avvento dell’ateismo pratico. E nella Critica della filosofia del diritto di Hegel scrive: “La religione è il sospiro della creatura oppressa…essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire poterne esigere la felicità reale”. Liberandoci da Dio e dalla religione per Marx ci liberemo dall’alienazione e conquisteremo la felicità terrena. La società di oggi, atea ma depressa, irreligiosa ma alienata, smentisce la promessa marxiana di liberazione. L’utopia di una società “libertina”, dove ciascuno svolge la sua attività quando “ne ha voglia”, che abolisce ogni fedeltà e introduce “una comunanza delle donne ufficiale e franca”, fa di Marx un precursore della società permissiva. Il principio ugualitario perde la sua carica profetica e si realizza in negativo come uniformità e negazione dei meriti, delle capacità e delle differenze.

La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione standard genera uguaglianza e livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia sostenuto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo pratico marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha inverato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame naturale e da ogni ordine tradizionale ha realizzato l’individualismo libertino di Marx, liberato dai vincoli famigliari e nuziali. E come Marx voleva, ha realizzato il primato dell’azione sul pensiero. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal, geneticamente modificabile.

L’ultima frontiera del marxismo si ritrova nelle porte aperte agli immigrati, dove un nuovo proletariato, sradicato dai paesi d’origine, sostituisce le popolazioni d’occidente, a sua volta sradicate. La lotta di classe cede alla lotta antisessista, antinazionalista e antirazzista. La difesa egualitaria dei proletari cede alla tutela prioritaria delle minoranze dei “diversi”.

Il marxismo vive sotto falso nome ma si muove a suo agio nella società global made in Usa; un marxismo al ketch-up, transgenico. Marx con passaporto americano sembra strizzare l’occhio ai dem di Biden. Noi ci attardiamo da anni a celebrare il suo funerale; ma è un caso di morte apparente.

La Verità (21 aprile 2022)

Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/marx-e-andato-a-vivere-a-new-york/

La politica marcia compatta sotto il comando Nato

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Il regime dell’informazione ha adottato il parental control per filtrare e bloccare l’accesso dei cittadini all’altra faccia e all’altra versione, della guerra in Ucraina, come è già stato con la pandemia e con altre vicende, come il voto in Francia. Siamo trattati da minorenni costretti a sciropparsi, senza soluzione di continuità, il Racconto Illustrato di Stato, con le sue figure, le sue voci in campo e fuori campo. E un reticolo di censure, deplorazioni, silenzi impedisce di sfiorare la zona proibita del dissenso.

Un tempo, il teatro dei dissensi e delle divergenze, il luogo in cui si esprimevano e si incanalavano le opposte opinioni, evitando che diventassero conflitti aspri o di sangue, era la politica. Lo chiamavamo pluralismo, democrazia, bipolarismo, dialettica tra i partiti antagonisti. Oggi provate a trovare un solo partito su territorio nazionale che esprima compiutamente l’altra posizione sugli eventi in corso, e riconduca a ragione e ragionamento le posizioni più estreme, infantili e radicali. C’è da qualche parte un soggetto politico in grado di dare un’altra lettura dello scenario internazionale, c’è un partito o movimento che affronti la questione senza elmetto, senza appartenenza fideistica alla Nato e al bellicismo dem, e senza parental control per i cittadini? C’è un partito o un movimento che ribadisca anche in questo frangente che sono preminenti gli interessi nazionali, la nostra sovranità; e gli interessi, i valori, della sovranità europea non coincidono con la supremazia americana e con la sua pretesa di governare le sorti del mondo, subordinando gli interessi altrui ai propri? C’è qualcuno che dica, di fronte all’escalation e alla degenerazione del conflitto bellico che oltre il velo e la cataratta ucraina è tra Russia e Stati Uniti, che proprio questo è il momento di cercare una soluzione negoziale? C’è qualcuno che esprima in sede politica la preoccupazione che dietro i nobili principi umanitari ci siano interessi, più o meno loschi, di natura economica, commerciale, energetica, oltre che geopolitici? No, non c’è. Dai falchi del Pd e del draghismo ai falchetti d’Italia della destra, fino agli alleati tutti del governo tecno-sanitario-militare in carica, non c’è una sola voce che dissenta e prospetti una diversa lettura dei fatti, degli equilibri e delle situazioni. Peraltro, una parte cospicua dell’opinione pubblica italiana ed europea la pensa in questo modo differente; non dirò maggioritaria perché non ci sono effettivi riscontri per affermarlo o per confutarlo. E in mancanza di sbocchi e di riferimenti reali, il dissenso viene in qualche modo stemperato, represso o deviato. Ma è comunque una parte consistente dell’opinione pubblica che condivide una cosa: non è questa la via per cercare la pace, non è questo il modo per tutelare i nostri interessi e valori nazionali ed europei, non è la Nato la nostra Cattedrale e non è l’Amministrazione Biden la nostra Mecca.

Nulla da dire a chi non condivide questa linea di dissenso ma deve riconoscere una cosa, anzi due: quella che abbiamo espresso è un’opinione diffusa ma non è rappresentata per nulla nel pur variegato mondo della politica italiana. Capisco tutte le ragioni, le convenienze, gli opportunismi perfino, di chi non se la sente di divergere dal governo che sostiene, dall’ombrello atlantico che ci avvolge, dal regime monocorde dell’informazione e dai poteri internazionali che ci sovrastano. Lo capisco, è umano, chi vuol fare politica mira pure a governare, ad avere potere o quantomeno una fetta; non testimonianza ideale ma conquista di una posizione di potere. Ha tutta la nostra umana comprensione, anche perché si sa bene che una posizione come quella delineata prima, che potremmo definire neo-gollista – ma nel senso del Generale De Gaulle e non degli ultimi residuati gollisti allineati e spazzati via alle ultime elezioni – ti preclude molti accessi. Pensate che qualcuno possa entrare nella stanza dei bottoni non dichiarandosi atlantista, tifoso della Nato e dipendente dal quadro internazionale imposto dai poteri vigenti?
Però poi non lamentatevi se la politica non piace alla gente, se nel voto cresce l’astensionismo e la protesta, se nessuno ripone fiducia nei leader e nei partiti, se la politica conta poco meno di niente nelle decisioni e nelle strategie. Se sono tutti irregimentati sotto la guida di Capitan Draghi che a sua volta esegue le direttive del Comando generale, poi non cercate spiegazioni complesse per giustificare la disaffezione, la diffidenza, il disprezzo del popolo per la politica monocorde. Se la sopravvivenza dei partiti prevale sulla ragione sociale per cui sono nati e si fronteggiano, allora buonanotte alla politica e benvenuti nell’era dei service e del catering politico.

Sarebbe ad esempio naturale aspettarsi che se i Dem sono diventati il Partito della guerra, della Nato, di Draghi e di Biden, chi è dal versante opposto rappresenti la linea contrapposta. Ciò non accade, anzi si sottolinea come un fatto positivo la convergenza con i Dem; lo noto senza polemica contro qualcuno, anzi riconoscendo – come dicevo poco fa – che le scelte politiche sono dettate dalla necessità di non tagliarsi fuori dall’establishment. Sono scelte dettate dall’utilità. Perché ormai non c’è più spazio, non c’è Papa, non c’è Anpi, non c’è pacifista che possa divergere dal piano prestabilito, senza venire silenziato, criticato e accantonato. Il parental control vale anche per loro.

Il patriota Nato

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Non sappiamo cosa succederà in Ucraina e nelle trattative al seguito. Ma in ogni caso l’invasione dell’Ucraina ha fatto emergere due temi opposti e cruciali: i diritti sacrosanti delle nazioni e dei popoli, solitamente calpestato, e l’ordine mondiale e chi lo decide.

Fino a poco tempo prima dell’Ucraina, il tema della sovranità nazionale veniva accantonato o lasciato solo ai sovranisti, come una specie di residuo tossico del nazionalismo. È bastata la vicenda dell’Ucraina per esaltare il diritto delle nazioni e per raccontare le eroiche, tragiche, umane storie degli ucraini alle prese coi russi invasori. Una nuova ondata di patriottismo si è levata nella società globale, e già questo è piuttosto grottesco: è inutile aggiungere che il patriottismo è considerato come una gita fuori porta, un’escursione dai programmi globali, che anzi serve a rafforzarli. Infatti, il sottinteso trascurato è che non si difende il diritto di una nazione a restare neutra e sovrana rispetto alle potenze sovranazionali; ma la “libertà” di aderire all’Europa e alla Nato, con una precisa scelta di campo. Dimenticando i difficili, delicati equilibri che ci sono tra aree di influenza, imperi ed ex imperi. Saggezza avrebbe voluto che si fosse perseguito, già prima della guerra, la linea della zona neutra tra l’area Nato e l’area russa. Ovvero l’Ucraina non rientra nell’orbita russa; ma non entra nemmeno nell’orbita americana, fino a installare le basi missilistiche Nato alle porte della Russia. Si mantiene in quell’equilibrio che è in fondo l’unica chiave della sua storia e perfino del suo nome: Ucraina vuol dire proprio questo, linea di confine tra Oriente e Occidente.

Ma chi dovrebbe garantire questo processo, qual è l’organismo super partes o almeno extra partes che garantisce quello statuto autonomo e indipendente all’Ucraina? Obiettivamente non c’è. L’Onu e gli altri organismi internazionali non sono in grado di porsi al di sopra delle parti e di imporre questo equilibrio; si tratterà solo di raggiungere un equilibrio tra le forze in campo. Si, autorità religiose, mediatori “privati”, stati non schierati; ma nessuno ha la forza per imporre un ordine mondiale. Lasciamo il tema generale e torniamo in Italia.

Qui s’innescano alcune riflessioni che vanno a toccare i nazionalisti e i conservatori di casa nostra. L’indecente capovolgimento di posizioni dei populisti, sia nella versione grillina che leghista, mostra la loro labilità e irrilevanza davanti alle grandi questioni, e la loro subalternità totale all’establishment tecnocratico e dem che vige da noi, in Europa e nell’America di Biden. Fa un po’ pena e impressione il dietrofront recitato pure in video di Di Maio e Salvini, a cui si aggiunge il trasformismo avvocatesco di Conte, pronto a sposare ogni tesi perché in realtà non aderisce a nessuna.

La destra nazionale, invece, ha dietro di sé un repertorio storico e anche retorico che può giustificare meglio, nel nome del patriottismo e dei diritti nazionali, l’adesione alla causa ucraina contro i russi, lasciando ogni residua simpatia nei confronti della Russia di Putin che pur serpeggiava nella destra. Ma sappiamo che dietro il paravento nazionale c’è l’adesione all’orbita euro-americana e filo-Nato, che riporta la stessa destra nello stato campo del fronte dem, draghiano e globale. Insomma anche l’opposizione, l’unica opposizione parlamentare, è assorbita dentro il mainstream euro-atlantico dem-militarista. Potremmo aggiungere che non può fare altrimenti se vuole governare il Paese con l’assenso dei superiori o perlomeno senza l’ostilità dell’establishment. Una posizione diversa darebbe forse maggiore coerenza e credibilità alla destra nazionale ma minore possibilità di contare e di inserirsi nel quadro politico. Resta da chiedersi se il gioco valga la candela e se la possibilità di portare avanti un’alternativa sia in questo modo compromessa, e resti un arsenale retorico di figure e proclami sotto i quali c’è solo la totale remissività di ogni idea di sovranità nel raggio di una dragocrazia euroatlantica. Sarà difficile riuscire a esprimere una linea più articolata fondata su due parametri: priorità alle sovranità nazionali, a partire dall’Ucraina per finire con la nostra Patria; ripensamento del quadro mondiale fuori dalla cieca e assoluta subalternità alla Nato e ai suoi interessi geostrategici.

L’oscillazione tra le due linee in fondo appartiene alla destra postfascista italiana quasi dalle origini: da un nazionalismo interno a un’adesione al quadro atlantico nel nome dell’anticomunismo, oggi diventato anti-putinismo, a un terzaforzismo che non ha sbocchi e referenti reali ma si mantiene su un piano ideale, attraverso la formula nazional-europea, pur essa storica: né con i russi né con gli americani. Quante volte si è spaccata la destra tra queste due componenti: da una parte l’anticomunismo, la destra romualdiana, la posizione di Tremaglia e di altri esponenti, e dall’altra il rifiuto della collocazione stessa nell’ambito della destra, il radicalismo sociale e nazionale opposto al conservatorismo, liberale o no.

Peraltro chi immagina davvero un’Europa adulta e coesa, soggetto politico e militare, oltre che civiltà e tradizione culturale, non può immaginarla come la propaggine periferica della Nato.

È deprimente l’assenza di ogni divergenza, di ogni opinione difforme, e l’allineamento totale e acritico alla posizione ufficiale dell’Establishment. Penoso lo schema univoco, che già si era profilato con il covid e con tutte le altre questioni cruciali. Il disagio che avvertivamo per la riduzione della politica a un solo modulo prestampato, che chiameremo modulo Dem, si riversa sulla gente comune e su ciascuno di noi e finisce col mortificare ogni dignità e libertà, critica e intelligenza. Un segno che la Cappa che indicavamo nel nostro ultimo libro a proposito del clima plumbeo e oppressivo, si estende anche al panorama geopolitico e militare.

Dell’umanità resterà solo il dito

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Stiamo perdendo la terra sotto i piedi. Stiamo perdendo la realtà. Al posto della vita i flussi informativi, al posto delle cose concrete i dati numerici, al posto dell’universo i Big Data, al posto della terra Google hearth, al posto del cielo il Cloud. Senza accorgercene sta avvenendo una radicale Sostituzione; non dei popoli europei con i flussi migratori, come sostiene Renaud Camus. Ma la sostituzione ben più profonda del mondo reale, il mondo delle cose e la vita pensante, i cuori e le menti, col mondo artificiale, come l’intelligenza e tutti i medium che si frappongono tra noi e il mondo. Fino alla Sostituzione dell’umano. La cosa più terribile è che non ci badiamo, non ce ne diamo pensiero. Avviene, non possiamo sottrarci. Tutto è così ineluttabile, automatico. La perdita della libertà è assoluta quando si vive la vita da automi.

Ho tra le mani un ennesimo libro di Byung-Chul HanLe non cose, pubblicato da Einaudi che descrive “come abbiamo smesso di vivere il reale”. Il filosofo tedesco-coreano denuncia una trasformazione come mai c’è stata e lancia un atto d’accusa al mondo contemporaneo, che lo situa a pieno titolo tra i conservatori apocalittici. Cosa è successo? La rivoluzione digitale ci ha reso tutti “infomani”. Non vediamo più le cose ma gli infomi. Siamo guidati dagli algoritmi, non abbiamo più autonomia di pensiero e visione della realtà. Siamo collegati ma abbiamo smesso di avere legami.

Peggior quadro della situazione non sarebbe possibile: siamo allo stadio finale dell’alienazione. Dopodiché c’è solo la scomparsa dell’umano. La mano che era il simbolo fattivo dell’umanità si fa inerte e cede al dito, come si addice a una società digitale. Dobbiamo premere tasti e non più maneggiare il mondo. Il dito apre gli accessi, avvia i percorsi prestabiliti, ci conduce in una dimensione fittizia, artificiale, irreale.

L’homo sapiens è stato sostituito dal phono sapiens. Sola valvola di sfogo il gioco, divertirsi. La storia è sostituita dallo storytelling, scompaiono i confini tra cultura e commercio, si perde ogni relazione tra cultura e comunità.

Lo scettro che ci rende all’apparenza sovrani e nella realtà schiavi di questo nuovo mondo ci è ormai familiare più di ogni altra cosa: è lo smartphone. Esso trasforma il mondo in informazione, e la realtà -potremmo aggiungere- in rappresentazione veicolata. Lo smartphone ci sorveglia, e ancor più ci sorveglierà via via che si perfezionano le tecnologie. L’infosocietà non opprime, non sopprime la libertà, anche se pone sempre più divieti e censure: ma la sfrutta, la svuota per poi riempirla dei propri input. Insomma la dirige, la plasma; così la libertà nega se stessa. Scompaiono le cose, ma scompare anche l’altro, nella relazione narcisistica e autistica con lo smartphone. L’intelligenza artificiale è priva di mondo, non ha cuore, non ha pathos, non ha concetto; è sorda e cieca.

Sul piano delle icone, il passaggio decisivo secondo Han è dalla fotografia analogica a quella digitale. La foto stampata, in carta, è una cosa, patisce il degrado e la morte, come se fosse vivente. E’ un’emanazione della persona reale, ricorda, racconta una storia, un destino. La foto digitale, invece, elimina il referente, è autoreferenziale, istantanea, avulsa dal cammino del mondo. Il selfie non è una cosa, ma una non cosa, un’info, non va conservata per ricordare. Il ritratto analogico è silente ma parla, come una natura morta: il ritratto digitale è rumoroso ma inespressivo, annuncia la fine dell’umano e non conosce morte né caducità.

Dopo la lettura di Byung Chul Han resta uno sciame di dubbi: è davvero così radicale il salto tra l’analogico e il digitale, o c’è una gradualità nel passaggio? Perché la tecnica che accompagna l’uomo da sempre solo ora scatena tutto il suo potenziale inumano? A parte gli indubbi vantaggi del digitale, quale risposta possiamo dare, oltre a constatare la perdita del mondo, della realtà e dell’umano? Abbiamo margini di reazione o di alternativa, è possibile (e auspicabile) tornare indietro, cancellare, rimuovere l’infosfera digitale? Siamo poi sicuri che sia la tecnica a cambiarci e non l’uomo stesso a servirsi della tecnica per mutarsi al punto di sopprimersi e predisporsi a un’altra dimensione postumana? E se fossimo noi incapaci di sopportare i limiti, i dolori, la caducità del nostro essere, che vogliamo sottrarci al reale, alla mortalità, al nostro essere e ai suoi limiti?

Quel che Han rileva della società digitale, Heidegger già lo notava nel suo tempo col semplice uso della macchina da scrivere, scorgendo il predominio del dito che pigia sulla mano che afferra e modifica; eppure non eravamo ancora in un’era digitale e il prodotto era una cosa reale, un foglio scritto. Il computer perfezionerà quel passaggio, ma Heidegger notava il tratto alienante della macchina da scrivere. Andando a ritroso nei millenni, Platone, narrando nel Fedro il mito di Theut, vide già nella scrittura il declino dell’umana facoltà di tenere a mente, trasmettere tramite la parola viva. La scrittura non serve a ricordare, dice Platone tramite il re egizio Thamus, ma a dimenticare, lasciando traccia solo negli scritti. Da ciò verrà fuori una falsa sapienza, conosceremo “l’apparenza, non la verità”.

Insomma, la Sostituzione viene da lontano, s’intreccia alla storia dell’uomo e della tecnica, e il digitale è solo l’ultimo stadio finora conosciuto. Come i polpi hanno un cervello nei tentacoli, anche negli umani il cervello si rifugerà nel dito? Come in una Creazione di Michelangelo a rovescio, dell’uomo alla fine resterà solo il dito?

MV, Panorama (n.14)

 

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