Una Cappa ci impedisce di pensare

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QUINTA COLONNA

Ci si sente come don Abbondio, un “[…] vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro […], ma in questo secolo non si parla più di bravacci, di soprusi tangibili, chiaramente additabili, bensì di un clima impalpabile che permea tutto e se ne impossessa subdolamente, una brodaglia di mainstream e di politically correct che monitora attentamente che cosa sia giusto dire, fare. Non è semplice comprendere il contesto e sembra quasi che il nostro obiettivo sia ormai solo quello di ammaccarci il meno possibile e arrivare indenni alla fine della storia.

È il principio della rana bollita di Chomsky e, in fondo, ne siamo tutti consapevoli, d’altronde è così piacevolmente tiepido questo consoChomsky, rana bollita, salute, involucro, spirito, libertà, pensiero liberommé che non vale la pena scalpitare più di tanto e deglutire. Che qualcuno si prenda la responsabilità, di grazia!  Non io che non posso, ho troppo o nulla da perdere.

Marcello Veneziani ne La Cappa, suo ultimo saggio, lo fa, si prende questa responsabilità e da libero pensatore ci aiuta a osservare il presente: “Una Cappa ci opprime, la sua densità ci impedisce di vedere oltre, di leggere dentro. […] Esiste solo ciò che è dentro, tutto è inglobato, e chi vorrebbe esserne fuori, alla fine viene fatto fuori; non espulso, ma evacuato, e non in un altrove, ma nel vuoto dell’inesistenza, cancellato. La nuova inquisizione censura e corregge”.

Le fasi acute della pandemia ci hanno obnubilato, ma la cappa non è solo pandemica. C’era già prima, ma, come Proteo, si adatta ai tempi, alle paure del momento, chiude i cuori e le menti servendosi di elementi nuovi. È un’impalpabile e moderata condizione che brutalmente non permette l’oppure, l’alternativa “Eppure la vita, l’intelligenza, la libertà nascono proprio dalla possibilità d’alternativa. L’intelligenza è la spada che salva o almeno perfora la Cappa asfissiante”.

Si parla di ambiente non di Natura

Grandi temi etici e sociali sono stati delineati proprio escludendo a priori idee alternative; pensiamo all’ambiente, una definizione asettica, neutra, pulita dal terriccio, che prescinde dalla Natura intesa nella sua completezza: “Perché si parla di ambiente anziché di Natura? La Natura è la realtà che noi non abbiamo creato ma che abbiamo trovato, e non dipende da noi. La Natura è un nome antico, originario che comprende con il pianeta tutti i suoi abitanti, compresi noi umani e in quanto tali ci troviamo di fronte alla malattia, alla guerra, a fare i conti con la morte, con quel mistero che abbiamo allontanato al punto da non pensarci più: “L’accettazione della morte come orizzonte della vita è l’unico modo per vivere in libertà, coraggio e dignità, senza paura. Amor fati”.

Attenti solo alla salute dell’involucro

Spaventati, ci siamo così isolati e separati dal nostro io e dagli altri, badiamo alla salute dell’involucro, ci riflettiamo narcisisticamente e onanisticamente allo specchio, curando le sopracciglia e trascurando lo spirito, abbiamo perso la passione e l’attrazione, troppo compromettente e rischioso, preferiamo rinunciare all’amore e ai legami intensi perché comportano dolore, non sono totalmente controllabili. “Il vero organo sessuale è lo smartphone. […] Chi ama se stesso sopra ogni cosa, chi vive nel proprio riflesso, fino ad autoritrarsi di continuo (selfie made man), si defila da ogni rapporto o legame per dedicarsi al culto di sé.” È una storia senza sugo, una mortadella vegana: “Propter vitam vivendi perdere causas, diceva Giovenale, per salvare la vita perdiamo le ragioni della vita stessa”.

Politicamente corretto

Usiamo le parole giuste e il lessico è sorvegliatissimo, ma deformato; cancelliamo ciò che è fuori dai parametri 2030, cancelliamo la storia, perché è imperfetta, anzi, estremamente imperfetta: “Ci sono due modi per stuprare la storia: forzarla nell’attualità o cancellarla fino a negarla. […] C’è una cappa che impedisce ormai di vedere liberamente il passato, gli autori classici e soprattutto la storia, i suoi personaggi ed eventi. Quella cappa cancella tutto quel che non è compatibile, non omogeneo all’oggi. È l’insofferenza per ogni vera differenza: è permessa la variabilità, non la varietà. […] Eleva un punto di vista ad assoluto e perenne: tutto viene relativizzato rispetto a quel punto di vista e tutto può essere rimosso e cancellato in suo nome” Il nostro tempo diventa allora protagonista assoluto e non riconosce altre autorità all’infuori di se stesso.

Bisogna stare attenti a fare le battute, anche con i colleghi, l’ironia è bandita, perché è bandito il contesto, il tessuto complesso e intelligente di strati e registri diversi, in cui un sorriso, un’occhiata aggiustava il peso della parola; ora invece solo gli emoji ci salvano.

Si creano delle crepe, tuttavia, nella cappa e nonostante vengano per lo più additate e stuccate, se ne creano delle altre… e poi altre che fanno filtrare alternative, perché gli analgesici e i palliativi non bastano e la verità si fa spazio, sempre. Nei varchi di dolore, negli spazi di realtà si ode la voce di chi non ha smesso di esercitare un pensiero libero: “E se invece compito del pensatore fosse contraddire il corso dell’epoca, scoperchiare la cappa? […] Non siamo solo corpo e materia ma anche realtà invisibile e simbolica; siamo anime pensanti. Che non ci possiamo nutrire solo di scienza e di tecnica, ma anche di mito, di rito e di sacro. Che non siamo solo il frutto di evoluzione e scambi, ma anche di tradizione e di eredità trasmesse. Che non agiamo mossi soltanto dall’utile ma anche da scopi ulteriori: ricerca del senso, del destino, dell’avventura”.

Pensare sarebbe dunque la vera novità per il tempo che verrà.

Fiorenza Cirillo, 21 marzo 2022

Una Cappa ci impedisce di pensare

 

Cancellate gli eroi e le grandi imprese

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di Marcello Veneziani

La miserabile cancellazione di Italo Balbo dalla flotta aerea di Stato, chiesta e ottenuta da un parlamentare della sinistra che non val la pena nemmeno citare, solleva una questione che va ben al di là del leggendario personaggio, eroe di pace, fondatore dell’aeronautica italiana e trasvolatore onorato in tutto il mondo per le sue imprese straordinarie. È una questione che va pure al di là del trito e ritrito divieto di verità sul fascismo e sull’antifascismo. Tocca il nostro rapporto con la grandezza, con gli eroi e con la nostra storia.

Siamo nani sulle spalle di giganti ma la cosa meschina è che i pigmei martellano la testa dei giganti e li vituperano, mentre sono seduti in alto grazie a loro. L’Italia sarebbe solo un’espressione geografica, per dirla con Metternich, se non ci fossero stati i giganti a fondarla, innalzarla e lasciare tracce indelebili nelle opere e nelle imprese, nelle città e nell’arte, nella storia e nella letteratura.

Da decenni, ormai, la guerra alla storia ha assunto la piega più infame: non la revisione storica per cogliere i lati in ombra dei grandi – geni, condottieri, scopritori ed eroi- ma la rimozione a priori, la cancellazione, sulla base di un’etichetta che suona come un marchio d’infamia a priori: razzista, nazifascista, criminale di guerra. Accuse che nel caso specifico di Balbo sono peraltro infondate, ma non è del caso Balbo che stiamo ragionando.

Applicare quei criteri retroattivi alla storia, ai miti e agli eroi significa eliminare ogni storia e ogni traccia di eroismo, lasciando al più solo le vittime, ma solo quelle dalla parte politicamente corretta. Finora ci ha salvati, paradossalmente, l’ignoranza e l’incoerenza degli inquisitori e dei questurini: se conoscessero le biografie dei condottieri di tutti i tempi, da Alessandro Magno a Napoleone, passando per i nostri Cesari e per qualunque altro condottiero, li cancellerebbero come spietati criminali di guerra; con relativa rimozione dei loro nomi dalla storia e dalla toponomastica.

Ma la censura fa salti, si accanisce solo col Novecento o retrocede agli antichi a casaccio, random, solo perché qualcuno ha estrapolato, magari da wikipedia, una frase razzista, un pensiero misogino, un’espressione sessista.

Il problema è ancora più radicale e sconfortante: è l’incapacità di cogliere e rispettare la grandezza, la bellezza, l’eroismo, le grandi imprese non solo sportive ma a rischio di vita (come furono le trasvolate di Balbo, che ebbero dei caduti); le grandi opere di fondazione, i solchi e le eredità che lasciano. Non abbiamo più mente né occhi per vedere la grandezza, per rispettarla, se non per ammirarla, o quantomeno per riconoscerla, anche obtorto collo; non riusciamo a uscire dal metro piccino dei precetti presenti e sulla base di quelli siamo pronti a bandire chiunque. Il criterio è uguale a chi abbatte le statue di Cristoforo Colombo o di chi denigra Dante Shakespeare perché scrissero cose incompatibili col lessico stupido dei nostri giorni e con i suoi pregiudizi.

L’opera di demolizione degli eroi e dei grandi segue due strade, e non saprei dire quale sia la peggiore. La prima si riassume in quella stupida frase estrapolata da Bertolt Brecht: Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Ovvero le masse sono le uniche forze che contano nella storia; non i geni, non i condottieri, non gli eroi o i santi. Questa visione antieroica è un residuo tardivo della mentalità comunista, collettivista e livellatrice, che coincide di fatto con l’abolizione della storia.

Ma c’è pure una seconda operazione molto praticata in questi tempi: ed è la sostituzione degli eroi cancellati con una produzione di finti eroi, di palloni gonfiati, se non di veri e propri antieroi, eco-sostenibili, cioè compatibili con l’epoca. Terroristi, violenti o tossici che diventano martiri ed esempi, ma anche martiri senza martirio, nullità elevate a modelli, mediocri personaggi innalzati al rango di statisti e di grandi e poi celebrati come eroi d’Italia, d’Europa, dell’Umanità.

Il risultato di entrambe le vie è la decadenza, il degrado verticale della società, l’incapacità di distinguere la luce dall’ombra, il grande dal meschino, il merito dal demerito, l’eccellenza dall’ordinarietà. Con l’effetto aggiunto di mortificare e disincentivare ogni ricerca di elevazione, di miglioramento, di riconoscimento. Non serve a nulla la tua impresa, la tua opera, le tue fatiche, i tuoi studi e i tuoi risultati; il metro della storia segue criteri ideologici in cui non c’è spazio per l’eccellenza, la qualità, l’altezza. Per i pigmei tutto sa di pigmeo.

Ma ciò che rende ulteriormente patologica questa mania di cancellazione è il contesto a cui si riferisce, l’Italia. Se la cancellazione si accanisce in America, è una pagina infame ma si tratta di un paese povero di storia e di tradizioni. Ma se la cancellazione riguarda un paese antico come l’Italia, la cui vera ricchezza e grandezza è legata proprio alla sua storia e alle grandi imprese, allora il danno è letale. L’Italia non spicca per potenza economica, tecnologica o militare né per potenza demografica o vastità territoriale: la sua eccellenza è proprio legata a quelle vette e ai loro lasciti, alle tracce di storia. Se le cancelliamo, cancelliamo pure noi. Se poi lo scopo finale è sostituire gli italiani con i migranti, meglio se africani, allora tutto coincide. Risparmiateci almeno la retorica: non parlate più di cultura, di civiltà, di patria e nemmeno di progresso. Non ne avete il diritto perché state lavorando per la loro definitiva distruzione. Balbo solcava i cieli, i barbari pigmei strisciano nel sottosuolo.

MV, La Verità (18 marzo 2022)

Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/cancellate-gli-eroi-e-le-grandi-imprese/

L’Italia in guerra delegata

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di Marcello Veneziani

Ma l’Italia è in guerra? Siamo passati dalla “ neutralità attiva e operante”, per dirla con Mussolini, alla belligeranza delegata, tra fornitura d’armi e ritorsioni. Il vecchio pacifismo della sinistra italiana, a volte spingendosi a manifestare la sua terza posizione – né con la Russia né con la Nato – è sceso in piazza contro la guerra e le armi che noi italiani e occidentali forniamo agli ucraini. La storia insegna che nessun pacifismo ha mai sconfitto una guerra, e l’unico effetto che produce è quello di indebolire una sola parte, la propria. Perché il pacifismo non è mai bilaterale, serve alle anime belle ma non alla risoluzione dei conflitti; è la convinzione che le buone intenzioni possano sconfiggere i misfatti. È moralismo contro la storia.

Le domande da porsi invece sono realistiche: a cosa serve armare la resistenza antirussa, a contrastare la loro avanzata fino a debellare l’invasore o solo ad allargare e prolungare il conflitto, e a coinvolgere ancor più noi paesi terzi nella rete del conflitto? Serve a dare maggior forza all’Ucraina nella trattativa o a inasprire la reazione russa e favorire l’uso di armi peggiori? Sono queste le domande realistiche per valutare l’opportunità o meno di armare gli ucraini, mandandoli allo sbaraglio e al massacro. Inviare armi aggrava la situazione e ci fa scendere in guerra pur in modo obliquo. A questo punto non siamo più terzi, ma parti in causa, nella trattativa con la Russia di Putin; e dunque toccherà ad altri – Israele, la Chiesa Ortodossa, la Cina, l’India, la Turchia – il compito di arbitrare la contesa.
La seconda questione riguarda le sanzioni. Anch’esse in generale quasi mai hanno piegato un regime, anche se le sanzioni alla Russia si sono fatte via via più forti; e le possibilità che lo pieghino alla trattativa, sono almeno pari a quelle che inaspriscano la reazione e le conseguenze belliche.

Ma la cosa più odiosa delle sanzioni è che adottano un principio degno di un regime totalitario e non di una democrazia: non colpiscono solo un dittatore e il suo regime ma la popolazione, si rivalgono sui suoi cittadini. E ancor più vile e pericolosa è la ritorsione nei confronti di singoli atleti, imprenditori, artisti. Può un paese libero e democratico, fondato sul diritto, requisire i beni a centinaia d’imprenditori russi solo perché sono connazionali di Putin? Ha senso espellere gli atleti russi dalle contese sportive mondiali, persino i disabili (e magari premiare gli ucraini), che nessuna responsabilità hanno nel conflitto; o cacciare il direttore d’orchestra della Scala di Milano solo perché è russo e da russo non è contro il suo paese (c’è un motto occidentale che dice: right o wrong, my country, ragione o torto, è la mia patria). Per non dire della cancel culture all’opera contro la letteratura russa e ciò che proviene dalla tradizione culturale russa o del caso Orsini alla Luiss. Infamie assolute.
Oltre lo sdegno che procurano queste ritorsioni vigliacche verso popolazioni, persone, simboli, figure, culture, questa guerra a tutto ciò che è russo, commette un errore e un crimine: allarga anziché restringere gli spazi del conflitto, lo fa diventare etnico, religioso, totale. Una prevaricazione degna di uno stato illiberale che non distingue tra sfera pubblica e sfera privata, tra stato e cultura, tra potenti e cittadini, tra storia e attualità. Si pensa in questo modo di esercitare un ricatto psicologico nei confronti di Putin e degli oligarchi russi che non mostrano questa sensibilità; i vantaggi pratici di questo embargo discriminatorio non sono compensati dai danni e dall’imbarbarimento del conflitto.

Per tornare alla questione generale partiamo da due premesse, semplici, vistose, nate dai fatti e dal buon senso: 1) per qualunque ragione Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina e far guerra, l’attacco è da condannare. 2) da qualunque punto di vista si ponga chi osserva la guerra, restano incondizionati la pietà e il soccorso alle popolazioni ucraine e a ogni altro patisca senza colpa sulla sua pelle gli effetti della guerra.
Stabilito questo, resta da vedere le responsabilità di questo conflitto: sono solo di Putin o sono anche di chi ha rifiutato ogni vera trattativa per stabilire che l’Ucraina restasse neutrale né con la Russia, con cui pure è stata unita per secoli, né con la Nato, fino a piazzare basi militari alle porte della Russia? Il fine del negoziato dovrebbe essere questo, senza sperare di eliminare Putin, dall’interno o dall’esterno e trattarlo da criminale di guerra.

E ancora. Putin sta usando senza scrupoli la propaganda bellica. Mi pare che in Occidente stia accadendo la stessa cosa; si è costruito un arsenale narrativo e figurativo degno della peggior propaganda di guerra. Una Cappa. Ancora una volta succede che l’informazione libera e democratica usi formule ipocrite per adottare le stesse campagne di manipolazione come quella russa. Tra le cause che aggravano il conflitto e rischiano di prolungarlo e incattivirlo c’è il non distinguersi dai metodi putiniani ma adottarli, con le sanzioni, i danni alle popolazioni, l’armiamoci e partite, l’informazione manipolata.
Per finire, qual è il mondo ideale e possibile verso cui tendere? Non un mondo unificato e uniformato all’Occidente, non l’americanizzazione globale, peraltro velleitaria, impossibile; ma il riconoscimento di aree differenti, spazi irriducibili di diversità in un mondo policentrico dove nessuno Stato o alleanza è il gendarme e il giudice del mondo.

Qualcuno risalì dalle foibe

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di Marcello Veneziani

La giornata del Ricordo torna ogni anno in punta di piedi a ricordarci l’altra metà rimossa della storia, dell’orrore e della pietà. Me ne sono occupato altre volte, sottolineando le ragioni per cui ricordare le foibe e l’esodo: perché è il capitolo italiano del comunismo mondiale, perché è l’ultima commemorazione dedicata all’amor patrio, perché descrive le sofferenze di un popolo, perché ci ricorda che gli orrori non esistono da una parte sola. E noi dobbiamo prendere sulle nostre spalle la storia universale della pietà, a partire da coloro che ci sono più vicini. Ma questo 10 febbraio vorrei raccontarvi una storia, anzi due, sull’orlo delle foibe, che ebbero però un lieto fine.

La prima è la testimonianza di un uomo, all’epoca soldato e ventenne, che gettato nelle foibe insieme ad altri, riuscì a risalire dalla foiba e rivedere la luce del mattino. Il suo nome è Graziano Udovisi e fu considerato l’ultimo testimone. Si era presentato con un amico ufficiale al comando a Pola, e trovò un maggiore italiano che era passato con i suoi commilitoni dalla parte slava. Che li ascoltò, poi chiamò alcuni jugoslavi, che li ammanettarono e li fecero prigionieri, con le mani dietro la schiena con il fil di ferro. Furono poi deportati in un campo di concentramento, a Dignano. Li facevano camminare di notte. Una volta, i prigionieri vennero messi in fila indiana, uniti da un lungo filo di ferro, che partiva dal braccio sinistro di Graziano e furono portati davanti ad una foiba, rischiarata dalla luna. Un’altra vicina era invece completamente oscura. “È la mia ora. La luna mi è di fronte, bella grande lucente. Immediatamente mi sale una preghiera alla Madonna” e ai suoi cari. I partigiani slavi spararono alla cieca nel gruppo che cadde nel crepaccio, trascinato da colui che è caduto era prima, a cui avevano legato un grande masso. Quindici, venti metri, un volo senza fine. Poi lanciano pure delle bombe a mano. Graziano invece precipita nell’acqua, cerca di liberarsi dal fil di ferro, tiene stretto al cuore il suo amico che ha salvato prendendolo per i capelli. E alla fine riesce a trovare un anfratto in cui restare quella terribile notte di luna piena e di umanità spettrale. Poi con le ore percepiscono che sono salvi, i partigiani slavi di Tito sono andati via, riescono a mettersi in salvo, faticosamente risalendo dal fondo della foiba. Di quella storia che non aveva voglia di raccontare perché doleva al suo cuore, ne raccontò prima in una testimonianza raccolta da Giulio Bedeschi nel famoso libro Fronte Italiano: c’ero anch’io. E poi in un suo libretto uscito alcuni anni fa, Foibe. L’ultimo testimone (ed. Imprimatur). È una storia dolorosa ma a lieto fine. La bellezza del mattino dopo il tunnel cieco della morte, è un filo di speranza che si accende nel pieno di una tragedia collettiva, corale, di popolo.

Anni fa raccontai la storia vera, di una ragazza istriana, Irma. Chiese d’incontrarmi la mattina per sfuggire al controllo di figli e nipoti. Ci incontrammo una mattina a Roma in piazza san Silvestro e tradiva una cordiale emozione; per farsi riconoscere stringeva un mio articolo tra le mani. Suo marito, istriano, era morto combattendo in Africa, lasciandola vedova precoce con un bambino. In sua memoria, un nipote – il grande Uto Ughi – fu chiamato col suo nome. Nel ’45 vennero a prenderla da casa i partigiani comunisti, con l’accusa di aver rifiutato di falsificare carte d’identità e carte annonarie dei gappisti. Non si era rifiutata per ragioni politiche, mi dice fissandomi con i suoi occhi di cielo, ma perché era stata educata a rispettare la legge. Quando i partigiani se la portarono via, finse allegria per non impressionare il suo bambino che aveva poco più di otto anni. Fu chiusa in una casa insieme a sua sorella e ad altre ragazze, accusate di frequentare alcuni soldati repubblichini. Sa, erano bei giovanotti in divisa, mi sussurra, che c’entra il fascismo. Al piano di sotto erano invece detenuti i ragazzi. La sera sentiva gridare per le torture, mi dice mentre le sue mani tremano e il suo cappuccino deborda dalla tazza. Anche le sue compagne di stanza subivano sevizie: bruciavano loro i capezzoli con la candela e altro… In quei giorni arrestarono pure suo padre e avevano deciso di giustiziarlo: sa, era un imprenditore. Il suo bambino in bicicletta portava da mangiare a sua madre, a sua zia, a suo nonno in prigione. Neanche nove anni e una famiglia a carico…Ma a lei non fu torto un capello e a suo padre fu risparmiata la vita. Andò bene perché il capo dei partigiani si era innamorato di lei. “Quella volta ero carina, sa?”. Mi colpisce l’espressione che usa e lo sguardo improvviso di giovinezza che l’accompagna. Quella volta, come se parlasse di un tempo mitico, di un’altra esistenza, o di un interminabile giorno sottratto alla furia dei giorni. E si definisce carina, non bella, con una smorfia di pudore e vanità. Quella volta ero carina, come a voler limitare la bellezza solo a un evento. Amoreggiando con lui, salvò la vita a suo padre e a se stessa: le altre ragazze infatti non tornarono a casa. Mi dà una copia dell’ordine di scarcerazione, firmato con la stella a cinque punte, uno slogan e l’autografo del comandante, il suo moroso. Con l’epurazione persero tutto, la loro casa, la loro terra. Lasciarono il loro paese. Anni dopo tornarono nella loro terra e la trovarono abitata dagli slavi. Avevano costruito nel loro giardino otto palazzine ma avevano lasciato alcuni alberi. C’era ancora un albero di cachi che avevano piantato lei e sua sorella, da ragazze. Lei cercò di cogliere un pomo dall’albero. Fu scoperta e allontanata con durezza dai nuovi proprietari. A volte si diventa ladri in casa propria per amore del tempo perduto. Il suo racconto finisce col suo cappuccino. Restano di entrambi le ultime tracce di schiuma sui bordi.

Non aveva nessuna grande storia da rivelare né documenti. Voleva solo raccontare la sua vita, il travaglio e l’esodo, l’albero del suo paradiso perduto. Voleva lasciare a qualcuno una traccia discreta dei suoi giorni remoti, prima che venga la notte. Non serbava odio ma paura. È inutile piangere sul latte versato, sembrava dire davanti alla sua tazza galleggiante nel piattino; prevaleva la tenerezza e il desiderio di confidare a uno sconosciuto il sapore dei suoi vent’anni.

MV, La Verità (10 febbraio 2022)

Quella Cappa che ci opprime

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di Marcello Veneziani

Cosa resterà di questa libertà dimezzata e sorvegliata che stiamo subendo ormai da tempo in regime di pandemia? Resterà la Cappa, che ci avvolge e che ci opprime, in cui si condensano le nubi sparse dei nostri giorni fino a formare una coltre compatta: le restrizioni sanitarie, la vita sanificata e ospedalizzata, il controllo digitale totale, la tracciabilità dei nostri spostamenti, fisici e finanziari, la vita dimezzata nelle sue possibilità, viaggi, relazioni; e poi la guerra civile dei sessi, la guerra mondiale contro la natura, la cancel culture applicata alla storia, il politically correct applicato ai rapporti umani e alla società, le censure al linguaggio, il pensiero unico e prigioniero del modello uniforme…

Facendosi cronici e intrecciandosi tra loro, i diversi fattori convergono e commutano le limitazioni sanitarie in forme di sorveglianza permanente, fino a formare una cappa globale che sembra destinata a non dissiparsi. Con la Cappa stiamo passando dalla società aperta alla società coperta, dove si maschera la parola come il volto e tutto è sotto una rete protettiva. Lo argomento nel mio nuovo libro dedicato a La Cappa, in uscita da Marsilio (pp.204, 18 euro), per una critica del presente.

In che mondo viviamo? Sotto la Cappa tutto perde contorno, confine, libertà, consistenza reale, memoria e visione. I sessi sconfinano e mutano, le differenze scolorano e si uniformano, la natura è abolita, la realtà è revocata, i territori perdono le frontiere; la nuova inquisizione censura e corregge, il regime di sorveglianza globale controlla la vita tramite l’emergenza e la priorità assoluta della salute. Ma anche il passato sparisce, col gran reset della storia e i processi intentati al passato col metro del presente; tramonta ogni civiltà, a partire dalla civiltà cristiana per fari posto a un sistema globalitario; spariscono i luoghi, compresi i luoghi di lavoro, in una società delocalizzata, senza territorio. La schiavitù prosegue a domicilio, con l’home working. Perdendo il mondo, ciascuno ripiega su te stesso, in un selfie permanente; la Cappa favorisce infatti il narcisismo solitario e patologico di massa. Vivi attraverso il tuo cordone ombelicale chiamato smartphone e simili, ti fai icona di te stesso. E intanto deperiscono le proiezioni oltre la propria vita: la storia, la comunità, l’arte, il pensiero e la fede, ogni fede. La Cappa occulta la bellezza, la grandezza, il simbolo, il mito, il sacro, la realtà. Negandoci altre visuali ci nega altri mondi, altri tempi, altre luci. L’uomo, sostengo nel libro, abita cinque mondi: il presente, il passato, il futuro, il favoloso, l’eterno. Se ne perde qualcuno vive male; se vive in uno solo impazzisce. E noi viviamo totalmente succubi del presente, nel nostro orizzonte infinito presente globale.

Immersi nel presente, abbiamo perduto la facoltà di distaccarcene per vederlo nell’insieme e per capirne la direzione e il destino. Così abbiamo perso il senso del presente e non riusciamo più ad avere una visione generale della realtà. Da qui la sensazione di vivere sotto una cappa; visibilità ridotta, voci spente, suoni ovattati. Ne avverti il peso anche se non ha fattezze e non ha confini, non si può misurare, è ineffabile e avvolgente, come la cappa che avvolge gli Ipocriti nell’inferno dantesco; cappa dorata all’esterno ma plumbea e pesante sui dannati. Nel XXIII canto dell’inferno così li descrive: “Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi […] Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto”.

Ho provato a compiere un excursus ragionato benché venato dalla percezione di una profonda Mutazione, tra le follie odierne e i tabù vigenti, tentando una serrata critica per vivere il presente e non subirlo. Viviamo nel peggiore dei mondi possibili, abbiamo raggiunto il punto più basso nella storia dell’umanità? No, non il più basso, semmai il punto di non ritorno. I fattori demografici, ambientali, tecnologici rischiano di essere irreversibili, come le trasmutazioni antropologiche che stiamo inavvertitamente subendo in un corso accelerato verso il postumano e l’intelligenza artificiale.

Occorrerà ridare l’assalto al cielo, come dicevano i rivoluzionari ma stavolta non con la pretesa di scalarlo, come in una nuova torre di Babele, bensì per sgombrarlo dalla Cappa globale. L’assalto sarebbe dunque di segno opposto, per liberare il cielo e non per occuparlo. Liberare il cielo, l’atmosfera, l’aria può avere anche un’implicazione ecologica, ma non è solo una questione ambientale.

Le rivolte, le rivoluzioni sono velleitarie e impotenti e aprirebbero conflitti perdenti con i poteri. L’unico mezzo a nostra disposizione è la spada del pensiero critico, dell’intelligenza libera e ribelle, che non si accontenta del presente e della sua dominazione assoluta. Non disponiamo di altra arma, di altro potere, che la nostra facoltà di capire: l’intelligenza è la spada affilata che salva o almeno perfora la Cappa asfissiante. La maiuscola Cappa, la minuscola spada…

MV, Panorama (n.5)

*Immagine: gli ipocriti con le cappe dorate nell’Inferno dantesco

Il boom economico italiano è l’inflazione

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Quest’anno gli italiani sacrificheranno fino al venti percento delle loro entrate al caro-prezzi e al caro-energie. Un’impennata senza precedenti, lo dicono tutti. Tutti meno i giornaloni, le tv pubbliche, l’informazione di regime, che da un verso esaltano l’exploit economico dell’Italia, addirittura “senza precedenti” e dall’altro si commuovono ad annunciare che sulle mascherine risparmieremo qualche centesimo, perché le ffp2 sono state calmierate a 75 centesimi l’una. Bene, risparmieremo nei prossimi tre mesi qualche decina di euro per coprirci il volto, mentre rimetteremo per tutto l’anno qualcosa come tremila euro tra gas, luce, benzina, utenze e generi alimentari, compresi quelli di prima necessità, che saranno il volano di altri rincari in ogni altro genere. Aumenti di bollette non del 5,10 %, ma del 30, del 40 %, mai visti finora in un colpo solo.
Ma credete davvero che l’Italia stia vivendo una ripresa economica senza precedenti? O piuttosto stiamo subendo una crisi energetica di quelle serie? Non ho competenza in materia, ma osservo la realtà e la situazione effettiva degli italiani. Non c’è bisogno di essere economisti per vedere un paese in serie difficoltà, con tante attività e aziende che non hanno più riaperto dopo il covid, o che versano ancora in gravi condizioni; e con una depressione generale in cui tutto ci pare di vedere meno che il presunto boom economico annunciato dagli sbandieratori del Palio di Draghi. L’unica, robusta, dose di sostegno saranno i famosi fondi europei per la ripresa, che sono in larga parte ulteriori debiti pubblici e che dovranno finanziare il nostro rilancio. Ma le voci di spesa sembrano non sostenere i settori più delicati, sofferenti e nevralgici del Paese, se si considera che i maggiori investimenti rientrano nei capitoli di spesa sulla trasformazione digitale, la transizione ecologica, e poi l’inclusione e la coesione; e buona parte degli investimenti previsti per la sanità, correggetemi se sbaglio, andranno all’industria farmaceutica per farmaci e vaccini. Quel piano che sul piano fonetico somiglia a una pernacchia, il Pnrr, non ci sembra che affronti le priorità del paese, le povertà e le urgenze della crisi nei suoi snodi cruciali; e temo che in molti casi – come è già accaduto in precedenza – serva più a sostenere i circuiti bancari e finanziari che l’economia reale. Ma uso verbi cauti, come temere, sembrare, perché – lo ripeto – non oso giudicare campi in cui mi dichiaro incompetente.
Ma quando osservo la vita reale degli italiani e dall’altro la confronto con la rappresentazione mediatica che ogni giorno ne danno gli organi di regime, mi accorgo di una divergenza così vistosa da suscitare rabbia e indignazione. C’è malafede, c’è menzogna sfacciata, e la denuncia si aggrava se si considera che la situazione di semi-libertà vigilata in cui viviamo, la dispersione di ogni focolaio di opposizione e di critica, rende il ruolo dei media, soprattutto televisivi, ancor più decisiva fonte d’informazione per la gente, isolata in casa, in quarantena effettiva o prudenziale, comunque in ritirata da partecipazioni pubbliche e confronti d’opinione. Vedere ogni giorno i tg somministrare la solita overdose di terrore sul covid, le solite prediche sui vaccini, le solite interviste finte, ubbidienti e ottimiste ai cittadini ammaestrati e irregimentati o tagliate in modo da apparire tali, o limitate a banali ovvietà augurali o atmosferiche; e poi vedersi aprire un capitolo euforico, entusiasta, sui miracoli economici del Paese, lo straordinario balzo in avanti – ma dove, ma quando, ma chi? ̶  e il rilievo eroico e storico al risparmio di qualche centesimo sulle mascherine mentre passa sotto voce l’aumento effettivo record di ogni genere e utenza – dà l’idea di una orchestrazione della menzogna e della falsa rappresentazione come nei regimi dispotici. Una totale divaricazione dalla realtà che stiamo vivendo nei giorni.
Se poi a questo aggiungiamo la svolta monocratica in atto nel Paese: tutto-Draghi, tutto-Mattarella (e vorrei dire tutto-Amadeus, sul piano dello spettacolo, tanto per rispecchiare la monocrazia anche nell’intrattenimento), si ha davvero l’idea che stia avvenendo qualcosa d’inquietante nel nostro Paese.
La perdita della libertà e della democrazia si accompagna alla perdita del potere d’acquisto, ai rincari e dunque a periodi di ristrettezze economiche. Non hanno pane? Che mangino ffp2, sembrano ripetere le finte marie antoniette filo-governative. Stiamo arrivando per vie diverse a una situazione simile alla Grecia di qualche anno fa, considerando che prima o poi dovremo restituire anche i cospicui ultimi debiti accordati; ma con la strana percezione di andare incontro a chissà quale ripresa economica del Paese.
Mi rendo conto che Draghi premier da questo punto di vista è per l’Italia un ombrello, una protezione; i trattamenti cambiano se a gestire le situazioni ci sono eurocrati e insider come lui o trovatelli e outsider. Ma spaventa vedere che il Video Univoco esige dai telespettatori “A me gli occhi” sul covid e sui vaccini, e intanto il Paese viene gravato da un’onda insostenibile di rincari, con la promessa che stiamo vivendo una formidabile ripresa, siamo i primi, siamo i migliori… Finitela coi giochi di prestigio e le prese per i fondelli, scambiate per iniezioni di fiducia. Siamo stanchi di sentirci inoculare di tutto.

Che fine ha fatto la democrazia?

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Che ne è della democrazia nel nascente anno 2022? Il regime sanitario in cui viviamo ha spostato la sovranità sulla scienza, sulla medicina, sui poteri costituiti e sulle governance, indebolendo ulteriormente la sovranità popolare e la democrazia, già da tempo svuotate, vigilate e limitate da poteri tecnocratici, finanziari e sovranazionali, e dalle emergenze sanitarie, economiche, sociali. Cosa resta allora della democrazia? Il problema non riguarda solo i luoghi e gli ambiti della decisione, ma tocca gli spazi di partecipazione e dissenso, i diritti delle minoranze e le differenze d’opinione e non solo. La democrazia è in crisi, in pericolo o solo sospesa; comunque è fortemente sorvegliata e imbrigliata. La crescita dell’astensionismo è un’ulteriore conferma della democrazia svuotata: se perdi fiducia nell’effetto del voto, se ritieni che ci siano obblighi a cui ogni governo dovrà comunque ubbidire, e dunque il tuo voto non cambia le cose, sei poco motivato a votare. La democrazia muore pure d’anoressia.
Non c’è dubbio che l’ondata pandemica ha ridisegnato la mappa dei poteri nelle democrazie: in fondo, Trump negli Stati Uniti fu battuto dal covid prima che da Biden e dai presunti brogli elettorali. Il fronte sovranista in Europa si è scisso e frantumato nell’impatto con l’emergenza sanitaria e col relativo piano di ricostruzione dopo il disastro economico. In tutto il mondo i populisti hanno perso terreno e fascino da quando l’emergenza sanitaria ha ristretto i margini di dissenso e gli argini di agibilità politica: se prima la metà delle popolazioni era tentata dalla scorciatoia dei populismi variamente definiti e collocati, oggi il dissenso si è radicalizzato in una piccola minoranza populista che contesta il green pass e le strategie vaccinali e sanitarie; mentre una parte di populisti è rifluita su posizioni “realiste”, ha come stemperato e sospeso le ostilità davanti all’emergenza sanitaria ed economica che ne è derivata. In realtà non è andata in crisi solo la democrazia, ma più vastamente la politica. C’è stato un travaso di antipolitica dai populisti ai vigilanti tecnosanitari, eurocrati, virologi e apparati di controllo.
Il caso italiano è esemplare: il passaggio del premierato dal populista camaleontico Giuseppe Conte all’eurocrate della finanza Mario Draghi, con una maggioranza larga ed eterogenea, mostra perfettamente la parabola da un’antipolitica all’altra, dal grillismo al draghismo. Dall’antipolitica di piazza all’antipolitica di Palazzo.
Si è ristretta la democrazia al punto che non riusciamo a vedere un governo oltre Draghi e un Quirinale oltre Mattarella: è il trionfo dell’esistente, del vigente, il desiderio di fermarsi al punto in cui siamo o al più di avere continuatori, cloni, dei predetti; senza mai fuoruscire da quel contesto.
Non è solo in gioco l’idea di alternativa che dovrebbe costituire il sottofondo di ogni democrazia, ma anche la più modesta idea di alternanza. Chiunque vada al governo deve seguire strettamente i percorsi e le procedure segnate, senza mai deviare: è l’Europa che traccia il solco e dà le direttive, a cui attenersi scrupolosamente. Il range in cui muoversi è assai ristretto, quasi inesistente. Cosa è successo? Quel che a livello di politica sanitaria sono i protocolli: non la cura ad personam o affidata all’abilità del medico, alle sue capacità inventive, alle sue conoscenze e alle sue esperienze; nulla che sia legato alle specifiche condizioni del paziente. Ma un protocollo che vale per tutti, a cui attenersi, senza sgarrare. La stessa cosa succede ora in politica: chi verrà  dovrà comportarsi come Mattarella, seguire la via tracciata da Draghi, osservare le direttive europee. Di conseguenza, la percezione più diffusa, che produce sconforto e disaffezione politica ed elettorale, è che chiunque vinca non potrà sottrarsi a quegli imperativi. Vinca pure la destra o il centro-destra dovrà seguire il protocollo. Fine dell’alternanza, oltre che dell’alternativa, fine della democrazia e della libertà. Omogeneità, conformità. I partiti funzionano ormai come i vaccini; si può pure avere un richiamo diverso rispetto ai precedenti inoculati, ma nella stessa linea. Ancor prima della legittima, sacrosanta domanda sulle classi dirigenti dei partiti d’opposizione, sulla loro qualità e affidabilità, c’è questo test preliminare che li mette fuori gioco o fuori dal loro messaggio politico: il test di conformità alle linee indicate. L’elettore sa che dopo aver tuonato all’opposizione, poi una volta al governo dovrà adeguarsi per farsi accettare e per galleggiare. Nessuno ha spalle così forti da reggere l’impatto ostile…
Utile al riguardo è il numero monografico della rivista Il Pensiero storico a cura di Danilo Breschi sul tema Democrazia: così vicina, così lontana con i contributi di tanti studiosi tra cui Bedeschi, Cacciari, Cofrancesco, de Benoist, Galli (e chi scrive, l’intervista sulla democrazia è stata pubblicata sul sito).
Non siamo mai stati fanatici della democrazia, non abbiamo mai creduto al primato della quantità e all’uno vale uno. Sappiamo che non esistono governi del popolo ma solo governi dei pochi: una buona democrazia è un governo di pochi nell’interesse di molti, una cattiva democrazia è un governo di pochi nell’interesse di pochi. Non c’è democrazia senza élite dirigente, senza aristocrazia e senza orizzonte comunitario. Ma una democrazia senza vera alternanza e possibili alternative, senza circolazione delle élite, senza competizione tra programmi politici e sociali diversi, senza trasparenza e sovranità popolare e nazionale, non è una democrazia. Se l’ideale è una democrazia decisionista e comunitaria, ci siamo avviati sulla strada opposta, verso un’oligarchia irrevocabile e immunitaria.

L’anno del vaccino che non ci salvò

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di Marcello Veneziani

Potrei sbagliarmi perché non ho la prova inversa, ma ora si può dirlo a ragion veduta: la vaccinazione di massa è stata un mezzo fallimento. Non è servita a debellare il virus né a garantire incolumità e immunità e nemmeno a evitare ulteriori restrizioni, anche se quasi i nove decimi della popolazione si sono vaccinati. Siamo in regime d’emergenza e si minacciano ulteriori chiusure, nonostante tutti i vaccini, la cui efficacia ha durata sempre più vaga e breve. È aumentata l’incertezza, la diffidenza, la paura, perché restiamo sempre in balia delle incognite, a rischio contagi, non c’è dose o precauzione che ci blindi. Stiamo entrando nel terzo anno infestato dalla pandemia e vorrei tentare a fine anno un bilancio, senza tesi precostituite. Ho il dubbio che puntare tutto sui vaccini e i protocolli, anziché sulle cure sia stato un errore. E resta irrisolto il nesso tra vaccini e varianti.

Con tutte le diffidenze del caso, mi vaccinai perché reputai tutto sommato minori i rischi di vaccinarsi rispetto al non vaccinarsi, anche se tutt’altro che immaginari; lo feci pure per essere solidale nella sorte con gli altri. E per un motivo pratico, per evitare la segregazione sociale. Se fossi stato giovane avrei cercato di evitarlo, e se avessi dei bambini avrei cercato di risparmiarli. I dubbi, i sospetti, le notizie frammentarie ma inquietanti di reazioni o conseguenze avverse, restano tutti, così come le incongruenze, le omissioni e le contraddizioni del sistema che induce a vaccinarsi. A ciò si aggiunge il rigetto verso ogni passivo conformarsi ai diktat del Comando Centrale ripetuti dalle sue diramazioni. Non c’è stata nessuna immunità di gregge, in compenso è scattato il conformismo di gregge.

Però la posizione di chi dubita e non ritiene di avere nessuna verità in tasca è scomoda, assai difficile, perché infastidiscono pure i detentori delle verità opposte; quelli che sanno tutto, hanno capito tutto, pensano a tutti e non agli sporchi profitti né si lasciano intimidire dalle minacce. E ti compiangono perché ti sei vaccinato, come se fossi morto o malato in via di sviluppo. Rispetto le scelte opposte e mi batto contro la loro discriminazione. Ma non credo che qualcuno sia detentore per autocertificazione o autoproclamazione di una superiore sapienza o di una superiore capacità di comprendere come stanno davvero le cose, fino a conoscere i piani segreti che guidano il mondo. Ogni volta che sento qualcuno svelare con certezza la verità nascosta dietro tutto questo, ho l’impulso a dirgli: ma tu come lo sai, perché tu lo sai e gli altri no, cosa ti dà questa capacità di sapere, di capire la verità, di detenere una superiore moralità e un superiore coraggio e di tutelare il bene comune rispetto al resto dell’umanità?

Non faccio in tempo a prendere le distanze da costoro che sento dall’altra parte dichiarazioni perentorie come “Io credo nella scienza” e mi allontano pure da loro: il verbo credere non si addice alla scienza, applicare la fede alla scienza è follia, perché la scienza è ricerca, è dubbio, è verità per gradi e approssimazioni, anche per falsificazioni successive, per dirla con Popper. E la scienza anche in questo caso ha mostrato tutta la sua fallibilità, procede per tentativi, senza considerare l’eventuale malafede. La scienza, poi, non è compatta, la comunità medica e scientifica è divisa almeno in tre fasce, anche se non palesate allo stesso modo: i Convinti che quella intrapresa sia effettivamente l’unica strada giusta; i Dubbiosi che magari abbozzano in apparenza ma si aprono anche ad altre ipotesi; e gli Scettici che non condividono le certezze vaccinali anche se gran parte di loro tendono a tacere per non subire ritorsioni. Ma la comunità scientifica non è compatta.

Stiamo sperimentando, non ci sono certezze, dico ad ambedue i versanti. Non mi piace stare nel mezzo, fare l’asino di Buridano, non amo il motto in medio stat virtus: la virtù non sta nel mezzo ma nei pressi del vero, del giusto, del bene e del bello. Però non ho verità precostituite o confermate dalla realtà. E’ una sconfitta per tutti, e va riconosciuta con onestà. So di non sapere, come diceva Socrate. Non riesco a risolvere il dubbio e col passare dei giorni, dei mesi, non faccio progressi. Anzi, a me sembra che progressi non ne faccia la situazione generale, e la profilassi adottata. Non solo in Italia.

Non inseguo i complotti mondiali, non mi imbarco nella dietrologia e tantomeno credo ai piani di sterminio planetario programmato. Noto piuttosto una convergenza oggettiva d’interessi fra alcuni settori cruciali: la finanza, la sanità, l’industria farmaceutica, i colossi del web e le governance. Convergenza tra chi ha tratto giovamento dalla pandemia. Li vedo uniti nel loro comune interesse, senza bisogno di ordire complotti malefici.

Resta poi incomprensibile che la pandemia globale con tutte le restrizioni eccezionali delle libertà dei cittadini si fermi davanti a Big Pharma: perché non liberalizzare i brevetti vaccinali e far valere la priorità del bene pubblico rispetto ai profitti privati delle industrie farmaceutiche? Davanti a uno stato d’emergenza per pandemia mondiale, perché non sospendere le logiche aziendali nei settori che si occupano di salute dei cittadini e controllare la produzione di farmaci in nome del supremo interesse pubblico? Mi preoccupa, infine, che il piano sanitario e restrittivo possa essere trasferito in campo socio-politico fino a diventare il modello per un regime di sorveglianza.

Finisce piuttosto male l’anno del vaccino, che non ci liberò dal virus e ci lascia ancora contagi, varianti, emergenza e green pass per l’avvenire.

MV, Panorama (n.1)

La democrazia muore senza oppure

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

E dopo Draghi? Un altro Draghi. E dopo Mattarella? Un altro Mattarella. E dopo il Vaccino? Un altro vaccino. E dopo l’Emergenza? Un’altra emergenza. Si procede replicando, sempre lo stesso o un suo facsimile. Non c’è soluzione migliore di quella che è in corso o in scadenza. Non muta la risposta se chiedi dell’Europa, del Mercato, della storia, della scienza, della sanità, dei diritti e di ogni altro ambito. Non sto mettendo in discussione uomini, vaccini, leggi e istituzioni; magari si dovrebbe, ma non è questa l’intenzione, almeno in questo caso. Sto ponendo una questione di fondo, un criterio e un dubbio di principio, che però ha implicazioni pratiche nella realtà, molto più decisive di quanto si possa immaginare. La cosa più preoccupante non riguarda singoli presidenti, ritenuti insostituibili, o specifici dispositivi sanitari e securitari ma è la convergenza di piani, settori, mondi diversi. Ogni ambito non prevede altro che replicare l’esistente, senza possibilità di deviazione.

Denuncio pubblicamente la scomparsa dell’Oppure. Chi è, cos’è l’Oppure? Non è una semplice congiunzione o disgiunzione, stiamo discutendo di una cosa assai più importante. Una democrazia senza oppure non è democrazia, un pensiero senza oppure non è un pensiero, una libertà senza oppure non è libertà. Ci stiamo giocando tutto questo con la cancellazione dell’oppure. Dove manca l’oppure manca la democrazia, il pensiero, la libertà.

L’intelligenza si esercita sugli oppure: l’automa, la macchina, l’imbecille, il gregge non conoscono l’oppure, procedono lungo il percorso prefissato, seguono l’input ricevuto o l’impulso che è stato loro impresso. L’intelligenza, invece, è la capacità di compiere altre scelte, di stabilire rapporti tra realtà diverse e studiare e provare alternative. L’intelligenza è collegare il possibile al reale, è la capacità di capire che le possibilità eccedono sui fatti, si tratta di selezionarle e metterle in campo. Si possono fare percorsi alternativi, e per congiungere due punti non c’è solo la linea retta: se ragioniamo in termini puramente geometrici, la linea retta è la più diretta a congiungere i due punti; ma la vita, il tempo, l’umanità, la storia e la natura non camminano nello spazio puro e vuoto, conoscono altre leggi che riguardano l’intensità, la durata, la qualità, l’efficacia, la curiosità, l’emozione, la relazione, la logica, il ricordo, l’aspettativa, la fantasia e potrei ancora continuare. O su altri piani ridurre la direzione a una linea fissa è perdere la dimensione sferica e circolare, la curvatura e la poligonia del mondo, con le sue tante facce. Il mondo ha bisogno degli oppure.

La vita è complessa, come la realtà, e richiede l’esercizio dell’intelligenza. La mancanza degli oppure è la riduzione della complessità a un segnale stradale che indica il senso unico; è la mortificazione delle differenze, delle varietà.

Stiamo scivolando senza accorgerci nel regno del conforme e dell’uniforme che sopprime l’oppure; e non è solo la soppressione dell’opposizione, del diverso parere, dell’alternativa, dell’altro lato delle cose ma anche della ricerca, della possibilità di vedere e agire altrimenti. Senza questo è la fine della libertà, della democrazia, del pensiero e dell’intelligenza.

Stiamo vivendo questa fase, anzi abbiamo intrapreso questa china, e la cosa peggiore è che lo stiamo vivendo con disinvolta routine, senza porci nemmeno il problema, accettando tutto con automatismo, che è il peggiore dei fatalismi perché estirpa alla radice anche solo l’ipotesi di vedere le cose in altro modo.

Qualcuno potrà obbiettare: ma con chi ce l’hai di preciso, chi è che impone questo modo di vedere? Vedi fantasmi, sei complottista, sei no pax, contro la pace. Ma non c’è bisogno di correre dietro a chi sa quale congettura, è l’agenda generale dell’establishment che viene dettata ogni giorno in tutte le sedi, alla luce del sole e dei media; è l’agenda dei poteri dominanti che hanno il monopolio, o se preferite, l’egemonia, che fabbrica e controlla l’Opinione Pubblica. Sui social, magari leggi e ascolti voci diverse e dissonanti, in politica assai meno però c’è ancora qualche barlume di differenza: ma a livello di governance, di istituzioni, di mass media, di informazione pubblica e in gran parte privata, di apparati e di controllori, e perfino di influencer, artisti e saltimbanchi, quello è lo schema fisso, e rigido. La scelta migliore, il presidente migliore, è quella, quello che c’è già, in carica, in vigore.

Sul piano sanitario, ad esempio, l’adozione di protocolli standard segna la fine della medicina, che è una corda tesa tra arte e scienza per curare ad personam e non per generi e stoccaggi. Ora non si cura più la persona e il suo caso specifico ma si stabilisce il protocollo a cui attenersi in generale. La fine degli oppure è la fine della medicina, della sua efficacia e della sua umanità.

Potremmo notarlo così, en passant, come una specie di curiosità, senza darci troppo peso. E invece è una cosa terribile. Non sarà la prima volta che succede nella storia, ma certo è una brutta piega per una democrazia e per un mondo che si definisce libero, plurale ed evoluto. Il conformismo ha sempre accompagnato il lungo corso delle democrazie, ma una volta c’erano almeno divergenze ideologiche e politiche su scelte e priorità o perlomeno erano enunciate in modo diverso. Ora no. Come il mercato globale tende irresistibilmente verso i monopoli, così le opzioni si stanno paurosamente restringendo a una, quella ufficiale, canonica, vigente; sennò è il disastro. Volete continuare in questo modo? O quantomeno volete acconsentire, tacere o fingere contentezza per questo mondo monoseriale? E se ricominciassimo dagli oppure?

Abbiamo bisogno di pensatori

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

“Amo il pensiero autentico come altri amano il nudo… l’osservo come un essere che è tutto vita – tale che se ne può vedere la vita delle parti e quella del tutto”. Ho tra le mani come un lingotto aureo del pensiero, il meridiano dedicato alle Opere scelte di Paul Valèry (Mondadori, pp.1771, 80 euro). E ritrovo nel poeta, scrittore, matematico e filosofo francese la definizione dell’intelligenza allo stato puro, alla ricerca della nuda verità. La lucidità impareggiabile di Valéry trascorre in queste pagine dai versi ai dialoghi, dal teatro alla danza, dalla letteratura all’estetica, dalla scienza alla filosofia, in una rappresentazione leonardesca del pensiero. Non a caso a Leonardo è dedicata un’opera di Valèry, qui inclusa. A Leonardo fu accostato un altro genio del Novecento, il russo Pavel Florenskij, scienziato, metafisico, pope e testimone di verità ucciso dopo anni di gulag. Vertiginosa l’altezza del suo pensiero come l’amore autentico della sua fede, l’acutezza con cui ha penetrato simboli, linguaggi, icone. Se dovessimo indicare i giganti del pensiero dell’ultimo secolo la mente non va ai filosofi pur grandi che l’hanno abitato, ma a Valèry, a Florenskij e a Simone Weil, a Ernst Junger, a Oswald Spengler, a René Guénon, e in Italia a figure in disparte come Julius Evola, Andrea Emo e su altri versanti, come l’ideologia, a intellettuali come Antonio Gramsci… Mi fermo, anche se altri nomi affiorano. Come definirli, in sintesi, questi autori non classificabili, che non furono filosofi, né solo letterati, non furono accademici, non sono studiati a scuola in una disciplina o nei sommari di storia della filosofia? Pensatori. L’unico appellativo che si addice a chi non appartiene a una categoria specifica, e che riconosce sia la loro singolarità che la vastità dei loro campi. Filosofo è colui che dell’universalità ha fatto una specializzazione, anzi dell’universalità ha fatto università, cioè accademia, professione, gergo e teoria. Pensatore è invece colui che abbraccia col pensiero la vita e tende all’assoluto, in una visione del mondo. Il pensatore vuole intelligere il mondo e non si arresta davanti alla soglia del sacro e della profezia, della scienza, dell’arte e della vita, chiuso nella filosofia, ma vi si addentra da scienziato, da artista, da vivente, nella sua solitudine fuori da ogni accademia o istituzione. E lancia “sguardi sul mondo attuale”, come s’intitola un testo di Valéry qui incluso, penetra l’epoca presente e compara le civiltà. I pensatori citati non furono professori come i filosofi più grandi del ‘900 (eccezione tra loro fu Croce). Ma rimasero per così dire a piede libero, solitudini astrali e viandanti del pensiero, a volte clandestino; pensatori a volte impersonali, cioè non portatori di una visione singolare e originale, ma di un sapere originario, metafisico. Per capire la vita, il mondo e la condizione umana il pensatore intreccia saperi ed esperienze, non resta irretito in un sistema e in un lessico o ingessato in un corso scolastico. Il rapporto tra la realtà e la verità, tra la parola e il silenzio si fa in lui più intenso, diretto, assoluto senza interferenze, senza linguaggi astrusi, puro nell’impurità di un pensiero vivente che si dispone a trascendere la morte e a non chiudersi nell’opera. Più in alto ci sono i saggi e alla destra degli dei siedono i sapienti…

 

Nota del Circolo Christus Rex: noi abbiamo seri pensatori cattolici, liberi e molto intraprendenti, che ogni giorno, combattono la buona battaglia. E che sanno parlare anche con chi non è cattolico ma non è ostile alla legge naturale. Per contatti: c.r.traditio@gmail.com  

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